di Luca Mazzucato

L'Egitto ha aperto il valico di Rafah con la Striscia di Gaza in maniera definitiva. Il confine era stato parzialmente riaperto senza clamori subito dopo l'attacco israeliano alla nave Gaza Flotilla, ma l’altro ieri il portavoce del Ministro degli Esteri egiziano ha annunciato la sua apertura ufficiale. La reazione all'eccidio dei nove attivisti turchi e americani per mano israeliana sta dunque ridisegnando gli equilibri diplomatici nella regione. Persino Israele, sotto la forte pressione americana, sta ripensando il blocco imposto alla Striscia.

Senza la partecipazione attiva del regime di Mubarak, Israele non sarebbe mai riuscito a mantenere Gaza sotto assedio. Ma la mobilitazione di massa in tutto il mondo islamico, seguita ai drammatici eventi della settimana scorsa, sta dando i suoi primi frutti e il dittatore egiziano ha dunque deciso di cambiare precipitosamente rotta. Il portavoce del governo egiziano, Hossam Zaki, ci tiene a mettere in chiaro che “l'Egitto è lo Stato che sta rompendo l'embargo. Non permetteremo all'occupante israeliano di evadere le proprie responsabilità”.

Per il momento, soltanto i palestinesi dotati di permessi speciali possono lasciare la Striscia: gli studenti e i malati. Da sette giorni folle di palestinesi sono ammassate da entrambi i lati del confine, nella speranza che il confine venga aperto per tutti. Il governo turco continua a premere per l'apertura totale di Rafah alle persone e alle merci e il premier Erdogan annunciava lunedì che la Turchia è pronta a fornire a Gaza “tutto quello che serve”, incluso cibo e materiali da costruzione.

L'apertura unilaterale di Rafah da parte egiziana arriva proprio nel giorno in cui il vicepresidente americano Joe Biden incontra il presidente egiziano Mubarak a Sharm-el-Sheikh, segno che la mossa ha il pieno sostegno della Casa Bianca. Gli Stati Uniti, inizialmente appiattiti sulle posizioni israeliane, stanno ora premendo per un'indagine internazionale sul massacro degli attivisti a bordo della Gaza Flotilla, una delle cui vittime è un cittadino turco-americano.

Il premier israeliano Netanyahu sta tentando il tutto per tutto per bloccare l'indagine internazionale, avviando nel frattempo un'indagine interna come segno di buona volontà. Molti dubbi rimangono sugli effetti pratici che un'indagine internazionale e imparziale potrebbe comunque portare. Basta ricordare la recente Commissione Goldstone dell'ONU sull'ultima invasione israeliana di Gaza. L'establishment militare e governativo israeliano fu riscontrato colpevole di crimini contro l'umanità (così come Hamas). Ma nessuno è stato ancora incriminato.

Una parziale buona notizia arriva finalmente anche dal governo israeliano. In piena sindrome di accerchiamento, Netanyahu sente montare la pressione per la riapertura dei confini con Gaza e sta facendo qualche timido passo in questa direzione, dopo anni di muro contro muro.

Poche ore prima dell'incontro tra Obama e il Presidente palestinese Mahmoud Abbas, Netanyahu ha annunciato che Israele permetterà l'ingresso di snacks a Gaza.

Anche se suona come un macabro scherzo, il gesto potrebbe finalmente aprire il dialogo con Abbas per un accordo sul controllo dei confini. Nel frattempo, Obama continua a ripetere che il blocco di Gaza deve finire e ha stanziato quattrocento milioni di dollari in aiuti da dividere tra West Bank e Gaza, anche se non è chiaro chi terrà i contatti con Hamas per consegnare gli aiuti nella Striscia, visto che gli USA considerano il partito islamico un'organizzazione terroristica.

Patatine, biscotti, frutta e humus in scatola, bibite gassate e succhi di frutta stanno dunque per inondare Gaza City, per la gioia dei bambini che purtroppo se li dovranno gustare tra le macerie, visto che manca il cemento per ricostruire la città, bombardata senza pietà nella recente invasione israeliana. Il Ministro del Tesoro palestinese, Libdeh, la prende con filosofia: “Ci stanno mandando l'antipasto. Ora aspettiamo il primo, la fine dell'assedio”.

di Michele Paris

Sono stati necessari mesi di negoziazioni con le potenze più recalcitranti, ma alla fine gli Stati Uniti sono riusciti a lanciare una nuova intimidazione nei confronti dell’Iran e a far approvare la quarta serie di sanzioni economiche presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Con dodici voti su quindici a favore, le misure restrittive adottate mercoledì fanno segnare un ulteriore passo avanti nell’escalation delle tensioni con Teheran intorno al programma nucleare della Repubblica Islamica.

I nuovi provvedimenti, sia pure mitigati dalla mediazione di Cina e Russia, aprono la strada a disposizioni decisamente più dure da parte dei singoli governi occidentali e rischiano seriamente di vanificare i progressi fatti segnare solo poche settimane fa dal negoziato promosso da Brasile e Turchia.

Proprio questi ultimi due paesi, tra gli attuali membri provvisori del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sono stati gli unici a votare contro le sanzioni. Il Libano, in seguito alle pressioni esercitate personalmente del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, sul presidente Michel Suleiman, si è invece astenuto. La decisione libanese è giunta solo dopo un acceso dibattito interno al proprio gabinetto, del quale fanno parte ministri del partito filo-iraniano Hezbollah. I primi due round di sanzioni, nel 2006, erano stati approvati all’unanimità, mentre il terzo, nel 2008, aveva fatto registrare la sola astensione dell’Indonesia.

L’obiettivo primario delle nuove sanzioni è rappresentato in sostanza dalle attività militari, commerciali e finanziarie dei Guardiani della Rivoluzione che controllano il nucleare iraniano e che negli ultimi anni hanno assunto un ruolo centrale nella gestione del sistema economico del paese. Qualche decina di aziende statali sono finite su una lista nera, così come sono state confermate le restrizioni già adottate verso 40 personalità legate allo stesso programma nucleare, alle quali va aggiunto ora Javad Rahiqi, direttore del centro di ricerca sul nucleare di Isfahan.

Navi e aerei diretti in Iran potranno inoltre essere ispezionati in paesi terzi nel caso emergessero sospetti che le merci trasportate abbiano a che fare con lo sviluppo del programma nucleare. Non è prevista comunque l’autorizzazione a impiegare la forza per ispezionare le navi in acque internazionali. Alle compagnie energetiche iraniane non sarà poi consentito di investire all’estero in centrali nucleari, così come nell’estrazione di uranio e in altri progetti legati alla tecnologia nucleare. Sul fronte militare, saranno bandite le vendite di armi pesanti, una condizione criticata anche da alcuni sostenitori delle sanzioni, in quanto proprio il mancato accesso ad armi convenzionali potrebbe spingere l’Iran a sviluppare armi atomiche.

Di fronte alle resistenze cinesi, è invece caduta la proposta americana di implementare misure nei confronti delle banche e delle compagnie assicurative iraniane. Solo una banca alla fine è finita sulla lista nera delle società approvata dall’ONU. Sia Pechino che Mosca si sono adoperate soprattutto per proteggere i rispettivi interessi economici che le legano a Teheran: la Cina, ad esempio, riceve dall’Iran il dieci per cento del petrolio che importa. Il passaggio di sanzioni relativamente leggere, insomma, sembra essere stato valutato come il male minore rispetto ad un possibile attacco americano o israeliano alle installazioni nucleari iraniane nel prossimo futuro. La sostanza delle sanzioni, in ogni caso, risulta di minore importanza rispetto alla scelta di chiusura al dialogo scelta dagli Stati Uniti e dall’ONU.

Mentre il Congresso USA si appresta ora a varare un pacchetto di misure unilaterali più pesanti, al termine della votazione i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza hanno rilasciato una dichiarazione separata che ribadisce il desiderio di proseguire sulla strada diplomatica per risolvere la crisi. Allo stesso modo, Hillary Clinton dalla Colombia si è detta convinta che Brasile e Turchia continueranno a giocare un ruolo cruciale nello sforzo diplomatico verso l’Iran.

Una schizofrenia quella del governo americano suggellata dallo stesso presidente Obama, il quale ha dichiarato che la sua amministrazione “fin dall’inizio si è resa disponibile a perseguire una soluzione diplomatica”, mentre l’Iran si è rifiutato di rispondere alle aperture occidentali. Una ricostruzione questa che ribalta completamente la realtà dei fatti degli ultimi mesi, segnati precisamente dalla chiusura totale di Washington ai segnali di disponibilità provenienti da Teheran.

Sia pure dovendo far fronte a molte pressioni interne e alla tradizionale profonda diffidenza verso gli USA negli ambienti più conservatori, il governo iraniano aveva infatti lanciato segnali significativi fin dallo scorso autunno. In una conferenza promossa dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), l’Iran aveva accettato la proposta occidentale di spedire una parte del proprio uranio a basso livello di arricchimento all’estero per ottenere in cambio combustibile nucleare che avrebbe alimentato un reattore da utilizzare a scopi medici.

Dopo che la trattativa si era arenata, la proposta di accordo era riemersa recentemente grazie all’intervento del premier turco Erdogan e del presidente brasiliano Lula. Gli Stati Uniti hanno però ignorato l’accordo, del quale non si è praticamente trovata traccia nemmeno nella risoluzione finale approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. L’amministrazione Obama, così, ha chiuso qualsiasi spiraglio al dialogo, sostenendo che l’Iran possiede oggi una quantità maggiore di uranio arricchito rispetto a qualche mese fa e che, anche in caso di accordo sul compromesso mediato da Brasile e Turchia, non avrebbe comunque accettato la richiesta di fermare il proprio programma di arricchimento, secondo gli USA finalizzato alla realizzazione di armi atomiche.

Le nuove sanzioni, al di là della dubbia efficacia, sembrano rispondere ad un piano teso ad isolare Teheran e possibilmente a creare un clima propizio all’uso della forza, con lo scopo ultimo di installare un regime più favorevole all’occidente. Di questo disegno fa parte anche il ripudio più o meno ufficiale di un rapporto dell’intelligence americana del 2007, che rivelava come la leadership iraniana aveva in realtà messo da parte i progetti di sviluppo di un’arma nucleare. Questo rapporto, contestato da Israele e da altre agenzie occidentali, finora ha, di fatto, rappresentato uno degli ostacoli principali ad un attacco militare.

Se infine gli USA hanno potuto contare sul voto favorevole di Russia e Cina all’interno del Consiglio di Sicurezza per aumentare la pressione su Teheran, non è detto che le sanzioni rappresentino la mossa più efficace per la risoluzione dell’impasse iraniana. Pur messa da parte dagli ultimi sviluppi, è invece l’intesa raggiunta da Brasile e Turchia lo scorso mese di maggio ad apparire come un importante successo diplomatico, svincolato dalle tradizionali potenze e che potrebbe addirittura prefigurare nuovi equilibri su scala planetaria. Per il momento, quanto meno, ha contribuito a rivelare l’immutata intransigenza degli Stati Uniti verso quei paesi non graditi che hanno scelto un percorso divergente dai loro interessi strategici.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Come manipolare l'opinione pubblica europea per creare consenso alla guerra in Afghanistan: ecco le linee guida della CIA, in un documento top-secret pubblicato su Wikileaks.org, il sito canaglia per eccellenza. Dopo la caduta del governo olandese sul rinnovo della missione militare in Afghanistan, l'intelligence americana ha preparato un manuale per evitare che il pericolo si ripeta in Francia e Germania. Un utile compendio per capire cosa c'è sotto le notizie che dal fronte afghano arrivano sui nostri teleschermi.

La guerra in Afghanistan dura ormai da oltre otto anni: ha superato la durata del Vietnam e della Corea, diventando la più lunga guerra che gli Stati Uniti abbiano mai intrapreso. La drammatica escalation annunciata recentemente da Barack Obama richiede un notevole sforzo anche da parte degli altri alleati della coalizione internazionale. La crescente insofferenza dell'opinione pubblica nei confronti della guerra potrebbe mettere in forse il contributo di alcuni Paesi europei all'occupazione americana. Un problema che gli USA non possono permettersi di affrontare proprio ora.

Ecco che, come ai tempi della strategia della tensione, entra in campo la CIA per manipolare l'opinione pubblica in favore della guerra. Quando si tratta di guerra, il silenzio è d'oro: secondo la CIA la migliore strategia è che della guerra non se ne parli affatto, lasciando i governi liberi di fare i loro sporchi affari. “Il silenzio sulla missione in Afghanistan,” leggiamo dal dossier, “ha permesso ai leader di Francia e Germania di ignorare l'opposizione popolare e aumentare il loro contributo alla missione ISAF. Berlino e Parigi mantengono il terzo e quarto contingente militare (il secondo è quello britannico, ndr), nonostante l'opposizione dell'80% degli intervistati nel sondaggio dell'autunno 2009. Ma le morti tra i militari potrebbero rafforzare l'opposizione.”

Gli spioni notano con preoccupazione che dopo la caduta del governo olandese sul rinnovo del contingente militare in Afghanistan “i leader in altri Paesi potrebbero citare questo precedente per ascoltare i propri elettori” e ritirare le proprie truppe. Il rimedio è “cucire su misura il messaggio” per convincere l'opinione pubblica nei vari Paesi europei che “la guerra in Afghanistan coincide con i propri interessi interni.”

Dopo una dettagliata analisi basata sui sondaggi, il dossier della CIA propone due specifiche strategie per Francia e Germania. Dato che “i francesi si preoccupano di civili e profughi, sottolineare che gli afghani appoggiano largamente la missione” è la tattica vincente. Allo stesso tempo, “la prospettiva che il ritorno dei Talebani cancelli il progresso compiuto nell'educazione femminile provocherà indignazione in Francia e darà un motivo agli elettori per appoggiare la giusta causa, nonostante le perdite umane.” Un episodio in particolare dimostra la bontà di quest'ipotesi: “La controversia mediatica generata dalla decisione di Parigi di espellere 12 rifugiati afghani suggerisce che le storie di profughi afghani fanno presa sul pubblico francese.”

In Germania la situazione è completamente diversa. Secondo i sondaggi, “gli oppositori in Germania temono che la guerra non sia un problema tedesco, sia uno spreco di risorse e sia sbagliata per principio.” Dunque la propaganda deve fare perno su argomenti diversi da quelli francesi. “Messaggi che illustrino il fatto che una sconfitta in Afghanistan aumenterebbe l'esposizione della Germania al terrorismo, all'oppio e all'arrivo di profughi, potrebbero aiutare a convincere gli scettici. Insistere sull'aspetto umanitario della guerra allevierebbe la contrarietà dei tedeschi ad ogni tipo di guerra, come per gli interventi militari nei Balcani negli anni '90.”

Ma la CIA ha un asso nella manica: Barack Obama. Secondo i sondaggi, tre francesi e tedeschi su quattro credono che il Presidente americano sia in grado di risolvere la crisi afghana. Gli agenti segreti mostrano come una richiesta diretta di aiuto da parte di Obama e una critica esplicita degli alleati che non lo seguono aumenti di molto l'appoggio popolare all'invio di nuove truppe. Se i leader dei due Paesi propongono un aumento del contingente militare, possono aumentare fino al 15% il consenso ricordando ogni volta che la richiesta proviene da Obama in persona.

Infine, la CIA ricorda che le donne afghane sono lo strumento più potente per aumentare il consenso alla guerra. “Opportunità televisive in cui donne afghane condividano le loro storie con donne francesi, tedesche o di altri Paesi europei possono rovesciare lo scetticismo delle donne verso la missione militare”; donne che sono contrarie alla guerra in maniera nettamente superiore agli uomini.

Se vedrete in televisione storie di donne liberate dal burqa (nonostante il burqa sia sempre imposto alla totalità delle donne afghane), di campi di papaveri dati a fuoco (nonostante la produzione di oppio sia triplicata dall'invasione americana del 2001), di profughi che finalmente tornano a casa (nonostante la guerra abbia causato milioni di rifugiati), pensate a quanto manca al prossimo voto per il rinnovo della missione militare in Parlamento.

di Michele Paris

La settimana scorsa, una serie di avventate dichiarazioni da parte di esponenti di spicco del nuovissimo governo conservatore ungherese, sulla presunta situazione economica del paese, ha scatenato il panico sui mercati internazionali, precipitando l’euro ai minimi storici nei confronti del dollaro. Anche se in parte ingiustificato, e perciò rientrato immediatamente, il lamento di Budapest ha contribuito tuttavia ad amplificare le preoccupazioni per i livelli raggiunti dal “debito sovrano” nei paesi dell’Unione Europea. Timori alimentati ormai a dismisura dai media, dai governi e dalle istituzioni sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale e che preannunciano minacciosamente una nuova durissima stagione di tagli indiscriminati alla spesa pubblica.

A causare lo scompiglio era stato inizialmente, Lajos Kosa, il vice-presidente del partito di governo Fidesz, il quale aveva sostenuto che l’Ungheria rischiava una crisi simile a quella greca, con un deficit di bilancio che nel 2010 avrebbe potuto toccare il 7,5 per cento del PIL. Poco più tardi era toccato a un portavoce del primo ministro Viktor Orban rincarare la dose. L’Ungheria appariva cioè in una situazione molto delicata, possibilmente a rischio di default sul proprio debito. Secondo il nuovo esecutivo di centro-destra, il governo socialista uscente aveva manipolato il bilancio dello stato, occultando un quadro complessivo ben più grave del previsto.

Questi allarmi hanno causato il crollo del fiorino ungherese, seguito a ruota dall’euro, e il rialzo record degli interessi sui titoli di stato decennali. Già nel fine settimana, l’UE e il FMI si sono in ogni caso affrettati a gettare acqua sul fuoco per rassicurare gli investitori, mentre il governo di Budapest è stato costretto ad una mortificante marcia indietro, garantendo che l’ipotesi della bancarotta appariva ben lontana e che l’obiettivo di ridurre il deficit al 3,8 per cento del PIL entro il 2010, come stabilito dai termini del prestito internazionale negoziato nel 2008, sarebbe stato raggiunto.

Sebbene il debito dell’Ungheria non sia nemmeno paragonabile a quello della Grecia e, essendo al di fuori dell’area euro, Budapest può ricorrere alla svalutazione della propria moneta per stimolare l’economia, gli avvertimenti lanciati dal nuovo governo sorprendono fino a un certo punto. Al contrario, sono in molti a credere che essi facciano parte di una strategia ben programmata. Con l’UE e il Fondo Monetario che chiedono rigorose misure di austerity per ridurre il debito, il primo ministro Orban e il suo gabinetto si trovano costretti a muoversi su un terreno minato, fatto di pesanti tagli che rischiano di rendere da subito impopolare una coalizione che solo lo scorso mese di aprile aveva conquistato una vittoria a valanga nelle elezioni parlamentari.

Tanto più che, di fronte alla politica di rigore del governo socialista di Gordon Bajnai, il partito di Orban aveva condotto una campagna elettorale basata sulla promessa di rilancio dell’economia senza ricorrere a nuove tasse e a misure di contenimento della spesa particolarmente drastiche. La rappresentazione esagerata dello stato dell’economia ungherese è giunta così come avvertimento alla popolazione e come giustificazione dei sacrifici che stanno per arrivare. Puntualmente, infatti, dopo aver rinfrancato i creditori internazionali, il governo conservatore ha varato un pacchetto di provvedimenti punitivi che è stato subito presentato in Parlamento.

Come in molti altri paesi europei, anche in Ungheria si sta dunque per procedere con l’illusione di rivitalizzare l’economia intervenendo prematuramente sull’aggiustamento del deficit, peraltro gonfiato dall’incremento della spesa pubblica seguito alla crisi del 2008. In un paese come l’Ungheria, particolarmente colpita da una enorme bolla immobiliare e la cui ripresa appare alquanto incerta (+0,1% nel 2010 secondo le stime di Goldman Sachs), una ulteriore compressione della domanda interna, prodotta dai tagli alla spesa, rischia di prolungare drammaticamente il periodo di recessione in corso.

Un percorso che sarà segnato da elevatissimi livelli di disoccupazione e da un generale peggioramento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione. Su questa strada si sono già incamminati non solo i paesi più a rischio, come Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda, ma anche le economie europee più forti. Solo pochi giorni fa, il FMI ha nuovamente incoraggiato i paesi dell’area euro ad adottare nuovi tagli per non mettere a repentaglio la fiducia dei mercati finanziari. Corollario dell’austerity, naturalmente, anche “l’apertura dei mercati” e “la deregolamentazione del mercato del lavoro”.

Per quanto il Segretario al Tesoro americano, Tim Geithner, abbia chiesto ai paesi europei di stimolare la loro domanda interna, sia pure per favorire l’export a stelle e strisce, la tendenza da questa parte dell’oceano sembra invece andare dalla parte opposta. In concomitanza con le iniziative di Budapest, i governi conservatori di Londra e Berlino hanno annunciato i loro piani d’intervento per ridurre la spesa pubblica.

Ricalcando un motivo ormai consueto, il primo ministro David Cameron ha definito la situazione finanziaria britannica “peggiore del previsto”, costringendo il nuovo governo di coalizione ad operare tagli selvaggi per riportare il deficit sotto controllo. Se anche l’alleato dei conservatori, il liberale Nick Clegg, ha assicurato che la Gran Bretagna non rivivrà l’incubo degli anni Ottanta sotto la guida di Margaret Thatcher, le prospettive non sono incoraggianti.

Allo stesso modo, nubi minacciose si stanno per abbattere sui lavoratori tedeschi, dove il cancelliere Angela Merkel ha appena presentato un piano di austerity che prevede un colossale taglio alla spesa pubblica, e in particolare ai generosi programmi sociali, pari a 85 miliardi di euro entro il 2014. Il programma del governo tedesco include, tra l’altro, la soppressione di dieci mila posti di lavoro nel settore pubblico e la drastica riduzione dei sussidi alle famiglie e ai disoccupati. Per non guastare i rapporti della Merkel con l’alleato ultraliberista Guido Westerwelle, leader del Partito Liberale Democratico (FDP), non è previsto invece alcun aumento delle tasse, nemmeno per i redditi più alti.

di Michele Paris

Mentre tutto indica che le operazioni per contenere la fuoriuscita di greggio nel Golfo del Messico potrebbero proseguire senza successo ancora per parecchi mesi, continuano ad emergere sempre più chiaramente i legami tra la potente industria petrolifera e la politica americana. Contributi elettorali nell’ordine di centinaia di milioni di dollari, aggressive attività di lobbying e un incessante scambio di persone e ruoli tra i vertici delle corporation del petrolio e le agenzie governative incaricate di sorvegliare l’attività estrattiva, hanno contribuito a creare un ambiente nel quale il rispetto delle regole è stato puntualmente disatteso, causando il peggiore disastro ambientale della storia americana.

L’impulso dato dalle ultime due amministrazioni statunitensi alle esplorazioni al largo delle coste del paese ha non a caso coinciso con un colossale esborso di denaro da parte di compagnie come BP per oliare i meccanismi della politica d’oltreoceano. Secondo i dati raccolti dal Center for Responsive Politics, istituto di ricerca indipendente di Washington, negli ultimi dieci anni l’industria del gas e del petrolio ha versato oltre 250 milioni di dollari alla classe politica americana sotto forma di contributi diretti ai candidati o ai loro comitati elettorali.

Ancora più consistenti appaiono poi le uscite destinate a sovvenzionare i lobbisti reclutati per curare i loro interessi nella capitale. Solo nell’ultimo anno, sono stati 174 i milioni di dollari fatturati dalle svariate società di consulenza alle compagnie operanti nel settore energetico, di cui 16 milioni alla sola BP. A partire dal 1998, la cifra complessiva spesa per influenzare le decisioni prese dalla politica in questo ambito ha toccato addirittura il miliardo di dollari.

Il risultato di questa pioggia di dollari è stata la certezza di poter operare sostanzialmente in un regime di autoregolamentazione, come hanno dimostrato in particolare recenti indagini giornalistiche sull’agenzia governativa preposta alle concessioni per le trivellazioni (Minerals Management Service, MMS). Pratica comune per quest’ultima era il rilascio di licenze per esplorazioni off-shore senza richiedere alle aziende petrolifere i permessi obbligatori e, soprattutto, senza svolgere le indagini ambientali stabilite per legge o accertare le relative misure di sicurezza, che avrebbero dovuto prevenire esplosioni e fuoriuscite di greggio.

Alcune delle donazioni più generose sono state ovviamente riservate a quei membri del Congresso che siedono nelle commissioni che si occupano di legiferare in campo energetico. I senatori facenti parte della Commissione per l’Energia e le Risorse Naturali, così, hanno finora ricevuto dalle grandi aziende che estraggono gas e petrolio in media 52 mila dollari a testa per la campagna elettorale in corso. Per maggiore scrupolo, tuttavia, nemmeno gli altri parlamentari sono stati trascurati, tanto che quest’anno il 78 per cento dei membri della Camera dei Rappresentanti e l’84 per cento dei senatori ha incassato fondi da queste aziende.

Sebbene i beneficiari privilegiati del denaro erogato dai grandi interessi petroliferi siano tradizionalmente i repubblicani, i democratici sono stati tutt’altro che trascurati. Barack Obama nel 2008 è stato il candidato ad una carica federale ad ottenere più denaro da questo settore del business con quasi un milione di dollari, subito dopo il suo sfidante John McCain. Un feeling particolare univa però il futuro presidente con la BP, la quale riservò all’allora senatore dell’Illinois l’importo più alto in termini di contributi elettorali assegnati rispetto a qualsiasi altro singolo candidato ad una carica nazionale.

Incuranti delle critiche provocate dall’incidente accaduto nel Golfo del Messico il 20 aprile scorso, le corporation del petrolio continuano a finanziare la corsa al Congresso dei politici americani. Molti di essi hanno già ricevuto donazioni che superano singolarmente i centomila dollari. È il caso della senatrice democratica dell’Arkansas Blanche Lincoln (280 mila dollari), membro della Commissione per l’Energia e le Risorse Naturali, alle prese con una complicata campagna per la sua rielezione. Oppure dei senatori repubblicani David Vitter e Lisa Murkovski (200 mila dollari ciascuno), rappresentanti di due degli stati maggiormente interessati dalle trivellazioni come Louisiana e Alaska.

Oltre al denaro direttamente versato nella competizione politica, vi sono poi i già accennati legami che contraddistinguono tutta una schiera di lobbisti e dirigenti delle agenzie governative che regolano l’attività di estrazione. Particolarmente inquietante è la situazione del Dipartimento degli Interni, guidato dall’ex senatore del Colorado Ken Salazar, egli stesso molto vicino all’industria petrolifera e già ardente sostenitore delle trivellazioni off-shore. Salazar, solo per citare un episodio,
lo scorso anno scelse come vice-assistente segretaria per la gestione delle terre e delle risorse naturali Sylvia Baca, ex manager proprio della BP.

Anche lo stimato Segretario all’Energia di Obama, Steven Chu, sembra avere qualche scheletro nell’armadio. All’università di Berkeley, il fisico premio Nobel era a capo di un istituto di ricerca che aveva ottenuto un finanziamento di 500 milioni di dollari dalla BP. Entrato a far parte della nuova amministrazione democratica, Chu avrebbe poi nominato alla carica di sottosegretario per le questioni scientifiche Steven Koonin, a sua volta già a libro paga della BP nel settore ricerca.

Già la precedente amministrazione Bush, peraltro, si era distinta per questo intenso scambio di ruoli. Eclatante fu il caso di Steve Griles, ex lobbista per l’industria del carbone, vice-segretario agli Interni e membro della task force per l’energia voluta da Dick Cheney. Dopo aver lasciato la politica, Griles fondò una propria società di lobbying operante nel settore energetico, prima di finire condannato a dieci mesi di carcere per aver ostacolato la giustizia nel corso dell’indagine che portò alla condanna di un altro famigerato lobbista, Jack Abramoff.

L’interesse delle aziende petrolifere e delle società di lobbying di Washington nelle personalità che hanno occupato importanti cariche politiche è d’altra parte risaputo. L’accesso alle stanze del potere può essere assicurato precisamente da chi ha avuto incarichi all’interno del governo federale e il cui mandato viene spesso considerato solo un trampolino di lancio per una futura e ben remunerata carriera di lobbista nel settore privato. Sempre secondo i dati del Center for Responsive Politics, dei 37 lobbisti registrati per la BP, 22 hanno avuto incarichi governativi o parlamentari.

Per quanto l’opinione pubblica americana sia furiosa nei confronti delle pratiche che hanno prodotto deleterie collusioni tra la politica e le compagnie petrolifere, tale attitudine appare talmente radicata da mettere a rischio l’accertamento delle responsabilità nel disastro del Golfo del Messico. A conferma di ciò, qualche settimana fa è giunta la discutibile nomina da parte di Obama di uno dei due direttori della speciale commissione incaricata di fare chiarezza sull’incidente dell’aprile scorso. Assieme all’ex senatore e governatore della Florida, il democratico Bob Graham, a guidare la commissione sarà William K. Reilly, già capo dell’agenzia di protezione ambientale (EPA) ma anche attuale membro del consiglio di amministrazione del gigante del petrolio ConocoPhillips.


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