di Eugenio Roscini Vitali

Trenta giorni per salvare i negoziati di pace israelo-palestinesi, altrimenti saranno abbandonate tutte le trattative fino ad ora intraprese: questo è quanto ha concesso agli Stati Uniti la Lega Araba, riunitasi l’8 ottobre scorso a Sirte dopo la ripresa della colonizzazione israeliana in Cisgiordania. L’ultimatum arriva in un momento in cui nella Regione il contesto politico è particolarmente teso e mette alle corde l’amministrazione Obama, alla quale è stato chiesto di fare pressioni sullo Stato ebraico affinché prolunghi la moratoria sugli insediamenti scaduta il 26 settembre scorso.

Al vertice arabo era presente il presidente palestinese Abu Mazen, che durante il suo intervento ha accusato Israele di aver spogliato Ramallah di gran parte dei suoi già limitati poteri, intromettendosi giornalmente nelle aree controllate dalle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp): «Israele ha di fatto cancellato l’accordo di Oslo e tutti gli altri accordi firmati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina».

Al termine dell’incontro il capo negoziatore palestinese, Saeb Erakat, ha confermato che, qualora i negoziati con Israele dovessero fallire, Abu Mazen sarebbe pronto a percorre altre strade: chiedere a Washington di riconoscere uno Stato palestinese entro la zona denominata “Sessantasette” (Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est); chiedere all'Assemblea generale dell'Onu di porre i Territori occupati sotto tutela internazionale o, come ha riferito Salih Rafat, membro del Comitato esecutivo, preparare un piano per portare la questione dell’espansione edilizia israeliana in Cisgiordania di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Intanto il Presidente palestinese ha raccolto il consenso di Fatah e del gruppo dirigente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) che, con il sostegno di due terzi della popolazione, ha già approvato una mozione con la quale appoggia la decisione presa dall’Autorità palestinese sul ritiro dai negoziati diretti con Israele.

Sul fronte opposto le premesse non sono rassicuranti: nel discorso di apertura della sessione invernale della Knesset il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, ha lanciato l’ipotesi di una nuova moratoria degli insediamenti, ma solo in cambio del riconoscimento palestinese di Israele come stato ebraico. Una richiesta che Abu Mazen ha definito “inaccettabile” e che, secondo Erakat, è del tutto forviante: «Quest’ordine non ha niente a che fare con il processo di pace o con gli obblighi non rispettati da Israele».

Qualsiasi decisione del governo israeliano dipende comunque dal sostegno del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, e da quello del ministro dell’Edilizia, Ariel Atias, entrambi appartenenti alla destra sionista più radicale. Le idee del leader del partito, Yisrael Beiteinu, sono note e secondo alcuni deputati del partito Shas, anche Atias appoggerebbe il ministro dell’Interno, Eli Yishai, forte oppositore dello stop alle colonie.

E’ quindi evidente che alla fine Netanyahu dovrà fare i conti con i membri del suo stesso governo e con quella parte dell’Esecutivo che pretende vengano rispettati gli impegni sottoscritti dall’amministrazione Bush nel 2004; vale a dire annessione da parte di Israele dei grandi blocchi di colonie al di là della Linea Verde stabilita nel 1949 dagli accordi di Rodi.

Se politicamente si può parlare di stallo, la situazione sulle strade della Cisgiordania è tutt’altro che confortante. Dalla fine dello stop imposto all’espansione edilizia negli insediamenti ebraici in Cisgiordania i coloni hanno avviato la costruzione di 350 nuove unità residenziali: lavori di ampliamento nella colonia di Eli, a sud di Nablus, e in quella di Maskiout, nella Valle del Giordano; trentaquattro nuove case a Kiryat Arba, cinquantaquattro unità ad Ariel, lavori di assestamento del terreno a Kadumim e Karmei Tzur e un piano edilizio pronto per essere messo in atto ad Adam, Matityahu, Nili, Nariya, Revava e Kfar Adumim.

A questo si aggiunge il problema della confisca dei terreni e la demolizioni delle case abitate dalla popolazione araba, come le 110 abitazioni palestinesi nel quartiere di Silwan che nell’arco di qualche settimana dovrebbero essere abbattute, o la demolizione delle moschee, come quella del villaggio di Burin.

Fatti di tutti i giorni le cui conseguenze sono sempre le stesse: scontri, gas lacrimogeni, proiettili di gomma e sassaiole, seguite da campagne di arresti di massa, come quella ordinata alla polizia di Gerusalemme dal ministro della Sicurezza nazionale di Israele, Yitzhak Aharonovitch, che nel tentativo di impedire gli attacchi contro i coloni, attacchi rivendicati dalle brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, e dalle brigate al-Aqsa del movimento di Fatah e al-Quds del movimento del Jihad Islamico, che negli ultimi mesi hanno causato numerose vittime, ha deciso di blindare gli enclavi ebraici.

Secondo il Centro per gli studi dei prigionieri di Ramallah, nell’ultimo anno le truppe israeliane avrebbe aumentato la pressione sulla popolazione palestinese a tal punto che il numero degli arresti ai posti di blocco risulterebbe raddoppiando, così come le perquisizioni notturne e le irruzioni occasionali.

Dai report pubblicati dalle associazioni per i diritti umani, in Cisgiordania negli ultimi 12 mesi lo Tsahal avrebbe fermato 4.320 persone e, nonostante i continui rilasci, nelle carceri israeliane sarebbero ancora rinchiusi 6.800 palestinesi; circa 5.000 sarebbero invece i profughi ai quali non verrebbe neanche riconosciuta l’identità palestinese e per questo non sarebbero autorizzati a rientrare in Cisgiordania.

Per l’Ufficio centrale di statistica palestinese, negli ultimi anni il numero di coloni ebrei è aumentato drasticamente: alla fine del 2009 se ne contavano 517.774, distribuiti in 144 insediamenti, 26 dei quali costruiti a Gerusalemme Est; rispetto all’anno precedente l’aumento sarebbe stato del 3,4% ma se si prende in esame il 1972 la presenza ebraica in Cisgiordania è aumentata di 40 volte.

Per più di mezzo secolo l’Aliya, l’immigrazione ebraica verso Israele, è stata considerata come il principale strumento del progetto sionista e, anche se prima della crisi economica internazionale “l’assorbimento” sembrava destinato a scemare, ora si può parlare di vera e propria controtendenza.

Secondo l’Agenzia ebraica nel 2010 il numero degli ebrei arrivati dal nord America sarebbero aumentato del 20%; nel 2009 i nuovi ingressi erano cresciuti del 17%, 16.200 persone contro le 13.860 dell’anno precedente; nell’ultima decade sarebbero 221.000 gli ebrei entrati in Israele, più di 3 milioni quelli immigrati dal 1948 ad oggi nel “nuovo Stato”.

 

di Michele Paris

Qualche giorno fa la commissione presidenziale d’inchiesta sull’esplosione della piattaforma petrolifera della BP nel Golfo del Messico lo scorso mese di aprile, ha reso note le prime conclusioni della propria indagine. Secondo gli investigatori nominati dalla stessa amministrazione Obama, il governo americano avrebbe intenzionalmente nascosto all’opinione pubblica la vera entità della fuoriuscita di greggio, ostacolando, di fatto, un’adeguata risposta a quello che sarebbe poi diventato uno dei più seri disastri ecologici degli ultimi decenni.

“Sottostimando la quantità di petrolio fuoriuscito inizialmente e, successivamente, alla fine dell’estate, minimizzando la quantità di greggio rimasto nel golfo, il governo federale ha dato l’impressione di non essere pienamente in grado di gestire la perdita o di voler nascondere agli americani le dimensioni del disastro”. Così si conclude una delle quattro relazioni della commissione insediatasi nel mese di giugno e che dovrà presentare un rapporto finale alla Casa Bianca agli inizi del prossimo anno.

La strategia del governo per coprire le responsabilità della BP nel disastro che ha causato la morte di 11 lavoratori impegnati sulla piattaforma Deepwater Horizon era stata messa in atto già nei giorni successivi al 20 aprile. Pubblicamente, infatti, la Casa Bianca ha continuato a lungo a sostenere che la fuoriuscita di greggio ammontava appena a cinquemila barili al giorno. A questo scopo venne anche impedito all’agenzia federale che si occupava di monitorare gli effetti del disastro (NOAA) di rendere pubbliche le proprie stime relative alla perdita, ovviamente ben superiori a quelle del governo.

Grazie al lavoro di qualche ricercatore indipendente, nonostante gli ostacoli incontrati per accedere alle informazioni necessarie, la vera entità della fuoriuscita sarebbe stata rivelata molto più tardi e fissata attorno ai 60 mila barili al giorno, per un totale di petrolio versato nelle acque del Golfo del Messico non inferiore ai 5 milioni di barili. Un quantitativo venti volte superiore al già enorme disastro causato dalla Exxon Valdez in Alaska nel 1989. Il pozzo situato ad una profondità di oltre un miglio sarebbe stato infine chiuso il 15 luglio e definitivamente sigillato alla fine di settembre.

Nel mese di agosto, poi, esponenti dell’amministrazione Obama cercarono nuovamente di manipolare la realtà dei fatti nel golfo, annunciando trionfalmente che i tre quarti del petrolio fuoriuscito si era già dissolto oppure era stato raccolto dalle petroliere. Un’affermazione totalmente inattendibile, nel tentativo di esaltare gli sforzi del governo per combattere il disastro e limitare gli effetti devastanti sull’ecosistema del Golfo del Messico.

Anche in questo caso, sarebbe toccato a biologi e oceanografi svincolati da ogni legame con il governo o con la BP smentire le stime ufficiali. Circa la metà del greggio fuoriuscito rimarrebbe infatti tuttora sospeso nelle acque del golfo, sepolto in profondità o depositato sulle coste meridionali degli Stati Uniti e, solo, per conoscere il reale impatto del disastro ecologico saranno necessari ancora molti mesi, se non anni.

Se l’amministrazione Obama in seguito all’esplosione della piattaforma della BP emise una moratoria per le trivellazioni dei pozzi situati nelle acque più profonde della propria piattaforma continentale, l’intera risposta al disastro è stata indirizzata praticamente alla salvaguardia dell’immagine della corporation britannica.

A guidare la stessa commissione d’inchiesta sulla fuoriuscita di greggio nel Golfo del Messico ci sono personalità dal curriculum discutibile, come William K. Reilly - ex direttore dell’Agenzia di Protezione Ambientale (EPA) sotto Bush senior e membro del consiglio di amministrazione del gigante petrolifero ConocoPhillips - e l’ex senatore democratico ed ex governatore della Florida Bob Graham, da sempre acceso sostenitore della deregulation.

Per proteggere gli interessi della BP ed evitare un conto troppo salato in fase di risarcimento, il presidente Obama ha infine da qualche tempo chiesto ai vertici della compagnia petrolifera l’accantonamento di 20 miliardi di dollari per coprire i danni provocati. Una cifra del tutto inadeguata, nonché in gran parte detraibile dalle tasse, che eviterà alla BP di risarcire interamente gli effetti del disastro provocato da una politica aziendale che pone il profitto al di sopra di qualsiasi scrupolo per l’ambiente e la sicurezza dei propri dipendenti.

Dall’esplosione della scorsa primavera, d’altra parte, nessun dirigente della BP è stato arrestato, indagato o licenziato per i fatti accaduti nel Golfo del Messico, nonostante la documentata negligenza della compagnia nella gestione della piattaforma Deepwater Horizon e in numerose altre installazioni petrolifere negli Stati Uniti e altrove. Ciò è stato possibile solo grazie all’azione tempestiva di un governo che si è adoperato in tutti i modi per difendere la corporation britannica fino a nascondere ai propri cittadini la verità sul disastro ambientale più grave della storia americana.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Sulla scia di Svezia, Olanda e Belgio, ora anche l'Austria sembra cercare riparo alle inefficienze della politica quotidiana nelle illusioni sventolate dai populisti di estrema destra. I risultati delle regionali di Vienna 2010 sono andati a confermare la direzione già segnata dalle legislative d'Austria 2008, quando un austriaco su tre aveva votato per le destre radicali di Heinz-Christian Strache (FPOe) e di Joerg Haider (BZOe).

E il vero vincitore di Vienna è proprio il Partito della Libertà del nazionalista Strache, che ha conquistato il 27.2% dei voti, mettendo alla berlina i socialdemocratici del sindaco Michael Haeupl (SPOe) con quasi cinque punti percentuali in meno e il Partito Popolare (OeVP), a meno sei punti.  Ma Vienna è da sempre considerata la roccaforte dei socialdemocratici austriaci: dopo lo shock, ora l'SPOe deve rimboccarsi le maniche e risolvere i suoi problemi entro il 2013, la data delle prossime elezioni, per evitare la débâcle finale.

Inaspettatamente, i Socialdemocratici viennesi si sono attestati domenica al 44.5% dei voti, registrando un calo di oltre il 5% rispetto alle elezioni del 2005 (49.1%). Ciò significa che l'SPOe ha perso la maggioranza assoluta, un traguardo quasi per scontato vista la tradizione rossa della città-Stato austriaca: se si esclude una breve parentesi tra gli anni 1996 e 2001, dal Dopoguerra a questa parte i socialdemocratici di SPOe hanno governato Vienna ininterrottamente e in maggioranza assoluta. L'attuale sindaco Haeupl, da parte sua, è in carica dal lontano 1994.

Per continuare a governare la capitale austriaca, i Socialdemocratici devono quindi cercarsi degli alleati. I Verdi di Maria Vassilakou si sono già detti disponibili a un'eventuale coalizione con SPOe e, con il 12.1% dei voti, avrebbero tutte le carte in regola. L'ipotesi più plausibile, tuttavia, resta quella di una grande coalizione con l'OeVp, il Partito popolare, su modello della grossa coalizione Spoe-Oevp del cancelliere Werner Fayamann che governa il Paese. Anche se, in realtà, i conservatori del Partito Popolare si sono rivelati gli altri grandi perdenti delle elezioni viennesi: OeVP si è attestato al 13%, perdendo il 6% degli elettori. Rispetto al 2005, l'OePV si è ridotto a un piccolo partito di provincia e, in ragione di questo, la grossa coalizione non costituisce forse la scelta migliore per i Socialdemocratici.

Ma c'è anche chi non si è mostrato affatto sorpreso dagli esiti di Vienna. Si tratta degli esponenti dell'ala più estrema della destra austriaca, che non parlano assolutamente di "svolta a destra" e interpretano i risultati in maniera molto naturale. L'FPOe sarebbe semplicemente tornato agli splendori della seconda metà degli anni Novanta, quando il Partito della Libertà, sotto la guida del carismatico Joerg Haider, morto in un incidente nell'autunno 2008, era all'apogeo del suo potere in Austria.

Heinz-Christian Strache si è dimostrato come il degno successore del carismatico Haider. Grazie alle parole del leader, conosciuto per le sue facoltà retoriche, il partito ha guadagnato oltre il 12% dei voti e si è portato all'incredibile quota totale del 27.2%, vicina ai massimi mai ottenuti nella rossa Vienna.

Nessuna sorpresa, invece, per quel che riguarda le ragioni del successo del partito di Strache. Come tutti i partiti populisti di estrema destra europei, anche l'FPOe ha costruito il suo programma politico sulle preoccupazioni degli elettori per l'integrazione dei musulmani. E così, i punti centrali del programma del Partito della Libertà sono l'emigrazione e la sicurezza: gli esponenti del partito sostengono il bisogno di restituire l'Occidente ai cristiani limitando l'emigrazione dei popoli di religione islamica.

Tanto per citarne qualcuna, l'FPO e ha lanciato qualche tempo fa un appello per la messa al bando di moschee, minareti e veli islamici e sostiene il bisogno di sanzionare i genitori che trascurino il tedesco. A quanto pare, il programma riscuote successo fra la popolazione.

E ora, fino al 2013 in Austria non si voterà più: l'unica speranza per la sinistra è che l'SPOe e i futuri alleati possano organizzare delle soluzioni ragionevoli rispetto ai problemi di una moderna società aperta all'immigrazione, così da ridimensionare la sbandata a destra delle ultime votazioni. 

 

 

 

 

di Alessandro Iacuelli

Chissà cosa penseranno, in Italia, i parenti delle vittime di agenti delle forze dell'ordine. Perché quanto appena avvenuto nella vicina Grecia, e non su un altro pianeta, ha il sapore di una giustizia che da noi è perennemente negata, o almeno aggirata. Il poliziotto Epaminondas Korkoneas, 39 anni, che il 6 dicembre 2008 uccise il quindicenne Alexis Grigoropulos, è stato infatti condannato all'ergastolo.

Come si ricorderà, l'uccisione di Alexis, nel 2008, provocò una fortissima ondata di disordini in patria e proteste all'estero. Subito dopo l'uccisione, causa un colpo di pistola sparato dall'agente, migliaia di persone si riversarono per le strade di Atene, scontrandosi con la polizia, danneggiando auto e appiccando fuoco ai negozi; furono giorni che saranno ricordati come i più forti disordini in Grecia degli ultimi decenni. Le proteste erano certamente anche alimentate da un vasto risentimento per le difficoltà economiche e la disoccupazione giovanile e si estesero presto ad altre città greche: durarono per settimane, contribuendo a far cadere il governo conservatore circa un anno dopo.

Oggi, il tribunale centrale della città di Amfissa, ha stabilito che Korkoneas uccise di proposito il ragazzo di quindici anni, nel distretto di Atene di Exarchia. Il secondo poliziotto a processo, Vassileos Saraltiotis di 32 anni, è stato condannato a dieci anni per complicità. L'avvocato della famiglia del ragazzo ha definito "storica" la sentenza che a suo dire onora la memoria del giovane. Mentre il legale dell'agente condannato ha annunciato ricorso in appello. Secondo il tribunale, che non ha riconosciuto le attenuanti a Korkoneas, l'agente sparò intenzionalmente con la pistola di ordinanza e il giovane non morì per un proiettile di rimbalzo, come raccontato dall'inchiesta interna della polizia avvenuta subito dopo.

Il processo è durato nove mesi, durante i quali é stato spostato da Atene alla piccola città di Amfissa, nella speranza di tenerlo lontano dai riflettori e dai media. La sentenza è stata decisa da una maggioranza di quattro giudici sui sette che componevano la commissione. Korkoneas e il suo avvocato hanno sempre sostenuto che gli spari fossero solo avvertimenti e che il ragazzo fosse stato colpito da un proiettile di rimbalzo, contraddicendo la versione di diversi testimoni che raccontavano come il poliziotto gli avesse sparato intenzionalmente.

Al processo, fondamentale è stata la perizia del medico legale che, pur confermando che il proiettive raggiunse il torace della vittima di rimbalzo, ha sostenuto che l'arma era comunque puntata ad altezza d'uomo, come affermato da alcuni testimoni, che hanno escluso provocazioni da parte di Alexis. Subito dopo l'omicidio, le autorità si erano difese affermando che l'omicidio fosse scaturito da uno scontro nato dal gruppo di ragazzi con cui si trovava Grigoropoulos. Nei giorni seguenti, un video aveva però dimostrato come i ragazzi non stessero in alcun modo attaccando la polizia.

La sentenza soddisfa i manifestanti che protestarono per l’omicidio. Uno di loro ha commentato: "Un altro poliziotto, accusato dell’assassinio di un altro ragazzo è stato rilasciato. Rilasciato benché sia un assassino. Il verdetto di oggi è dovuto alla reazione dell’opinione pubblica. Credo sia stata una decisione giusta". E soddisfa, almeno in parte, anche la famiglia: la madre della vittima fa sapere che perseguirà legalmente coloro che hanno dichiarato il falso e diffamato la memoria di suo figlio, anche durante il processo.

Di sicuro, la sentenza greca ha un carattere di "originalità", visto che negli altri Paesi, democratici e non, è decisamente raro vedere sentenze di condanna così pesanti a carico di agenti delle forze dell'ordine protagonisti di violenze spropositate, e non solo durante delle manifestazioni di protesta, dei disordini di piazza. Infatti, basta osservare i dettagli del "caso Korkoneas" e le dinamiche sia dei fatti che processuali con un occhio non superficiale e subito saltano fuori, in tutta evidenza, le pesanti analogie con il caso di Gabriele Sandri, ucciso sull'area di servizio di Badia al Pino, sull'Autosole, mentre dormicchiava in auto, e non certo mentre scatenava disordini. Anche in quel caso è stata raccontata una bella favola, quella del solito proiettile di rimbalzo. Anche in quel caso si sono viste tante bugie da parte di tante autorità per spiegare cosa è avvenuto nella testa dell'agente Spaccarotella nei minuti dell'omicidio.

Ma una profonda differenza tra i due casi c'è, e sta proprio nella sentenza. Omicido volontario, in Grecia. Invece ad Arezzo la Corte d'Assise ha derubricato il reato per cui era processato l'agente Spaccarotella, che da omicidio volontario è diventato omicio colposo, con una blanda condanna a 6 anni, nonostante le proteste sia in aula sia fuori. Così, se la famiglia Grigoropulos di Atene può pensare di aver avuto giustizia, così non può dire la famiglia Sandri di Roma. Spaccarotella, sospeso dal servizio, è comunque libero.

E se si va a memoria per un attimo, oltre a Gabriele Sandri vengono in mente Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi (per il quale si è appena aperta la prima fase del processo) e si potrebbe andare all'indietro nel tempo: da Carlo Giuliani a Giorgiana Masi, da Francesco Lorusso a Pietro Bruno; sarebbe lunga e dolorosa la lista di chi ha pagato con la vita l’impunità delle forze dell’ordine. I loro assassini, sono liberi; in qualche caso hanno avuto avanzamenti di carriera invece di condanne.

Tutti processi finiti o con un nulla di fatto, assoluzioni, prescrizioni, con condanne troppo blande rispetto al fatto commesso o addirittura, come avviene in questi giorni nel caso di Federico Aldrovandi, con offerte di denaro da parte dello Stato affinché la famiglia rinunci a costituirsi parte civile nel processo d'Appello. Invece in Grecia, almeno nel primo grado di giudizio, si è avuto il coraggio di chiamare le cose con il nome giusto: omicidio volontario, a sangue freddo, di un ragazzo di 15 anni.

di Carlo Musilli

È diventato una celebrità planetaria, ma lo ha scoperto con 48 ore di ritardo. A dirglielo sono stati gli agenti del carcere di Jinzhou, nella Cina del nord. Il giorno dopo Liu Xiaobo è uscito per qualche minuto dalla cella di 30 metri quadri dove vive da quasi due anni insieme ad altre cinque persone. E ha incontrato sua moglie, Liu Xia. Le ha detto di far sapere al mondo che il suo premio appartiene alle anime dei ragazzi morti a piazza Tienanmen. Liu Xiaobo ha vinto il Nobel per la pace 2010.

Il regime cinese lo considera un pericoloso dissidente, ma il Comitato di Oslo ha deciso di premiarlo “per la sua lunga e non violenta battaglia per i diritti umani fondamentali in Cina”. Non basta, i norvegesi hanno calcato la mano: “Il nuovo status della Cina deve comportare una maggiore responsabilità - si legge nelle motivazioni del premio -  el a Cina viola diversi accordi internazionali di cui è firmataria, così come la sua stessa legislazione in merito ai diritti umani”.

Un affronto per Pechino, che nei mesi scorsi aveva fatto pressioni sul Comitato, minacciando gravi conseguenze sui rapporti diplomatici fra Cina e Norvegia nel caso in cui il Nobel fosse andato a Xiaobo. Non era un bluff: dopo la cerimonia di premiazione l’ambasciatore norvegese è stato convocato per una protesta formale.

Ma il regime si è dato da fare su più fronti. Prima ha definito “un’oscenità” l’assegnazione del riconoscimento “a un criminale condannato dalla giustizia cinese”. Poi è sceso in strada a far vedere i muscoli. Decine di persone sono state arrestate nei bar e nei ristoranti di Pechino. Gli sciagurati volevano festeggiare in nome di Xiaobo. Com’era prevedibile, la polizia non ha risparmiato nemmeno Liu Xia. Sono andati a prenderla e l’hanno costretta a lasciare la capitale. Ora la donna è agli arresti domiciliari. Segregata in una casetta nella periferia della sua città, circondata da soldati. Non deve parlare con i media internazionali.

Per quelli nazionali, infatti, da subito sono scattate le misure più severe. La diretta Bbc della premiazione è stata interrotta due volte. Dai giornali online sono stati rimossi tutti gli articoli dedicati ai Nobel 2010 e l’accesso al sito ufficiale del premio è stato chiuso. La censura è arrivata perfino agli sms: che fossero scritti in caratteri cinesi o latini, tutti i messaggini contenenti le parole “Liu Xiaobo” sono stati bloccati. Facebook, Twitter, Youtube, Wikipedia, tutto oscurato. Un’impresa titanica, più che mai antistorica.

Come si può pensare di tenere all’oscuro 1,3 miliardi di persone? La Repubblica Popolare ci riesce, anche se qua e là si aprono crepe nel muro. Gli hacker esistono, e quelli cinesi sono anche bravi. Sopravvive un canale ristrettissimo di libera circolazione delle informazioni, che funziona soprattutto grazie alle comunità cinesi all’estero. Ma per la stragrande maggioranza del “Popolo”, la luce rimane spenta.

Nonostante tutto, la Cina non ha potuto evitare che il mondo si accorgesse improvvisamente di Liu Xiaobo, il professore universitario di letteratura che nel giugno 1989, insieme ai suoi allievi Wang Dan e Wu’Er Xi, fondò la Federazione Autonoma degli Studenti, struttura portante della protesta contro il regime. All’epoca, Xiaobo comprese in anticipo la sconfitta e convinse centinaia di studenti ad abbandonare piazza Tienanmen prima del massacro.

Lui, però, rimase. Fu arrestato e condannato a 18 mesi di prigione come controrivoluzionario. Uscito, nel giro di due anni si guadagnò una nuova condanna per “propaganda e istigazione controrivoluzionaria”. “Disturbi alla quiete pubblica” la colpa per cui nel 1996 venne spedito per tre anni in un “laogai”, eufemisticamente traducibile come “campo di rieducazione ideologica”.

Tornato libero, andò a insegnare prima negli Stati Uniti, poi in Europa. Rientrò a Pechino nel 2004. Quattro anni dopo contribuì a scrivere e a diffondere la “Charta 08”, manifesto degli attivisti cinesi in cui si chiede al governo di rispettare i diritti umani, fare riforme politiche e assicurare indipendenza al potere giudiziario. L’8 dicembre venne arrestato per la quarta volta. La condanna a 11 anni di reclusione per “incitamento alla sovversione ai danni dello Stato” arrivò il 25, quando il mondo era distratto dal Natale.

Dopo l’assegnazione del Nobel, improvvisamente tutti i più importanti capi di Stato si sono ricordati di Xiaobo e hanno elogiato con solennità la scelta del Comitato di Oslo. Stati Uniti, Francia e Germania si sono spinti perfino a chiedere la liberazione del dissidente. Via Twitter, si è aggiunto il Dalai Lama, dal suo esilio in India. Jens Stoltenberg, il premier norvegese, si è limitato invece a uno striminzito comunicato stampa. In questi giorni è in vacanza all’estero. Che tempismo.

 

 

 


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