di Michele Paris

In seguito all’ennesimo attacco in territorio pakistano delle forze di occupazione della NATO di stanza in Afghanistan, il governo di Islamabad qualche giorno fa ha chiuso un importante valico di frontiera tra i due paesi vicini. Il provvedimento, che blocca una rotta fondamentale per i rifornimenti dei soldati occidentali e riaccende le tensioni tra USA e Pakistan, è giunto dopo una serie di bombardamenti aerei in una “agenzia” dell’area tribale nord-occidentale di quest’ultimo paese, causando la morte di tre guardie di frontiera.

Giovedì scorso, elicotteri delle forze ISAF in volo lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, verosimilmente all’inseguimento di un gruppo di guerriglieri islamici, sono entrati nello spazio aereo pakistano. Secondo la ricostruzione di un portavoce dell’esercito pakistano, le guardie di frontiera avrebbero esploso alcuni colpi per avvertire i mezzi aerei NATO del loro sconfinamento. In risposta, sarebbero stati sparati due missili che hanno finito per distruggere il posto di frontiera.

Come già avvenuto in precedenza, le autorità pakistane hanno proceduto alla chiusura del valico di Torkham, a nord di Peshawar, di fatto il più trafficato punto di transito tra l’Afghanistan e il Pakistan, dal quale passano buona parte delle forniture dirette alle forze armate occidentali impegnate in Afghanistan. Già dopo il primo giorno di chiusura del passo, oltre 150 convogli NATO risultavano bloccati lungo la strada diretta al confine. Se in altre occasioni la chiusura del valico è durata pochi giorni, al momento è difficile prevedere le intenzioni pakistane.

Nonostante le dure proteste del governo e dei vertici militari, le incursioni americane all’interno dei confini pakistani sono peraltro sempre state più o meno tacitamente sostenute da Islamabad. Con l’intensificarsi degli attacchi negli ultimi mesi, la rabbia delle popolazioni locali è però aumentata di conseguenza. Anche se i bombardamenti, spesso condotti tramite aerei senza pilota e comandati a distanza, dovrebbero colpire i ribelli che operano in Afghanistan per poi trovare rifugio in Pakistan, in realtà il numero di vittime civili continua ad essere consistente.

Dopo il più recente episodio, da parte pakistana si sono moltiplicate le minacce di ritorsioni. I toni degli ufficiali del governo sono risultati comprensibilmente accesi, dal momento che secondo il diritto internazionale, uno sconfinamento ed un bombardamento di questo genere rappresentano un evidente atto di guerra. Le minacce, tuttavia, non hanno impensierito l’amministrazione Obama che, nonostante le tensioni e le visite a Islamabad appena concluse del capo di stato maggiore, ammiraglio Mike Mullen, e del direttore della CIA, Leon Panetta, due giorni più tardi ha dato il via libera ad un nuovo attacco in territorio pakistano che ha ucciso sei presunti militanti islamici.

La disputa tra Stati Uniti e forze NATO da un lato e Pakistan dall’altro è la diretta conseguenza della delicata situazione in cui si è venuto a trovare il governo di Islamabad fin dal rovesciamento dei Talebani nell’autunno del 2001 e, allo stesso tempo, della dipendenza americana dal governo pakistano per raggiungere i propri obiettivi in Afghanistan.

Gli americani da anni spingono il governo e l’influente esercito pakistano ad adottare una strategia più offensiva nei confronti dei vari gruppi ribelli che mantengono le loro roccaforti nelle aree tribali (FATA) lungo il confine nord-occidentale del paese. Una strategia finora adottata in maniera non troppo efficace in alcune province pakistane che però non trova l’appoggio della maggioranza della popolazione, irriducibilmente avversa alla presenza e ai diktat statunitensi.

Assieme agli incentivi di ingenti aiuti finanziari e militari, le pressioni di Washington su Islamabad si traducono in sempre più frequenti incursioni aeree, in ultima istanza condotte per allineare il Pakistan ai propri interessi nell’intera regione centro-asiatica. Pressioni e minacce che non tengono conto né della situazione interna pakistana - l’eventuale ripiegamento sulle richieste americane potrebbe portare il paese sull’orlo della guerra civile - né degli obiettivi strategici del problematico alleato.

I Talebani, infatti, continuano a rappresentare per Islamabad il mezzo attraverso il quale esercitare la propria influenza su un futuro governo afgano, una volta che gli americani se ne saranno andati. Un Afghanistan alleato del Pakistan, come ai tempi del regime talebano, ovviamente in funzione anti-indiana, soprattutto alla luce del riemergere delle tensioni in Kashmir al confine orientale con l’arcinemico di sempre.

Pur chiedendo maggiore supporto per il proprio disegno in Asia centrale, gli USA sembrano perseguire una politica volta a frustrare gli interessi vitali pakistani. Oltre alla costruzione di una solida partnership con Nuova Delhi, Washington ha ad esempio cercato in vari di modi di ostacolare l’approvvigionamento di reattori nucleari dalla Cina o di gas naturale dall’Iran per sostenere il fabbisogno energetico del Pakistan.

Così, in un paese devastato dalle recenti inondazioni, l’amministrazione Obama ha intensificato le operazioni militari di dubbia legalità - più di venti nel solo mese di settembre - provocando la morte di altri civili innocenti. Un’escalation di distruzione che, oltre a mettere a repentaglio i già difficili equilibri nei rapporti con il Pakistan, finisce per infiammare ulteriormente la resistenza talebana da entrambi i lati del confine in una spirale di violenza senza alcuna fine in vista.

di Carlo Musilli

Alla fine ha ceduto. Dopo quattro mesi d’agonia, ormai la “liberale Olanda” è andata. I cristiano-democratici riuniti in congresso hanno votato a favore di un’alleanza di governo con il Pvv di Geert Wilders, il nuovo alfiere della xenofobia, del populismo, dell’anti-islamismo europeo. Per i cittadini olandesi davvero democratici e liberali, quello che si è realizzato è il peggiore degli scenari possibili. Il governo, infatti, sarà composto dai liberal-conservatori del Vvd e dai cristiano-democratici del Cda, a cui il Pvv (che sta per “Partito per la libertà”, non è uno scherzo) si limiterà a dare il suo appoggio esterno. Questo significa che Wilders eserciterà un potere enorme senza alcuna responsabilità. Si troverà nella posizione più comoda a cui un uomo politico possa aspirare.

E di concessioni il Pvv ne ha già ottenute parecchie. In cambio del sostegno, il governo si è travestito da babbo natale e ha esaudito tutti i desideri che Geert aveva scritto nella letterina. Tra i provvedimenti razzisti figurano il divieto di indossare il burqa e le limitazioni per l’utilizzo del velo da parte di alcune categorie d’impiegati pubblici che abbiano la disgrazia di essere musulmani. Gli immigrati dovranno poi sostenere un “esame d’integrazione” per ottenere il passaporto, che comunque sarà ritirato a chi commetterà un crimine entro cinque anni dal rilascio del documento. Gli imam più radicali, invece, saranno espulsi senza tanti sofismi.

Non basta. Il governo si è impegnato anche a tagliare 18 miliardi di spesa pubblica, innalzare l’età pensionabile da 65 a 66 anni, aumentare i fondi agli anziani diminuendoli agli immigrati. Già che c’era, Geert, che evidentemente ha il gusto del grottesco, ha chiesto anche la nascita di un corpo di polizia per il benessere degli animali, l’elevazione della velocità massima in autostrada a 130 chilometri orari, l’abolizione del divieto di fumare nei piccoli caffè e la trasformazione dei coffee shop in club privati con restrizioni all’ingresso. Bei tempi, quando ci si limitava alla vecchia valigetta piena di banconote non segnate e non consecutive.

Come siamo arrivati a questo? Il disastro è iniziato con le elezioni politiche del 9 giugno scorso, quando il partito cristiano-democratico, dominatore degli ultimi 70 anni di politica olandese, ha perso la metà dei deputati (da 41 a 21) ed è passato da prima a quarta forza del Paese. Al contempo, il Pvv ha triplicato i suoi voti, arrivando a quota 1,5 milioni. Che in Olanda vuol dire essere il terzo partito.

L’exploit dell’estrema destra nazionalista, dalle tendenze anti-europeiste o euroscettiche, secondo l’eufemismo che si preferisce, è in gran parte spiegabile con la situazione da incubo delle casse olandesi. Per evitare l’implosione del sistema finanziario, nel 2008 lo Stato ha investito 80 miliardi di Euro, il 14% del Pil. Da allora il rapporto debito/Pil è cresciuto di 19 punti percentuali. Ce n’era abbastanza da giustificare l’ultima finanziaria “pane e cipolla” che gli olandesi hanno dovuto subire.

Risultato: il prossimo sarà il primo governo di minoranza dal dopoguerra, il più sbilanciato a destra degli ultimi decenni. E una bella fetta di potere sarà in mano a un personaggio come Wilders. Conosciamolo meglio. Geert da lunedì sarà processato per aver realizzato nel 2008 “Fitna”, un film che vorrebbe essere contro il fondamentalismo islamico e in realtà è contro l’Islam, un po’ come il suo regista. Una pellicola per intenditori: teste mozzate, linciaggi, attentati terroristici, imam esaltati che esortano a punire gli infedeli. Un testo sacro e spirituale come il Corano viene deliberatamente manipolato e paragonato al Mein Kampf di Hitler.

In questi giorni Geert è stato in visita in Germania, dove ha partecipato al convegno del movimento Die Freiheit (“La Libertà”, ancora!), che aspira a creare un partito nazionale simile al Pvv. Dal suo profetico pulpito, il messia olandese ha deliziato la folla di razzisti con teorie di rara profondità. Ad esempio: “Uno spettro s’aggira per l’Europa, lo spettro dell’islamizzazione”. Ad essere precisi era assai diversa, ma andiamo avanti: “La Germania ha bisogno di un partito che difenda la sua identità nazionale, la sua prosperità, la sua democrazia, il suo successo economico, e si opponga deciso all’islamizzazione”. La sua è un’ossessione: “L’Islam è una minaccia alla libertà!”. Alla fine, però, il messia si tradisce: “L’ideologia politica dell’Islam non è moderata, non lo sarà mai!”. E la tua, Geert?      
   

di Michele Paris

Con l’approssimarsi delle elezioni di medio termine, i nodi centrali del dibattito politico negli Stati Uniti sono sempre più dettati dalla destra e da un Partito Repubblicano in odore di rivincita dopo le sconfitte degli ultimi quattro anni. L’incapacità del presidente Obama e del partito di maggioranza, di capitalizzare un’avversione diffusa nel paese verso il sistema delle corporation e dell’alta finanza che ha condotto l’economia americana sull’orlo del baratro, è d’altra parte la diretta conseguenza delle contraddizioni interne al Partito Democratico stesso e la causa principale del successo di movimenti ultraconservatori come il Tea Party.

Il prossimo 2 novembre gli elettori americani saranno chiamati a rinnovare tutti i 435 seggi della Camera dei Rappresentanti e ad eleggere 37 nuovi senatori, oltre che a scegliere numerose altre cariche locali. Secondo i più recenti sondaggi, i repubblicani hanno buone possibilità di riconquistare il controllo del Congresso - dove i democratici hanno attualmente una maggioranza di ben 75 seggi - mentre è più difficile pensare ad un ribaltone al Senato, dove pure l’opposizione dovrebbe recuperare terreno.

Il malcontento popolare scatenato dalla crisi economica iniziata nell’autunno del 2008, assieme all’insofferenza per George W. Bush e la guerra in Iraq, aveva permesso ai democratici di conquistare un’ampia maggioranza al Congresso degli Stati Uniti. L’entusiasmo suscitato dalla promessa di cambiamento di Obama aveva così alimentato le speranze di cambiamento e fatto intravedere un possibile futuro contrassegnato da una maggiore giustizia sociale nel paese.

In meno di due anni dall’ingresso alla Casa Bianca, Obama e la sua maggioranza democratica hanno invece saputo produrre soltanto delusione, alienandosi la maggioranza dei lavoratori americani, dei giovani e dell’elettorato liberal che avevano contribuito al trionfo elettorale del 2008 e che ora diserteranno in gran pare le urne.

Costantemente costretto sulla difensiva, il Partito Democratico si è dimostrato incapace di fornire una soluzione adeguata alla crisi sociale in cui versano gli Stati Uniti, in quanto paralizzato dalla contraddizione tra la pretesa di continuare a rappresentare la classe media e la realtà di una politica costantemente rivolta alla difesa dei grandi interessi economici e finanziari. Un’incoerenza che negli ultimi decenni ha determinato lo spostamento del baricentro democratico sempre più a destra e il sostanziale dissolvimento di una qualsiasi rappresentanza politica per le fasce più basse dell’elettorato americano.

Questa evoluzione dello scenario politico statunitense ha fatto in modo che il disagio sociale trovasse un qualche sbocco pressoché esclusivamente a destra, in primo luogo tramite il populismo dei numerosi Tea Party che sono sorti in ogni parte del paese nell’ultimo anno e mezzo. Queste ultime formazioni - nate come reazione contro il salvataggio delle banche dell’amministrazione Bush, il piano di stimolo all’economia e la riforma sanitaria di Obama - pur presentandosi con una impronta anti-establishment, sono in realtà coordinate da esponenti vicini al Partito Repubblicano e al mondo degli affari.

Personalità come Sarah Palin o l’anchorman di FoxNews, Glenn Beck, guidano un movimento che combina la retorica populista dell’uomo comune alla crociata anti-governativa che si oppone ad una fantomatica deriva verso il socialismo promossa dall’amministrazione Obama. Così incanalata, la rabbia della classe media sconvolta dai cambiamenti economici e sociali dell’America moderna non si rivolge verso i reali responsabili della perdita di milioni di posti di lavoro o della crescente diseguaglianza sociale, vale a dire le grandi corporation e i poteri forti che controllano il processo politico, bensì verso gli odiati liberal e i loro media, gli immigrati e, soprattutto, un governo federale in grado soltanto, dal loro punto di vista, di aumentare le tasse e di gonfiare il deficit.

In questo contesto è sorto il “Giuramento per l’America”, l’assurda piattaforma politica interamente pro-business presentata recentemente dal Partito Repubblicano in vista delle elezioni di medio termine. Cavalcando la protesta contro il presunto aumento incontrollato delle spese federali, puntualmente alimentata dai principali media d’oltreoceano, il manifesto repubblicano richiama in maniera esplicita il “Contratto con l’America” del 1994, che garantì al partito la riconquista della Camera, e promette sostanzialmente di ridurre il deficit pubblico con provvedimenti che lo aumenterebbero vertiginosamente, come l’estensione dei tagli alle tasse voluti da Bush per tutte le fasce di reddito.

Sotto l’influenza dei Tea Party, il Partito Repubblicano ha così anch’esso svoltato ulteriormente a destra, mettendo all’angolo i candidati più moderati che in una manciata di elezioni primarie hanno subito pesanti e inaspettate sconfitte. Le vittorie più clamorose sono arrivate nelle ultime settimane, quando, grazie all’appoggio dei Tea Party, Joe Miller in Alaska, Sharron Angle in Nevada e Christine O’Donnell in Delaware hanno conquistato le nomination per i rispettivi seggi al Senato, liquidando i candidati centristi dell’establishment repubblicano.

Galvanizzati da questi successi, i Tea Party e gli altri gruppi formati da attivisti conservatori hanno immediatamente riversato le loro risorse su molte altre competizioni a livello nazionale nella speranza di incidere in maniera decisiva sull’esito delle elezioni per il Congresso. Se molti di questi candidati hanno spesso un curriculum a dir poco discutibile e risultano oggettivamente troppo radicali per attrarre il voto degli elettori indipendenti e moderati, è anche vero che la stampa e le televisioni americane stanno amplificando a dismisura il peso dei Tea Party, offrendo loro un’esposizione mediatica straordinaria.

Pur senza raccogliere nel paese indici di gradimento migliori di quello Democratico, il Partito Repubblicano il prossimo novembre finirà in ogni caso per incassare una vittoria elettorale che, secondo alcuni, potrebbe addirittura tradursi in un trionfo. Con un’economia ancora in affanno ed un quadro politico soffocato da un sistema bipartitico totalmente delegittimato, quei pochi americani che si recheranno alle urne voteranno soprattutto per impartire una lezione ai politici che hanno servito a Washington in questi ultimi anni.

A farne le spese saranno così i democratici che hanno avuto la maggioranza al Congresso senza riuscire a tradurla in una autentica politica progressista che pure sembrava raccogliere vasti consensi nel paese. Le eventuali divisioni all’interno del Partito Repubblicano prodotte dall’emergere dei Tea Party potranno forse attenuare la disfatta democratica, come credono in molti, ma qualche seggio in più o in meno alla fine per Obama e i suoi non cambierà la realtà della chiara bocciatura che li attende a due anni di distanza da una vittoria elettorale che aveva illuso l’America e il mondo.

di Fabrizio Casari

Il colpo di Stato in Ecuador è fallito. L’esercito, fedele alla Costituzione e al Presidente Correa, è intervenuto con la forza per liberare il presidente dall’ospedale dove era stato preso in ostaggio dai rivoltosi ed ha anche liberato i commissariati dove i poliziotti traditori si erano sollevati e lo stesso aereoporto della capitale. Il saldo dell’operazione di pulizia è di due morti e diversi feriti, alcuni di questi ultimi tra le fila dell’esercito e della popolazione che è scesa in strada con l’intento di appoggiare il suo Presidente contro i golpisti. La vicenda, gravissima, ha un suo aspetto di cronaca e un altro tutto politico, interno ed internazionale. Partiamo dal primo.

La cronaca riferisce di una ribellione di alcuni reparti della polizia di Quito che rifiutavano il pacchetto legislativo proposto dal Governo e approvato dal Parlamento sulla riforma dei servizi pubblici, presidenza compresa, e che prevede, tra l’altro, la riduzione dei benefici di vario genere dei quali hanno goduto in passato le forze di polizia come altri settori della Pubblica amministrazione.

Il Presidente Correa, avvertito delle proteste dei poliziotti e su richiesta degli ufficiali di polizia, aveva deciso di recarsi alla sede del Reggimento 1 di Quito per spiegare, personalmente, la necessità delle misure, anche nell’intento di trovare soluzioni di compromesso. Ma il tentativo di dialogo è stato frustrato dai poliziotti, a dovere sobillati: addosso al Presidente sono piovuti insulti, lanci di oggetti e di gas lacrimogeni; questi ultimi hanno prodotto una lieve intossicazione al presidente che è stato prelevato dalla sua scorta e accompagnato in ospedale.

I poliziotti si sono riversati in strada, bruciando copertoni e lanciando pietre, quindi hanno occupato l’aereoporto di Quito e, in seguito, hanno circondato l’ospedale dove il Presidente era stato soccorso. A poco erano servite le assicurazioni del Ministro di Sicurezza Pubblica, che si era detto certo della breve e non cruenta durata della protesta degli agenti. Il blocco dell’ospedale, la presa dell’aereoporto, il saccheggio dei supermercati, gli assalti ai negozi, ai distributori di benzina e a quattro sportelli bancari, hanno offerto un quadro golpista difficile da negare. In aggiunta, a dimostrazione di un piano orchestrato, mentre in altri due centri - Cuenca e Guayaqui - si assisteva ad altre proteste di strada della polizia, nella capitale, come d’incanto, gruppi di studenti di destra cercavano di occupare le strade in appoggio alla polizia ribelle. Stesso copione anche in altre province.

Scatta la reazione popolare a sostegno di Correa, che in un quadro rovesciato rispetto alla consuetudine, vedeva gli studenti e lavoratori leali alla Costituzione scendere in piazza ed ingaggiare scontri con la polizia golpista. I manifestanti si dirigevano all’ospedale per tentare di difendere il presidente, ma venivano accolti da gas lacrimogeni e colpi d’arma da fuoco dalla polizia golpista che circondava il nosocomio.

Nel frattempo, le proteste internazionali rendevano chiaro il ripudio al golpe. Dal Segretario Generale dell’Onu ai governi latinoamericani, si sono susseguite le prese di posizione al fianco di Correa e del legittimo governo ecuadoriano. In primo luogo i membri dell’Unasur (Unione delle nazioni sudamericane). I presidenti di Cile, Uruguay, Argentina, Bolivia, Colombia, Venezuela e Perù si sono riuniti immediatamente a Buenos Aires per sostenere Correa. Il Ministro degli Esteri brasiliano, Celso Amorim, ha espresso “il totale appoggio e solidarietà al Presidente Correa”.

Il Perù, confinante, ha disposto la chiusura delle frontiere, così come la Colombia, che ha espresso immediata solidarietà al Presidente ostaggio dei golpisti, mentre Hugo Chavez invitava alla mobilitazione contro “le forze oscurantiste, la destra, i servi dell’impero che cercano ogni scusa per tornare al potere”. Stessi toni dalla Bolivia, dove Evo Morales ha definito la sollevazione poliziesca “una cospirazione vergognosa stimolata da politicanti privi dell’appoggio popolare, destinata a evitare l’avanzata del processo rivoluzionario in Ecuador”.

Ancora più dura la posizione espressa da Nicaragua e Cuba. Ed è qui, nella presa di posizione di Cuba, che gli eventi cessano d’indossare le vesti della cronaca e assumono sostanza politica. “Cuba attende che il comando delle forze armate ecuadoregne obbedisca all’obbligo di rispettare e far rispettare la Costituzione e di garantire l’inviolabilità del Presidente della Repubblica legittimamente eletto e assicurino lo stato di diritto”. Il comunicato del Ministero degli Esteri cubano afferma poi di “ritenere il Capo delle Forze Armate responsabile dell’integrità fisica e della vita del Presidente Correa” avvertendo che “dev’essere assicurata la sua piena mobilità di movimento e l’esercizio delle sue funzioni”. L’Avana si spinge poi oltre, al cuore del problema: “Invitiamo il governo statunitense a pronunciarsi contro il golpe. Il suo portavoce ha solo detto che segue da vicino la situazione. Un’omissione in questo senso vi renderebbe complici del colpo di Stato”.

La presa di posizione Usa, infatti, somigliava molto a quella presa in occasione del golpe in Honduras contro il legittimo presidente Zelaya. Con parole moderate e fintamente solidali, si trasmetteva invece una sorta di “via libera” ai golpisti, come venne ampiamente dimostrato nel successivo corso degli eventi. Solo un po’ meno sfacciata di quella di giubilo espressa nel poi fallito golpe in Venezuela.

Subito dopo la pubblicazione della posizione cubana, senza voler con questo stabilire una relazione temporale di causa-effetto, lo scenario è cambiato. Sollecitato dall’estero o internamente, o da ambedue gli scenari, pur con diverse ore di ritardo l’esercito ecuadoregno ha rotto gli indugi ed ha scelto d’intervenire. Sette camion di soldati si sono recati verso l’ospedale per rompere il blocco organizzato dai rivoltosi e, mentre una sparatoria durata venti minuti tra militari e poliziotti riconduceva alla normalità la situazione, un reparto delle forze speciali dell’esercito liberava il Presidente, assistito dalla sua scorta, mettendo così fine ad un sequestro durato otto ore. Due morti e 88 feriti il bilancio sanguinoso dell’intervento.

Correa, pochi minuti dopo la sua liberazione, si è recato al palazzo di Governo. In un breve discorso, nel quale ha chiesto alla popolazione “unità contro i traditori della patria”, ha assicurato che non ci saranno “né perdono, né dimenticanze”, annunciando misure immediate contro i fagocita tori del tentato golpe, che ha indicato nell’ex Presidente Lucio Gutierrez (cacciato a suo tempo dalla rivolta popolare). “Non era una rivendicazione salariale. E’ stato un tentativo di colpo di Stato organizzato da Gutierrez - ha proseguito Correa - ma non ho fatto e non farò un passo indietro. “Il mio obiettivo era questo, ha proseguito Correa: o uscire come un Presidente di una nazione degna, o uscire cadavere”. E ancora: “I cospiratori di sempre hanno sequestrato il Presidente e, per liberarlo, sono caduti fratelli ecuadoriani. E’ un giorno di profonda tristezza che non avrei mai creduto di dover vivere”.

Si stringe quindi il cerchio sui mandanti del golpe. Correa, pur essendo uomo di dialogo, per nulla venato da tentazioni militariste, pare deciso a ripulire la scena golpista una volta per tutte. Quanto avvenuto a Quito, però, riporta alla ribalta non solo i periodici tentativi delle oligarchie nazionali latinoamericane di azzerare i risultati elettorali e, con essi, le politiche d’inclusione sociale e di riassetto politico interno dell’indipendentismo latinoamericano. Sullo sfondo, inutile far finta di nulla, c’è la gestione della terra e delle risorse energetiche continentali, che non sono più a disposizione delle multinazionali statunitensi e delle oligarchie locali a loro alleate.

Hanno rappresentato, storicamente, la fortuna e la croce dei paesi latinoamericani, oggetto delle criminali attenzioni di Washington proprio in ragione del consolidamento del comando militare, del controllo politico e dell’accumulo di ricchezze che ha permesso agli Stati Uniti di calmierare il mercato interno da un lato e di far scorazzare le sue major alimentari ed energetiche nell’immensa praterie dei profitti tramite saccheggio. Proprio l’inversione di questo quadro ha destabilizzato il quadro del dominio statunitense. Dall’America Latina, o meglio, dal suo saccheggio, è nato l’impero; dalla stessa area ha subìto e subisce il primo livello della sua decrescita.

Le democrazie latinoamericane hanno ripreso il controllo sulle loro risorse, attivato politiche economiche di equità redistributiva tese a ridurre la sperequazione enorme tra masse infinite di diseredati e piccole oligarchie nazionali, e si sono associate tra loro costruendo un mercato interno continentale basato sulle reciproche necessità e possibilità. E nello schieramento internazionale, l’abbandono del Washington consensus ha ulteriormente stabilito la nuova stagione latinoamericana, che vede e trova nuovi sbocchi internazionali ai suoi prodotti. Un programma che, non a caso, vede le economie locali in crescita robusta, in assoluta controtendenza rispetto al resto della scena globale.

Per questo la calma che è tornata a Quito non significa che tutto sia finito. Gli USA non hanno intenzione di restare a guardare: cospirazione, finanziamenti e campagne mediatiche vengono organizzate con questo fine. Sia perché Venezuela, Brasile, Ecuador e Bolivia, dispongono una quota molto importante delle riserve energetiche mondiali che fanno gola alla Casa Bianca, sia perché l’altra faccia della medaglia è anche militare. Basi militari statunitensi restituite ai governi locali, accordi commerciali per acquisto e vendita di materiale bellico con Russia, Cina, Iran, accelerazione verso un modello di difesa continentale, restituzione piena delle proprie Forze Armate alla sovranità nazionale, sono tutti aspetti direttamente intrecciati con il nuovo quadro politico indipendentista latinoamericano. Da qui nascono i golpe sponsorizzati da Washington, da qui la resistenza latinoamericana, un tempo inimmaginabile.

 

 

 

di mazzetta

Il dibattito sulla legalizzazione delle droghe soffre una fase di stanca, anche se la guerra alla droga è già stata dichiarata un fallimento d qualche anno proprio dai suoi proponenti. La debolezza della posizione dei fautori della guerra alla droga è il motivo principale per il quale qualsiasi tentativo di avviare un dibattito è soffocato nella culla, non esistono più ragioni da opporre alla legalizzazione, le proposte alternative si sono rivelate costose e fallimentari.

In California invece se ne discute moltissimo, perché prossimamente si voterà un referendum che propone la legalizzazione della marijuana, le caratteristiche dello stato americano e il suo assetto legislativo offrono una rara occasione per sbirciare cosa potrebbe succedere se si coagulassero forti movimenti per la legalizzazione in altri paesi.

In California si discute solamente della legalizzazione della marijuana,che è già legale per “usi medici” tanto poco definiti da prestarsi a un'interpretazione molto estensiva di quanti siano i malati bisognosi dell'erba miracolosa. Posto che i conservatori sono allo sbando e che la legalizzazione è stata presentata come un'ottima occasione per incassare tasse e per risparmiare le follie che si spendono per la detenzione dei pothead beccati con gli spinelli.

Finora a puntare soldi contro il referendum sono stati principalmente le associazioni di polizia e quella dei birrai, anche se tra questi si sono registrate numerose prese di distanza. In controtendenza con il resto del mondo la polizia è contro la legalizzazione, perché la legge californiana dice che i proventi dei sequestri per droga diventano finanziamenti alla polizia e al sistema giudiziario e, in questo modo, la legalizzazione della marijuana rappresenta un possibile calo degli introiti. Se i poliziotti del resto del mondo si sentono inutili a rincorrere gli spinellanti, quelli californiani li vedono come bancomat ambulanti da mungere per migliorare il budget.

È già andata bene che le guardie carcerarie, lobby potentissima, per ora si siano astenute ed è una novità, perché in altre occasioni si erano schierate contro leggi che riducevano il ricorso al carcere. A favore invece ci sono i sindacati, compreso quello potente degli autotrasportatori, associazioni progressiste e molti esponenti dello star system.

La concorrenza tra alcool e marijuana è evidente dallo schieramento dei birrai e fa un po' impressione trovare polizia e produttori di alcool dalla stessa parte, visto che in California, come un po' ovunque, oltre il 30% dei crimini violenti sono  perpetrati da ubriachi. A queste considerazioni molto materiali si aggiungono poi gli schieramenti in nome della morale e se le chiese sono in maggior parte schierate contro, non si può dire che le grandi corporation della rete siano a favore.

Facebook ha prima rifiutato una pubblicità dei promotori del referendum perché aveva una foglia di marijuana come immagine, poi l'ha rifiutata anche con altre immagini, facendo arrabbiare qualche milione di utenti che hanno messo la foglia come immagine nel loro profilo (sic). Reddit invece ha rifiutato la pubblicità dicendo che di non guadagnare sulla questione e allora è successo qualcosa di inusuale.

Reddit  è una internet company acquisita dal gigante Condè Nast, alla direzione del quale si deve il divieto, e i suoi dipendenti e manager hanno deciso di ribellarsi al divieto pubblicando gratis gli annunci, così da non procurare alcun arricchimento a Condè Nast che ci teneva tanto. Facile immaginare che la cosa avrà un seguito all'interno della corporation, ma intanto l'annuncio è passato e la ribellione ha fatto notizia.

Per la prima volta da molto tempo il referendum sembra avere buone possibilità di passare, già molti stati hanno raggiunto la California dotandosi di una legislazione per l'uso terapeutico della marijuana e già da tempo le forze di polizia, anche quelle federali, hanno direttive precise di concentrarsi sui traffici all'ingrosso, ma è soprattutto un lento cambiamento culturale che sembra essersi finalmente compiuto, la legalizzazione ha sfondato anche a destra, privando il confronto di quel sapore da guerra di religione che fino ad ora aveva sempre contribuito a far fallire tentativi simili.

 


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