di Eugenio Roscini Vitali

La settimana scorsa il quotidiano kuwaitiano Al Rai ha pubblicato un reportage nel quale viene annunciata un’imminente operazione aerea israeliana in Siria: oltre ai depositi di armi utilizzati da Hezbollah, nel mirino dello Stato ebraico ci sarebbero le fabbriche di razzi a media e lunga gittata che minacciano gran parte d’Israele. La fonte del report, che Al Rai indica come vicina agli ambienti occidentali, precisa che negli ultimi mesi l’aviazione israeliana avrebbe effettuato un alto numero di missioni intelligence sia in Siria che nel Libano meridionale e Tzahal avrebbe già rinforzato la sua presenza nel Golan e nell’area del monte Dov, pochi chilometri a sud delle fattorie di Sheba’a, la zona agricola che il Libano rivendica come sua e che Israele considera come parte dei territori siriani conquistati durante la Guerra dei sei giorni.

Il rischio di un attacco e la paura che gli israeliani possano ripetere una nuova Operazione Frutteto hanno indotto Damasco ad innalzare l’allerta al massimo livello: il 6 settembre 2007, le Forze Aeree Israeliane (IAF) penetrarono nella regione di Deir ez-Zor e, dopo aver accecato tutti i sistemi siriani di difesa aerea, distrussero un presunto sito nucleare  costruito nei pressi del fiume Eufrate.

Con la sua recente visita in Libano, il presidente siriano Bashar Assad ha di fatto ristabilito l’influenza di Damasco su Beirut. Il governo di Saad Hariri sembra ormai in balia della linea politica assunta dall’alleanza tra il Movimento sciita di liberazione guidato da Seyyed Hassan Nasralla e la Siria. E’ degli scorsi giorni la notizia secondo cui lo Stato Maggiore siriano ed Hezbollah avrebbero deciso di dare vita ad una cooperazione militare che prevede la creazione di un comando unificato, al quale verrebbe demandata  la gestione strategico-operativa del campo di battaglia e di una struttura d’intelligence congiunta attraverso la quale dovrebbero essere trattate e scambiate le informazioni relative alle forze aeree e ai bersagli strategici israeliani.

La Siria, dal canto suo, sta cercando di trarre vantaggio dalla chiusura ai velivoli militari israeliani dello spazio aereo turco e, in caso di attacco, potrebbe cercare di infliggere pesanti danni alla flotta aeromobile israeliana, fornendo ad Hezbollah tutte le informazioni necessarie a colpire gli aeroporti militari e civili d’Israele.

Nel vicino Medio Oriente il fronte anti-israeliano sta certamente vivendo una nuovo primavera: a fine agosto, dopo la sospensione americana del pacchetto di aiuti militari destinato per il 2009 al governo di Beirut - 100 milioni di dollari che si sarebbero dovuti aggiungere ai 720 milioni forniti  al Paese dei cedri tra il 2006 e il 2008 - il moderato presidente del Libano, Michel Suleiman, ha preso una decisione destinata a cambiare in modo determinante gli equilibri politici e militari dell’intera regione. Suleiman ha accolto l’appello del segretario generale di Hezbollah, Seyyed Hassan Nasralla, e ha chiesto ufficialmente alla Repubblica Islamica di equipaggiare con armi moderne le Forze Armate Libanesi (LAF).

Ma che l’asse Tehera-Damasco-Beirut fosse destinato ad un ulteriore rafforzamento lo si era già capito all’indomani dell’incidente di frontiera che, lo scorso 3 agosto, ha visto coinvolti l’esercito israeliano e i militari della LAF. A poche ore dal sanguinoso scontro armato avvenuto tra le località di Adaysse e Kfar Kila, il presidente Assad e il ministro degli Esteri iraniano, Manoucher Mottaki, si erano incontrati nel porto siriano di Latakia per discutere la situazione mediorientale e concordare una linea condotta comune. Negli stessi giorni, analoghi colloqui erano intercorsi tra l’inviato di Teheran e la sua controparte libanese, Ali al-Shami, deputato eletto nelle liste di Amal, il movimento sciita alleato di Hezbollah che partecipa al governo di unità nazionale guidato da Saad Hariri.

Mentre gli Stati Uniti stanno cercando di lanciare un negoziato di pace tra Israele, Siria e Libano, a Tel Aviv c’è chi vuole indebolire gli avversari chiudendo la principale linea di rifornimento che alimenta gli arsenali di Damasco e Teheran. Benjamin Netanyahu ha già chiesto alla Russia di bloccare la vendita di armi alla Siria e, il prossimo 5 settembre, il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, si recherà a Mosca per incontrare l’omologo russo Anatoli Seryukov.

Durante il meeting dovrebbe essere discussa la fornitura russa alla Siria dei missili supersonici P-800 Yakhont, che Israele considera pericolosi per le sue navi militari nel Mar Mediterraneo, ma si parlerà anche dei sistemi di difesa aerea S-300 che Damasco e Teheran stanno cercando di acquisire dalla Almaz-Antey e del sostegno russo alle sanzioni stabilite dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro il programma nucleare iraniano.

Sono molti i segnali che in queste ultime settimane evidenziano come Israele si stia preparando ad effettuare un’azione di forza: attaccare l’Iran o la Siria o reagire a qualsiasi provocazione libanese, le opzioni riguardano solo il come. Analizzando le opinioni di alcuni personaggi della politica israeliana presente e passata, Jeffrey Goldberg, giornalista americano del The Atlantic, afferma che ci sono più del 50% di probabilità che lo Stato ebraico lanci un raid entro il prossimo luglio.

Una possibilità confermata dalle crescenti quantità di materiale militare approvvigionato nelle ultime settimane - tra cui i 284 milioni di galloni di JP-8 (carburante aeronautico) e i 160 milioni di galloni di gasolio e benzina per auto-trazione arrivati direttamente dagli Stati Uniti - e dalla nomina a nuovo Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane di un personaggio inquieto quale è il Generale Yoav Galant. Ex comandante dell’unità di elite Flottiglia 13, che nella sua brillante carriera ha registrato ben poche esitazioni e che i palestinesi considerano come uno dei maggiori responsabili dei massacri ordinati durante l’Operazione Piombo Fuso.

 

 

di Michele Paris

Lo scorso mese di dicembre, annunciando l’invio di altri 30 mila uomini per proseguire la guerra in Afghanistan, Barack Obama promise agli americani già sfiduciati dal logorante conflitto l’inizio del ritiro dei loro soldati entro il luglio del 2011. Con la situazione sul campo in continuo peggioramento, la scadenza fissata dalla Casa Bianca appare però sempre più improbabile. A farlo capire chiaramente sono una serie di dichiarazioni alla stampa dei vertici civili e militari statunitensi, nonché l’imminente stanziamento di fondi per nuovi progetti logistici a lungo termine nel paese occupato.

Secondo quanto riportato qualche giorno fa dal Washington Post, il Congresso USA avrebbe all’ordine del giorno lo sblocco di 1,3 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2011, destinati alla costruzione e all’ampliamento di basi militari in territorio afgano. Tra queste ultime, ce ne sono almeno tre che si trovano in zone cruciali del paese - Shindand, Camp Dwyer nella provincia di Helmand e Mazar-e Sharif - e i cui lavori permetteranno l’espansione delle attività dei reparti delle Operazioni Speciali e dei Marines.

In una chiara indicazione che l’attività bellica americana proseguirà ben oltre l’estate del 2011, i contratti di fornitura per i lavori in Afghanistan non saranno stipulati prima del gennaio del prossimo anno, mentre le opere stesse, nella migliore delle ipotesi, risulteranno terminate almeno un anno più tardi. L’approvazione dei fondi necessari è arrivata per ora dalle apposite commissioni di Camera e Senato, in attesa del voto definitivo dei due rami del Congresso.

A questi progetti vanno poi aggiunti quelli già avviati che riguardano le nuove strutture per le forze di sicurezza locali, programmate secondo il Pentagono per i prossimi cinque anni. A tal proposito gli Stati Uniti dovrebbero stanziare oltre cinque miliardi di dollari.

Se i sondaggi negli USA indicano una larga maggioranza di americani sempre più contraria ad una guerra ormai quasi decennale e senza prospettive, come per l’Iraq gli obiettivi della Casa Bianca corrispondono alla necessità di prolungare ancora a lungo la presenza militare in Afghanistan. Di fronte all’opposizione interna, in un anno di elezioni che preannunciano pesanti sconfitte per i democratici, l’amministrazione Obama sembra aver delegato ai generali il compito di stroncare ogni speranza per un possibile disimpegno nel 2011.

Proprio i vertici militari statunitensi, d’altra parte, erano stati i promotori del’escalation bellica decisa alla fine dello scorso anno. Il moltiplicarsi delle dichiarazioni rilasciate nell’ultimo periodo cela così a fatica il disprezzo per il principio costituzionale del controllo civile sui militari, nonché per il sentimento di avversione alla guerra diffuso tra i cittadini americani.

A mettere le cose in chiaro sulle prospettive del conflitto in Afghanistan è stato innanzitutto il nuovo comandante delle forze americane nel paese, generale David Petraeus. Da Kabul, quest’ultimo ha rilasciato un’intervista alla BBC nella quale ha sottolineato come la scadenza del luglio 2011 non rappresenterà alcun punto di svolta fondamentale per la guerra in corso. “Questa data rappresenta l’inizio di un processo. Niente di più e niente di meno”, ha aggiunto Petraeus, chiarendo che tra un anno semplicemente “alcuni compiti inizieranno ad essere trasferiti alle forze afgane”, ma solo “in quelle aree nelle quali le condizioni lo permetteranno”.

Un altro punto critico riguarda poi l’addestramento delle forze di sicurezza afgane, affidato agli americani e ai loro alleati. Sottolineando che il momento della transizione “è ancora molto lontano”, il comandante delle operazioni di addestramento, generale William Caldwell, in una recente conferenza stampa ha ricordato che occorrerà almeno un altro anno solo per reclutare un numero adeguato di soldati e agenti di polizia locali.

Gli sforzi americani in questo ambito si scontrano con un elevatissimo livello di analfabetismo e di diserzione, ma riflettono anche una più generale difficoltà ad instaurare un governo fantoccio affidabile e sufficientemente autorevole. Sempre secondo il parere del generale Caldwell, i reparti afgani non saranno in grado in nessun modo di farsi carico dei problemi del loro paese nell’immediato futuro.

Ancora più esplicito è stato infine un altro generale americano di stanza in Afghanistan, il comandante dei Marines, James Conway. In aperto dissenso con il presidente Obama, Conway ha addirittura rimproverato la Casa Bianca per aver dichiarato di voler iniziare il ritiro delle truppe USA nel luglio del 2011, un annuncio che a suo parere avrebbe contribuito a rinvigorire la resistenza talebana.

Al di là del consueto ottimismo mostrato da Washington, le prospettive in Afghanistan per gli Stati Uniti e le altre forze di occupazione rimangono tutt’altro che rosee. I rapporti con il governo di Hamid Karzai continuano ad essere complicati, come dimostra ad esempio l’ordine di parziale ritiro dei contractors privati dal paese sui quali gli americani contano in maniera massiccia.

La condotta dei mercenari privati, secondo le parole dello stesso Karzai, risulta destabilizzante per il paese, dove essi di fatto “presiedono ad una struttura di sicurezza parallela al governo afgano”. Questi contractors suscitano il risentimento della popolazione civile, tra la quale è comprensibilmente già diffuso un profondo sentimento anti-americano, visti i dei ripetuti massacri tra la popolazione causati dalle operazioni delle forze speciali.

Con un crescente livello di competizione per l’espansione dell’influenza in Asia Centrale tra Stati Uniti, Russia - e della soprattutto Cina - in definitiva, la presenza americana in Afghanistan si protrarrà ancora a lungo. Un impegno necessario per sostenere un governo afgano irrimediabilmente debole, che senza le forze di Washington finirebbe per crollare rapidamente sotto l’offensiva talebana.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Se una volta era il buon Dio a regalare ai nobili l’intelletto, sono i geni, ora, a elargirlo ai ricchi: è quanto emerge dal libro di Thilo Sarrazin (SPD) “La Germania si distrugge da sola”, presentato ufficialmente a Berlino l'altro ieri mattina, ma già da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Sarrazin, alto dirigente della Bundesbank, la Banca federale tedesca, improvvisatosi antropologo per l’occasione, ha scritto un trattato di quasi 500 pagine contro l’immigrazione, giustificando “logicamente” il suo razzismo con la necessità di una selezione biologica conforme all’intelligenza e al ceto sociale. E ora la polemica continua a crescere: e alla Germania, forse oggi più sensibile di altri Paesi al tema dell’intolleranza razziale, non resta che vergognarsi di lui.

Nel suo trattato, Sarrazin individua uno dei fattori negativi della società moderna negli immigrati musulmani, nello specifico per la “difficoltà d’integrazione” che questi mostrano. In un’intervista al settimanale Welt am Sonntag, l’ex-politico spiega che la loro problematicità “non è una leggenda, ma una realtà concreta per l’Europa”. Si tratta di un elemento culturale che, purtroppo, difficilmente si può correggere. E, a sostegno delle sue tesi, aggiunge che “tutti gli ebrei hanno un gene particolare, così come i baschi si differenziano dagli altri per determinati geni”. Perché, secondo Sarrazin, è tutta una questione di biologia.

Sarrazin parte dal presupposto che l’intelletto è un fattore “dal 50 fino all’80% innato”, quindi determinato in gran parte dai geni di un essere vivente e non dalle circostanze sociali in cui si trova a vivere. E la ripartizione di questo prezioso bene non è per niente casuale: secondo Sarrazin, i più dotati intellettualmente si concentrano nel ceto alto della popolazione, mentre la classe media produce cervelli interessanti ma con quozienti non particolarmente superiori alla norma.

Il problema principale, tuttavia, è da riscontrare tra gli strati più poveri della popolazione, dove l’intelligenza superiore è merce assai rara. Per non parlare di chi sopravvive con gli aiuti sociali dello Stato: tra questi sfortunati - e tra la loro discendenza - sarebbe addirittura eccezionale trovare quozienti intellettivi nella media.

Ma non è tutto. Nel suo grottesco libro, Sarrazin associa l’intelligenza - e quindi l’appartenenza a un ceto - alla fertilità, in maniera inversamente proporzionale. Un quoziente intellettivo basso si accompagna a una grande fertilità. Conclusione: per risolvere i problemi della società odierna si devono favorire le gravidanze tra i ceti più alti e “intelligenti”. La sua proposta - al limite del ridicolo - è di eliminare le sovvenzioni che lo Stato tedesco offre a tutti i genitori per ogni bimbo nato, per offrire la bella somma di 50 mila euro a neonato alle giovani laureate che concepiscano prima del trentesimo anno di età.

Morale della favola, per combattere la decadenza della società tedesca si deve operare una selezione degli immigrati: a casa turchi, arabi e africani ”stupidi”, siano bene accetti gli emigranti colti. Attenzione: nella lista ci si potrebbero aggiungere anche gli “italiani”, visto che, dopo turchi e slavi, si tratta della terza potenza di emigranti in Germania.

Secondo il quotidiano berlinese Tagesspiegel, tuttavia, il trattato di Thilo Sarrazin non dovrebbe sorprendere più di tanto. Sarrazin ha la fama di provocatore e l’ex ministro socialdemocratico della città stato di Berlino aveva già esternato le sue opinioni prima d’ora in varie interviste personali. Semplici provocazioni o no, stavolta la sua carriera sembra essere arrivata al capolinea: Sarrazin ha superato il limite della democrazia e la politica tedesca non sembra pronta a perdonare.

La Cancelliera Angela Merkel accusa Thilo Sarrazin di dividere pericolosamente la Germania, considerata la grande quantità di immigrati ospitati nel Paese. Le sue parole sono, aggiunge la Merkel, “assolutamente inaccettabili” e mettono in imbarazzo la Bundesbank - in quanto Sarrazin ne è un dirigente - e il Paese tutto. La Merkel si augura che la Banca Federale Tedesca agisca di conseguenza e lo espella.

I socialdemocratici, da parte loro, chiedono a gran voce le dimissioni di Sarrazin dall’SPD o la sua espulsione diretta. Le sue parole sono degne di un estremismo neonazista e lo avvicinano vergognosamente a partiti come l’NPD, il partito di estrema destra tedesco,  dove dovrebbe approdare lasciando l’SPD, il partito cosiddetto “del Popolo”. Sarrazin, tuttavia, si vede coperto dalla “libertà di espressione” e non vede alcun motivo per dimettersi dai suoi incarichi.

Ma la Germania è stata costruita dagli stranieri. Dagli anni ‘60, il governo tedesco ha provveduto a siglare numerosi accordi con tutti i paesi del Mediterraneo, e in modo particolare con la Turchia, per regolare un’importazione di manodopera necessaria, diretta prevalentemente verso le fiorenti regioni industriali dell’area renana e meridionale. Braccia che dovevano occuparsi dei lavori più duri per ricostruire un Paese distrutto e diviso, cui non era di sicuro richiesto il diploma. Sarrazin dovrebbe discutere con questi antichi lavoratori dimenticati le sue tesi. Questi signori non farebbero fatica a trovargli un valido motivo per dimettersi dalla politica e per abbandonare le scienze antropologiche.

di Carlo Musilli

L’assistente del Presidente afgano Hamid Karzai riceve regolarmente un significativo stipendio dalla Cia. Lo rivelano funzionari afgani e americani avvicinati dal New York Times: Mohamed Zia Salhei, capo del Consiglio nazionale della sicurezza, é stato sul libro paga degli spioni americani per diversi anni. Non si è ancora appurato con certezza cosa facesse in cambio di tanta generosità: forse si limitava a passare informazioni, forse ‘metteva una buona parola’ con il Presidente e i suoi funzionari. Forse entrambe le cose.

Nel luglio scorso, Salehi è stato arrestato. Dopo ben sette ore di galera ha telefonato a Karzai, che ha minacciato di limitare i poteri dell’unità anti-corruzione se questa non avesse rilasciato il suo protetto. Salehi è tornato a casa per il tè. Evidentemente, il nostro Mohamed sa parecchie cose sull'amministrazione afgana, abbastanza da spaventare perfino Karzai. E anche se è probabile che la Cia sia già al corrente delle notizie più interessanti, meglio non rischiare. 

Perché lo avevano arrestato? Sembra che la Polizia afgana abbia intercettato una telefonata in cui Salhei chiedeva un’automobile per suo figlio. In cambio del regalino, avrebbe evitato che gli americani investigassero troppo a fondo sulla New Ansari, una compagnia sospettata di portare all’estero soldi cash da destinare a funzionari governativi, signori della droga e ribelli. Non chiedeva neanche tanto, per un favore del genere.

Sull'intera vicenda, i portavoce del Presidente afgano e della Cia hanno rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda. L'unica dichiarazione degna di nota sembra essere quella di un oscuro funzionario americano: “Se decidiamo di non aver nulla a che fare con gente che si è sporcata le mani - ha detto - possiamo tornarcene a casa oggi stesso. Chi fa spionaggio in una zona di guerra non può aspettarsi di trattare con Madre Teresa o Mary Poppins”.

Vediamo meglio chi è Mohamed Salehi, che, in effetti, non gira per Kabul appeso ad un ombrello volante. In origine, Mohamed faceva l’interprete per Abdul Rashid Dostum, un signore della guerra alleato tanto di Karzai quanto della Cia. Può darsi che Salehi abbia lavorato anche come corriere di denaro. Fatto sta che, dopo pochi anni, lo ritroviamo a braccetto non solo di Karzai, così premuroso nei suoi confronti, ma anche dell’ex vice capo dell’intelligence afgana, che qualche mese fa ha accompagnato a Dubai per incontrare i leader talebani.

Mica male come carriera. Eppure Salehi ancora non se l’è cavata. Secondo la legge afgana, gli inquirenti, dal momento dell’arresto, hanno 33 giorni per rinviare a giudizio un imputato. Mohamed è stato arrestato per corruzione e poi rilasciato a fine luglio, quindi manca poco alla scadenza dei termini. Se alla fine i “pm” si decideranno ad accusarlo formalmente, gli atti dovranno essere firmati dal procuratore generale. E a chi deve la sua bella poltrona questo procuratore generale? A Karzai, naturalmente.

Ma Salehi non è poi un uomo così speciale. La Cia è abbastanza prodiga nel distribuire le sue attenzioni. Per fare un esempio, pare che i servizi segreti Usa pagassero anche Ahmed Wali Karzai, il fratellastro del Presidente sospettato di avere una certa influenza sul traffico d’oppio. Ahmed chiaramente sostiene di essere soltanto l’innocuo presidente del Consiglio provinciale di Kandahar.

Ora, gli americani da mesi chiedono a gran voce che Karzai faccia in modo di debellare dal suo governo la piaga della corruzione, arrivando perfino a sospendere, come supremo monito, gli aiuti per il 2011. Dopo di che si mettono a pagare un pezzo grosso sospettato di essere nella top ten dei corrotti.

Qualcosa non quadra, decidetevi. In realtà la corruzione danneggia gli americani, perché priva di ogni credibilità il governo afgano e incrementa la popolarità dei talebani fra la popolazione civile. Allo stesso tempo, però, arrestare tutti i corrotti vorrebbe dire levare di mezzo gli unici alleati nella guerra contro i veri nemici, i talebani, appunto. Ad un anno dal previsto ritiro delle truppe, il dilemma fondamentale non è ancora risolto. Amleto non era nessuno a confronto.

John Kerry, senatore democratico del Massachusetts, sabato scorso è andato a Kabul per chiacchierare con Karzai. Al termine dell’incontro ha dichiarato alla stampa il suo rammarico per i legami fra Salehi e “il Governo americano”. La parola “Cia” non è riuscito a pronunciarla. Kerry ha poi detto di aver fatto pressioni perché Karzai lasci che l’unità anticorruzione indaghi liberamente su Salehi. “Credo di aver ottenuto un impegno da parte sua in questo senso”. Se non lo sai tu, John…

di Michele Paris

Con la propagandata uscita di scena di tutte le truppe di combattimento americane nel mese di agosto, a oltre sette anni dall’inizio della guerra, in Iraq rimangono circa 50 mila soldati che dovrebbero lasciare definitivamente il paese entro la fine del 2011. Il piano di ritiro, già concordato da George W. Bush con il governo di Baghdad nel 2008, non segnerà tuttavia il disimpegno statunitense dall’Iraq. Se un certo numero di militari sarà destinato a rimanere più a lungo, il ritiro delle forze armate sarà in parte bilanciato dall’arrivo di un esercito di appaltatori e guardie di sicurezza private alle dipendenze del Dipartimento di Stato.

Lo spostamento della quarta brigata Stryker in Kuwait ha dato l’occasione al presidente Obama di annunciare trionfalmente l’obiettivo raggiunto e il mantenimento della promessa che aveva fatto durate le presidenziali di porre fine alla guerra voluta dal suo predecessore. Nonostante la necessità di presentare la situazione irachena in termini positivi per motivi elettorali in vista del voto di medio termine tra un paio di mesi, dalla Casa Bianca ci si rende perfettamente conto delle gravi minacce che continuano ad incombere sull’Iraq del post-Saddam Hussein.

Oltre al persistere di una profonda crisi sociale ed umanitaria, negli ultimi mesi il tasso di violenza nel paese occupato ha raggiunto i livelli più alti da oltre due anni a questa parte. Una serie di sanguinosi attentati, che hanno colpito in particolare Baghdad e le principali città sunnite, mettono in discussione i progressi fatti segnare tra il 2007 e il 2008. Il continuo stallo della situazione politica a quasi sei mesi dalle elezioni parlamentari non promette poi nulla di buono. Ciò che permette ai politici e ai media americani di diffondere un messaggio rassicurante circa le condizioni dell’Iraq è piuttosto il numero relativamente contenuto di decessi tra i soldati USA, da qualche tempo per lo più confinati all’interno delle loro basi.

In ogni caso, le truppe che restano tuttora sul territorio iracheno sono in grado di condurre operazioni di combattimento, anche se ufficialmente il loro compito è quello di provvedere alla transizione verso il pieno controllo del paese delle forze locali. Ai vertici del Pentagono, peraltro, sono in pochi a credere in un ritiro completo degli americani dall’Iraq anche dopo la data stabilita dal cosiddetto SOFA (Status of Forces Agreement). Allo stesso tempo, proprio da Baghdad sono già giunti i primi segnali di una volontà di chiedere alle forze occupanti di rimanere nel paese ben oltre il 2011. Secondo il numero uno dell’esercito iracheno, generale Babaker Zerbari, ad esempio, i soldati americani dovrebbero prolungare la loro presenza almeno fino al 2020.

Saranno insomma le “condizioni sul campo” a decidere della durata dell’occupazione dell’Iraq, come stabilito dagli accordi con Washington. Tra le due parti, infatti, è prevista la costruzione di un “rapporto di lunga durata nel campo economico, diplomatico, culturale e della sicurezza”. Gli Stati Uniti, poi, avranno facoltà di impiegare ogni mezzo “diplomatico, economico o militare” contro eventuali minacce “interne o esterne” al governo di Baghdad.

Quel che è certo è che una parte dei compiti legati al mantenimento della sicurezza nel paese e all’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito irachene saranno affidati a “contractors” privati sotto la responsabilità del Dipartimento di Stato USA. Ad una schiera di privati, che si stima toccherà almeno le settemila presenze, toccherà anche, tra l’altro, occuparsi della difesa degli avamposti americani in Iraq, della conduzione dei voli di ricognizione senza pilota (droni) e dell’attivazione di squadre speciali per interventi in situazioni di crisi.

L’impiego massiccio di operatori a libro paga di aziende appaltatrici private rappresenta già un grave problema sia in Iraq che in Afghanistan, dove il presidente Karzai ha appena emanato un ordine per allontanare quasi tutti i contractors operanti nel paese. La situazione che si prospetta per l’Iraq nei prossimi anni rischia così di mettere nelle mani dei privati un numero ancora maggiore di delicate operazioni che possono avere profondi effetti sulla stabilità del paese.

Il Dipartimento di Stato, inoltre, non sembra avere la competenza necessaria per guidare un esercito di queste proporzioni, che si stima potrebbe costare alle finanze americane oltre due miliardi di dollari. “Il Dipartimento di Stato non ha mai operato in maniera indipendente dalle forze armate americane in una realtà così vasta e potenzialmente piena di rischi”, ha dichiarato al New York Times James Dobbins, ex ambasciatore presso l’UE e già inviato speciale in Afghanistan, Bosnia, Haiti e Somalia. “Si tratta di una situazione senza precedenti”, ha aggiunto.

Il presunto disimpegno  promosso da Barack Obama ha ridotto di circa 90 mila unità la presenza delle forze armate americane in Iraq. Ciò non ha ovviamente decretato alcun attenuamento del militarismo a stelle e strisce in Medio Oriente e nel continente asiatico, dal momento che le truppe ritirate dall’Iraq sono state trasferite in Afganistan. Qui si è ormai superata quota 100 mila, in previsione di nuove operazioni che faranno aumentare ancora il numero di vittime civili e militari.

La strategia di Washington non è altro che un’operazione di facciata, diventata indispensabile in seguito alla crescente opposizione interna nei confronti dello sforzo bellico su più fronti. Un impegno militare giustificato dalla lotta al terrorismo islamico ma in realtà dettato dalla necessità di assicurarsi il controllo di un’area cruciale del pianeta per gli interessi geo-strategici americani che continuano ad essere gli stessi anche con un presidente democratico alla Casa Bianca.


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