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di Eugenio Roscini Vitali
Anche se non ci sono riprese televisive, il 4 agosto in Iran un’esplosione c’è stata. Anzi, di esplosioni ce ne sono state due. La prima, avvenuta lungo la strada che dall’aeroporto di Hamadan porta allo stadio della squadra locale di football, ha interessato il corteo del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, in visita nel capoluogo dell’omonima regione per un comizio in favore del programma nucleare iraniano. La seconda, registrata a pochi minuti di distanza, ha colpito l’impianto petrolchimico della compagnia Pardis ad Assaluyeh, nell’Iran meridionale, e ha provocato la morte di cinque operai e danneggiato gravemente le strutture di produzione.
Per minimizzare i fatti di Hamadan, l’emittente iraniana in lingua araba Al Alam ha dovuto ammettere che la deflagrazione sarebbe stata causata da un numero eccessivo di fuochi d’artificio, accesi dai sostenitori al passaggio del corteo presidenziale, ma il network Al Arabiya parla di attentato e, secondo le informazioni diffuse da siti web vicini al regime e dall’agenzia filo-governativa FARS, ci sarebbero alcuni feriti e un arresto.
Quello dell’impianto di Assaluyeh, la cui seconda fase era stata inaugurata 28 luglio scorso dallo stesso presidente Ahmadinejad, è il terzo grave incidente registrato nell’arco degli ultimi due mesi in Iran e ufficialmente avrebbe avuto luogo durante la riparazione di una conduttura, una saldatura eseguita dagli operai della Pardis. Il 24 luglio l’impianto petrolchimico situato sull’isola di Khark, provincia di Bhusher, 1.200 chilometri a sud di Teheran, era stato investito da una vasta esplosione e da un incendio che aveva causato tre morti, un disperso e diversi feriti, alcuni dei quali intossicati dal gas.
Anche in questo caso le autorità avevano giustificato l’incidente con problemi tecnici: il surriscaldamento di una caldaia che aveva poi causato l’esplosione. Ma, visto che sull’isola sorge il più grande terminal petrolifero del Golfo Persico, il livello di allerta era cresciuto notevolmente. Il 29 maggio era invece esploso uno dei pozzi petroliferi di Naftshahr, provincia di Kermanshah: cinque i morti, 12 i feriti e una perdita di produzione di oltre 8.000 barili al giorno per 39 giorni, il tempo impiegato dal team della National Iranian Drilling Company (NIDC) per domare l’incendio e fermare la fuoriuscita di petrolio.
Con 2.4 milioni di barili al giorno, nel 2008 l’Iran è stato il quarto esportatore di petrolio al mondo; principali acquirenti sono stati i giganti asiatici (Giappone, Cina, India e Corea del Sud) e i Paesi europei appartenenti all’OECD (Italia, Spagna, Grecia e Francia). Sempre nello stesso anno la produzione è stata pari a 3.8 milioni di barili al giorno (5% della produzione mondiale), seconda solo a quella dell’Arabia Saudita (8.2) e davanti all’Iraq (2.4), agli Emirati Arabi Uniti (2.3) e al Kuwait (2.3); le aree di produzione sono quaranta, 13 delle quali offshore, e l’80% dell’estrazione arriva dalle grandi riserve del Khuzestan e dalle istallazioni situate nelle province di Bushehr, Fars, Kohkiluyeh e BoyerAhamd.
Nel gennaio scorso l’autorevole rivista Oil and Gas Journal ha stimato che per il 2009 la produzione iraniana è stata pari a 3.8 milioni di barili, 500 mila barili in più della quota OPEC prevista, e che la Repubblica Islamica possiede il 10% dell’intera riserva mondiale di greggio (137.6 miliardi di barili contro i 259.9 dell’Arabia Saudita e i 175.2 del Canada). Lo scorso anno gli impianti della National Iranian Oil Refining and Distribution Company (Abadan, Isfahan, Bandar Addas, Teheran, Arak, Tabriz, Shiraz, Kermanshah e Lavan Island) hanno raffinato 1.5 milioni di barili al giorno, una quantità che non soddisfa la domanda interna, ma che entro il 2013, grazie anche ai 40 miliardi di dollari che la Cina è pronta ad investire nella Repubblica Islamica, dovrebbe raddoppiare.
In Iran le vicende degli ultimi giorni sono sintomatiche di un aumento delle tensioni interne: la lista dei nemici dell’attuale regime è lunga e non manca chi è pronto a sostenerli. Ci sono le rivendicazioni politiche dei riformatori che, a causa delle contestazioni espresse nei riguardi del voto del 12 giugno 2009, stanno soffrendo una feroce repressione e il braccio armato dei Mujaheddin Khalq (MEK), gruppo armato iraniano con una lunga e insanguinata storia di opposizione al regime che attualmente non ha una reale capacità operativa ma che potrebbe entrare nella sfera di influenza qualche servizio segreto straniero disposto a finanziarlo.
Ci sono poi le aree dove le tensioni etniche possono dare origine a forme di separatismo armato e dove Washington e Tel Aviv potrebbero trovare spazio per preparare le basi di una resistenza interna: i curdi del Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Pjak) e gli azeri nel nord-ovest, i baluchi nel sud-est e ribelli sunniti Jundallah del Movimento di Resistenza Popolare dell’Iran (PRMI), i gruppi legati ad Al-Qaeda e gli ahwazi del sud-ovest arabo; 30 milioni di persone che rappresentano il 40% della popolazione iraniana e decine di movimenti che per ottenere ragione delle proprie istanze ricorrono ad ogni forma di lotta, compreso il terrorismo.
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di Fabrizio Casari
A poche ore dall’insediamento del nuovo presidente colombiano, Juan Manuel Santos, la tensione tra Venezuela e Colombia, costruita ad arte dall’uscente presidente Uribe, trova un nuovo focolaio interessato in Washington. Larry Palmer, designato dal Dipartimento di Stato come prossimo ambasciatore statunitense in Venezuela, si è infatti lasciato andare a dichiarazioni che di diplomatico hanno ben poco.
Scimmiottando le affermazioni di Uribe, nel rispondere alle domande poste in un questionario destinato al Senato statunitense (che dispone della facoltà di accettare o rifiutare la designazione dell’ambasciatore proposta dalla Casa Bianca) Palmer ha sostenuto che “nelle forze armate di Caracas il morale è basso; ciò a causa dell’aumento dell’influenza cubana, aspetto che sarebbe già stato rifiutato dai militari venezuelani”. Lo stesso Palmer ha poi aggiunto di aver chiari “i nessi tra la guerriglia colombiana ed il governo del Venezuela”.
Le parole di questo nuovo ambasciatore di guerra hanno trovato la pronta replica delle autorità venezuelane. Il Ministro della Difesa, Carlos Mata Figueroa, ha dichiarato che “le forze armate del Venezuela respingono categoricamente le dichiarazioni rilasciate da Palmer” e considerano che questo ipotetico ambasciatore “ in modo assurdo, temerario e irresponsabile, ha attaccato la dignità e il decoro dei militari venezuelani”. E ancora: “Solo una mente meschina, perversa e contorta potrebbe confondere la nostra collaborazione tra popoli fraterni con un’intromissione straniera”.
A giudizio del Ministro venezuelano, Palmer cerca di coinvolgere il Venezuela nel conflitto armato interno alla Colombia, “svelando il piano orchestrato dalle canaglie imperialiste rappresentate dal governo degli Stati Uniti”. Ognuno sceglie i toni che preferisce, ma é difficile dargli torto, in effetti, giacchè aldilà degli aggettivi, le dichiarazioni di Palmer sembrano direttamente confermare l’escalation della provocazione da parte di Washington nei confronti del governo venezuelano. Presentare le proprie credenziali da ambasciatore dopo simili affermazioni, sarebbe infatti un'autentica sfida alla sovranità del paese ospitante.
Le affermazioni dell’ambasciatore designato sembrano collocarsi perfettamente nel piano politico-mediatico redatto da Washington e Bogotà, destinato a portare Venezuela e Colombia ad una guerra. Il piano, già denunciato dal Presidente Hugo Chavez, prevederebbe l’eliminazione dell’inquilino di Miraflores e l’insubordinazione di settori delle forze armate venezuelane, che dovrebbero sabotare dall’interno le capacità di reazione dei militari leali alla Costituzione e all’autorità politica e istituzionale del paese di Simon Bolivar.
Il secondo aspetto del progetto golpista prevederebbe, infatti, sia l’entrata in azione delle forze armate colombiane (da qui la falsa accusa di sostegno alle FARC da parte di Caracas ndr) e sia - ove fosse necessario - il successivo affiancamento dei militari statunitensi, che dalle basi militari in Colombia, dalla IV Flotta di stanza nel Mar dei Caraibi e dalle truppe di terra stanziate in Costa Rica, dovrebbero riuscire a prevenire - o a respingere - eventuali reazioni dei paesi amici del Venezuela, significativamente Cuba e Nicaragua.
Il piano, pur con tutta la sua pericolosità, è naturalmente un progetto che non sarà né semplice, né indolore, provare a trasferire dalla carta a terra. D’altra parte, le dichiarazioni di Uribe circa la presunta copertura venezuelana ai guerriglieri colombiani delle FARC, non hanno raccolto grandi consensi nel subcontinente. Anzi, l’arcinota qualità di Bogotà nel fabbricare paccottiglia propagandistica, spacciandola per denuncia internazionale, proprio nei giorni scorsi ha subìto un’ulteriore conferma.
Un ufficiale dell’esercito colombiano, infatti, ha ammesso di aver manipolato a fondo il computer portatile di Raul Reyes, “Ministro degli ESteri” delle FARC ucciso durante un raid dell’esercito colombiano in territorio ecuadoregno, che vide un saldo di venticinque persone assassinate e la successiva crisi diplomatica tra Quito e Bogotà,che ha rischiato di degenerare persino sul piano militare, dal momento che il presidente Correa non consente passeggiate dei militari colombiani nel proprio territorio.
Quella del pc di Reyes è stata una delle pagine più comiche della fabbrica dei falsi di Uribe. Su quel computer, a detta dell’ex presidente colombiano, c’era di tutto: alleanze, appoggi, relazioni, strutture, capacità operative: insomma, sessanta anni di storia guerrigliera colombiana in un portatile.
Ovviamente, nello stesso portatile, come per incanto, appariva la conferma di tutte le tesi politico-propagandistiche di Bogotà e Washington circa la complicità internazionali con le FARC e l’ELN. Venezuela, Nicaragua, Cuba, Ecuador; le tesi colombiane circa gli aiuti alla guerriglia da parte di tutti i paesi dell’ALBA venivano miracolosamente confermate, guarda caso, dall’analisi dell’hard disk. Oggi, però, con la confessione del militare colombiano, si sa quel che già s’immaginava: le cosidette “evidenze” erano in realtà falsi costruiti su misura per gli scopi politici di Washington e Bogotà.
A poche ore dall’insediamento di Santos, dunque, le parole dell’ambasciatore designato sembrano voler indicare che Washington non gradirebbe un’eventuale correzione di linea rispetto a quella (fallimentare) di Uribe nei confronti del Venezuela. In risposta alla reazione dei paesi latinoamericani, che attraverso l’Unasur hanno fatto presente come questa crisi tra Bogotà e Caracas vada fatta rientrare al più presto e come l’intero continente attenda dal neopresidente colombiano un deciso cambio di rotta, in direzione della normalizzazione dei rapporti con il Venezuela, l’intenzione della Casa Bianca sembra essere quella d’innalzare quanto più possibile la tensione con Caracas. In questo senso, la designazione di Palmer sembra voler inviare contemporaneamente un messaggio sia alla Colombia che al Venezuela.
E se si vuole avere una conferma diretta a questa linea interventista di stampo imperiale che la Casa Bianca di Obama ha intrapreso verso l’America Latina, basta scorrere la recente pubblicazione della “lista nera”, cioè dei paesi che a detta di Washington non combattono il terrorismo. Cuba, Nicaragua, Bolivia, Ecuador, Venezuela; l’elenco dei “cattivi” abbonda soprattutto dei paesi membri dell’ALBA, che hanno avuto l’indicibile torto di abolire l’obbedienza dovuta al gigante del Nord. La lista, infatti, come’è ovvio, non ha niente a che fare con il terrorismo; è invece l’elencazione annuale che gli Stati Uniti fanno dei loro avversari politici. Anzi, spesso nemmeno dei loro avversari, quanto piuttosto dei paesi che non riconoscono al locale ambasciatore statunitense il ruolo di proconsole dell’impero.
La lista dei “cattivi” non è per niente diversa da quelle stilate dalle precedenti amministrazioni repubblicane, a significare una certa continuità di vedute e d’intenti tra il deplorato Bush e la novità Obama. L’idea che gli Stati Uniti possano fornire pagelle, decretare status, organizzare colpi di stato e destabilizzazioni nei paesi che considerano indipendenti non conforta certo chi riteneva che il dopo-Bush potesse mostrare un cambio di rotta, un’inversione di tendenza dal governo unipolare ad una governance multipolare.
Si deve perciò ricordare che Miami è un autentico resort per terroristi ricercati da diversi paesi dell’area, primo fra tutti l’ultraprotetto Posada Carriles, definito dagli stessi organismi Usa a difesa dei diritti umani “il bin Ladin delle Americhe”. Ora, che gli Stati Uniti, principali finanziatori e sostenitori del terrorismo contro Cuba e Venezuela, ispiratori di colpi di stato e dispensatori di aiuti economici e militari ai gruppi di destabilizzazione nei paesi come Cuba, Bolivia, Ecuador, Cuba, Venezuela e Nicaragua possano avere il coraggio di definire altri paesi come complici del terrorismo, risulterebbe comico, se non fosse tragico.
Da questo punto di vista le dichiarazioni provocatorie di Larry Palmer non sono quindi espressione di accenti fuori luogo dell’ambasciatore in pectore, né di estremismo verbale per compiacere i senatori repubblicani della Commissione Esteri; bensì una riduzione lessicale coerente di quanto il Dipartimento di Stato esprime con maggiore ampiezza.
Il Presidente Chavez, da parte sua, definendo “gravi” le dichiarazioni di Palmer, ha affermato che queste sono “oggetto di valutazione” e che “potrebbero inibirlo”. Sostanzialmente, ammesso che lo stesso riceva dal Senato nordamericano l’approvazione alla nomina, Miraflores valuta se accettare o rifiutare il gradimento alla nomina del neoambasciatore Usa. Perché a Washington possono anche approvare i loro desideri, ma è a Caracas che si decide il destino venezuelano del ciarliero ambasciatore.
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di Alessandro Iacuelli
Dopo un breve periodo di tregua, coincidente con i giorni dei mondiali di calcio in Sudafrica, torna alle stelle la tensione tra la Corea del Sud e quella del Nord, riportando ancora una volta un clima da guerra fredda in tutta l'area regionale dell'estremo oriente. A partire dal 25 luglio, infatti, è iniziata la fase esecutiva delle esercitazioni militari congiunte, soprattutto navali, tra USA e Corea del Sud.
Un atto visto come una provocazione da parte del governo nordcoreano, che vede nello specchio di mare antistante il proprio territorio una portaerei americana, cacciatorpedinieri di entrambe le marine e oltre 200 caccia, in pieno mar del Giappone. Le esercitazioni con 8 mila militari dureranno 5 giorni. E' previsto un lancio di un missile marittimo da parte dell'esercito di Seul, ed è proprio questo il punto sul quale si scatena la reazione di Pyongyang.
Il 3 agosto, il Quartiere Generale del Fronte occidentale dell'Esercito popolare nordcoreano ha pubblicato un comunicato secondo il quale l'esercito del Paese risponderà alle attività del lancio che effettuerà la Corea del Sud nelle acque occidentali con un "lancio corrispondente per la difesa". Lo stesso giorno, citando questo comunicato, l'Agenzia di Stampa centrale della Corea del Nord ha affermato che le attività del lancio marittimo che saranno effettuate dalla Corea del Sud nelle acque occidentali, sono "un'offensiva militare completamente evidente". Di fronte all'attuale situazione, la parte militare nordcoreana adotterà delle "misure concrete ed energiche" per rispondere alle attività sudcoreane.
Per farla breve, la Corea del Nord minaccia un "possente contrattacco fisico" in risposta alle imminenti esercitazioni militari della Corea del Sud. Queste sono in programma nelle acque del mar Giallo per 5 giorni. Non solo, infatti, Pyongyang sostiene di avere "preso una decisione risoluta" e di aver messo in guardia qualsiasi imbarcazione, anche civile, dal solcare le acque del Mar Giallo al confine marittimo tra le 2 Coree durante le esercitazioni, equiparate a un "atto d’invasione militare".
Una flotta di venti navi da guerra, tra cui la portaerei a propulsione nucleare "George Washington" e tre cacciatorpedinieri, 8.000 militari e 200 aerei da combattimento, sono i mezzi a disposizione per le esercitazioni. Tra questi, anche i caccia F-22 Raptor, che volano in missione di addestramento per la prima volta nello spazio aereo coreano.
Sembrano già lontani i giorni in cui, durante le giornate calcistiche africane, le due Coree sembravano guardarsi addirittura amichevolmente. La tensione nella Penisola Coreana è di nuovo alta, complice il fatto che quella sudcoreana è una manovra in grande stile, dal nome in codice "Invincible Spirit", nome scelto assieme da Washington e Seul per dare una dimostrazione di forza proprio alla Corea del Nord, ritenuta responsabile dell'affondamento della corvetta della Marina militare sud-coreana "Cheonàn" nel marzo scorso, costato la vita a 46 marinai.
Intanto, Pyongyang nega ogni accusa dopo che una commissione d’inchiesta ha stabilito la responsabilità dei nord-coreani per l’affondamento della nave. La Corea del Nord continua ad alzare il tono delle minacce contro le esercitazioni navali di Washington e Seul, dicendosi pronta ad usare la propria deterrenza nucleare per fermarle. Per gli Stati Uniti le esercitazioni navali rappresentano anche l’occasione per ribadire ai sud-coreani il proprio impegno a tutela della loro sicurezza.
Ovviamente non è solo il caso della corvetta affondata, ad esacerbare gli animi. Quella delle tensioni tra USA e Corea del Nord è una storia oramai cinquantennale, portata all'estremo dalla recente accelerazione del programma nucleare nordcoreano, con tanto di dotazione di missili in grado di arrivare in Giappone, il rifiuto da parte del regime di Kim Jong Il di firmare i trattati di non proliferazione nucleare, e la sua inclusione nell'elenco degli "Stati canaglia" tanto sbandierato dall'amministrazione Bush.
Tanti sono anche i cittadini nordcoreani inseriti nelle "black list" americane. Secondo le ultime indiscrezioni d'oltreoceano, c'è anche il presidente di una banca tra i nomi dei 3 funzionari nordcoreani che gli Stati Uniti sono pronti a inserire nella "black list" perchè sospettati di ricoprire un ruolo chiave nell'amministrazione di Pyongyang e nel finanziamento del programma nucleare. Citando fonti anonime, lo scrive l'agenzia sudcoreana Yonap che ricorda l'annuncio del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, di "sanzioni specifiche" contro la Corea del Nord. Stando all'agenzia di Seul, si tratterebbe di Kim Tong Myong, presidente della Tanchon Commercial Bank, che andrebbe ad aggiungersi ai nomi di 22 istituzioni e di 6 persone fisiche già compresi nella lista nera.
Chi viene incluso è soggetto al congelamento dei beni e al divieto di fare affari con le istituzioni finanziarie americane. Non è che in Corea del Nord gliene freghi molto della black list americana, poiché si preferisce in genere fare affari con le istituzioni cinesi, visto il vecchio rapporto di amicizia e quasi di "protettorato", soprattutto quando si parla di nucleare nordcoreano in consiglio di sicurezza dell'ONU, con Pechino. Certo, questa risposta americana colpisce i conti bancari esteri utilizzati da Pyongyang per la compravendita di armi e componenti nucleari, ma attraverso il grande fratello cinese il regime può facilmente arrivare ad altri mercati dell'atomo, asiatici ma anche europei.
Dopo le minacce di Pyongyang, gli Stati Uniti hanno risposto esortando la Corea del Nord a cessare il suo "linguaggio provocatorio". "Non siamo interessati a una guerra di parole con la Corea del Nord", ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato americano Phlip Crowley: "Ciò che chiediamo alla Corea é meno linguaggio provocatorio e più atti costruttivi".
Per la Corea, l'unica provocazione è l'avvicinamento delle navi americane alle proprie coste. Chiaramente, Pyongyang non adotterà in questi giorni alcuna risposta di tipo nucleare, poiché la ritorsione americana segnerebbe la fine definitiva del regime, ma in ogni caso l'intera regione risulta destabilizzata. A farne le spese per primo è proprio il Giappone, troppo vicino geograficamente per poter sperare di uscirne senza rimanerne coinvolto.
D'altra parte, non ci sarebbe nulla di cui stupirsi se questo innalzamento dei toni, già avvenuto in passato in molte occasioni, non fosse altro che clamore per non far focalizzare l'attenzione sulla situazione interna della Corea del Nord, situazione affatto chiara per molti versi. Infatti, fonti d'intelligence americana fanno trapelare con una discreta insistenza che Kim Jong Il, ormai anziano e malato, abbia dato inizio ad una difficile fase di transizione per passare la guida del Paese a Kim Jong Un, il suo terzogenito. Transizione difficile, perché in Corea del Nord non si fanno cambiamenti senza fare prima gli opportuni "regolamenti di conti".
E l'aria da regolamenti di conti si respira davvero per le strade di Pyongyang. Lo racconta la recente fucilazione a Pyongyang di tre alti funzionari, tra cui un responsabile dei negoziati con la Corea del Sud e due alti responsabili economici, che mette in evidenza quanto complesso e violento sia il regolamento di conti in corso. Probabilmente la successione sarebbe ostacolata da un gruppo di generali e funzionari di partito, poco disponibili ad accettare il volere di un erede semisconosciuto e non ancora trentenne.
Kim Jong Il, consapevole di non aver più molto tempo davanti, tenterebbe invece di utilizzare la minaccia statunitense per creare un clima d’emergenza nazionale e gestire con l’appoggio dei generali più fedeli la complessa e rischiosa transizione. Eliminando gli avversari interni, vecchi e nuovi, a colpi di fucilazioni.
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di Carlo Musilli
L’Iran continua a ripetere che il suo programma nucleare è del tutto pacifico, ma evidentemente il tono non è abbastanza rassicurante. L’esercito americano ha intenzione di attivare uno scudo antimissile in Europa meridionale come difesa contro un eventuale attacco di Teheran. L’obiettivo sarebbe di proteggere l’Europa, tutelare le forze statunitensi di stanza nella zona e scoraggiare gli iraniani a proseguire con lo sviluppo del programma missilistico.
Anonimi ufficiali del Pentagono citati dal Washington Post dicono di essere vicini all’accordo per istallare una stazione radar in Turchia o in Bulgaria, che renderebbe operativa la prima fase dello scudo dal prossimo anno.
“Se l’Iran lanciasse un missile - ha ipotizzato il Segretario alla Difesa Usa Robert Graves - non sarebbe uno solo. Più probabilmente sarebbero centinaia”. Tanto per andare sul sicuro. In ogni caso l’attuale arsenale iraniano non è in grado di raggiungere l’America, al massimo il sud dell’Europa, data la gittata dei missili inferiore ai 2.000 chilometri. Sulla lunga gittata gli iraniani stanno lavorando, ma sono piuttosto lenti. Secondo gli americani non raggiungeranno quel livello di tecnologia prima del 2015. In ogni caso, meglio iniziare a prepararsi.
L’ipotesi di uno scudo antimissile è nata nel 1983 con Reagan, quando gli Usa temevano di subire il bombardamento nucleare sovietico. L’amministrazione di Bush junior ha rispolverato l’idea come deterrente nei confronti delle possibili potenze nucleari del futuro, Iran e Corea del Nord. L’intenzione era di costruire dieci basi terrestri in Polonia e un’ampia stazione radar in Repubblica Ceca. Durante la campagna elettorale del 2008, Obama si è detto scettico sulla praticabilità del progetto di Bush, cosicché nel settembre 2009 ha annunciato di voler cambiare totalmente approccio: non sarà più solo uno scudo terrestre, ma qualcosa di più duttile.
Uno scudo in movimento sull’acqua, fatto di navi nella sua ossatura fondamentale. Non navi qualsiasi, ma incrociatori e caccia torpedinieri con sistema Aegis (che tradotto vale Egida, nome dello scudo di Atena), il radar più sofisticato al mondo, talmente complesso da esser definito ‘sistema nervoso’ delle navi da guerra, il cui braccio armato sarà invece un arsenale di ‘missili-antimissile’ SM3.
I vantaggi di questa soluzione sono notevoli: scivolare sull’acqua consente di spostarsi di volta in volta nelle zone ritenute più a rischio e soprattutto le navi potranno essere utilizzate anche per altre missioni. Non si può correre il rischio di spendere miliardi di dollari per un attacco che probabilmente non arriverà mai. Comandanti della marina Usa sostengono che al momento le navi Aegis nel Mediterraneo siano al massimo due, ma ufficiali del Pentagono specificano che, secondo la gravità del pericolo, il loro numero potrebbe addirittura triplicare.
Lo scudo sarà costruito entro il 2020, in più fasi. La prima inizierà l’anno prossimo: navi Aegis armate di dozzine di SM3 pattuglieranno in lungo e in largo il Mediterraneo e il Mar Nero. Nel 2015 entrerà in scena la Romania per la seconda fase: il governo di Bucarest ha autorizzato la costruzione sul suo territorio di una base per il sistema di controllo delle navi da guerra. Un’altra base sorgerà nel 2018, stavolta in Polonia. Il mastro ferraio statunitense finirà di forgiare lo scudo nei due anni successivi, con la produzione della nuova generazione di SM3. Oggi i supermissili americani sono in tutto 147: si progetta di triplicare anche questi.
Prima di realizzare tutto questo bisognerà però risolvere una difficoltà logistica. I comandi della marina americana di stanza in Medio Oriente e nel Pacifico richiedono a loro volta navi Aegis per tutelarsi dalla minaccia iraniana e nordcoreana. Sennonché solo la metà della flotta è sempre disponibile: alla fine di ogni missione le navi passano in porto lo stesso periodo che hanno trascorso in mare, tanto sono lunghi i preparativi per la missione successiva.
Ecco perché l’amministrazione Obama ha deciso di duplicare il numero di navi Aegis entro il 2015, portandolo a 38. Una soluzione un tantino più economica sarebbe quella suggerita dal vice ammiraglio Henry Harris, che propone di stanziare definitivamente le navi in porti europei invece di fargli fare continuamente la spola tra Mediterraneo e Stati Uniti. La flotta comandata da Harris ha base a Napoli.
Mentre lavorano per il Mediterraneo, gli americani si danno da fare anche per migliorare i sistemi di difesa antimissile di Israele - dove nel 2008 è stato istallato un radar - e dei paesi alleati del Golfo Persico, dove si progetta di istallarne un altro. L’obiettivo è accorgersi prima possibile di un eventuale missile lanciato dall’Iran, per avere il tempo di abbatterlo. I sistemi di difesa europei, israeliani e arabi sono distinti fra loro e a diversi stadi di evoluzione. Ma sono tutti progettati per essere gestiti da personale americano (come accade per il radar in Israele, che invia informazioni alle navi statunitensi nel Mediterraneo).
Chi pagherà tutto ciò? Gli europei rischiano di vedersi regalare il più raffinato sistema antimissilistico di tutti i tempi dai contribuenti americani. E’ possibile che i paesi sui cui territori si costruiranno le basi diano un aiuto economico, ma forse è solo una speranza del Pentagono. Ciò che dovrebbe seriamente preoccupare gli yankee è che nessuno sia ancora in grado di calcolare quanto “the shield” verrà a costare. L’unica certezza è che non sarà a buon mercato: un solo SM3 costa fra i 10 e 15 milioni di dollari.
Oltre al budget, esiste un altro problema, forse più grave. In virtù di un nuovo trattato fra Usa e Russia per la futura riduzione degli armamenti, Mosca si è fermamente opposta allo scudo europeo. I repubblicani hanno fatto notare al Presidente che questo potrebbe costituire un ostacolo. Lui ha dissentito.
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di Emanuela Pessina
Un ennesimo scontro tra l'esercito israeliano e quello libanese ha causato martedì la morte di cinque uomini lungo la linea di confine tra i due Paesi mediorientali. L'incidente, uno dei più cruenti degli ultimi anni, ha risvegliato da subito la preoccupazione del mondo intero, poiché l'area costituisce una delle zone più volubili del vicino Oriente. Il conflitto tra Libano e Israele, sebbene ufficialmente concluso da una risoluzione del Consiglio delle Nazioni Unite (ONU) nell'agosto 2006, non è mai stato risolto veramente e, da quattro anni a questa parte, un'infinita serie di ostilità e manovre militari delinea una zona di grande instabilità politica e militare.
Nello scontro a fuoco sono morti un giornalista, tre soldati di Beirut e un alto ufficiale dell'Israel Defence Force (IDF), il gruppo delle forze militari unificate per la difesa d'Israele. All'origine del conflitto ci sarebbero dei colpi sparati dalle forze armate libanesi contro alcuni soldati israeliani che si trovavano in territorio a loro proibito, oltre cioè la linea blu, quella frontiera fissata dall'ONU in risoluzione dei decennali conflitti fra Libano e Israele.
Una linea, secondo la ricostruzione di Israele, poco chiara, che avrebbe indotto i militari di Beirut in errore: i militari dell'IDF stavano portando a termine delle semplici operazioni di routine, tra cui il taglio di alcuni alberi per migliorare la visuale, ha spiegato Israele. Secondo la ricostruzione libanese, tuttavia, i soldati avrebbero sparato solo pochi colpi di avvertimento, cui l'IDF avrebbe risposto con vere e proprie granate. Da qui sarebbero nati gli scontri, durati solo poche ore ma di grande gravità.
E ora il mondo intero ha paura. L'esercito israeliano considera il Libano "pienamente responsabile" dell'incidente occorso nel primo pomeriggio nella zona di confine tra i due Paesi. Non ha dubbi in proposito il quartier generale dell' IDF, secondo cui l'esercito libanese avrebbe aperto il fuoco contro una postazione dell'IDF in territorio israeliano. I soldati israeliani, ha sottolineato l'IDF, "stavano portando a termine operazioni di manutenzione coordinate con l'Unifil". L'Unifil, la Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite, presidia la zona di confine tra i due Paesi già dal 2006 per garantire il rispetto delle risoluzioni ONU. Ma il Libano, come è ovvio, ha percepito una realtà completamente differente e parla di una chiara "aggressione" da parte dello stato israeliano. Il generale Said Eid, il numero uno del Consiglio di Difesa libanese, non si tira indietro: il Libano è pronto a rispondere "all'aggressione israeliana con tutti i mezzi possibili".
Se la situazione di tensione non si è mai risolta, le guerre vere e proprie tra Libano e Israele sono state due. La prima risale al 1982, l'anno in cui Israele è intervenuto nella guerra civile libanese a fianco delle milizie dell'Esercito del Libano del Sud (ELS) e delle forze cristiano-falangiste di Pierre e Bashir Gemayel. Sullo sfondo intricato di alleanze taciute e patti poco chiari, quella di Israele è stata forse l'unica mossa che non lascia spazio a interpretazioni di sorta. Israele ha compiuto una vera e propria invasione del Libano per impedire nel Paese il consolidamento di una base di operazioni dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il gruppo nato attorno alla figura di Yasser Arafat.
Questa guerra, in particolare, è passata alla storia per il tremendo massacro di Sabra e Shatila, a Beirut: per quasi 40 ore i membri della falange cristiano maronita hanno violentato donne e ucciso civili disarmati all’interno del campo circondato e sigillato dagli israeliani, parte attiva nell’operazione. Al termine del conflitto, le forze palestinesi sono state costrette a spostarsi in Tunisia e Israele ha occupato la zona sud del Libano, rimanendoci fino al 2005. Nel complesso, tuttavia, Israele non ha riportato una vittoria univoca.
Israele è tornato all'attacco nel luglio 2006. A giustificare l'aggressione, questa volta, sono gli attacchi missilistici degli Hezbollah, il partito politico libanese che combatte contro Israele in nome dell'indipendenza del Libano. Appoggiato dall'Iran, il partito degli Hezbollah si muove da sempre agli occhi dell'opinione pubblica nel limbo della controversia.
Se quasi tutti i Paesi del mondo ci vedono una legittima forza politica che combatte per la libertà del proprio Paese dalla pressione straniera (quella Israeliana), altri - tra cui Stati Uniti, Paesi Bassi, Canada e Israele - non mancano di evidenziarne un presunto lato oscuro legato a fazioni di matrice terroristica. Perché giustificarsi di fronte all'opinione pubblica, di questi tempi, è più importante di quanto non possa apparire. Resta il fatto che Israele invade il Libano ed Hezbollah si difende, non il contrario.
Il conflitto del 2006 è durato 34 giorni, fino al "cessate il fuoco" imposto dall'ONU e dalla famosa Risoluzione 1701. Oltre al disarmo degli Hezbollah e il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale, l'ONU ha previsto lo spiegamento dell'Unifil, la Forza di Interposizione delle Nazioni Unite nel Libano, costituita da 12 mila unità, e la ridefinizione della linea blu. Ed è proprio in questo senso che si è espresso ancor oggi l'ONU, richiedendo a Libano e Israele di rispettare scrupolosamente la risoluzione che ha permesso la fine del conflitto in quell'ormai lontana estate del 2006. Una fine, a quanto pare, più apparente che reale.