di Eugenio Roscini Vitali

Trenta giorni per salvare i negoziati di pace israelo-palestinesi, altrimenti saranno abbandonate tutte le trattative fino ad ora intraprese: questo è quanto ha concesso agli Stati Uniti la Lega Araba, riunitasi l’8 ottobre scorso a Sirte dopo la ripresa della colonizzazione israeliana in Cisgiordania. L’ultimatum arriva in un momento in cui nella Regione il contesto politico è particolarmente teso e mette alle corde l’amministrazione Obama, alla quale è stato chiesto di fare pressioni sullo Stato ebraico affinché prolunghi la moratoria sugli insediamenti scaduta il 26 settembre scorso.

Al vertice arabo era presente il presidente palestinese Abu Mazen, che durante il suo intervento ha accusato Israele di aver spogliato Ramallah di gran parte dei suoi già limitati poteri, intromettendosi giornalmente nelle aree controllate dalle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp): «Israele ha di fatto cancellato l’accordo di Oslo e tutti gli altri accordi firmati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina».

Al termine dell’incontro il capo negoziatore palestinese, Saeb Erakat, ha confermato che, qualora i negoziati con Israele dovessero fallire, Abu Mazen sarebbe pronto a percorre altre strade: chiedere a Washington di riconoscere uno Stato palestinese entro la zona denominata “Sessantasette” (Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est); chiedere all'Assemblea generale dell'Onu di porre i Territori occupati sotto tutela internazionale o, come ha riferito Salih Rafat, membro del Comitato esecutivo, preparare un piano per portare la questione dell’espansione edilizia israeliana in Cisgiordania di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Intanto il Presidente palestinese ha raccolto il consenso di Fatah e del gruppo dirigente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) che, con il sostegno di due terzi della popolazione, ha già approvato una mozione con la quale appoggia la decisione presa dall’Autorità palestinese sul ritiro dai negoziati diretti con Israele.

Sul fronte opposto le premesse non sono rassicuranti: nel discorso di apertura della sessione invernale della Knesset il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, ha lanciato l’ipotesi di una nuova moratoria degli insediamenti, ma solo in cambio del riconoscimento palestinese di Israele come stato ebraico. Una richiesta che Abu Mazen ha definito “inaccettabile” e che, secondo Erakat, è del tutto forviante: «Quest’ordine non ha niente a che fare con il processo di pace o con gli obblighi non rispettati da Israele».

Qualsiasi decisione del governo israeliano dipende comunque dal sostegno del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, e da quello del ministro dell’Edilizia, Ariel Atias, entrambi appartenenti alla destra sionista più radicale. Le idee del leader del partito, Yisrael Beiteinu, sono note e secondo alcuni deputati del partito Shas, anche Atias appoggerebbe il ministro dell’Interno, Eli Yishai, forte oppositore dello stop alle colonie.

E’ quindi evidente che alla fine Netanyahu dovrà fare i conti con i membri del suo stesso governo e con quella parte dell’Esecutivo che pretende vengano rispettati gli impegni sottoscritti dall’amministrazione Bush nel 2004; vale a dire annessione da parte di Israele dei grandi blocchi di colonie al di là della Linea Verde stabilita nel 1949 dagli accordi di Rodi.

Se politicamente si può parlare di stallo, la situazione sulle strade della Cisgiordania è tutt’altro che confortante. Dalla fine dello stop imposto all’espansione edilizia negli insediamenti ebraici in Cisgiordania i coloni hanno avviato la costruzione di 350 nuove unità residenziali: lavori di ampliamento nella colonia di Eli, a sud di Nablus, e in quella di Maskiout, nella Valle del Giordano; trentaquattro nuove case a Kiryat Arba, cinquantaquattro unità ad Ariel, lavori di assestamento del terreno a Kadumim e Karmei Tzur e un piano edilizio pronto per essere messo in atto ad Adam, Matityahu, Nili, Nariya, Revava e Kfar Adumim.

A questo si aggiunge il problema della confisca dei terreni e la demolizioni delle case abitate dalla popolazione araba, come le 110 abitazioni palestinesi nel quartiere di Silwan che nell’arco di qualche settimana dovrebbero essere abbattute, o la demolizione delle moschee, come quella del villaggio di Burin.

Fatti di tutti i giorni le cui conseguenze sono sempre le stesse: scontri, gas lacrimogeni, proiettili di gomma e sassaiole, seguite da campagne di arresti di massa, come quella ordinata alla polizia di Gerusalemme dal ministro della Sicurezza nazionale di Israele, Yitzhak Aharonovitch, che nel tentativo di impedire gli attacchi contro i coloni, attacchi rivendicati dalle brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, e dalle brigate al-Aqsa del movimento di Fatah e al-Quds del movimento del Jihad Islamico, che negli ultimi mesi hanno causato numerose vittime, ha deciso di blindare gli enclavi ebraici.

Secondo il Centro per gli studi dei prigionieri di Ramallah, nell’ultimo anno le truppe israeliane avrebbe aumentato la pressione sulla popolazione palestinese a tal punto che il numero degli arresti ai posti di blocco risulterebbe raddoppiando, così come le perquisizioni notturne e le irruzioni occasionali.

Dai report pubblicati dalle associazioni per i diritti umani, in Cisgiordania negli ultimi 12 mesi lo Tsahal avrebbe fermato 4.320 persone e, nonostante i continui rilasci, nelle carceri israeliane sarebbero ancora rinchiusi 6.800 palestinesi; circa 5.000 sarebbero invece i profughi ai quali non verrebbe neanche riconosciuta l’identità palestinese e per questo non sarebbero autorizzati a rientrare in Cisgiordania.

Per l’Ufficio centrale di statistica palestinese, negli ultimi anni il numero di coloni ebrei è aumentato drasticamente: alla fine del 2009 se ne contavano 517.774, distribuiti in 144 insediamenti, 26 dei quali costruiti a Gerusalemme Est; rispetto all’anno precedente l’aumento sarebbe stato del 3,4% ma se si prende in esame il 1972 la presenza ebraica in Cisgiordania è aumentata di 40 volte.

Per più di mezzo secolo l’Aliya, l’immigrazione ebraica verso Israele, è stata considerata come il principale strumento del progetto sionista e, anche se prima della crisi economica internazionale “l’assorbimento” sembrava destinato a scemare, ora si può parlare di vera e propria controtendenza.

Secondo l’Agenzia ebraica nel 2010 il numero degli ebrei arrivati dal nord America sarebbero aumentato del 20%; nel 2009 i nuovi ingressi erano cresciuti del 17%, 16.200 persone contro le 13.860 dell’anno precedente; nell’ultima decade sarebbero 221.000 gli ebrei entrati in Israele, più di 3 milioni quelli immigrati dal 1948 ad oggi nel “nuovo Stato”.

 

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