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di Eugenio Roscini Vitali
Giovedì 27 maggio il presidente americano Barak Obama ha presentato al Congresso e alla nazione il documento riguardante la stragia sulla sicurezza nazionale, un atto che sostanzialmente sancisce una linea di continuità con il suo predecessore, George W. Bush, e ribadisce la volontà americana di «mantenere la superiorità militare che per decenni ha garantito la sicurezza nazionale e sostenuto la sicurezza globale».
Pur avendo identificato nei cosiddetti “terroristi cresciuti in casa” il nuovo nemico interno, l’inquilino della Casa Bianca non ha proposto eccessive novità e si è limitato a cambiamenti puramente linguistici. Nel documento non si parla più di una “guerra contro il terrore”, ma di una guerra contro Al-Qaeda; non ci si appella più al diritto ad agire in modo autonomo ed unilaterale, ma si proclama la necessità di rafforzare la propria legittimità attraverso un ampio sostegno internazionale.
Niente di nuovo dunque e nessun riferimento alla notizia diffusa qualche giorno prima dal New York Times che ha parlato di un ordine militare segreto firmato il 30 settembre scorso dal generale David Howell Petraeus, capo del Comando Centrale USA per il teatro mediorientale (Centcom), un documento in sette pagine con il quale è stato dato il via all’impiego di forze speciali per azioni di guerra non convenzionale e sotto copertura.
La direttiva, approvata dal Comandante in capo, Barak Obama, autorizza il Pentagono a svolgere attività clandestine in Medio Oriente, nel Corno d’Africa e in tutte quelle aree, inclusi i così detti “Stati amici”, dove la reazione alla minaccia è più lenta o meno efficace e dove è necessaria un’azione di forza, anche a rischio di aprire una crisi diplomatica. La disposizione emanata da Petraeus completa il piano iniziato dalla prima amministrazione Bush e rappresenta l’ultima fase di un progetto che prevede la realizzazione di una rete militare capace di colpire e neutralizzare le cellule e i gruppi terroristici legati ad Al Qaeda e coprire i settori geografici dove vengono promosse attività anti occidentali.
Nella sostanza, la dialettica delle amministrazioni che dal dopo guerra ad oggi si sono susseguite alla guida della più grande potenza militare mondiale non è mai cambiata: preparare un’alternativa militare nel caso in cui la diplomazia fallisca. Quello che è cambiato nell’ultimo decennio è un’accentuata applicazione della politica dell’intervento preventivo, la politica della pressione sui gruppi eversivi suggellata da un livello sempre più alto della sicurezza nazionale evocata dalla presidenza Bush. Al ciclo, iniziato alla fine del secolo scorso da "Dick" Cheney e Ronald Rumsfeld, il comandante del Centcom aggiunge però un tassello: il Pentagono potrà pianificare uno sforzo sistematico e di lungo termine in territori ritenuti sensibili senza la regolare supervisione del Congresso e l’approvazione preventiva della Casa Bianca.
La gestione diretta di tutte le fasi delle operazioni segrete anti-terrorismo riduce sensibilmente la dipendenza del Pentagono dalle agenzie d'intelligence ed invade in particolare il campo della CIA, fatto non del tutto nuovo viste le iniziative che negli ultimi tempi hanno caratterizzato l’azione delle truppe Usa in Medio Oriente, la gestione dei rapporti con i contractors che hanno il compito di dare la caccia ai talebani in Pakistan e in Afghanistan, gli interventi in appoggio alle truppe locali in Yemen e le infiltrazioni e gli attacchi ai rifugi qaedisti in Somalia, come quello avvenuto poche ore dopo l’emanazione dell’ordine del Generale Petraeus, nel quale è morto Saleh Ali Saleh Nabhan, uno dei terroristi islamici più ricercati dell’Africa orientale.
Nel quadro della nuova lotta globale alla minaccia terroristica rientrano anche le operazioni già avviate, come la crescente implicazione militare americana in Mali, voluta da Bush per cercare di contrastare le attività dei terroristi islamici nello Sahel ed autorizzata da Barack Obama per rafforzare la presenza Usa in Africa. Un intervento nato per difendere la giovane democrazia africana e i suoi giacimenti (oro, uranio, ferro e fosfati) da Al-Qaeda, anche se nulla prova che Al-Qaeda nel Sahara sia davvero Al-Qaeda e non sia piuttosto un’organizzazione nata grazie agli appoggi di qualche servizio segreto “deviato” e alla disponibilità di personaggi quali Amari Saifi El-Para, ex-ufficiale delle forze speciali algerine addestrato (guarda caso) tra il 1994 e il 1997 dai berretti verdi americani a Fort Bragg.
Secondo alcuni funzionari il provvedimento firmato da Petraeus potrebbe aprire la strada ad un possibile attacco all'Iran. Qualora le tensioni sul dossier nucleare dovessero riacutizzarsi la partita si giocherebbe sulla possibilità di evitare che Israele metta in atto un intervento militare preventivo che darebbe vita ad una lunga guerra di posizione. A marzo, subito dopo la visita a Gerusalemme del vice presidente americano Joe Biden, la Casa Bianca ha deciso di rafforzare la sua presenza militare nell’Oceano Indiano, destinando all’arsenale della base aerea situata sull’isola Diego Garcia, arcipelago delle Isole Chago, 1.500 chilometri a sud dello Sri Lanka, 387 sistemi d’arma Joint Direct Attack Munition (JDAM), i famigerati kit aggiuntivi che installati sulle bombe MK-84/BLU-109 da 2.000 libre (909 chilogrammi) o sulle MK-83/BLU-110 da 1.000 libre trasformano gli ordigni nelle micidiali bombe anti-bunker che potrebbero essere utilizzate per attaccare i siti nucleari e le installazioni della difesa aerea iraniana.
Nonostante l’appoggio della Casa Bianca - nella sola penisola Arabica nel 2010 il Dipartimento della Difesa ha già speso più del doppio dei 150 milioni di dollari destinati all’acquisto di elicotteri ed armamenti per le forze speciali che operano in appoggio alle forze locali - negli Stati Uniti la disposizione emanata da Petraeus ha comunque sollevato non poche perplessità. Negli ambienti del Pentagono c’è chi teme che nel caso in cui i commandos cadessero nelle mani del nemico potrebbero essere accusati di spionaggio e perdere i diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra.
E a Washington c’è chi teme che l’impiego di militari in azioni di guerra non proprio convenzionionali e sotto copertura, potrebbe compromettere le relazioni con Paesi amici come l'Arabia Saudita e lo Yemen o esacerbare ulteriormente gli animi in nazioni ostili come la Siria e l'Iran, dove operano gruppi che, secondo Teheran, godrebbero del sostegno dell’intelligence americano, come il movimento armato separatista sunnita Jundullah (Soldati di Dio) che per anni ha seminato terrore e violenza nel Balucistan iraniano.
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di Marco Montemurro
L’Expo di Shanghai, evento che passerà alla storia come la più grande esposizione universale, è pronto a ospitare i rappresentati delle potenze mondiali. È una tappa irrinunciabile per ogni capo di stato che intende recarsi in Cina e, difatti, nell’arco di una sola settimana l’Expo apre le porte a ben due personalità di rilievo. Il 22 maggio Hillary Clinton, Segretario di Stato statunitense, ha visitato l’esposizione di Shanghai e, dopo pochi giorni, è stata la volta della Presidente dell’India, Pratibha Patil.
Stati Uniti e India si mostrano dunque fortemente interessati a coltivare buone relazioni diplomatiche con la Cina, ben consapevoli di quanto sia fondamentale intessere rapporti commerciali con il gigante asiatico. Per i 189 paesi partecipanti, l’Expo è una straordinaria occasione per stringere relazioni economiche e, in tale contesto, la Cina è l’attrice protagonista, da tutti corteggiata per le sue prospettive di crescita.
Fino al 31 ottobre, per sei mesi Shanghai sarà un centro nevralgico del mondo, in cui affluiranno capi di stato, delegazioni d’industriali, politici in missione e turisti curiosi. Una folla eterogenea percorrerà i numerosi padiglioni, strutture progettate appositamente per l’Expo su un’area vasta oltre 5 km quadrati. Ogni paese ha contribuito a costruire un intero edificio, per poi allestirlo in base alle proprie specialità da promuovere, scelte in armonia con il tema centrale dell’esposizione "Better city, Better life", ossia una città migliore per una vita migliore.
La Cina vanta il padiglione più imponente dell’Expo, una grande piramide rovesciata, dipinta con la stessa tonalità di rosso della città imperiale. Le nazioni più influenti del pianeta gestiscono enormi edifici, ricchi di attrazioni ed eventi, dunque, entro tale contesto spettacolare, i rappresentati di Stati Uniti e India hanno ritenuto un dovere visitare i loro rispettivi padiglioni.
Hillary Clinton, in veste di Segretario di Stato, ha attraversato con ammirazione l’Expo e l’area statunitense al suo interno. L’entusiasmo mostrato, però, probabilmente era offuscato dai motivi della sua visita, pieni di preoccupazioni. La Clinton in effetti si è recata in Cina per partecipare, insieme al Segretario del Tesoro statunitense Geithner e al presidente della Federal Reserve Bernanke, al secondo Strategic and Economic Dialogue, svoltosi a Pechino il 24 e 25 maggio esclusivamente tra Stati Uniti e Cina.
Quando tale vertice fu organizzato per la prima volta, nel luglio 2009, i media coniarono il termine G-2, definizione scelta per evidenziare come gli equilibri mondiali siano influenzati da due grandi nazioni, Usa e Cina. Il governo statunitense infatti, per risollevare il paese dalla crisi economica, guarda sempre di più verso una direzione: la Cina. “Le compagnie americane vogliono vendere merci prodotte dai lavoratori americani ai consumatori cinesi, dato che questi ultimi hanno redditi e domande crescenti”, così si è espressa Clinton, come ha riferito l’agenzia Reuters. Geithner, dal canto suo, ha invece cercato di spiegare ai vertici cinesi che la rivalutazione monetaria dello yuan può portare benefici anche alla Cina, e non solo alle esportazioni americane. È arduo, ma il presidente Obama, per creare due milioni di posti di lavoro, vuole raddoppiare le esportazioni degli Stati Uniti in Cina entro cinque anni.
Appena concluso il vertice tra Usa e Cina, denso di ansie, il giorno successivo è giunta a Pechino un’altra ospite importante, la presidente dell’India Pratibha Patil. L’evento è importante poiché da dieci anni un capo di stato indiano non si recava in Cina. Il viaggio celebra i 60 anni di relazioni diplomatiche tra India e Cina e, per ricordare il legame storico tra i due paesi, è stata programmata l’inaugurazione di un tempio buddista a Luoyang, nella provincia dell’Henan, località famosa perché duemila anni fa giunsero i primi monaci, dall’India, per diffondere la religione.
La presidente Patil comunque, oltre agli intenti celebrativi, non nasconde gli interessi economici della sua visita. È giunta accompagnata da una delegazione di industriali poiché, come riferisce il sito internet della presidenza, auspica nuovi accordi commerciali tra India e Cina. L’obiettivo è stipulare nel 2010 scambi bilaterali per un valore di 60 miliardi di dollari. Il secondo gigante asiatico, a differenza degli Stati Uniti, si presenta quindi sicuro di sé, vantando un’economia in crescita e, pertanto, in sintonia con il suo grande vicino cinese.
La tappa a Shanghai, con l’immancabile appuntamento all’Expo, è infine l’evento conclusivo del viaggio di Patil. Il 30 maggio la presidente dell’India visita il suo padiglione nazionale, uno dei più frequentati che, in nome dello slogan “uniti nella diversità”, promuove i molti volti del subcontinente. L’Expo dunque, con la sua serie di ospiti d’onore, realizza l’intento per il quale è stato progettato, ossia mostrare al mondo quanto la Cina sia ormai al centro dell’economia globale.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Il governo pakistano ha proibito ai suoi cittadini l’accesso ad alcuni tra i più visitati social network della rete, tra cui Facebook, YouTube e numerose parti dell’enciclopedia libera Wikipedia. Le ragioni di una mossa così ardita sarebbero, secondo i portavoce ufficiali, da ricercare nei “contenuti blasfemi“ di questi siti che offenderebbero la dignità religiosa dei credenti musulmani e, in particolare, pakistani. Secondo alcune fonti, la censura sarebbe una misura temporanea e sarà ritirata di qui a poco, entro il prossimo giugno.
Qualcun altro, però, teme una censura “a tempo indeterminato” e gli oltre 20 milioni di utenti pakistani, che quotidianamente hanno a che fare con il web 2.0, già cominciano a cercare vie alternative in quel crocevia di network che ormai la rete è diventata.
La questione pakistana è nata a causa di un concorso di disegno virtuale che si è diffuso proprio tramite il social network per eccellenza, Facebook. Una “community” si è presa la briga di invitare tutti i suoi adepti e non a mandare caricature del sommo profeta Maometto: per la pubblicazione di tutti i lavori si era decisa la data del 20 maggio.
Per quanto banale possa sembrare nel mondo occidentale, l’iniziativa porta in sé fin dall’inizio un alto potenziale di provocazione. Poiché la religione musulmana ha sempre vietato, sin dalla notte dei tempi, qualsiasi rappresentazione pittorica del profeta per eccellenza, Maometto. Le leggi islamiche vogliono evitare che le immagini, diventando più importanti di ciò che rappresentano, possano incoraggiare l'idolatria. Risultato? In millenni di storia Maometto non è mai stato rappresentato neppure per essere adorato; ci si può immaginare l’onta che avrebbe creato una serie di caricature nei suoi confronti, autorizzata e in mondovisione.
Tra le altre cose, l’iniziativa ha richiamato un’attenzione inaspettata: poco prima dell’oscuramento, la pagina aveva raccolto oltre 76 mila consensi espressi tramite la ben nota opzione Facebook “mi piace”. Ma la trovata non è sfuggita neppure ai musulmani più timorati: contro le caricature, offesi dal progetto artistico, si sono schierate quasi 90 mila persone, che hanno dato origine a un link anti- caricature. E la disapprovazione non si è fermata nel virtuale: numerosi musulmani hanno protestato anche fisicamente, nelle strade pakistane, contro la discussa pagina.
A questo punto, al governo pakistano non è rimasto che intervenire: l’autorità competente, la Pakistan Telecommunication Authority (PTA), ha ordinato mercoledì al Nayatel, il provider locale, il blocco totale di Facebook e YouTube. L’ordine è stato eseguito subito dal provider e senza discussioni: evidentemente il tono della richiesta da parte della PTA non lasciava dubbi sulla gravità della situazione.
“Tali attacchi maliziosi e offensivi feriscono profondamente i sentimenti dei musulmani nel mondo e non possono essere accettati neppure in nome della libertà di espressione”, ha commentato il portavoce dell’ufficio esteri Pakistano Abdul Basit riguardo la faccenda. Secondo quanto riporta l’agenzia stampa Reuters, Basirt ha sottolineato che la pubblicazione delle caricature avrebbe toccato un tasto troppo delicato per i credenti musulmani per poter passare inosservata. La censura garantirebbe la dignità ai credenti musulmani.
In realtà, un avvenimento simile si è già imposto all’attenzione dei media qualche anno fa e con conseguenze ben più tragiche. Nel 2005, la pubblicazione di una serie di vignette satiriche sul quotidiano danese Jyllands-Posten aveva provocato proteste infuocate nei Paesi islamici: Reuters ricorda che le vittime della violenza di queste manifestazioni sono state 50, delle quali ben 5 nel solo Pakistan.
E intanto gli utenti pakistani si attrezzano. Molti stanno cercando di orientarsi a Twitter e a tutti gli altri social network ancora in circolazione per “mantenere i contatti”, sperando che l’attuale oscuramento duri il meno possibile. L’offesa che le caricature di Maometto avrebbero potuto arrecare è grande, ma neppure il timore di non poter più utilizzare Facebook & Co. è trascurabile. Si calcola che il 20- 25% di tutti gli utenti pakistani utilizzino Internet solo per i servigi di YouTube e Facebook: comunicare con parenti magari lontani e condividere emozioni nella realtà virtuale del web 2.0 è diventata ormai una priorità di tutti, musulmani, cattolici o atei poco importa.
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di mazzetta
Meles Zenawi ce l'ha fatta a riconfermarsi al potere per un altro mandato. E’ presidente dal 1991, ma il potere non l'ha logorato e si è dato da fare per rimanerci. Ha conquistato la stragrande maggioranza dei seggi contro una coalizione di otto partiti alla quale non ha lasciato neppure le briciole. Le elezioni, una farsa anche per gli standard africani, sono una formalità introducendo l quale Zenawi diventò beniamino dell'Occidente, ma sono poco più che un adempimento formale.
I candidati dell'opposizione sono regolarmente intimiditi e imprigionati e i loro partiti si devono ancora riprendere dalle ultime elezioni, che hanno avuto la malaugurata idea di contestare con una manifestazione finita in un bagno di sangue. Dopo aver fatto uccidere dall'esercito qualche centinaio di oppositori, Zenawi pensò bene di accusare i leader dell'opposizione per quelle morti e i suoi tribunali hanno in seguito provveduto a condannarli a morte, salvo “graziarli” in seguito alle pressioni internazionali. Da allora entrano ed escono di prigione secondo l'umore del dittatore e ovviamente con l'approssimarsi della sfida elettorale sono tornati quasi tutti in galera.
Nell'ultimo mandato, oltre che per il massacro dell'opposizione, la sanguinosa repressione della regione dell'Ogaden e l'aver recluso più di ventimila studenti in lager nel deserto, Zenawi si è distinto per aver invaso la Somalia su mandato dell'amministrazione Bush. Ma non si deve pensare a Meles come a un pupillo dei repubblicani, visto che a scoprirlo fu Bill Clinton, il primo presidente americano a puntare sui suoi talenti e a nominarlo esempio di “una nuova generazione di leader africani”.
Zenawi ha buona stampa in Occidente, che gli deriva dagli “impressionanti” risultati della crescita economica del suo paese. Partendo da sotto-zero è facile far crescere l'economia di parecchi punti percentuali all'anno, basta qualche progetto di dubbio gusto e grande spesa come l'opera idraulica costruita da Salini, inaugurata da Frattini e crollata una settimana dopo per impennare il PIL. Così come basta una fornitura militare per impennare l'import o l'esportazione dell'energia prodotta dalle dighe per gonfiare il dato dell'export, lasciando al però al buio gli etiopi.
Niente di strano se a uno dei governi più corrotti del mondo viene concessa ogni licenza perché si accolla una guerra per procura, ma neppure niente da vantare come un successo, tanto che in Etiopia si muore ancora di fame e buona parte della popolazione resta sottoalimentata, a dispetto dell'impennata del PIL.
L'Etiopia invece è addirittura stata portata ad esempio ai fratelli africani dai quei geni che gestiscono il Fondo Monetario Internazionale ed è diventata tanto buona, così come il suo dittatore è diventato un rispettabile “presidente eletto”, qualifica che non si nega a nessuno dei dittatori allineati con l'Occidente.
L'Italia, in quanto potenza coloniale di riferimento,conta meno di niente e allora in Italia non se ne parla mai, se non per festeggiare con Frattini le grandi opere costruite con i finanziamenti italiani, che crollano subito. L'Italia fatica persino a concedere l'asilo politico alle vittime della dittatura.
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di Alessandro Iacuelli
Sembra venire finalmente alla luce un altro "segreto" degli scorsi decenni. Fatto già noto, ma mai confermato ufficialmente. Secondo il quotidiano The Guardian, alcuni documenti segreti sudafricani hanno svelato che, durante il regime dell'Apartheid, Israele si sarebbe offerto di vendere testate e tecnologie nucleari al paese africano. Secondo alcuni analisti, forse smemorati, si tratta della prima prova ufficiale sulla detenzione di armi nucleari da parte di Israele. In particolare, i documenti provano una serie di comunicazioni tra l'allora Ministro della Difesa sudafricano Botha e Shimon Peres, oggi Presidente di Israele, a partire dal 1975.
Nella sua offerta, Peres spingeva politicamente il collega sudafricano affinché optasse per l'acquisto di missili "Gerico". I due giunsero a un accordo, tenuto ovviamente segreto. Negli incontri di cui si parla nei documenti, e che portano la data del 31 marzo 1975, il colonnello sudafricano Armstrong scriveva che i vantaggi di tali armamenti erano rappresentati esattamente dalla loro dotazione nucleare. In seguito, Peres e Botha si incontrarono a Zurigo il 4 giugno e, in quell'occasione, si assegnò al progetto il nome in codice di "Chalet".
In realtà si trattò di una collaborazione internazionale, visto che nel tempo il Sudafrica, dotato di proprie miniere di uranio, produsse in proprio delle testate atomiche, con l'assistenza tecnologica israeliana. In cambio, il Sudafrica fornì a Israele ossido d'uranio. Nonostante tutto questo, si legge sulla stampa che non esistono prove scritte del possesso di armamenti e tecnologie atomiche da parte di entrambi gli stati.
Probabilmente la migliore prova non è quella scritta. Nel caso del nucleare militare, come avvenuto per gli Stati Uniti, per l'Unione Sovietica, e per tutti gli altri stati, la prova non è mai stata costituita da un documento scritto, quanto piuttosto da un'esplosione atomica sperimentale. E' qui che entra in gioco la strana smemoratezza degli esseri umani del XXI secolo. Infatti, non era certo mille anni fa, quel 22 settembre 1979, giorno ricordato come quello del cosiddetto "incidente Vela".
Alle nove del mattino, un capitano del DSP (Defense Support Program) dell'aeronautica degli Stati Uniti, di stanza nella sala di controllo dei satelliti spia americani, situata in pieno deserto del Nevada, lancia un allarme che, in piena guerra fredda, suona come pericoloso: il satellite artificiale Vela 6911 ha rilevato un doppio lampo, tipico di un'esplosione nucleare. Le coordinate sono 47 gradi latitudine sud, 4 gradi longitudine est. In pratica a cavallo tra l'Atlantico del Sud e l'Oceano Indiano. In quel tratto di mare completamente vuoto, c'è solo un'isola, quella di Bouvet; un isolotto, poco più di uno scoglio, sub-antartico. Un pezzettino di terra che affiora tra l'Antartide è il Sud Africa, a sud ovest del Capo di Buona Speranza.
I tecnici militari americani fanno presente che non era in programma nessun test atomico da parte di nessuna nazione, e stimano la potenza in 20 chilotoni. In più, l'esplosione è a doppio lampo, che è una caratteristica di un'atomica a fissione fatta esplodere non a terra, ma in atmosfera. Alle 10.15, il tutto è già sulla scrivania del presidente Carter, a Washington.
Nelle ore successive, un gruppo di scienziati presso una base antartica nel Territorio Antartico Australiano, dichiarano via radio di aver individuato del pulviscolo radioattivo che sta ricadendo sulla zona della base. L'Australia nega di aver eseguito un test nucleare. Il presidente Carter comunica direttamente con il Cremlino, a Mosca, dove i sovietici gli fanno notare che loro l'avrebbero fatta esplodere nell'Artico, o in Siberia.
La CIA rese noto alla Casa Bianca che il Sud Africa aveva un programma nucleare in corso, ma con il particolare che negli USA gli analisti militari erano convinti che i tempi non fossero affatto maturi per un test. L'incidente intanto aprì un caso diplomatico internazionale: l'isola Bouvet è territorio norvegese, anche se in passato la Gran Bretagna ha avuto delle pretese sull'isola, ma vi ha rinunciato. Anche se l'isola è disabitata, e c'è solo una stazione meteorologica automatica, il governo norvegese protestò vivamente, minacciando di rompere le relazioni diplomatiche con il Sud Africa, se si fosse scoperto che aveva fatto esplodere un atomica in territorio norvegese.
La CIA stessa provò ad insinuare che il satellite Vela fosse guasto, e che avesse reagito in modo anomalo ad un normale fenomeno atmosferico. L'Agenzia fu smentita dalla marina militare USA, i cui idrofoni avevano rivelato un segnale compatibile con un'esplosione atomica. Il resto lo fece la comunità scientifica: il telescopio di Arecibo aveva misurato un'anomalia nella ionosfera, compatibile con un'esplosione atomica.
Alla fine, la CIA ammise di sapere che anche Israele aveva un programma nucleare in corso, programma che andava avanti con l'appoggio e la collaborazione proprio del Sud Africa. Sei ore dopo l'incidente, si delineò però una strategia diplomatica completamente diversa: quella di negare l'esplosione nucleare, per non causare problemi al negoziato sulla non proliferazione nucleare che aveva portato nel '78 alla firma degli accordi di Camp David. Pertanto, si scelse di dire al pubblico che si era trattato di un guasto agli strumenti del satellite Vela, realizzati nei prestigiosi laboratori di Los Alamos.
Nel gennaio 1980, la commissione d'inchiesta, che piuttosto che far luce sull'accaduto doveva dimostrare l'inefficienza degli apparati del Vela, ebbe una battuta d'arresto durante le audizioni di ingegneri e fisici di Los Alamos, che non solo avevano progettato gli strumenti, ma avevano anche accuratamente studiato i dati di quel giorno: pertanto erano in grado di dimostrare scientificamente che si trattò davvero di un'esplosione nucleare. Così, anche la commissione d'inchiesta finì i suoi lavori in modo ridicolo, visto che nella sua relazione finale si legge: "Dopo attenta valutazione, questa Commissione stabilisce che con tutta probabilità non si è trattato di un'esplosione atomica. Tuttavia, non si è in grado di stabilire con certezza la natura del fenomeno."
Il Sud Africa aveva un programma di armi atomiche e la posizione geografica del test sembra indicare il Paese come il più probabile autore di quel test. Secondo il rapporto scritto dall'AIEA all'epoca dei fatti, il Sud Africa non avrebbe avuto la capacità di costruire un'arma simile prima del Novembre 1979, cioè due mesi dopo l'incidente. In ogni caso i servizi segreti degli Stati Uniti avevano avuto segnali di un rafforzamento delle misure di sicurezza nella base militare di Walvis Bay una settimana prima dell'evento. Questo fa ritenere che il test sia stato gestito da lì.
All'epoca dell'incidente Vela, Israele aveva già quasi certamente delle armi nucleari, ma è improbabile che avesse la capacità di allestire un test così lontano dal proprio territorio e contemporaneamente con un così elevato livello di segretezza. La CIA prese in considerazione anche l'India, vista la frequente presenza di navi indiane nella zona, ma l'ipotesi fu presto scartata per via della limitata capacità nucleare del Paese all'epoca dei fatti. Le principali potenze avevano scarso interesse a condurre ulteriori test in atmosfera e la potenza dell'esplosione faceva pensare che si trattasse di una tecnologia ancora arretrata.
Con la caduta dell'Unione Sovietica e la pubblicizzazione degli archivi dei loro servizi segreti, non è venuta alla luce alcuna indagine da parte sovietica. Il KGB si è limitato ad osservare quel che avveniva, a debita distanza, ma senza interessarsi a scoprire il colpevole. Una volta capito che non si trattava di un esperimento fatto da un Paese comunista, l'URSS classificò l'incidente come una polemica interna al blocco occidentale.
Nel febbraio 1994 un alto ufficiale della marina sudafricana, un contrammiraglio, fu arrestato con l'accusa di essere una spia sovietica. Costui dichiarò che il test era un’operazione congiunta israelo-sudafricana che non avrebbe dovuto essere scoperta, e che invece costrinse gli Stati Uniti a "turare la falla". Il 20 aprile 1997, il quotidiano israeliano Ha'aretz citò il ministro degli esteri sudafricano, che confermava il lampo luminoso del sud Atlantico come un test sudafricano. Poco dopo lo stesso ministro smentì dicendo di essere "stato frainteso" e che stava riportando solo alcune voci che circolavano da anni.
Oggi, appaiono nuove prove di un programma nucleare congiunto tra Israele e Sud Africa: in questi giorni, da Tel Aviv, si chiede all'attuale governo del Sudafrica di rispettare il carattere di segretezza di queste prove. Anche per continuare a sostenere che il pericolo sia rappresentato dall’Iran.