di Emanuela Pessina

BERLINO. Brutta sconfitta per la CDU nelle elezioni regionali di domenica nel Nordreno Vestfalia, il Land più popoloso della Germania federale, tradizionalmente di orientamento cristianodemocratico. Il partito di Angela Merkel ha perso parecchio terreno, lasciando spazio a Verdi, estrema sinistra e socialdemocratici. Un risultato che, probabilmente, non passerà inosservato neppure nelle grandi decisioni di Berlino, poiché toglie la maggioranza assoluta alla Cancelliera cristiano democratica.

La CDU del governatore uscente, Juergen Ruettgers, ha dovuto fare i conti domenica con il peggior risultato mai ottenuto in Nordreno Vestfalia (un inaspettato 34,6%); ironicamente simile la percentuale ottenuta dalla SPD di Hannelore Kraft, che sfoggia un 34,5%. Tradotti in numero, questi punteggi significano un disavanzo di 6.200 voti tra i due partiti: una differenza troppo esigua per fare davvero la differenza. Tra i grandi vincitori della giornata, i Verdi, che hanno raddoppiato il punteggio del 2005 raggiungendo il 12,1%, mentre Die Linke, alla loro prima comparsa nella Land, sono usciti a testa alta con il 5,9%.

Per il partito di Angela Merkel, la situazione è preoccupante. La CDU deve accontentarsi del 10% di voti in meno rispetto alle elezioni del 2005: un esito per cui gli attenti elettori tedeschi si aspettano spiegazioni. Già domenica sera, dopo le prime proiezioni, si parlava delle possibili dimissioni del Ministro e governatore Juergen Ruettgers, smentite tuttavia quasi subito dal segretario generale cristiano democratico, Andreas Krautscheid. Ma la crisi della CDU c’è e non deve essere ignorata, soprattutto in considerazione dei risultati ottenuti dai grandi rivali del Governo di Angela Merkel, i socialdemocratici.

L’SPD ha letto le elezioni nel Nordreno Vestfalia come la spia della probabile rinascita. “Il messaggio è chiaro, dal Nordreno Vestfalia si diffonde in tutta la nazione: la SPD c’è ancora” ha commentato Hannelore Kraft, la candidata socialdemocratica, riferendosi al disastro dei socialdemocratici nelle recenti legislative. La Kraft si è detta soddisfatta e ha già cominciato a considerare le possibilità di coalizione.

A caldo, Hannelore Kraft non ha escluso un governo con Verdi e liberali, mantenendo però una posizione decisa nei confronti dei Die Linke della Land del Nordreno Vestfalia, che non considera “in grado di grado di governare”.  Ma la Kraft non vede di buon occhio neppure una Grande Coalizione con Ruettgers: alla leader socialdemocratica potrebbe stare stretto il ruolo di partito minore accanto a una CDU perdente.

L’unica certezza è che in Nordreno Vestfalia non continuerà il governo dei cristianodemocratici con i liberali, veri, grandi delusi di queste elezioni con uno sparuto 6,7%. Il vicecancelliere, Guido Westerwelle, (FDP) ha ammesso di non aver ottenuto il risultato sperato: sull’onda del grande successo che lo aveva condotto alla coalizione con la Merkel lo scorso settembre, Westerwelle si aspettava un risultato a due cifre.

Per qualcuno, i risultati delle elezioni nel Nordreno Vestfalia rispecchiano una sconfitta personale del governatore uscente Ruettgers, che, d’altra parte, ha giocato tutta la campagna elettorale sulla sua persona. Per qualcun altro, invece, la CDU non può nascondersi dietro la figura di Ruettgers. Forse queste elezioni sono il risultato di un revival delle sinistre e dei Verdi: in una situazione di crisi economica internazionale, i cui risvolti concreti sembrano affiorare solo ora, gli elettori provano a cambiare prospettiva e cercano la loro stabilità altrove. Qualcuno, invece, legge nelle elezioni nel Nordreno Vestfalia un primo verdetto popolare - estremamente negativo - nei confronti del Governo Merkel.

Per Angela Merkel, ora, governare sarà decisamente più difficile. La Cancelliera e il liberale Westerwelle hanno perso la maggioranza assoluta nel Bundesrat, l'organo attraverso il quale i Laender tedeschi partecipano al potere legislativo e all'amministrazione dello Stato, passando da 37 voti a 31 su un totale di 69 membri. Un cambiamento da non sottovalutare: l’approvazione del Bundesrat è irrinunciabile per qualsiasi grande progetto, da un’eventuale riforma fiscale a una possibile riorganizzazione sanitaria.

Una cosa è sicura: i risultati delle elezioni regionali in Nordreno Vestafalia presuppongono, in futuro, una maggiore apertura della Cancelliera verso SPD e Verdi, con buona pace dei liberali e di tutti i loro capricci.

di Ilvio Pannullo

Trenta miliardi da risparmiare in tre anni attraverso tagli e congelamenti occupazionali, salariali e pensionistici. Questo il piano anti-crisi varato dal premier greco Papandreou per salvare la Grecia dalla bancarotta. In particolare, per i dipendenti pubblici ci sarà la riduzione o l'abolizione della tredicesima e quattordicesima mensilità, a seconda dei redditi, mentre ai privati toccherà la riduzione dell'indennità di licenziamento e la liberalizzazione della normativa sull'impiego.

Non solo. È previsto un aumento del 2% sull'Iva che arriverà così al 23% ec un’ulteriore crescita del 10% per quanto riguarda le imposte su carburanti, alcolici, sigarette e beni di lusso. Non solo tagli dunque, ma anche un inevitabile aumento del costo della vita. Con questo pacchetto d’iniziative, la Grecia estende dal 2012 al 2014 l'obiettivo di riportare il deficit sotto la soglia europea del 3%. "Non abbiamo scelta - ha detto il primo ministro greco - o queste misure dolorose o la bancarotta".

Adesso forte dell’approvazione del piano lacrime e sangue, il premier socialista potrà volare a Bruxelles per ottenere quanto recentemente concordato con le istituzioni comunitarie. Il riferimento è all'accordo raggiunto come previsto domenica scorsa. La Grecia ha raggiunto un’intesa con l'Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale per un prestito da 110 miliardi di Euro in tre anni. Un programma di aiuti per l'azione di questa portata non si vedeva in Europa dai tempi del piano Marshall. Dalla UE arriveranno 30 miliardi nel solo 2010; soldi prestati direttamente dagli altri governi della zona Euro pro quota: l'Italia dovrà versare almeno 5,5 miliardi, poco meno del 20% del totale. Il piano - annunciato a più riprese da oltre un mese, ma sempre rallentato dall'opposizione tedesca - dovrà scattare entro il 19 maggio, quando la Grecia sarà obbligata a reperire sul mercato, mettendo cioè all'asta i propri titoli del debito pubblico, oltre 19 miliardi di Euro.

Ma, salvataggio o no, la credibilità dell'Euro resta tuttavia debole, i mercati non si fidano troppo. La prima riflessione riguarda infatti proprio la divisa europea: molto semplicemente l'Euro non esiste più. E non soltanto perché continua ad indebolirsi nel confronto con il dollaro, trascinato al ribasso dalla crisi greca che sta minando la credibilità dell'intera Unione Europea: appena due giorni fa veniva scambiato a meno di 1,3 dollari, un vero tracollo. La realtà, piuttosto, è che l’Euro è finito perché non vale più come scudo: non protegge più, cioè, il debito pubblico degli stati membri dell’Unione dalle oscillazioni dei mercati.

Per quasi un decennio i paesi che avevano i loro debiti in Euro hanno beneficiato di un "effetto euro-zona", che ha permesso loro di pagare interessi molto inferiori a quelli che il mercato avrebbe chiesto loro in condizioni normali. Adesso la magia è finita. Appena due giorni fa, l'agenzia di rating Moody's ha dichiarato che presto potrebbe decidere di ridurre il proprio giudizio sul debito del Portogallo: i titoli di Stato di Lisbona hanno raggiunto immediatamente uno spread rispetto ai bund tedeschi di 310 punti percentuali, con un aumento di 50 punti in un giorno. Gli investitori, in pratica, considerano molto più rischioso prestare soldi allo Stato portoghese che a quello tedesco. Quanto alla Spagna, il governo di Madrid sta attraversando in questi mesi un vero psicodramma: il 5 maggio si sono incontrati il premier Josè Zapatero e il capo dell'opposizione Mariano Rajoy per discutere della situazione.

Borsa in picchiata e, soprattutto, come per il Portogallo, record negli spread rispetto ai bund tedeschi: la differenza tra un titolo di Stato spagnolo e uno tedesco a 10 anni è pari al 4,15%. Tutti usano l'Euro, tutti si confrontano con lo stesso tasso di interesse base deciso dalla Banca centrale europea, ma ciascuno trova credito al prezzo di si merita in base alla propria affidabilità come debitore. L'Euro in sostanza non basta più.

Le conseguenze di quanto sopra si osservano oggi in Grecia: c'è un governo che vuole continuare a trovare credito sul mercato, per farlo deve dimostrare di essere virtuoso, cioè di rispettare i parametri decisi da Bruxelles sulla finanza pubblica: i rapporti tra deficit e Pil e tra debito e Pil. Se non è considerato credibile, la bancarotta è dietro l'angolo. Ma per seguire i rigorosi dettami contabili stabiliti dall’Europa, deve tagliare le spese, aumentare le tasse, adottare misure impopolari tanto più dure quanto più seria è la situazione dei suoi conti pubblici. A questo si aggiunge un ulteriore effetto collaterale: se un paese come la Spagna, con i conti in ordine, entra in recessione, avrebbe bisogno di svalutare la propria moneta per far ritrovare competitività alle proprie merci. Ma non può, perché è dentro l'Euro, e così una crisi che si sarebbe potuta risolvere con una leggera svalutazione (come quelle tipiche dell'Italia degli anni ‘80) incancrenisce. E ora la disoccupazione spagnola è al 20%.

Non sarebbe dunque più conveniente uscire dall'Euro? Tornare alla dracma, alla peseta, alla lira e far rifiatare le imprese? Il problema non è da poco e non è facilmente risolvibile: un paese che lascia l'eurozona per problemi di competitività delle proprie merci, dovrà svalutare la sua nuova moneta. Ma i lavoratori, prevedendolo, chiederanno verosimilmente da subito aumenti salariali per conservare il potere d’acquisto. Il risultato sarebbe una maggiore inflazione che neutralizzerebbe ogni vantaggio competitivo dovuto alla svalutazione. In più il paese sarebbe costretto a pagare costi molto più alti per rifinanziare il proprio debito estero e si troverebbe a dover pagare i vecchi debiti contratti in Euro, cioè in una valuta straordinariamente più forte rispetto alla divisa nazionale. A ciò si aggiunga la possibilità assai concreta di attacchi speculativi contro le nuove monete, non più protette dalla credibilità del patto di Maastricht.

Da qui la conclusione dell’inevitabilità del piano draconiano imposto dal governo greco per rientrare nei parametri contabili europei. Urge, tuttavia, un ragionamento sul valore delle nostre democrazie, partendo dall’amara constatazione che a pagare le conseguenze degli errori commessi non sono mai coloro che concretamente hanno commesso il fatto, ma sempre e soltanto chi non ha strumenti per difendersi: i più deboli. L'Unione Europea e l'indecisione della Germania hanno permesso che il governo greco giocasse con il fuoco e ora nel fuoco si trova l'intero paese.

Ormai il costo del salvataggio della Grecia è diventato molto superiore a quello che sarebbe stato se calcolato solo rispetto alle responsabilità degli autoctoni. Ma nessuno pare si sia accorto di queste responsabilità. Da questa crisi inevitabilmente uscirà un quadro assai pericoloso: una conflittualità sociale che assumerà toni sempre crescenti per toccare il suo picco verosimilmente nel prossimo autunno, quando le misure varate ieri dal governo greco produrranno tutte le conseguenze sociali che ora sfuggono in ragione di una fredda analisi basata su numeri, percentuali e statistiche.

La crisi greca impone ai popoli liberi d'Europa di prendere coscienza delle ragioni di un simile disastro, non tanto imputabile a quanti nel settore pubblico hanno negli ultimi anni vissuto al di sopra delle proprie possibilità, quanto piuttosto a coloro, eletti dal popolo - e dunque caricati di responsabilità pubbliche - che hanno truccato spudoratamente i conti del paese. Aspetto decisivo per comprendere a chi imputare le reali colpe di questo dramma: se non è infatti sopportabile l'ingiustizia di dover pagare per gli errori di altri, è ancor più insostenibile mettere sul banco degli imputati e giudicare colpevoli cittadini, studenti, lavoratori e pensionati rei soltanto di essersi fidati dei loro rappresentanti.

Non si può infatti sostenere che i lavoratori del settore pubblico fossero a conoscenza della reale situazione economica e finanziaria del loro paese, perché solo recentemente i conti greci si sono manifestati per ciò che sono. Sarebbe dunque opportuno che il dito venga puntato contro chi ha mentito sulla solidità patrimoniale del paese e nulla ha fatto per risanare i conti pubblici di una nazione già da anni caratterizzata da una corruzione pari all’ 8% del Pil, un’economia sommersa pari al 25% del Pil e da un clientelismo divenuto strutturale e fisiologico. Una situazione che tanto ricorda quella italiana.

C'è chi sostiene che l'ora più buia sia quella appena prima dell'alba. Certo arriverà il momento in cui il sole tornerà a splendere sulla Grecia, ma non adesso: prima di assaporare l'alba, Atene dovrà viaggiare a lungo in una scurissima, ingiusta e violenta notte. E a rischiare di perdere tutto saranno sempre gli ultimi.

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Il 9 maggio, per la Russia e per i sovietici che vinsero la seconda guerra mondiale contro i tedeschi invasori, è Festa della Vittoria. Festa grande e memorabile per il 65mo con parate, sfilate, commemorazioni ed incontri tra i pochi veterani. Ma non mancheranno le polemiche. Perché in tutte le città della Russia quanti rispettano la verità storica hanno imposto che siano tirati fuori dagli archivi manifesti e ritratti di Stalin, l’uomo che ha segnato le tappe della vittoria.

E in questo revival arriva la notizia che già in Ucraina, nella città operaia di Zaporogie, è stato inaugurato un monumento a Stalin; il primo in questi ultimi vent'anni, da quando con la disgregazione dell'Unione Sovietica si è dato il via ad un processo di revisione della storia del paese.  Sono cominciati i “processi” a Stalin e si è cercato di mettere in archivio il suo ruolo nel periodo della seconda guerra mondiale.

Dalla città ucraina giunge così una sorta di monito: Stalin non si tocca. Perché c’è un busto di Stalin (tre metri di altezza) in uniforme, con la Stella di Eroe dell'Urss, scoperto durante una manifestazione organizzata dal Partito Comunista dell'Ucraina alla presenza di oltre centomila persone. Un evento che è stato ampiamente commentato in tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica e che certamente farà discutere in questi giorni di festa.

Intanto Mosca si prepara al grande evento: sulla Piazza Rossa - sede storica delle grandi manifestazioni e parate - si è svolta una prova della Parata della Vittoria. La prima che ha visto sfilare fianco a fianco militari russi e stranieri provenienti dalla Gran Bretagna, Francia, USA, Polonia nonché dai paesi della Csi. Alla sfilata hanno partecipato più di 150 veicoli blindati da combattimento, tra cui gli storici carri armati ?-34. In bella mostra anche nuovissimi modelli di mezzi bellici, veicoli corazzati e complessi missilistici.

Ed ora, mentre si attende il grande evento del 9, arriva su una Russia già ben provata dalle polemiche e dalle revisioni storiche, una nuova doccia fredda sul tema di Stalin. C’è, infatti, il presidente Medvedev che convoca nella sua residenza il direttore del quotidiano Izvestija per parlare dell’era di Stalin, della guerra, dell’Armata Rossa e del ruolo del Generalissimo. Ne esce - in 75 minuti di intervista - un ritratto a tutto campo su questioni che per molti - stalinisti e antistalinisti - sono motivo di scontro proprio in queste ore che dovrebbero essere di Festa e di Vittoria.

Medvedev dice, in primo luogo, che senza l'Armata Rossa, che sconfisse il nazifascismo, oggi l'Europa sarebbe diversa. Il mondo deve però sapere - aggiunge - la verità completa sulla guerra, in quanto oltre ai materiali del Processo di Norimberga, c’è sempre forte la memoria umana. E così, tenendo conto che ogni forma di apologia del nazismo rappresenta un esempio di “maligna perfidia” va anche rilevato - aggiunge il Presidente russo - che “il più importante insegnamento che dobbiamo trarre dalla Seconda Guerra mondiale consiste nella necessità di evidenziare le verità storiche”.

Tutto questo perché è sempre più viva la necessità di contrastare la falsificazione dei fatti storici risalenti a periodi passati. E qui va rilevato - dice ancora Medvedev - che ci sono stati e ci sono tentativi di alcuni politici dell'Europa Orientale di interpretare gli avvenimenti storici seguendo gli specifici interessi del momento. Si è così cercato di riabilitare i criminali nazisti e di mettere anche sullo stesso piano il ruolo svolto dall'Armata Sovietica con quello degli aggressori fascisti.

“In realtà il nostro popolo - sottolinea Medvedev, - non aveva altra scelta: gli abitanti del nostro paese allora potevano solo o morire o diventare schiavi. Una terza variante non esisteva, è un fatto accertato. E inoltre: chi iniziò la guerra? La risposta è del tutto evidente ed è confermata non solo dai documenti del processo di Norimberga, ma dalla memoria popolare. Il tentativo di rimaneggiare i fatti storici, è solo dettato da evidenti e cattive intenzioni”. Per quanto concerne il ruolo dell'Esercito Sovietico, la verità è che le perdite delle truppe tedesche sul Fronte Orientale superavano il 70 % del totale. Nel contempo nessuno vuole idealizzare la parte sostenuta dal nostro paese negli anni postbellici, - sottolinea ancora Medvedev.

“Ma c’è anche da dire che bisogna saper scindere la missione dell'Armata Rossa e dello Stato sovietico durante la guerra da ciò che avvenne poi. E' sempre difficile, ma bisogna scindere l'uno dall'altro. Vorrei sottolineare ancora una volta che se non ci fosse stata l'Armata Rossa, se non ci fosse stato il colossale sacrificio del popolo sovietico posto sull'altare della Guerra, l'Europa oggi sarebbe un'altra. Non ci sarebbe stato l'attuale assetto dell'Europa, moderna, in rigoglio, progredita, ricca, in sviluppo”.

“Ora però - prosegue Medvedev - non si può assolutamente mettere sullo stesso piano il ruolo svolto dal nostro esercito e quello degli aggressori fascisti. In questo senso va detto che oggi i tedeschi si comportano con maggiore dignità di alcuni rappresentanti, per esempio, degli stati baltici dell’ex Urss”. Segue poi l’affondo su Stalin. Medvedev parla di questo “argomento” rilevando che “ci sono alcuni momenti del tutto evidenti: la Grande Guerra Patriottica è stata vinta dal nostro popolo e non da Stalin, e nemmeno dai capi militari malgrado l'importanza della loro missione”.

Vittoria del popolo, quindi, e non del Cremlino di Stalin. E su questo la presidenza russa passa e chiude. Ora sarà la grande piazza della Russia a dare una sua risposta. Si sa già che il Cremlino ha proibito la presenza di ritratti di Stalin o cartelli che ne esaltino il ruolo nelle piazze dove si svolgeranno le manifestazioni ufficiali.  Ampia libertà, invece, nel perimetro delle piazze e delle strade dove si svolgeranno i vari cortei organizzati, appunto, al di fuori dell’ufficialità e del protocollo statale. Intanto Mosca offre un mercato straordinario di cartelli, foto, calendari, giornali, riviste, videocassette, distintivi. Ed è Stalin, ovviamente, che domina.

di Michele Paris

Come previsto da quasi tutti i sondaggi della vigilia, il voto in Gran Bretagna non ha prodotto un chiaro vincitore. Lo spettro del cosiddetto “hung Parliament” si è così materializzato, con i Conservatori che hanno ottenuto il maggior numero di seggi senza però raggiungere la maggioranza assoluta per formare un governo monocolore. In un clima di profonda disaffezione per la classe politica nazionale, gli elettori britannici hanno inflitto una sonora lezione ai laburisti - anche se la sconfitta è risultata meno pesante delle aspettative - mentre la bolla dei liberaldemocratici si è alla fine sgonfiata, lasciando al loro leader Nick Clegg ridotti spazi di manovra nelle trattative post-elettorali dei prossimi giorni.

Al termine delle operazioni di spoglio nei 649 distretti elettorali per eleggere altrettanti membri della Camera dei Comuni (in un distretto il voto è stato rinviato per il decesso di un candidato), i Tory hanno conquistato 306 seggi (36% del voto popolare), contro i 258 (29%) del Partito Laburista e 57 (23%) dei LibDem. Per il partito del presunto astro nascente della destra britannica, David Cameron, un incremento di 97 seggi rispetto al 2005 non è stato sufficiente a fargli raggiungere la soglia dei 326 per governare in solitudine. Il Labour di Gordon Brown, dato da qualche sondaggio addirittura in terza posizione, ha perso 91 seggi. Cinque invece sono stati quelli persi dai liberaldemocratici.

Una forte migrazione del voto dai laburisti verso i conservatori è stata registrata nei distretti dell’Inghilterra, mentre il partito di governo ha tenuto in Galles e, soprattutto, in Scozia. Nonostante abbiano poi raccolto il numero più basso di consensi dal 1983, i laburisti hanno portato a casa vittorie inaspettate in una cinquantina di distretti dove erano dati nettamente sfavoriti e in molti dei 116 distretti che i Tory avevano individuato come obiettivi principali della loro campagna elettorale.

Senza un chiaro vincitore, in una delle più incerte votazioni degli ultimi tre decenni, i cittadini britannici non hanno così assistito alla consueta immagine del primo ministro designato entrare trionfante al numero 10 di Downing Street il giorno dopo le elezioni. I commenti dei tre leader dei principali partiti hanno rispecchiato l’incertezza dell’esito e la delusione per non aver ottenuto i risultati sperati, sia pure in diversa misura. Da Edimburgo, Gordon Brown si è detto in ogni caso orgoglioso dei tredici anni di governo laburista, confermando di voler giocare un ruolo di primo piano anche nel prossimo governo del paese.

La mancanza di una maggioranza assoluta per i conservatori ha alimentato una debole speranza all’interno del Labour di rimanere al potere malgrado la sconfitta. Lord Mandelson, ministro e stretto alleato di Brown, ha così fatto riferimento alla pratica - la Gran Bretagna non ha una costituzione scritta - che vorrebbe il leader del governo uscente provare per primo a formare un governo se il partito con il maggior numero di seggi non può farlo in autonomia. Per i laburisti il percorso più logico sarebbe un governo di coalizione con i liberaldemocratici. La modesta prestazione di questi ultimi non consentirebbe comunque ai due partiti di raggiungere la soglia dei 326 deputati.

Come se non bastasse, durante la campagna elettorale, Nick Clegg aveva più volte sostenuto che un’eventuale alleanza con i laburisti avrebbe dovuto prevedere il siluramento di Gordon Brown. Un’asse Labour-LibDem dovrebbe tuttavia fare affidamento su altri partiti minori per ottenere la maggioranza in parlamento; in caso contrario potrebbe sorgere un governo di minoranza, costretto a chiedere i voti mancanti volta per volta. Tra le ipotesi percorribili – forse la più probabile - c’è anche quella di un governo di minoranza capeggiato dal numero uno dei conservatori, David Cameron. A conferma di ciò è già partita ieri un’offerta ai liberaldemocratici per un’alleanza di governo.

Le differenze sostanziali che dividono i Tory da quasi tutti gli altri partiti minori (liberaldemocratici compresi) rendono però tutt’altro che semplice questa soluzione. Le sconfitte di due politici alleati dei Tory in Irlanda del Nord - il leader degli Unionisti, Sir Reg Empey, e il primo ministro nordirlandese, Peter Robinson - rischiano poi di complicare ulteriormente i progetti dei conservatori.

Oltre alle divergenze sui temi economici tra Tory e LibDem, lo scoglio principale verso un’alleanza tra Cameron e Clegg è la riforma elettorale, presupposto irrinunciabile per l’ingresso in un governo di coalizione dei liberaldemocratici. La legge britannica prevede un sistema maggioritario a turno unico (“first-past-the-post”) che penalizza fortemente un partito come quello Liberaldemocratico. Se i laburisti hanno più volte aperto spiragli per una riforma in senso proporzionale, i conservatori sono contrari ad una modifica delle regole di voto in questo senso. Al massimo, sembrano disposti a concedere la promessa di un referendum nel prossimo futuro.

Al di là delle trattative per risolvere lo stallo del primo “hung Parliament” dal 1974, le elezioni britanniche hanno fornito sostanzialmente due segnali importanti: la punizione subita dal Partito Laburista e la conferma della crisi della democrazia rappresentativa in Gran Bretagna come altrove. La batosta patita dai laburisti deve far riflettere a fondo sull’evoluzione di un partito che, dopo la svolta del “New Labour” segnata dal successo di Tony Blair nel 1997, di fatto ha rinunciato a rappresentare gli interessi dei lavoratori e della middle class britannica.

In tredici anni di governi di Blair e Gordon Brown il divario tra ricchi e poveri si è allargato molto di più rispetto persino ai due decenni precedenti con gabinetti guidati dai conservatori. Le politiche “business-friendly” che hanno caratterizzato questi anni, assieme al sostegno incondizionato alla guerra in Iraq, hanno prodotto un profondo malessere tra quegli stessi elettori che avevano decretato il trionfo del 1997. Così, il Labour, con il suo progetto politico e sociale, ha finito col diventare pressoché indistinguibile dagli altri principali partiti britannici, tutti con il capitale e i grandi interessi economici al centro della propria azione.

Di conseguenza, il sentimento comune degli elettori britannici, simile a quello di molti altri paesi in occidente, è stata la sfiducia in una classe politica percepita come incapace di far fronte ai problemi reali della gente comune. Di fronte ad una disoccupazione a livelli record e una povertà sempre crescente, la ricetta consueta per tutti è quella dell’austerity. Sotto le pressioni degli organismi internazionali e delle grandi banche, le scelte del prossimo governo britannico - quale che sia il partito o i partiti che lo guideranno - appaiono già scritte.

Di fronte ad un debito colossale, gonfiato soprattutto dal massiccio intervento pubblico per salvare le banche dal baratro dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, i provvedimenti da adottare saranno quelli dettati dai rappresentanti del capitale internazionale. Il voto per i Tory, il Labour o i LibDem, invariabilmente, non è altro che un voto per nuovi tagli ai salari del settore pubblico, alle pensioni, alla sanità, alla scuola, al welfare e ai programmi sociali. Come per la Grecia e la Lettonia, e a breve forse anche per Spagna, Portogallo, Irlanda o Italia, insomma, a pagare il prezzo della crisi saranno sempre gli stessi.

di Luca Mazzucato

Un bilancio di tre morti nella più grossa manifestazione che la Grecia ricordi, dalla caduta della dittatura fascista nel 1974. Lo sciopero generale sta innescando una serie di scioperi ad oltranza nel pubblico impiego. Altrenotizie ha raccolto la testimonianza di Nikos Lountos, presente sul luogo della tragedia. Nikos è un giornalista e membro del partito extraparlamentare Solidarietà dei Lavoratori (SEK).

Ci puoi raccontare cosa è successo durante la manifestazione nei suoi momenti più drammatici?

Mi trovavo proprio di fronte all'edificio dove è avvenuto il fatto. Si tratta di una banca greca, all'interno c'erano cinque o sei impiegati. Tutte le banche ad Atene sono state chiuse per via dello sciopero generale e della manifestazione, tutte eccetto questa. La banca era chiusa al pubblico ma il proprietario ne aveva precettato i dipendenti, che stavano lavorando in uffici all'interno del palazzo. Il proprietario della banca aveva bloccato tutte le uscite per paura che qualcuno potesse entrare dalla strada. Quando un anarchico ha lanciato la bottiglia molotov contro il vetro della banca, l'intero palazzo è andato a fuoco in pochi secondi e gli impiegati non sono riusciti ad uscire, sono rimasti intrappolati all'interno e sono morti soffocati. Ad aggravare la situazione c'è il fatto che i pompieri hanno potuto raggiungere il posto solo dopo circa mezz'ora, nonostante la loro stazione fosse vicina, poiché la polizia aveva chiuso tutto il centro della città.

Sei certo che siano stati gli anarchici a lanciare la bottiglia molotov?

Sì, gli anarchici tentano sempre di lanciare bottiglie molotov contro le banche, o attaccarne le vetrine con pietre e spranghe. La maggior parte delle volte non ci riescono, grazie al servizio d'ordine. Ma vorrei far presente che se tutte le uscite dell'edificio non fossero state chiuse a chiave dal proprietario della banca, intrappolando i suoi impiegati all'interno, la tragedia si sarebbe certamente evitata.

Chi ha organizzato le dimostrazioni di questi giorni?

Le confederazioni sindacali hanno organizzato la manifestazione e lo sciopero generale. È stata la manifestazione più grande dal 1974, quando abbiamo abbattuto la dittatura. Secondo la BBC quattrocentomila persone, ma basandomi sulla mia esperienza di piazza credo più di un milione. Quando la testa del corteo ha raggiunto il Parlamento, la coda della manifestazione non era ancora partita.

Passiamo alle considerazioni politiche sull'attuale situazione greca. Come hanno accolto i greci il patto tra il governo, il Fondo Monetario e la Germania?

La stragrande maggioranza della popolazione è assolutamente contraria all'accordo, come dimostrano i sondaggi. Il movimento popolare contro il governo è letteralmente esploso e questo è solo l'inizio. I sindacati sono totalmente contrari ai tagli draconiani ai salari statali e alle pensioni che il governo ha negoziato con la Germania e l'FMI come garanzia al prestito. Ci sono vari settori di lavoratori che dopo aver partecipato allo sciopero generale di oggi stanno organizzando scioperi ad oltranza in tutti i settori. Gli operatori ecologici sono già in sciopero da giorni, non raccolgono più rifiuti e gli insegnanti bloccheranno gli esami e gli scrutini.

I socialisti sono al governo da pochi mesi, qual è la situazione politica in questo momento?

La situazione è imprevedibile. I socialisti hanno vinto le elezioni in ottobre con lo slogan esattamente opposto: “Ci sono abbastanza soldi per tutti!” I sindacati che hanno organizzato lo sciopero generale contro il governo sono parte integrante del partito socialista e la maggior parte delle persone che erano in piazza oggi hanno votato per l'attuale maggioranza di centrosinistra. Non è possibile alcuna soluzione dall'alto.

I tagli drastici al pubblico impiego riusciranno a passare in Parlamento o il governo rischia di cadere?

La legge verrà approvata sicuramente, hanno una maggioranza schiacciante in Parlamento. Anche il partito fascista approva i tagli, che verrano dunque approvati quasi all'unanimità. Il governo non cadrà perché non c'è al momento alcuna opposizione. La destra ha appena perso le elezioni e ha eletto un nuovo leader dopo una lotta fratricida e ora è nel caos. I socialisti potrebbero persino vincere di nuovo in caso di elezioni anticipate, proprio perché non c'è alcuna alternativa credibile. La confusione è totale.

Quali proposte avanza il movimento?

Prima di tutto vogliamo un'escalation del movimento popolare. Stiamo organizzando scioperi ad oltranza per bloccare tutti i settori statali e vogliamo occupare le fabbriche e le università. Molte aziende sono fallite a causa della crisi, è il momento che i lavoratori se le riprendano: le occupazioni sono già cominciate. Chiediamo la nazionalizzazione delle banche sotto il controllo dei lavoratori.

Occupazioni, nazionalizzazioni e scioperi ad oltranza sono la proposta della sola sinistra extraparlamentare o godono di un consenso più vasto?

Innanzitutto in Grecia la sinistra radicale è fortemente legata ai sindacati, queste discussioni si stanno svolgendo all'interno delle assemblee dei lavoratori. Alcune fabbriche sono già state occupate nei mesi scorsi. L'Argentina non è però il nostro modello. Lì la maggior parte del movimento non era organizzato ma spontaneo e non era abbastanza forte da prendere il controllo dell'economia. In Grecia la struttura politica e sindacale è fortemente organizzata e decisa.

Cosa succederà nei prossimi mesi?

Questo governo è un vero disastro, tutte le sue previsioni si sono rivelate sbagliate. Soltanto un mese fa dichiaravano che non sarebbero ricorsi all'FMI. Il prestito contrattato non è sufficiente e anche Spagna e Portogallo sono sull'orlo del collasso. Avremo occupazioni in tutte le università greche in solidarietà con i lavoratori. Credo che la cosa più interessante da capire é quello che succederà all'interno del Partito Socialista, dove si gioca tutto. Il partito è spaccato, gli stessi sindacati che hanno appoggiato il governo alle elezioni ora sono in piazza. Alla manifestazione di oggi il leader del sindacato più importante, che è anche membro del Partito Socialista, è stato fischiato ininterrottamente. La situazione è aperta e fluida, le discussioni nelle università e nelle fabbriche sono tuttora in corso. È molto difficile però che il governo cada.

C'è il pericolo di un'uscita autoritaria da questa situazione di instabilità?

Lo escludo con certezza. I partiti di destra al momento sono molto deboli e non c'è alcun blocco sociale reazionario che potrebbe appoggiare una soluzione autoritaria. Né l'esercito né la polizia si presterebbero a questo gioco e una situazione da stato di polizia durerebbe pochissimo perché tutta la popolazione si riverserebbe in piazza, come stiamo vedendo proprio in questi giorni.


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