di Eugenio Roscini Vitali

Gerusalemme potrebbe autorizzare un blitz per liberare Gilad Shalit, il soldato delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) catturato il 25 giugno 2006 da un commando palestinese a Kerem Shalom, kibbutz  non lontano dall’omonimo varco al confine con l’Egitto e la Striscia di Gaza. Sembra infatti che, per paura di un’imminente azione di forza, i carcerieri costringerebbero il soldato israeliano a cambiare rifugio anche due volte alla settimana e, per eliminare ogni forma di collaborazione con il nemico ed evitare possibili fughe di notizie sui nascondigli usati, le forze di sicurezza palestinesi avrebbero dato il via ad una massiccia ondata di arresti.

La notizia, pubblicata da un portale d’informazione internet con base a Gaza, rilancia quanto rivelato da una fonte interna alle brigate Ezzedine al-Qassam, il gruppo radicale ufficialmente conosciuto come braccio armato di Hamas. In passato era stato lo stesso movimento di resistenza islamico a denunciare la presenza di numerose spie israeliane tra la popolazione palestinese della Striscia di Gaza e i molteplici tentativi, tutti sventati, con i quali gli uomini dello Shin Bet avrebbero cercato di chiudere la questione Shalit.

Le trattative per il rilascio del caporale israeliano sono praticamente ad un punto morto e neanche la mediazione russa sembra aver ammorbidito la posizione palestinese. Durante la visita in Siria dell’11 maggio scorso, il presidente russo Medvedev, aveva chiesto al leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, l’immediato rilascio del soldato israeliano. Ma secondo il portavoce del Cremlino, Natalya Timakova, il movimento islamico non è disposto a fare alcuna concessione senza aver prima raggiunto un accordo “onorevole” sullo scambio di prigionieri con Israele.

A margine dell’incontro di Damasco, Izzat al-Rishq, esponete in esilio del comitato politico di Hamas, ha accusato Benjamin Netanyahu di voler far fallire l’accordo sullo scambio dei prigionieri e ha etichettato la posizione israeliana come un evidente tentativo di voler chiudere la crisi con un accordo “vuoto”. Dopo mesi di trattative, lo scorso novembre l’Egitto e la Germania avevano mediato un’intesa di massima, che prevedeva la liberazione di Gilad Shalit in cambio di più di mille detenuti palestinesi; ma una serie di dettagli relativi al numero e alla natura delle persone da liberare e la mancanza del nome di alcune figure di spicco nella lista dei prigionieri, ha fatto naufragare il tentativo.

Dal caso del sergente Nachson Wachsman, catturato da Hamas il 4 ottobre 1994, Gilad Shalit è il primo soldato israeliano caduto nelle mani dei palestinesi. Shalit è stato rapito all’alba del 25 giugno 2006 da un commando di guerriglieri palestinesi, penetrato in territorio israeliano attraversato un tunnel scavato tra i sobborghi di Rafah e la zona di Kerem Shalom, kibbutz  a poche centinaia di metri dall’omonimo valico di passaggio che collega la Striscia di Gaza, Israele e l’Egitto. Come ritorsione all’attacco (nel quale persero la vita due soldati israeliani ed altri quattro rimasero feriti) e allo scopo di rintracciare e liberare il prigioniero, il 28 giugno 2006 Gerusalemme diede il via all’Operazione Piogge Estive, un’azione militare che nell’arco di cinque mesi causerò la morte di 402 palestinesi, 117 dei quali civili, e circa mille feriti.

Hamas ha poi diffuso notizie su Shalit durante la breve guerra civile del 2007 con Fatah e nel 2008, quando ha chiesto di riaprire le trattative ponendo come condizione per il rilascio del soldato israeliano il pagamento di un riscatto miliardario o il rilascio di 250 prigionieri. Allora fu lo Stato ebraico a tentennare e questo creò la forte reazioni della famiglia del soldato e di una buona parte della stampa israeliana. Il 2 ottobre 2009 i palestinesi hanno diffuso un video nel quale Gilad Shalit è riapparso dopo 1195 giorni di prigionia in buone condizioni e con in mano un giornale datato 14 settembre 2009; il 25 aprile 2010 Hamas ha avvertito con una videocassetta shock che il caporale israeliano non tornerà libero fin quando non verranno accettate le condizioni palestinesi.

In Israele l’opinione pubblica spinge per la liberazione di Shalit, ma Netanyahu non ha mai nascosto le sue preoccupazioni per la liberazione di personaggi di rilievo della resistenza isalmica, attivisti che potrebbero andare ad incrementare le fila dei gruppi più violenti. All’interno dell’esecutivo c’è poi chi si oppone a qualsiasi trattativa e questo mette in seria difficoltà un governo nel quale la presenza dei partiti sionisti radicali è decisiva.

Rispondendo alla linea emersa dal meeting di Ankara, nel quale Russia e Turchia hanno convenuto che il movimento di resistenza islamico non può essere escluso dal processo di pace mediorientale, il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha dichiarato che l’azione portata avanti da Hamas è equiparabile a quella del terrorismo ceceno e che il suo leader, Khaled Meshal, è paragonabile a Shamil Basayev: “I Paesi sviluppati non possono separare il terrorismo buono da quello cattivo sulla base della sua collocazione geografica”.

E per confermare la sua posizione, Lieberman ha ricordato che nella sua storia il gruppo integralista ha ucciso migliaia di innocenti, molti dei quali ebrei provenienti dai Paesi dall’ex Unione Sovietica: “Lo Stato ebraico supporta incondizionatamente la Russia nella lotta contro il terrorismo ceceno e per questo ci aspettiamo che Mosca faccia lo stesso con Israele nella lotta contro Hamas”.

 

di Marco Montemurro

La Thailandia continua a vivere ore tragiche. Negli ultimi giorni la repressione intrapresa dall’esercito ha provocato la morte di ben 37 presone tra le fila delle camicie rosse. Dopo mesi di crescente tensione, il conflitto si è trasformato in quel che molti temevano, ovvero in un bagno di sangue. E’ un dramma che sicuramente sarà ricordato a lungo.

Per evitare che il numero delle vittime continui a salire, nella notte di lunedì uno dei leaders dei manifestanti, Nattawut Saikua, ha proposto una tregua a Korbsak Sabhavasu, segretario generale del primo ministro Abhisit. Il quotidiano thailandese The Nation ha riferito infatti che, se l’esercito cessasse immediatamente gli attacchi, le camicie rosse sarebbero disposte ad abbandonare le barricate da loro erette nelle strade cittadine.

Dal 3 aprile, infatti, i sostenitori del Fronte Unito per la Democrazia sono accampati in un distretto centrale di Bangkok, un’area turistica e commerciale, che è presidiata giorno e notte da migliaia di persone decise a lottare fino a quando non sarà raggiunto il loro obiettivo, vale a dire l’immediato scioglimento del governo ed elezioni anticipate.

Finora né il governo né i manifestanti si sono mostrati seriamente intenzionati ad avviare trattative, tuttavia adesso, considerata la recente tragedia, evitare che gli scontri diventino sempre più cruenti si presenta come una priorità. Forse sarà ripreso quel dialogo che era stato intrapreso all’inizio del mese, quando una soluzione politica sembrava comparire all’orizzonte. La sera del 3 maggio, infatti, il primo ministro Abhisit Vejjajiva aveva dichiarato in televisione di essere disposto a sciogliere il governo a fine settembre, affinché si potessero svolgere nuove elezioni il 14 novembre.

La proposta inizialmente era parsa realizzabile dato che, già il giorno successivo, era stata accolta da Veera Musikapong, uno dei leaders delle camicie rosse. I problemi però non si sono fatti attendere. Subito dopo l’offerta, il governo ha aggiunto come condizione preliminare lo smantellamento delle barricate: "Se non torneranno a casa, non sono intenzionato a dissolvere il Parlamento”, così si è espresso Abhisit durante un’intervista concessa il 5 maggio al canale ASTV.

La frase da molti è stata recepita come una provocazione e, in effetti, Weng Tojirakarn, un’altro leader delle proteste, diffidando del governo, ha continuato ad incitare le camicie rosse sull’importanza di mantenere alto il livello di guardia. Di conseguenza l’ala più radicale del movimento, cominciando a dubitare del piano in atto, ha voluto porre anch’essa una loro condizione.

E’ stato richiesto pertanto al governo di imputare il segretario del Democrat Party, Suthep Thaugsuban, per la sua responsabilità nell’uccisione di 25 manifestanti, tragico evento accaduto il 10 aprile. "Non abbiamo intenzione di andare via fino a quando il governo non ammette la sua responsabilità negli scontri”, così si è espresso Panna Saengkumboon, un esponente delle camicie rosse, come la televisione Al Jazeera ha riferito il 12 maggio.

La situazione così, in breve tempo, è tornata nello stesso stato di paralisi iniziale; pericolosa premessa, poiché ha aperto la strada ai tragici scontri avvenuti recentemente. Concedendo sole poche ore di preavviso, il 12 maggio l’esercito ha imposto un minaccioso ultimatum, rifiutato del tutto dalle camicie rosse, ossia lo sgombero del distretto occupato entro la mezzanotte.

Il giorno successivo allora i militari, ormai autorizzati ad intervenire con le armi, hanno iniziato prima ad isolare l’area interrompendo le strade, i trasporti e le forniture di cibo, acqua ed elettricità e poi, al calar del sole, hanno attuato la loro strategia repressiva. Nella notte sono rimasti uccisi 10 manifestanti, un cecchino ha colpito a morte Khattiya Sawasdipol, uno dei capi, e gli scontri sono proseguiti per tutto il fine settimana.

Le camicie rosse hanno resistito sulle loro barricate e, pertanto, il bilancio delle vittime è stato drammatico. In pochi giorni sono stati uccise 37 persone e ferite un centinaio, tra cui anche quattro giornalisti, due tailandesi, un francese dell’emittente televisiva France 24 e il fotoreporter italiano Flavio Signore.

Nonostante l’esercito agisca con violenza, molti manifestanti continuano ad affermare di non essere intimoriti; anzi, sostengono di voler combattere fino alla morte, decisi nel difendere le loro ragioni. Considerata tale situazione, probabilmente Nattawut Saikua, portavoce dei manifestanti, ha richiesto un cessate il fuoco proprio per impedire un ulteriore spargimento di sangue, sempre da scongiurare.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Almeno un merito va riconosciuto al premier israeliano Netanyahu: la chiarezza. Mentre si parla di riapertura dei canali negoziali con i palestinesi, Bibi ha subito messo le mani avanti: “Continueremo a costruire a Gerusalemme,” con riferimento alle recenti polemiche sugli insediamenti ebraici nella parte araba della città. Tutto questo accade durante le celebrazioni per il Jerusalem Day, che commemora l'occupazione di Gerusalemme e la sua annessione unilaterale ad Israele nel lontano 1967.

“Non rifaremo mai di Gerusalemme una città divisa, disunita e isolata,” continua il premier durante il recente dibattito alla Knesset, ribadendo che la priorità abitativa assoluta del Paese va allo sviluppo di zone residenziali a Gerusalemme. Il ministro dell'interno Aharonovitch si spinge oltre e precisa che la priorità è la costruzione di nuove colonie per soli ebrei nella parte orientale della città.

Negli ultimi mesi si è aperta una crepa nelle relazioni diplomatiche tra Israele e Stati Uniti a causa del netto contrasto tra i due governi sull'espansione delle colonie ebraiche nei Territori Occupati, in particolare a Gerusalemme Est. L'annuncio di un piano di demolizioni di case nei quartieri arabi della città, per rimpiazzare case palestinesi con nuovi insediamenti di coloni ebrei, aveva sollevato un coro di condanna unanime in tutto il mondo, portando alla sospensione degli ordini di demolizione. Il ministro Aharonovitch ha spiegato mercoledì che “le demolizioni sono state posticipate per non rovinare gli sforzi dell'inviato americano George Mitchell tesi a riprendere i negoziati di pace. Ma,” prosegue il ministro, “se c'è stato un blocco delle demolizioni, ora quel blocco finisce.” E avanti con le ruspe!

Come al solito, il monito del Segretario di Stato Clinton è arrivato a stretto giro di boa: “Chiediamo che entrambe le parti evitino azioni provocatorie a Gerusalemme,” ribadendo che lo status della città verrà deciso con quei negoziati bilaterali ormai attesi da quarantatré anni. Il gruppo pacifista Peace Now, che monitora la crescita illegale delle colonie, ha rivelato che è già cominciata la costruzione del più grande insediamento ebraico a Gerusalemme Est (annunciata e poi smentita con grande imbarazzo durante l'ultima visita di Joe Biden in Israele): 104 nuove case per creare la colonia di Ma'aleh David.

Nell'era dei premier Barak, Sharon e Olmert, la politica israeliana si è basata sul sottile doppiogioco della road map e dei colloqui di pace (vedi Annapolis), con il totale appoggio dell'Amministrazione Bush, che otteneva qualche foto di gruppo alla Casa Bianca e l'occasione per millantare storici accordi. All'estero, il governo israeliano ostentava una faccia da colomba sotto i razzi Qassam, mentre in Palestina finanziava a pioggia l'espansione delle colonie illegali.

Con l'avvento del governo di estrema destra Netanyahu-Barak-Lieberman, c'è stato un significativo cambiamento di strategia. L'establishment israeliano ha riveduto la propria posizione rispetto agli Stati Uniti, con la verosimile conclusione che il finanziamento miliardario del Congresso americano allo Stato ebraico (circa tre miliardi di dollari all'anno a fondo perduto) non sarà mai messo in discussione e dunque la politica della doppia faccia non ha motivo d'essere. 

Le intenzioni israeliane riguardo ai Territori Occupati sono dunque sotto gli occhi del mondo intero, senza censura. Appoggio incondizionato ai coloni in West Bank e ai loro piani di espansione; demolizione di quartieri palestinesi di Gerusalemme, che verranno sostituiti da quartieri per soli ebrei, abitati in maggioranza da religiosi ultra-ortodossi; completa rimozione della catastrofe umanitaria a Gaza, sotto assedio israeliano ormai da quattro anni.

Se all'inizio Netanyahu si trovava in imbarazzo a sventolare i suoi piani radicali di fronte al governo americano, ora ha calato la maschera tanto da non rispondere nemmeno ai “severi moniti” di Hillary Clinton. Il Ministro della Difesa Ehud Barak è riuscito, per vanità personale, a cancellare dalla scena lo storico Labour Party, e con esso qualsiasi traccia di sinistra vagamente sensibile alle questioni palestinesi. L'unica opposizione rimasta nel paese è quella dell'ex-agente del Mossad, Tzipi Livni, alla guida di Kadima, il partito fondato da Sharon e Olmert. Si può star certi che non sentiremo parlare di trattati di pace per un bel po'.

di Marco Montemurro

Benigno Noynoy Aquino, grazie al sostegno di oltre il 40% degli elettori, sarà il prossimo presidente delle Filippine. I cittadini di tutte le province, chiamati a scegliere il nuovo governo e le amministrazioni locali, il 10 maggio hanno dato prova di voler cambiare il paese e hanno mostrato quanto sia ormai impopolare la presidente uscente Gloria M. Arroyo.

I giorni che hanno preceduto le elezioni sono stati carichi di tensione poiché, per la prima volta nel paese, è stato utilizzato un sistema elettronico per registrare i voti. Le numerose critiche contro tale sperimentazione però sono state fortunatamente smentite dai fatti, in quanto, nonostante un limitato numero di problemi tecnici, l’organizzazione elettorale è riuscita a svolgere le operazioni di scrutinio.

Grazie a tale sistema, le preferenze sono pervenute alla commissione elettorale per via telematica, cosicché, in tempi rapidi, sono stati registrati la vittoria di Noynoy Aquino e il suo grande scarto con i candidati rivali. Non è riuscito a superare il 25,5 % di voti Joseph Estrada, l’ex presidente con alle spalle una carriera da attore e si è fermato al 14,2% Manny Villar, il ricco imprenditore edile che ha speso ingenti risorse per la sua campagna elettorale.

Sebbene il partito Nazionalista non sia riuscito ad eleggere come presidente Villar, all’interno della sua formazione due altri candidati, da tenere in considerazione per la loro originalità, otterranno invece le cariche alla quali hanno aspirato. Il pugile Manny Pacquiao, campione del mondo e idolo nelle Filippine, è riuscito a conquistare un seggio al Senato, invece Imelda Marcos, la famosa moglie dell'ex presidente Fernando Marco, siederà al Senato.

La maggioranza dei filippini, comunque, ha scelto di votare Benigno Noynoy Aquino poiché il suo nome ha una forte valenza. Grazie al merito della famiglia cui appartiene, il cognome è associato alla difesa della democrazia e alla lotta contro la corruzione. Il nuovo presidente, infatti, prima che fosse eletto, era già celebre, perché i suoi genitori hanno ricoperto ruoli importanti nella storia nazionale. Suo padre, il senatore Benigno Aquino, fu ucciso nel 1983 per la sua opposizione contro il presidente Marcos, un sacrificio che ha contribuito, dopo la fine della dittatura, all’ascesa della moglie Corazon alla presidenza della repubblica. La madre dell’attuale presidente governò il paese dal 1986 al 1992 e, pertanto, è tuttora considerata l’emblema del ritorno della democrazia, avendo ricoperto la massima carica in periodo di transizione, dopo un ventennio di regime militare.

Il neoeletto presidente deve molto del suo successo alla figura carismatica della madre “Cory”. L’ipotesi della candidatura di Benigno Noynoy Aquino, infatti, è stata resa ufficiale durante la scorsa estate, precisamente dopo la morte della madre quando, nei giorni di lutto, l’ex presidente fu commemorata ricordandola come una paladina della democrazia del paese. Per dar forza al desiderio di rinnovamento emerso in maniera esplicita nel paese, il figlio Benigno Noynoy, già in carica allora come senatore, ha accettato un’ipotesi maturata tra le file del suo partito Liberale, rendendosi disponibile a partecipare alle elezioni generali del 2010.

Grazie al significato politico associato al suo nome, dunque, Noynoy Aquino ha cominciato a condurre una campagna elettorale basata sui valori della giustizia, della legalità e della democrazia, riuscendo così a mostrarsi come una valida alternativa a Gloria Arroyo, rimasta in carica per ben due mandati.

Dopo quasi vent'anni dal governo della madre, il nome Aquino ritornerà presto nelle stanze del Malacanang di Manila (la residenza del presidente), un evento che inevitabilmente susciterà il ricordo di anni piani di speranza, quando nel 1986 la protesta di migliaia di filippini costrinse Marcos ad abbandonare il palazzo. La memoria sarà una delle prime questioni alle quali il nuovo presidente dovrà render conto, innanzitutto il confronto con la figura del padre, considerato un eroe nazionale e il cui volto è raffigurato su tutte le banconote locali da cinquecento pesos.

Benigno Noynoy Aquino adesso, per mantenere il consenso ottenuto, dovrà cercare di risolvere i tanti problemi da lui denunciati, primo fra tutti la dilagante corruzione radicata nel paese. Il compito è arduo, ma questo è il desiderio di gran parte dei suoi elettori, le aspettative che ora nutrono milioni di filippini nei suoi confronti.

di Michele Paris

Per la seconda volta in altrettanti anni di permanenza alla Casa Bianca, Barack Obama è chiamato a sostituire un membro della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. Come lo scorso anno, il giudice uscente fa parte della minoranza liberal del tribunale costituzionale americano, il 90enne John Paul Stevens, rendendo l’avvicendamento relativamente ininfluente ai fini degli equilibri ideologici della Corte. La scelta di Elena Kagan, tuttavia, può essere considerata un’occasione mancata per installare un membro dalle credenziali più spiccatamente progressiste e rappresenta, perciò, una mossa fin troppo cauta da parte del presidente di fronte all’agguerrita minoranza repubblicana, che giocherà un ruolo decisivo nel processo di conferma della nomina che inizierà la prossima estate al Senato.

La 50enne Elena Kagan, se confermata, sarà il 112esimo giudice della Corte Suprema e si unirà alle altre due donne che ne fanno parte: Sonia Sotomayor (nominata nel 2009 da Obama) e Ruth Bader Ginsburg. Scelta l’anno scorso per rappresentare il governo americano proprio di fronte alla Corte Suprema (“solicitor general”), la Kagan sarebbe anche il primo membro a non avere alcuna esperienza come giudice da quasi quarant’anni a questa parte. Cresciuta a Manhattan in un ambiente familiare di chiare tendenze democratiche, vanta studi a Princeton, Oxford e Harvard. La sua conferma comporterebbe per la prima volta l’assenza di un giudice protestante nella Corte Suprema. Elena Kagan è infatti ebrea, come altri due giudici, mentre ben sei sono cattolici.

La provenienza dall’ambito accademico e governativo costituisce per lei una sorta di arma a doppio taglio. Se da un lato la mancata esperienza di giudice potrebbe mettere in discussione le sue competenze nel supremo tribunale americano, dall’altro l’assenza di opinioni legali scritte in qualità di magistrato giudicante toglie, a quanti potrebbero opporsi alla sua nomina, gli strumenti principali per attaccare la sua visione della legge costituzionale. Quest’ultima carenza rende anche complicata una previsione delle posizioni che sarà chiamata a prendere sui casi più delicati che finiranno di fronte alla Corte Suprema nel prossimo futuro.

La scelta di Elena Kagan riflette chiaramente la volontà di Obama di evitare di inviare al Senato per la conferma un candidato considerato troppo liberal, come avevano ammonito gli ambienti conservatori nelle ultime settimane. Dopo le consuete pratiche di selezione, la rosa dei candidati a succedere il giudice Stevens si era ristretta a tre nomi. Oltre alla Kagan, erano stati considerati due giudici delle Corti d’Appello di Washington e Chicago, rispettivamente il moderato Merrick Garland e la più chiaramente progressista Diane Wood. Tra i tre, la scelta alla fine è ricaduta sulla centrista Kagan, identificata dalla Casa Bianca come la più adatta a influenzare il giudice - Anthony Kennedy - il cui voto determina spesso gli equilibri di una corte sbilanciata a destra sotto la guida del “Chief Justice” John G. Roberts.

Qualche possibile indicazione circa il pensiero giuridico di Elena Kagan si può ricavare allora dal suo curriculum. In passato, la candidata ha lavorato nello staff di uno dei giudici-icona della sinistra alla Corte Suprema, Thurgood Marshall, per poi trasferirsi alla scuola di legge dell’Università di Chicago nei primi anni Novanta, dove incrociò il percorso accademico di un giovane Barack Obama. Più tardi sarebbe entrata a far parte dell’amministrazione Clinton, ricoprendo la carica di vice-consigliere per gli affari interni alle dipendenze del democratico centrista Bruce Reed. In questa posizione, la Kagan contribuì alla stesura della riforma clintoniana del welfare che condusse alla soppressione di svariati programmi sociali.

Nel 1999 lo stesso Bill Clinton la nominò per la Corte d’Appello di Washington, uno dei tribunali più importanti del paese. La sua candidatura, però, finì per naufragare nel caos dell’impeachment del presidente, così che il Senato a maggioranza repubblicana non votò nemmeno la sua nomina. Lasciato l’incarico governativo, ottenne la leadership della facoltà di Legge a Harvard. A questo periodo risalgono almeno due episodi ai quali hanno fatto riferimento i suoi oppositori da destra e da sinistra. I primi le rimproverano di aver ostacolato le attività di reclutamento dell’esercito tra gli studenti di Harvard a causa della sua opposizione alla pratica discriminatoria che impedisce a chi si dichiara apertamente gay di servire nelle forze armate. Da sinistra, invece, si sottolinea come abbia chiamato numerosi docenti conservatori ad insegnare nella prestigiosa università americana.

La presa di posizione di Elena Kagan sulle discriminazioni nei confronti degli omosessuali evidenzia come il suo progressismo faccia riferimento più a politiche identitarie (diritti gay, femminismo) che alla giustizia sociale o agli stessi diritti civili legati all’espansione delle prerogative del potere esecutivo nell’ultimo decennio. Se la Kagan, infatti, definì una “mostruosa ingiustizia” la politica dell’esercito di negare l’arruolamento a gay e lesbiche, gli stessi scrupoli non ha manifestato, ad esempio, riguardo le detenzioni indefinite di presunti terroristi senza processo, gli assassini extra-giudiziali autorizzati dal presidente o le intercettazioni illegali ai danni dei cittadini.

Un pressoché incondizionato assenso agli eccessi della “guerra al terrore” la Kagan l’aveva dimostrato nel marzo del 2009, nel corso delle audizioni al Senato per la sua conferma a “solicitor general”. Sui temi economici, poi, è piuttosto evidente la sua tendenza a favorire gli interessi delle corporation, come dimostra anche il suo ruolo di consulente esterno per Goldman Sachs tra il 2005 e il 2008. Più di una riserva è stata sollevata infine anche dalle associazioni che si battono per il diritto all’aborto. Come ha rivelato la Associated Press, in un memorandum scritto nel 1997 per l’amministrazione Clinton, Elena Kagan sollecitava l’appoggio ad una legge restrittiva sull’interruzione di gravidanza.

In un clima politico notevolmente inaspritosi anche rispetto a un anno fa, Obama sembra dunque voler proporre una candidata in grado di raccogliere un consenso bipartisan. Nel 2009, inoltre, furono sette i senatori repubblicani a votare a favore di Elena Kagan per la nomina a “solicitor general”, circostanza che renderà ora complicato per loro un voto contrario alla sua candidatura alla Corte Suprema. La presenza nel tribunale costituzionale americano di un giudice che ha lavorato a stretto contatto con l’amministrazione Obama, poi, potrebbe tornare utile nel momento in cui dovessero finire all’esame della Corte un certo numero di casi che hanno a che fare con la legislazione promossa proprio dalla Casa Bianca (riforma sanitaria, leggi anti-terrorismo, riduzione delle emissioni in atmosfera).

Quel che è certo, come dimostrano le reazioni complessivamente negative da parte della sinistra del Partito Democratico, la scelta di Elena Kagan conferma nuovamente la rinuncia da parte di un presidente democratico a cercare di installare giudici in grado di promuovere la giustizia sociale dalla Corte Suprema, com’era accaduto fino almeno agli anni Sessanta. Ciò contrasta fortemente con la scelta deliberata da parte degli ultimi presidenti repubblicani di nominare conservatori irriducibili (Antonin Scalia, Clarence Thomas, Samuel Alito, John G. Roberts). Con l’addio del giudice John Paul Stevens, paladino di liberal e progressisti statunitensi, e la nomina da parte di Obama di Elena Kagan, così, nei prossimi anni il baricentro della Corte Suprema promette di spostarsi ulteriormente e pericolosamente verso destra.


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