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di Carlo Benedetti
MOSCA. Gratta un russo e troverai un tartaro. E' un vecchio detto che risale a Napoleone. Ma ora nel Kirghizistan della nuova rivoluzione lo slogan è "Gratta e scopri un israeliano". Tutto questo perché dietro alle proteste e alle manifestazioni di massa contro i corrotti del clan di Kurmanbek Bakiev - che agitano le piazze di Biskek - si scoprono vicende nebulose e si delineano alcuni personaggi che sembravano sepolti nell'anonimato.
I loro nomi sono ora sulla bocca di tutti. Si parla, ad esempio, della "Pasionaria" Roza Otumbaieva, che ha avviato, nelle ultime ore, iniziative politico-diplomatiche che gettano nuova luce sui fatti delle settimane scorse. Perché a sua prima missione all'estero ha avuto come meta Israele, dove si è incontrata con alcuni oligarchi israeliani (usciti dall'ex area sovietica) con l'obiettivo di ottenere da loro fondi per portare avanti la nuova rivoluzione.
Altri nomi (restati sino ad ora in secondo piano) sono quelli di due loschi personaggi - Evghenij Gurevic e Michail Nadel - che in tutti questi anni si sono arricchiti sino all'inverosimile sfruttando il caos della situazione socio-economica del Kirghizistan. Sono stati loro a ricoprire il ruolo di forze brute del potere.
Vediamoli da vicino. Gurevic (che è stato sino a ieri il consulente della famiglia "imperiale" del presidente Bakiev) è un personaggio che ha sempre navigato nel mondo delle trame economiche vivendo negli ambienti dell'economia sommersa. Con in tasca un passaporto americano e forti appoggi politici, diplomatici ed economici da parte di Tel Aviv, è sempre riuscito a volgere in suo favore le grandi transazioni commerciali e bancarie effettuate dal potere di Biskek.
Implicato, tra l'altro, anche in un’indagine che l’ha visto "agganciato" a cosche mafiose italiane, si è distinto nella direzione del gruppo finanziario "Mgn Capital" effettuando operazioni per 300milioni di dollari (in favore dell'allora presidente Bakiev) e guidando nello stesso tempo due holding kirghise - "Severelekto" e "Kirghiztelekom" - impegnate su basi internazionali in affari (somme da 2,7 miliardi di dollari) con "Telecom Italia" e con "Fastweb".
Gurevic è anche impegnato nella direzione dell'americana "Virage Consulting Ltd." e ha le mani sul pacchetto azionario dell'aeroporto nazionale "Manas" e sull’azienda proprietaria di tutte le stazioni elettriche kirghize. Negli "intervalli" si diletta svolgendo lezioni nell'università della California e nella "Haas School of Business" di Berkeley.
C'è poi il suo "socio" Nadel, azionista principale della "Asia Universal Bank", anche lui associato alle vicende israeliane e non solo per vincoli familiari. Nadel, tra l'altro, è riuscito ad accreditarsi in Italia grazie alla sponsorizzazione della Camera di Commercio che l’ha portato in missione nelle Marche per propagandare le opportunità commerciali dell’area dell’Asia centrale e della zona franca di Biskek. E tutto questo nonostante la "Asia Universal" di questo oligarca asiatico-israeliano sia stata esplicitamente accusata di riciclaggio di denaro sporco dalla principale banca di Stato russa, la Centrobank.
Sul piano politico del Kirghizistan di oggi c'è poi da rilevare che la Russia non ha comunque perso tempo nel riconoscere la leadership della Otumbaieva, offrendole il suo sostegno politico, economico e militare. Nello stesso tempo, i tentativi di Bakiev e del suo clan (relegati nelle provincie periferiche di Jalal-Abad e nelle confinanti Osh e Batken) di tentare di ribaltare la situazione, sembrano più che mai destinati a fallire. Le manifestazioni di piazza in favore del vecchio regime raccolgono solo un migliaio di sostenitori. E, per di più, l'ex presidente ha anche perso l'appoggio dei servizi segreti kirghizi e delle forze di sicurezza e di polizia, che credeva dalla sua parte.
Intanto a Mosca si apprende che nell'area asiatica sono stati inviati nuovi reparti delle forze speciali con l'obiettivo di rafforzare la base russa di Kant, a pochi chilometri dalla capitale Biskek. Il Cremlino, è chiaro, teme lo sviluppo di movimenti nazionalisti e autoritari che potrebbero - mettendo a rischio il centro di Kant - compromettere ulteriormente l'equilibrio eurasiatico.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Nelle recenti elezioni presidenziali, l’Austria ha rinnovato la fiducia a Heinz Fischer e ha negato il trionfo alla controversa leader dell’estrema destra, Barbara Rosenkranz (FPOe). Il risultato è giunto felicemente inaspettato, visti gli esiti delle legislative del 2008, in cui un austriaco su tre aveva votato per le destre radicali di Joerg Haider (BZOe), morto in un incidente stradale nell’autunno 2008, e Heinz-Christian Strache (FPOe), provocando l’imbarazzo di tutta l’Europa. E, tuttavia, le presidenziali in Austria hanno lasciato un po’ d’amaro in bocca: rivelando zone d’ombra che sono ormai tipiche di tutte le democrazie contemporanee.
Il mandato di Heinz Fischer, 71 anni, è stato confermato per i prossimi sei anni con il 78,9 % delle preferenze: una maggioranza che non lascia intravedere incertezze di sorta. Come già nel 2004, anche stavolta Fischer si è presentato come indipendente. Poco prima delle precedenti presidenziali, infatti, l’allora candidato alla più alta carica della Repubblica aveva rinunciato ufficialmente a tutti i suoi incarichi all’interno del Partito Socialdemocratico d’Austria (SPOe), dopo quasi trent’anni di militanza: la sua formazione dell’attuale Presidente resta comunque socialdemocratica.
D’altra parte, il successo schiacciante di Fischer ha precluso il trionfo a Barbara Rosenkranz, madrina dell’FPOe, lo storico partito nazionalista e liberale, che ha guadagnato sempre più importanza negli ultimi anni, facendo appunto sperare il Partito in un ottimo risultato. La Rosenkranz ha conquistato il 15,6% dei consensi: nulla, se si considera che i due partiti di estrema destra, BZOe e FPOe, si sono assicurati quasi il 30% dei voti alle ultime legislative, affermandosi tra le forze maggiori della politica austriaca.
Barbara Rosenkranz, tuttavia, si è distinta in quest’ultima campagna elettorale per alcune dichiarazioni - per usare un eufemismo - poco felici. La sua comprensione, in particolare, si è rivolta a quei gruppi che agiscono in nome di ideologie neonaziste e che arrivano a negare, in alcuni casi, l’Olocausto. La legge impedisce e punisce queste attività come illegali: la Rosenkranz, 51 anni, le vorrebbe permettere in nome della “libertà di espressione”.
Per avere un quadro completo della situazione bisogna forse ricordare che il marito di Barbara, Horst Jakob Rosenkranz, è stato membro dell’NPD, partito - inutile dirlo - di estrema destra, attualmente proibito dalla legge. La Rosenkranz è madre di dieci figli, a ognuno dei quali è stato assicurato un nome di antica e nobile provenienza germanica. Candidare Barbara Rosenkranz a una carica così importante e nobile non è stata forse, per l’FPOe, l’idea migliore.
Terzo e ultimo candidato di questa sessione era Rudolf Gehring (CPOe), del Partito Cristiano, che ha ottenuto il 5,4% dei voti. Anche Gehring, in realtà, si è presentato in modo abbastanza curioso: ha aperto la sua campagna con una messa e lotta per una maggiore presenza della cristianità nella res politica, non mancando di pronunciarsi contro l’aborto e l’omosessualità (considerata molto grossolanamente come “smarrimento”).
Ma c’è anche chi, per queste presidenziali così particolari, ha scelto di non presentare candidati. Il Partito Popolare Austriaco (OeVP), da parte sua, non ha avuto il coraggio di mettersi contro Fischer e si è mostrato più che confuso: gli elettori non hanno mancato di punire i conservativi in maniera crudele. Se alcuni Popolari si sono espressi a favore della Rosenkranz, altri hanno invitato i propri elettori a consegnare le schede elettorali in bianco in segno di protesta: ed è quello che ha fatto uno sparuto 7% dell’elettorato. Certo, da un partito che alle ultime elezioni aveva ottenuto il 25% dei consensi, ci si aspettava di più.
Anche i Verdi si sono rifiutati di presentarsi con un proprio candidato: la campagna elettorale è troppo cara, hanno accusato pubblicamente, e il partito dei Verdi non se l’è potuta permettere. Il loro sostegno è andato apertamente a Fischer, in nome dei diritti umani e della lotta contro l’estrema destra. Ma l’accusa rimane: è giusto che in Paese democratico la campagna elettorale diventi una questione di soldi?
Ma gli austriaci, da parte loro, non hanno potuto fare a meno di notare la “particolarità” di queste elezioni: alle urne si è presentato, infatti, solo il 49,2% dell’elettorato, toccando il minimo storico dell’Austria e portando avanti la tendenza dell’Europa intera. Perché nella democrazia attuale, forse, l’unica decisione degna di rispetto sembra quella del non-voto.
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di Michele Paris
Da qualche giorno, lo stato dell’Arizona è salito alla ribalta delle cronache nazionali ed estere in seguito all’approvazione di una delle leggi sull’immigrazione tra le più repressive ed anti-democratiche della storia americana. Strumentalizzando la presunta minaccia di una foltissima presenza di immigrati ispanici in uno stato di frontiera che sta attraversando un periodo di profonda crisi economica, il parlamento locale dominato dal Partito Repubblicano ha adottato una legge che, tra l’altro, trasformerà in reato la sola residenza senza permesso nel territorio dell’Arizona.
I nuovi provvedimenti, se da un lato stanno galvanizzando l’estrema destra statunitense, dall’altro hanno provocato le critiche della società civile, dei democratici al Congresso e della Casa Bianca, proprio alla vigilia del dibattito che dovrà portare ad una riforma complessiva della politica sull’immigrazione negli Stati Uniti.
Ad attendere nuove misure governative in questo ambito sono circa dodici milioni di immigrati che continuano a vivere ai margini della società americana. La prima risposta non è giunta tuttavia da Washington, come aveva promesso il presidente Obama, bensì dallo stato sud-occidentale considerato la principale porta d’ingresso nel paese per gli immigrati provenienti dal Messico e dal resto del continente latinoamericano.
Le misure draconiane licenziate dall’assemblea di Phoenix sono finite lo scorso fine settimana sul tavolo della governatrice, la repubblicana Jan Brewer, la quale, pur essendo considerata relativamente moderata, ha dato il proprio assenso. La governatrice, così come il senatore dell’Arizona John McCain, dopo aver manifestato perplessità su norme così dure nel recente passato, hanno fornito il proprio appoggio alla nuova legge perché entrambi pressati da sfidanti di estrema destra nelle rispettive primarie repubblicane in programma il prossimo mese di agosto.
Tra le disposizioni più discusse, vi è quella che consentirà alla polizia di fermare chiunque sia sospettato di essere un “immigrato illegale” per chiedere la verifica dei documenti. Quanti non saranno in grado di esibire, ad esempio, una patente di giuda rilasciata dallo stato dell’Arizona, un passaporto oppure un permesso d’immigrazione come la Carta Verde, potrebbero essere soggetti ad arresto e al trasferimento presso l’Ufficio Immigrazione, senza nessuna possibilità di ricorso. Le autorità potranno rivolgere le loro attenzioni verso qualunque persona sollevi un “ragionevole dubbio” relativamente al proprio status, potenzialmente dando il via libera ad una ondata di perquisizioni e arresti per quanti abbiano un aspetto “straniero”.
Secondo la legge SB 1070, poi, sarà da considerarsi reato per un immigrato irregolare lavorare in Arizona o anche solo andare alla ricerca di un impiego. Allo stesso modo, sarà proibito ostacolare il traffico sostando lungo la strada per raccogliere i lavoratori giornalieri che quotidianamente offrono i propri servizi per una manciata di dollari. Ovviamente, sarà un crimine anche fornire protezione ad un immigrato senza documenti. Come se non bastassero la schedatura su base razziale e gli altri provvedimenti gravemente repressivi, le nuove regole sull’immigrazione dell’Arizona daranno addirittura facoltà ai cittadini di denunciare qualsiasi funzionario o agenzia dello stato ritenuto poco zelante nell’applicazione della legge stessa.
I contenuti del provvedimento appena approvato riflettono in gran parte le posizioni del suo primo firmatario, il senatore dello stato Russel Pearce, molto vicino ad organizzazioni apertamente razziste e già promotore di svariate leggi anti-immigrazione quasi sempre bocciate dai tribunali federali perché incostituzionali. Come le precedenti, anche per le misure appena approvate la prossima destinazione potrebbe essere un’aula di tribunale. La stessa Casa Bianca, infatti, ha reso noto tramite un portavoce che l’amministrazione Obama starebbe valutando la possibilità di iniziative legali per bloccarne l’entrata in vigore.
Se il palese attentato ai diritti democratici degli immigrati in Arizona nasce da una manovra di parte repubblicana dietro le pressioni di ambienti di estrema destra, il pugno di ferro sul tema dell’immigrazione appare in realtà come una questione bipartisan negli Stati Uniti. Per quanto Obama e i leader di maggioranza abbiano criticato aspramente la nuova legge e prediligano iniziative non così apertamente razziste o che non mettano in discussione l’autorità del governo federale, le proposte di legge che circolano a Washington non promettono nulla di buono.
Come ha annunciato il numero uno dei democratici al Senato, Harry Reid, la riforma dell’immigrazione sarà con ogni probabilità il tema di discussione che il Congresso affronterà una volta passata la riforma del sistema finanziario. Uno dei punti centrali del progetto in fase di perfezionamento, e frutto di un accordo bipartisan tra i senatori Chuck Schumer (democratico di New York) e Lindsey Graham (repubblicano della Carolina del Sud), prevede tra l’altro la creazione di speciali tessere della Sicurezza Sociale nelle quali verranno registrati i dati biometrici dei cittadini. Con esse, le aziende americane potranno immediatamente verificare lo status dell’immigrato, al quale, se irregolare, verrà negato qualsiasi impiego regolare.
Le intenzioni di Obama circa la risoluzione dei problemi relativi all’immigrazione erano d’altra parte già state chiarite al momento della scelta della responsabile del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. A dirigere il ministero che si occupa a livello federale del controllo dei flussi migratori, il presidente democratico aveva chiamato l’anno scorso proprio l’allora governatrice dell’Arizona, Janet Napolitano, distintasi nel suo precedente incarico per aver fatto aumentare vertiginosamente il numero di arresti e deportazioni di immigrati provenienti dal confine meridionale.
Contro una legge che calpesta il diritto di qualsiasi persona a muoversi liberamente per cercare lavoro dove ve ne sia, al contrario del capitale che ha facoltà di spostarsi da un paese all’altro alla ricerca di manodopera a sempre più basso costo, in Arizona si è già tenuta più di una manifestazione, mentre altre sono previste nei prossimi giorni. L’ondata di indignazione suscitata negli Stati Uniti, c’è da sperare, potrebbe almeno stimolare un dibattito serio sull’immigrazione e favorire un’iniziativa nazionale improntata al rispetto dei diritti fondamentali di tutte le persone, ai quali dovrebbero ispirarsi gli stessi valori su cui teoricamente si fonda la democrazia americana.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. C'è stata festa al Cremlino per la recente firma del "Salt 2" e si è manifestata, negli ambienti della presidenza russa, una certa soddisfazione per la ripresa diplomatica di queste ultime settimane. Ma ora arriva la doccia fredda. Perchè mentre gli analisti russi iniziano a studiare i risultati della riunione dei ministri degli Esteri dei paesi della Nato (svoltasi a Tallin, sulle rive del Baltico, nei giorni scorsi) piomba su Mosca una notizia che riporta indietro le lancette della distensione.
Obama, infatti, ha dato luce verde ad una nuova arma potentissima in grado di colpire qualsiasi bersaglio sul pianeta. L’arma non userà ordigni nucleari ma gli effetti saranno equivalenti come confermato dal fatto che la Russia aveva già inserito nello Start 2 un preciso riferimento al Pgs (Prompt Global Strike) facendo contare ogni unità come una bomba atomica.
Ora la super-bomba made in Usa - trasportata da un missile Minuteman - potrà raggiungere entro 60 minuti qualsiasi angolo del pianeta. Dotata di sofisticatissime strutture di precisione, l'arma ha già una sua lunga storia. Era stata progettata a suo tempo da George W. Bush ma era stata bloccata dalle proteste di Mosca, che aveva fatto rilevare come i Minuteman Usa - trasportando ordigni nucleari - potevano essere considerati come "strumenti" micidiali validi per l’inizio di un attacco nucleare.
Ed ecco che Obama per tranquillizzare i russi (e i cinesi) si mobilita per offrire le garanzie necessarie per evitare malintesi: i silos dei missili della nuova arma - dice - saranno tenuti distanziati da quelli con ordigni nucleari e potranno essere ispezionati periodicamente dagli esperti russi e cinesi. Per ora, comunque, Mosca e Pechino dovranno accontentarsi delle verità ufficiali.
Quanto alla superbomba, questa potrebbe essere lanciata lanciata con un Minuteman in grado di volare sopra i 115 chilometri di altitudine, capace di sganciare un aliante dotato di strumenti supersofisticati che forniranno, dialogando con i satelliti, dati accuratissimi sulle manovre di avvicinamento al bersaglio da colpire. Il Pentagono, intanto, fa sapere che i test della nuova arma cominceranno nel 2014 e che entro il 2017 potrebbe entrare nell’arsenale Usa.
E c'è di più sul fronte di questo riarmo che non è per nulla "strisciante". Perché mentre il Pentagono da luce verde per il progetto del Pgs, è già operativa la nuova navicella militare X 37-B, a metà fra un minishuttle e un aereo militare ipertecnologico. E’ stata lanciata nello spazio, in gran segreto, dalla base della Nasa di Cape Canaveral in Florida. È un progetto top-secret e di dettagli ve ne sono pochi. Il suo scopo dovrebbe essere quello di supportare dallo spazio gli altri sistemi di combattimento a distanza. Un comunicato del Pentagono fa poi sapere, laconicamente, che il velivolo spaziale è stato concepito per «diventare un laboratorio dove testare le nuove tecnologie». E l'annuncio trionfale è che l’ordigno potrà colpire ogni angolo del pianeta in un’ora. Nello spazio ci sarà anche un drone militare destinato a guidare gli attacchi.
Quanto al vertice di Tallin - dove si è discusso il nuovo "Concetto strategico" destinato a dare forma all’Alleanza Atlantica nel prossimo decennio - gli analisti del Cremlino notano che la Nato punterebbe ad impegnarsi in aree mai immaginate nel 1999, dall’Afghanistan al cyberspazio. L'Alleanza, quindi, si rivela sempre più pericolosa presentandosi come un poliziotto globale.
Su questo aspetto insistono i media russi più accreditati, che avanzano, in merito, pungenti interrogativi. Alla radio di Mosca si annuncia che il "gruppo di 12 saggi", guidato dall’ex segretario di Stato americano, Madeleine Albright, dovrebbe presentare entro maggio al Segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, una relazione sulle prospettive dell’Alleanza. C'è poi da rilevare che i capi di Stato e di governo della Nato decideranno le nuove prospettive nel mese di novembre, durante un vertice annunciato a Lisbona.
Ma le linee d’intervento sono state già fissate con chiarezza. Ed è stato il segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, che al vertice di Tallin ha tenuto un discorso programmatico sul tema “la solidarietà dell’Alleanza nel 21esimo secolo”, in cui ha evidenziato i modi attraverso i quali gli Alleati stanno dimostrando la loro solidarietà. E spiegando le tappe di questa nuova escalation - che già agita le acque delle diplomazie mondiali - il generale ha ribadito essere più che mai necessaria la presenza sempre più visibile della Nato su tutto il territorio alleato.
Per quanto poi riguarda lo scudo antimissilistico, ogni decisione in merito è stata rinviata al vertice di Lisbona, dove i Paesi membri della Nato decideranno se impegnarsi nella difesa antimissile, trasformandola in una vera e propria missione dell’Alleanza. Sempre a Tallin, i paesi dell'Alleanza hanno deciso di includere la Bosnia Erzegovina nel programma di pre-adesione della Nato (Map), ma il tutto avverrà soltanto se la leadership del Paese balcanico metterà in moto un processo di riforme rimasto finora in sospeso. E comunque sia Sarajevo ha chiesto di aderire al Map già nel 2009.
La temperatura, quindi, sale. Soprattutto se ci si riferisce alla situazione generale nei confronti dell'Iran. Anche in questo teatro Obama sta cercando soluzioni per normalizzare l'intera area senza allarmare i tradizionali alleati. Israele in particolare.
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di Michele Paris
Il 21 settembre 1976 l’automobile su cui viaggiavano l’ex ministro del governo Allende, Orlando Letelier, la sua segretaria, Ronni Moffitt, e il marito Michael, saltò in aria all’altezza dello Sheridan Circle a Washington, a meno di due chilometri dalla Casa Bianca. L’esplosione, che provocò la morte dei primi due, rappresentò forse il più eclatante atto di terrorismo internazionale eseguito in territorio statunitense fino a quel momento. I responsabili dell’attentato si erano mossi nell’ambito delle operazioni clandestine della famigerata Operazione Condor, implementata con la supervisione del governo americano.
A quasi trentaquattro anni di distanza, una serie di documenti declassificati dagli Archivi della Sicurezza Nazionale, confermano come le mani del premio Nobel per la Pace Henry Kissinger, allora Segretario di Stato nell’amministrazione Ford, siano macchiate del sangue di Letelier e della 25enne attivista del New Jersey.
Nominato ambasciatore negli USA da Salvador Allende nel 1971, Orlando Letelier ricoprì successivamente incarichi importanti nel governo riformista cileno. Ministro degli Esteri, degli Interni e della Difesa, Letelier fu uno dei primi esponenti di spicco dell’amministrazione Allende ad essere arrestato dopo il colpo di stato militare del 13 settembre 1973 guidato dal generale Augusto Pinochet. Incarcerato e più volte torturato, nel settembre 1974, in seguito alle pressioni diplomatiche della comunità internazionale, venne rilasciato e poté raggiungere dapprima Caracas e poi la capitale americana.
Qui iniziò ad insegnare presso l’American University e a lavorare per l’Institute for Policy Studies, un istituto di ricerca dedicato agli studi di politica internazionale, dove si stava appunto dirigendo la mattina della sua morte. Nel suo esilio di Washington, Letelier divenne immediatamente la principale voce critica del regime di Pinochet, rivelandone i metodi repressivi e battendosi per un boicottaggio internazionale che riuscì a impedire l’erogazione di prestiti e aiuti militari, provenienti soprattutto dall’Europa. Il 10 settembre 1976, con un decreto governativo, gli venne infine revocata la cittadinanza cilena.
Per l’omicidio di Letelier vennero indagati e poi condannati svariati individui. Il responsabile della preparazione dell’esplosivo fu individuato nell’ex agente della CIA Michael Townley, un espatriato americano alle dipendenze della DINA (Dirección de Inteligencia Nacional), la polizia segreta di Pinochet. Townley venne estradato negli USA nel 1978, con un accordo secondo il quale avrebbe rivelato solo ciò che era rilevante in relazione alla violazione delle leggi americane, omettendo qualsiasi informazione riguardante il coinvolgimento della DINA e del governo cileno, ovvero dei mandanti dell’assassinio di Letelier. Il processo a Townley si concluse con una condanna a dieci anni, ma dopo aver scontato metà della pena venne rilasciato e messo sotto la protezione del governo americano, che lo inserì in un programma federale di protezione testimoni.
Gli esecutori materiale dell’omicidio provenivano dagli ambienti anti-castristi operativi sul suolo statunitense con l’appoggio della CIA. Al progetto dell’operazione contribuì in maniera determinante l’organizzazione CORU, fondata da Luis Posada Carriles. Carriles era (ed è tutt’ora) anch’egli al soldo dell’intelligence a stelle e strisce e implicato in numerose azioni terroristiche, tra cui l’esplosione in volo di un aereo civile della Cubana de Aviaciòn sui cieli delle Barbados, che causò la morte di 76 persone. Posada Carriles è responsabile, oltre a numerosi atti di terrorismo contro personale cubano in ogni dove del continente americano, anche dell’organizzazione di una serie di attentati a L’Avana nel 1997. In uno di questi, una bomba collocata nella hall dell’hotel Copacabana, uccise il cittadino italiano Fabio Di Celmo e altre undici persone risultarono ferite.
A dare l’ordine dell’uccisione di Letelier furono invece i vertici del regime cileno, nelle persone del capo della DINA, generale Manuel Contreras, e dello stesso Pinochet. Secondo quanto confessato da Contreras ad un giudice in Cile nel 2005, l’assassinio di Washington venne portato a termine grazie al supporto della CIA, degli esuli cubani e di membri del servizio segreto venezuelano (DISIP). Lo stesso vice-direttore della CIA dell’epoca, Vernon Walters, avrebbe informato direttamente Pinochet della pericolosità di Letelier, impegnato a Washington nella formazione di un governo cileno in esilio.
Il governo americano aveva d’altra parte rivolto la propria attenzione al Cile da tempo. Lo stesso Kissinger considerava l’instaurazione di un governo socialista in questo paese un pericoloso esempio per il resto del continente e non solo. Sotto la sua supervisione, immediatamente dopo le elezioni del 1970, la CIA aveva manovrato senza successo negli ambienti militari cileni per impedire l’insediamento di Allende alla presidenza. Nei tre anni successivi, tuttavia, Kissinger fece di tutto per indebolire il nuovo governo con l’obiettivo di rimuovere il legittimo presidente dal potere, manovrando gli ambienti interni al Dipartimento di Stato americano che si opponevano ad un intervento diretto degli Stati Uniti negli affari cileni.
del resto, l’8 settembre 1974, il New York Times rivelava che, secondo una testimonianza resa il 22 aprile dello stesso anno da William Colby, direttore della Cia, di fronte alla Sottocommissione dei servizi armati sull’intelligence della Camera dei rappresentanti, l’amministrazione Nixon avrebbe stanziato oltre otto milioni di dollari per le attività della Cia contro il regime del presidente Salvador Allende. Le operazioni di intervento, secondo Colby, erano state approvate in blocco dalla Commissione dei quaranta, un quadro di comando di alto livello addetto all’approvazione dei piani di sicurezza guidati da Henry Kissinger, segretario di Stato degli Stati Uniti, e furono considerate come prova schiacciante delle tecniche di sovvertimento di altri governi attraverso lo stanziamento di fondi.
Per Kissinger, in sostanza, la “questione era troppo importante per essere lasciata al giudizio degli elettori cileni”. Allo stesso tempo giudicava impensabile che la sua amministrazione restasse a guardare “un paese diventare comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo”. Rimanere indifferenti agli eventi politici in corso a Santiago sarebbe stato interpretato nel resto dell’America Latina come un segnale di debolezza che avrebbe potuto scatenare una reazione a catena insostenibile per gli interessi americani. Gli sforzi di Kissinger culminarono così nel golpe contro Allende e proseguirono nei mesi e negli anni successivi quando venne il momento di reprimere il dissenso contro il nuovo regime sia in patria che all’estero.
Ai documenti già resi noti da qualche anno, nei quali veniva rivelato come Pinochet avesse manifestato a Kissinger le sue preoccupazioni per le attività di Letelier negli Stati Uniti, ottenendo tutta la “comprensione” del governo americano, le carte desecretate pochi giorni fa mettono in luce piuttosto il ruolo dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Nixon nell’avallare l’Operazione Condor. Il 3 agosto 1976, alcuni funzionari del Dipartimento di Stato indirizzarono a Kissinger una nota nella quale veniva criticato il programma di assassini predisposto dai governi sudamericani con il beneplacito di Washington. L’appoggio americano a queste operazioni rappresentava, infatti, un grave motivo di imbarazzo di fronte alla comunità internazionale.
Il 30 agosto, la sezione del Dipartimento di Stato che si occupava dell’American Latina redasse così un documento ufficiale da inoltrare a sei governi, con particolare enfasi per Uruguay, Argentina e Cile. Nel documento li si ammoniva circa la prosecuzione della campagna di omicidi diretta contro gli oppositori dei loro regimi all’estero, in quanto avrebbe creato “seri problemi di ordine morale e politico”. Mentre è risaputo da tempo che tale comunicazione non venne mai recapitata ai destinatari, le nuove carte pubblicate indicano proprio in Henry Kissinger il responsabile della soppressione del documento.
E’ ormai acclarato, infatti, che il 16 settembre 1976, cinque giorni prima dell’omicidio di Letelier, da Lusaka, in Zambia, dove si trovava in quel momento, Kissinger recapitò un messaggio al suo assistente per gli affari inter-americani, Harry Shlaudeman. Riferendosi appunto alla nota del dipartimento di Stato del 30 agosto precedente, circa l’Operazione Condor, il Segretario di Stato negò la sua approvazione all’invio di essa a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, lasciando di fatto via libera al proseguimento di assassini e repressioni nell’intero continente.
Quattro giorni più tardi, lo stesso Shlaudeman, dal Costa Rica, confermò la decisione in un telegramma al suo vice a Washington, William Luers, informandolo di “dare istruzioni agli ambasciatori americani in America Latina di non intraprendere nessuna ulteriore azione, dal momento che non sussistono indicazioni che nelle prossime settimane verrà riattivato il piano Condor”. Precisamente il giorno successivo, in una strada trafficata della capitale americana, Orlando Letelier e Ronni Moffitt persero la vita.
L’omicidio di Letelier a Washington aveva seguito una già lunga striscia di attacchi terroristici a scopo repressivo messi in atto dai regimi di destra che presero il potere in Sudamerica tra il 1964 e il 1976 con l’appoggio degli Stati Uniti. Con l’Operazione Condor, le dittature militari di questi paesi adottarono un programma di sterminio indirizzato sia verso la resistenza alla dittatura nei singoli paesi sudamericani, sia verso quegli oppositori che avevano trovato rifugio all’estero e da dove proseguivano nel loro attivismo politico.
Prima di Letelier, altre due personalità di spicco della politica cilena in esilio erano state bersaglio dell’Operazione Condor. Nel settembre 1974 a Buenos Aires a saltare in aria fu il generale Carlos Prats, ex ministro della Difesa di Allende, mentre l’anno successivo l’ex vice-presidente cileno Bernardo Leighton scampò ad un attentato a Roma. Secondo stime parziali, complessivamente l’Operazione Condor fece tra i cinquanta e i sessantamila morti.
Nonostante le rivelazioni delle responsabilità dirette del governo americano, alla pratica dell’assassinio al di fuori del diritto internazionale di oppositori veri o presunti, gli USA continuano ampiamente a farvi ricorso anche dopo oltre tre decenni. Alla categoria dei “sovversivi” di sinistra si è sostituita ora quella dei “nemici combattenti”, bersagli indiscriminati della guerra totale al terrorismo lanciata da George W. Bush e fatta propria senza scrupoli - e senza significativi risultati, almeno per ora - dall’amministrazione Obama.