di Michele Paris

Il voto di domenica scorsa in Belgio ha confermato tutte le tensioni che da tempo attraversano le due comunità linguistiche che compongono questo paese di quasi undici milioni di abitanti. Il successo del partito nazionalista fiammingo conservatore di Bart de Wever, ha immediatamente scatenato le speculazioni per una possibile secessione nel prossimo futuro. Tuttavia, con un sistema elettorale che richiede un governo di coalizione che comprenda sia i partiti fiamminghi che quelli valloni, e di fronte ad un’opinione pubblica che sembra limitarsi a preferire una maggiore autonomia delle due regioni, l’ipotesi di una scissione, almeno per ora, appare alquanto remota.

Le elezioni anticipate in Belgio erano state indette lo scorso mese di aprile dopo la caduta del governo del cristiano-democratico Yves Leterme - diventato primo ministro nel novembre 2009 in seguito alla nomina di Herman Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo - su una disputa riguardante un distretto elettorale bilingue nei pressi di Bruxelles. Infliggendo una pesante sconfitta ai due principali partiti del governo uscente (i cristiano democratici e i liberali), la Nuova Alleanza Fiamminga (N-VA) ha conquistato il maggior numero di seggi in Parlamento, 27 su 150, con un incremento di 19 seggi. A ruota sono seguiti i Socialisti valloni con 26 seggi, sei in più rispetto al 2007.

Il partito di de Wever ha raccolto circa il 30 per cento dei consensi su scala nazionale, mentre almeno un altro 16 per cento nelle province fiamminghe é andato ad altri partiti separatisti, tra cui quello di estrema destra Vlaams Belang (Interesse Fiammingo). In Vallonia, quello Socialista è risultato il primo partito (36 per cento) e il suo leader di origine italiana, Elio di Rupo, potrebbe avere ora la priorità nelle consultazioni per la formazione del nuovo governo per diventare il primo premier francofono del Belgio da 36 anni a questa parte.

Il via libera ad un Primo Ministro di lingua francese sembra essere stato accordato dallo stesso de Wever, il quale all’indomani del successo del suo partito ha fatto sapere di non essere interessato a guidare il nuovo governo, quanto piuttosto a cercare un accordo per riformare lo stato federale. Sul tema della secessione, poi, il numero uno della N-VA ha chiarito che non sarà sua intenzione cercare la dissoluzione del paese nell’immediato futuro, preferendo invece una graduale ulteriore devoluzione dei poteri alle due regioni che lo compongono.

Il successo alle urne di de Wever, d’altra parte, sembra essere dovuto alla sua relativa moderazione e alla facciata presentabile del suo partito, rispetto alle formazioni estremiste e xenofobe che caratterizzano la destra fiamminga. Le spinte separatiste provengono principalmente dalle province settentrionali economicamente più prospere e frustrate nei confronti di quelle meridionali che continuano a pagare lo smantellamento dell’industria pesante degli ultimi due decenni. A ciò vanno poi aggiunte le inquietudini causate dalla crisi economica, che ha colpito duramente anche il Belgio, producendo uno spostamento dell’elettorato verso destra, come è accaduto un po’ ovunque negli ultimi mesi in Europa.

In ogni caso, le peculiari tensioni interne sono anche il risultato della crescente avversione per un complesso e inadeguato sistema federale, ma anche degli stessi presupposti sui quali il Belgio è stato fondato 180 anni fa. In seguito alla rivoluzione del 1830, le potenze europee, e soprattutto la Gran Bretagna, vollero uno stato-cuscinetto tra i Paesi Bassi (dai quali il Belgio aveva conquistato l’indipendenza) e la Francia, il cui esercito aveva appoggiato l’insurrezione. Il nuovo regno era composto da due comunità che ben poco avevano in comune l’una con l’altra, mentre le élite francofone avrebbero dominato a lungo la scena politica ed economica, emarginando i belgi di lingua fiamminga ed alimentando così il nazionalismo fiammingo e l’avversione nei confronti dei valloni.

In un sistema che sembra designato precisamente per rafforzare le divisioni, sono molti i timori per una paralisi politica prolungata proprio mentre il Belgio si appresta ad assumere la presidenza semestrale dell’UE ai primi di luglio. Intanto, Re Alberto II, rappresentante di una delle poche istituzioni che simboleggiano l’unità del paese, ha immediatamente dato il via alle consultazioni con i leader dei vari partiti, ma è più che probabile che la formazione di una nuova coalizione di governo dovrà attendere a lungo. Dopo le ultime elezioni, nel 2007, si dovette attendere ben nove mesi per veder nascere il nuovo governo.

Sul tavolo del nuovo gabinetto, ci sarà naturalmente la crisi economica. Quale che sia la composizione della coalizione di governo, la necessità dei tagli alla spesa pubblica occuperà anche qui un posto di rilievo nell’agenda politica. A medio e lungo termine, tuttavia, sarà ancora una volta la riforma dello stato federale a decidere della stabilità del governo e, probabilmente, del futuro stesso del paese.

Da chiarire ci sarà innanzitutto la contesa sullo status di Bruxelles, dove la maggioranza degli abitanti parla francese anche se ufficialmente la città rappresenta la capitale delle Fiandre. Ancora maggiore attrito tra le due comunità è prevedibile invece sulla questione del trasferimento dei poteri alle due regioni. Esse godono già di ampia autonomia, ma il desiderio dei fiamminghi di decentralizzare anche la giustizia, la sanità, le tasse e il sistema di sicurezza sociale non trova riscontro in Vallonia, dove si teme in particolare di perdere le protezioni sociali garantite attualmente dal governo centrale.

di Michele Paris

Un recentissimo studio del Washington Post ha ancora una volta messo in evidenza, se mai fosse stato necessario, l’impressionante livello di promiscuità diffusa nel sistema politico d’oltreoceano che unisce, in una stretta mortale per una sana democrazia, membri del Congresso, lobbisti e grandi interessi economici. A finire sotto la lente d’ingrandimento del prestigioso quotidiano americano, sono stati i cosiddetti “bundlers”.

Costoro non sono altro che lobbisti con influenti contatti nella capitale che aggirano i limiti stabiliti per legge alle contribuzioni individuali a beneficio delle campagne elettorali, raccogliendo denaro da svariati finanziatori per poi versarli a loro volta nelle casse dei comitati elettorali e dei politici di entrambi gli schieramenti. Secondo le norme che regolano il finanziamento alla politica negli USA, infatti, sono consentite donazioni individuali solo fino a 2.400 dollari per ogni ciclo elettorale (4.800 dollari comprese le primarie).

I dati della Commissione Elettorale Federale (FEC) elencano ben 160 lobbisti regolarmente registrati che nell’ultimo anno avrebbero messo assieme almeno 9 milioni di dollari in favore dei due principali partiti e dei loro candidati a cariche di rilevanza nazionale. A beneficiarne sono stati soprattutto gli organi che si occupano delle campagne elettorali per il Partito Democratico, da qualche anno in maggioranza al Congresso.

La pratica del “bundling” costituisce un elemento fondamentale nell’attività dei lobbisti, grazie alla quale essi riescono appunto a conquistarsi una corsia preferenziale nei rapporti con i politici di turno. Una capacità di influire sulle decisioni di deputati e senatori che rappresenta precisamente il potere e l’autorevolezza di chi si dedica all’attività di lobbying a Washington.

Benché tutto avvenga in maniera più o meno trasparente, a sollevare più di un dubbio sull’opportunità di questa consuetudine è il fatto che gli stessi lobbisti che raccolgono fondi per i politici, sono impegnati nell’influenzare questi ultimi affinché legiferino in favore dei loro stessi clienti, che a loro volta hanno erogato i finanziamenti elettorali. Un lobbista che opera in funzione di banche d’affari di Wall Street, ad esempio, può trovarsi così a “negoziare” con un senatore coinvolto nella stesura di una legge che riguarda le attività finanziarie e al quale egli stesso ha provveduto a elargire contributi provenienti dai suoi clienti.

In seguito ad una norma approvata nel 2007, le donazioni raccolte in questo modo dai lobbisti devono essere rese pubbliche se superano i 16 mila dollari. I rendiconti dei versamenti, tuttavia, non devono necessariamente elencare i donatori, mentre i beneficiari dei fondi possono contare su deroghe che in alcuni casi permettono loro di non dover nemmeno comunicare alla Commissione Elettorale Federale i contributi stessi. Il presidente Obama all’inizio del 2010 aveva annunciato l’adozioni di norme più stringenti, anche se a tutt’oggi non è stata avviata nessuna iniziativa concreta.

Secondo i già citati numeri della FEC, il Partito Democratico ha ricevuto circa i tre quarti del denaro raccolto in questo modo dai lobbisti nell’ultimo anno, con il Comitato Elettorale per il Congresso che ha incassato 2,4 milioni di dollari e quello deputato al coordinamento delle campagne per il Senato 1,1 milioni. Nessun contributo dai lobbisti, seguendo una direttiva voluta da Obama, ha accettato invece il Comitato Nazionale Democratico (DNC), la segreteria nazionale del partito di maggioranza. Sull’altro fronte, 870 mila dollari sono stati destinati al Comitato per le campagne repubblicane del Senato, mentre il Comitato Elettorale repubblicano per il Congresso ha avuto dai “bundlers” poco più di 500 mila dollari.

Per quanto riguarda i singoli politici, a giovarsi maggiormente degli sforzi dei lobbisti è stato il democratico Charles Schumer, potente senatore democratico di New York e probabile prossimo leader di maggioranza alla Camera alta del Congresso USA. Negli ultimi mesi, i lobbisti registrati hanno raccolto per Schumer circa 570 mila dollari, tra cui più di 60 mila provenienti da Wall Street e 300 mila dall’attività di raccolta fondi di due lobbisti che operano per l’Associazione degli Ospedali dello stato di New York. Quest’ultima organizzazione, in particolare, dall’inizio del 2009 ha speso complessivamente 1,6 milioni di dollari per influenzare il dibattito sulla riforma sanitaria, ottenendo alla fine tagli meno consistenti del previsto sui rimborsi destinati agli ospedali di New York.

Il lobbista più zelante tra il 2009 e il 2010 è stato invece l’ex vice-governatore del Texas Ben Barnes, veterano democratico che è stato in grado di racimolare addirittura 640 mila dollari nel corso di un unico evento a favore del Comitato Elettorale democratico per il Congresso. Barnes presiede una propria compagnia di consulenza (The Ben Barnes Group) che ha come clienti principali General Motors, Motorola e Oracle.

Uno dei nomi di maggiore rilievo è però quello di Tony Podesta, altro “insider” democratico, particolarmente attivo per il numero uno del Senato, Harry Reid, al quale ha donato, a partire dal luglio 2009, circa 100 mila dollari. Grazie alle sue conoscenze a Washington, e soprattutto a quelle del fratello John, già capo di gabinetto durante l’amministrazione Clinton, grandi compagnie come Bank of America, Google, Lockheed Martin, Wal-Mart, Wells Fargo e la stessa BP possono contare su un trattamento di riguardo nelle stanze del potere quando le questioni più delicate vengono discusse dal Congresso.

Se la maggior parte dei lobbisti, come evidenziano le interviste condotte dal Washington Post, non ha alcuno scrupolo nel condurre operazioni - peraltro consentite dalla legge federale statunitense - qualcuno dall’interno del sistema sembra al contrario dover fare buon viso a cattivo gioco. Se il sistema dei finanziamenti elettorali, per quanto disprezzabile, si regge su tali pratiche, allora è necessario assicurare le risorse necessarie anche alla buona politica, se mai ne sia rimasta una. Nel frattempo, non resta che attendere un’improbabile svolta che istituisca regole più severe sulle donazioni private, oppure che ponga l’accento su un finanziamento completamente pubblico delle campagne elettorali.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Il Governo tedesco non riesce a trovare l’armonia e ogni questione, ormai, contribuisce a fare risaltare gli attriti già di per sé evidenti tra Liberali e Cristiano-democratici. L’ultima quérelle in ordine di tempo è nata dalla richiesta di aiuti economici statali per Opel, la casa automobilistica tedesca controllata dalla General Motors (GM) americana. E le divergenze non passano inosservate, tant’è vero che qualcuno già esterna il timore di una fine prematura del Governo Merkel. Secondo quanto scrive il quotidiano berlinese Tagesspiegel, questo qualcuno si nasconderebbe proprio tra le fila della coalizione nero-gialla.

Tutto ha avuto inizio a febbraio 2010, quando GM ha sollecitato un aiuto di oltre un miliardo di euro allo Stato tedesco per far fronte alla profonda crisi che tuttora accompagna il settore automobilistico europeo. In questo scenario, infatti, Opel ha registrato nei primi cinque mesi 2010 il 40.5% di vendite in meno rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Dopo una valutazione accurata della situazione, il Ministro dell’economia Rainer Bruederle (FDP) ha rifiutato categoricamente al gruppo GM i fondi statali, mettendo in dubbio che Opel avesse le carte in regola per un tale appoggio.

General Motors, in effetti, potrebbe compiere interamente da sé il risanamento dell’affiliata Opel, poiché la situazione economica negli Stati Uniti sembra essersi ripresa e il gruppo automobilistico americano ha la liquidità necessaria all’operazione. GM ha registrato nel primo trimestre del 2010 un utile di 1.8 miliardi di dollari statunitensi; rispetto all’anno scorso, nel mese di maggio ha visto un aumento delle vendite del 17%. Il piano di riassetto di Opel ha un costo complessivo di quasi quattro miliardi di euro, di cui solo la metà sono forniti dalla stessa GM.

All’inizio, tuttavia, Angela Merkel (CDU) non sembrava essersi rassegnata al secco no del Ministro dell’economia liberale Bruederle. “Non è ancora detta l’ultima parola”, si era fatta sfuggire la Cancelliera, lasciando sperare in qualche sostegno alternativo da parte dello Stato tedesco. Quella “ultima parola”, in effetti, spettava proprio a lei. E le critiche dei Liberali nei confronti della Merkel non si sono fatte attendere, più esplicite che mai: tanto per citarne una, il segretario generale Christian Lindner (FDP) ha giudicato gli sforzi di compromesso della Cancelliera come “tentavi da avvocato da strapazzo”. Altri suoi colleghi hanno accusato la Merkel di “non essere capace di imporsi a casa propria”.

Se con le sue parole la Cancelliera cercava solo di temporeggiare innocentemente in vista di un eventuale accordo, per Bruederle e i Liberali la questione Opel ha assunto un’importanza quasi esistenziale. Con il naufragio della riforma fiscale e di quella sanitaria, e con l’approvazione della recente manovra da 80 miliardi di euro, i Liberali hanno già dovuto rinunciare a diverse promesse centrali della loro campagna elettorale. Un’altra sconfitta non poteva essere sopportata: ne andava dell’identità del partito stesso. Voci di corridoio non ufficiali sostengono che Bruederle sarebbe stato pronto anche a dimettersi pur di non dare i fondi al gruppo Opel.

Nel frattempo, come in tutte le favole a lieto fine, la situazione sembra essersi risolta come per magia: i governatori dei quattro Laender che ospitano le filiali Opel hanno dato la loro disponibilità a coprire il buco della casa automobilistica tedesca. Assia, Renania Palatinato, Nord-Reno Vestfalia e Turingia (tutte nell’Ovest della Germania) si divideranno probabilmente i costi del risanamento. Opel dà lavoro a quasi 24'000 dipendenti tedeschi e la sua funzione all’interno dell’economia della Germania non è da sottovalutare, soprattutto per quelle regioni in cui Opel ha le sue sedi.

Se la stessa magia potrà aiutare anche la Coalizione nero-gialla a ritrovare l’equilibrio, questo è tutto da vedere: per ora, ogni questione appare come un groviglio troppo intricato per essere sciolto e la situazione s’inasprisce sempre di più. Secondo quanto riporta il Tagesspiegel, qualche politico della Coalizione stessa comincerebbe addirittura a temere per la tenuta del Governo: “Se resistiamo fino all’arrivo dell’estate, riusciamo anche a fare la legislatura” avrebbe commentato qualcuno. Ma a Berlino, si sa, l’estate tarda sempre ad arrivare.

 

di Marco Montemurro

Dopo il deragliamento del treno Gyaneshwari Express, avvenuto lo scorso 28 maggio nel West Bengal, la polizia e il governo indiano hanno subito diretto le accuse verso un’unica matrice: i guerriglieri maoisti. I media indiani, e a seguire le principali agenzie mondiali, hanno descritto l’avvenimento come l’ennesimo attacco di una lunga serie e, senza porsi troppe domande, hanno definito la tragedia un atto di terrorismo dei ribelli maoisti.

Tuttavia, dopo oltre due settimane, sulle cause del deragliamento vi sono ancora molti quesiti irrisolti. Non solo l’esatta dinamica non è stata individuata, ma perfino la matrice non è stata identificata con certezza. Centoquarantotto passeggeri sono morti nell’incidente, un elevato numero di vittime che i guerriglieri non hanno mai provocato in precedenza. Inoltre, considerando che non sono stati presi di mira soldati, bensì vagoni di civili, l’ipotesi di un attacco politico appare ulteriormente controversa.

Il Partito Comunista d’India (maoista), in effetti, ha negato una sua responsabilità. D’altro canto, la polizia ha condannato i maoisti, poiché sono stati trovati presso i binari manifesti del Pcapa, ossia il Comitato popolare contro le atrocità della polizia, una forza ritenuta legata ai ribelli. Tale dettaglio però rende lo scenario ancora più complicato. Il portavoce del Pcapa, Ashit Mahato, ha accusato invece il Partito Comunista d’India (marxista), al governo nel West Bengal, di aver ordito un complotto contro la sua organizzazione, come ha riferito Dola Mitra sulla rivista indiana Outlook.

Le reali cause del deragliamento, pertanto, aleggiano ancora nella nebbia, circondate da interrogativi. Tuttavia, benché le indagini siano in corso, una certezza è evidente: il governo di New Delhi è intenzionato a mostrare i maoisti come crudeli terroristi, in modo tale da poter giustificare la repressione militare in corso nelle province contro le forme di lotta.

Per comprendere le accuse in campo, è necessario esaminare il luogo e la modalità dell’incidente. Nella regione i maoisti da anni combattono il governo e, prendere di mira le ferrovie, è una delle pratiche di lotta utilizzate. Nello stesso stato del West Bengal, infatti, il 27 ottobre dello scorso anno, i guerriglieri rossi bloccarono un treno per diverse ore. Azioni di disturbo contro le ferrovie sono state commesse anche in altri stati, ad esempio, lo scorso 20 maggio nel Bihar sono stati incendiati vagoni merci, il 22 aprile 2009 furono sequestrati 250 passeggeri nel Jharkhand e, nello stesso stato, un evento analogo accadde nel marzo 2006.

Gli episodi sopra citati, dunque, sono avvenuti negli stati del West Bengal, Bihar e Jharkhand, vale a dire nelle regioni nord orientali del paese, zone che appartengono a quel che i media indiani definiscono il “corridoio rosso”. I ribelli maoisti sono distribuiti nel subcontinente lungo una sorta di fascia, specialmente ad oriente in Orissa, Chhattisgarh e Andhra Pradesh, vicino al confine con il Nepal nell’Uttar Pradesh, nel centrale Madhya Pradesh, fino alle aree più occidentali del Karnataka e del Maharashtra.

I maoisti indiani, che prendono il nome di naxaliti dal remoto villaggio di Naxalbari dove la ribellione ebbe origine nel 1967, sono radicati in molti stati e la loro determinazione preoccupa il governo di New Delhi. Il primo ministro indiano Manmohan Singh, nell'aprile 2006, vedendo crollare la monarchia del Nepal sotto la pressione dei maoisti, definì i ribelli indiani “la più grave minaccia alla sicurezza del paese”.

Il conflitto tende sempre di più ad acuirsi e infatti, dall'inizio dell'anno, gli attacchi rivendicati dai maoisti sono stati numerosi. Il 15 febbraio a Silda, nel West Bengal, sono stati uccisi 24 paramilitari; il 4 aprile a Koraput, nell'Orissa, è stato fatto esplodere un convoglio con 9 soldati e, in maniera analoga, l'8 maggio, nel Chhattisgarh, sono rimasti vittime 8 militari. Quest'anno poi ha avuto luogo anche l'attacco più cruento finora mai sferrato dai maoisti, avvenuto il 6 aprile nel distretto di Dantewada con l’uccisione di 75 paramilitari.

Tali agguati dimostrano che l'operazione militare “Green Hunt”, avviata dal governo nel novembre 2009, non sconfigge i maoisti; anzi, ha perfino incrementato il livello di scontro. Considerato il gran numero di soldati uccisi negli ultimi mesi, i guerriglieri reagiscono alle forze armate.

Ma cosa rivendicano i maoisti? Per poter rispondere la scrittrice indiana Arundhati Roy ha svolto un viaggio nei villaggi della regione del Dantewada, cuore della guerriglia. Grazie a tale esperienza, lo scorso 29 marzo ha pubblicato sulla rivista Outlook un lungo saggio, “Walking with the comrades”, in cui racconta i volti dei maoisti. Devono difendere le loro terre e considerano il governo un nemico, perché legato alle grandi compagnie interessate solamente alle risorse minerarie. È uno scontro frontale, tra un’India che si esprime in termini di Pil e sviluppo e, al polo opposto, un’altra India che lotta per la sopravvivenza.

di mazzetta

Il recente massacro israeliano a bordo di una delle navi della Freedom Flotilla ha indubbiamente scosso la palude del conflitto israelo-palestinese. L'evidenza del crimine e la sua violenza, il fatto che sia stato commesso per difendere un blocco illegale - perché lede i diritti umani dei detenuti a Gaza da Israele - e le immagini che hanno mostrato un assalto piratesco in acque internazionali, hanno avuto vasta eco. Il pessimo lavoro della propaganda israeliana, assolutamente stonata, ha ottenuto il solo risultato d'amplificarne a dismisura l’insuccesso.

A versare benzina sul fuoco è giunta l'arroganza del governo israeliano, un governo che si dice sia ostaggio dell'estrema destra e dei fanatici religiosi; destra e fanatici, in effetti, un seguito robusto ce l'hanno. A testimoniarlo ci sono il maccartismo e le aggressioni, anche fisiche, a chi si permette di dissentire; prendersi del traditore è un attimo. E' servito a poco pubblicare qualche minuto di video con “violenze” dei passeggeri, la censura del resto delle immagini ha fatto più rumore. La società dell'immagine in casi del genere si accorge dell'assenza di ciò che si aspetterebbe di vedere: non è così per le guerre, delle quali non vediamo nulla, non sentiamo mai l'opinione delle persone coinvolte e non ce ne meravigliamo affatto.

Anche il governo americano, pur proteggendo Israele (con l'aiuto dell'Italia e dell'Olanda) di fronte all'ONU, non ha potuto fare a meno di sollecitare un'inchiesta, accontentandosi anche di un'inchiesta israeliana con “osservatori” internazionali: “Ci aspettiamo che il governo israeliano conduca un'inchiesta veloce, credibile, trasparente e imparziale, che sia conforme agli standard internazionali e in grado di portare alla luce tutti i fatti che riguardano questo tragico incidente”.

Dall’insediamento di Obama questo genere di soccorsi un po' imbarazzati sono letti in Israele come la conferma del fatto che il presidente è uno sporco antisemita e un musulmano travestito, perché se fosse amico d'Israele avrebbe ignorato e basta. Ovviamente l'antisemitismo di Obama non è in questione, così come non è che gli Stati Uniti e la loro opinione pubblica siano percorsi da venti d'antisemitismo. E’ solo che dopo anni che Israele ha abusato delle leggi e della protezione occidentale, adesso è all'angolo, senza troppe opzioni praticabili.

Che gli States non siano antisemiti lo testimonia l'episodio che ha visto la decana dei corrispondenti della Casa Bianca costretta alla pensione per una battuta di pessimo gusto contro i coloni israeliani. Inutile dire che lo stesso genere d'affermazioni e ben altri livelli di razzismo sono stati tollerati per anni quando rivolti agli “islamici”. Fossero lucidi commentatori in missione, o persone travolte dalla senilità come la decana americana o come la Fallaci, sugli “islamici” hanno vomitato di tutto e hanno avuto un grande successo editoriale, con testi che possono essere considerati una specie di “I protocolli dei Savi di Teheran”, ovvero la riedizione dell'infame trucco già usato contro gli ebrei: far leva sulle pulsioni razziste per creare un nemico utile alla dittatura razzista.

Questa volta c'era da rimpiazzare il comunismo ormai evaporato e i musulmani sono andati benissimo, è bastato armarne un po' e provocarli ed ecco di nuovo l'utile nemico in splendida forma. Un nemico tanto temibile da giustificare l'occupazione delle pietraie afgane più a lungo della permanenza in Vietnam, passando per la demolizione dell'Iraq e molto altro.

Non c'è stata nessuna sanzione per chi ha vomitato razzismo sugli immigrati islamici, per chi li ha accusati di essere quinte colonne di chi progettava il “califfato” e la conquista dell'Europa. L'unico giornalista occidentale punito per le sue spudorate invenzioni é stato Renato Farina, subito premiato però con l'elezione in Parlamento, dove ora continua come se niente fosse ad informare i colleghi della grande minaccia. Sarebbe stato opportuno invece il contrario, ma l'aria che tira nel nostro paese la consociamo tutti e l'aria che tirava negli Stati Uniti ai tempi di Bush pure.

Quello che scoraggia è vedere che l'aria non è cambiata molto nemmeno negli Stati Uniti di Obama, che infatti su certe questioni sul piano internazionale si trova isolato, in compagnia del nostro paese e di pochi altri, come accadeva a Bush. Non deve stupire, perché del cambiamento annunciato da Obama non si è vista traccia. L'Iraq è ancora occupato e per niente sicuro, l'Afghanistan del “Surge 2, la vendetta” vede i talebani in discreta forma e il paese è guidato da un presidente che non ha alcuna autorità fuori da Kabul e che gli stessi americani hanno accusato di aver vinto le ultime elezioni con i brogli e la frode.

In più la guerra americana si è estesa al Pakistan e allo Yemen, proprio mentre la crisi batte forte alle porte e, pur distraendo gli americani dai teatri di battaglia, svuota le casse. Un vero problema esistenziale per un apparato bellico costosissimo che assorbe più della metà delle spese militari del mondo, costi delle guerre a parte. Anche Guantanamo è ancora aperta e si parla di Baghram in Afghanistan come della nuova Abu Ghraib.

Ancora tortura, ancora l'uso di espedienti giuridici del tutto illegali, come la creazione di una categoria giuridica di fantasia per i nemici catturati, che non sono criminali e nemmeno prigionieri di guerra: sono solo senza diritti destinati a vivere in luoghi sottratti a ogni giurisdizione che non sia quella militare. Per questo gli americani hanno detenuto parecchi innocenti per anni, cui non è nemmeno permesso fare appello; devono solo aspettare e sperare che gli americani prima o poi li liberino.

È la mancata soppressione di questa invenzione bushista la causa della permanenza di Guantanamo, non certo la paura che i “terroristi” fuggano dalle carceri americane, che tra i milioni di ospiti hanno personaggini che il feroce saladino se lo mangiano a colazione, ma che non riescono ad evadere dalle carceri di massima sicurezza.

Ora che l'ex-presidente Bush si è lasciato scappare che è vero che ha autorizzato la tortura e che lo rifarebbe, mandando in malora anni di negazionismo della sua amministrazione, la questione si salda con un'altra certezza: quella che l'amministrazione Bush (con lo zampino del governo Berlusconi e la complicità di quello di Blair) abbia falsificato brutalmente e dolosamente le “prove” con le quali ha giustificato l'aggressione all'Iraq, aggressione che di conseguenza si configura come un crimine contro l'umanità. Altro che guerra preventiva, altra categoria giuridica fantasy coniata e affermatasi recentemente.

Una posizione imbarazzante quella degli Stati Uniti, che però non sembrano voler affrontare la questione concludendo che, in ogni caso, “abbiamo fatto bene ad abbattere Saddam”. Sarà forse vero, ma non sposta i termini della questione e qualcuno in Israele si è risentito che proprio gli americani si siano messi a obiettare chiedendo inchieste e mettendo in questione ciò che fino a l'altro ieri non è mai stato minimamente in questione.

In effetti, c'è da chiedersi quando un paese - o un gruppo di paesi o un'organizzazione internazionale - si rivolgeranno mai al governo americano dicendo a proposito dell'invasione dell'Iraq: “ Ci aspettiamo che il governo americano conduca un'inchiesta veloce, credibile, trasparente e imparziale, che sia conforme agli standard internazionali, in grado di portare alla luce tutti i fatti che riguardano questo tragico incidente”. Sarebbe interessante leggere le risultanti di una simile inchiesta..

 

 


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