di Carlo Musilli

Non è un tentativo di democrazia, non sono nemmeno prove generali. Al contrario, quello che sta accadendo in Birmania è lo stupro più vergognoso che della democrazia si possa fare. Trenta milioni di persone sono chiamate al voto per la prima volta dopo vent'anni, ma bisogna essere diplomatici in malafede per non vedere che queste elezioni sono tutto tranne che un primo passo verso la libertà. Il diritto non solo è negato, ma anche contraffatto e schernito.

L'obiettivo del regime militare che governa la Birmania è quello di garantirsi una parvenza di legittimazione. Dopo il genocidio, i massacri e le deportazioni di massa, gli uomini della giunta cercano di costruirsi un volto più civile, o semplicemente meno inaccettabile a livello internazionale. Le sanzioni economiche imposte dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti per le violazioni dei diritti umani, infatti, negano al Paese ogni possibilità di uscire dalla miseria cronica. E l'orizzonte è sempre più nero.

Con gli stati confinanti non esiste commercio, anzi, più volte si è sfiorata la guerra con Thailandia e Bangladesh. Anche Cina e Singapore, che a lungo hanno rifornito di armi il regime, da qualche anno non garantiscono più il loro appoggio. Non vedono di buon occhio le connessioni che si sono create fra i cartelli criminali della Birmania (secondo produttore di oppio al mondo, dopo l'Afghanistan) e la mafia cinese.

Ecco spiegato il teatrino delle elezioni, messo in piedi dagli uomini del regime in modo da escludere ogni incertezza elettorale. È scientificamente impossibile ogni risultato diverso dal plebiscito a loro favore, anche perché devono evitare di ripetere la brutta figura del 1990. All'epoca, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), il principale partito d'opposizione, guidato dall'eroica Aung San Suu Kyi, ottenne l'80% dei voti. Ai militari non rimase che sciogliere il Parlamento con la forza. I dissidenti finirono in carcere, fuggirono o morirono.

Oggi è un'altra storia. Si vota per eleggere le due camere del Parlamento e 14 consigli regionali, in 1.162 collegi. Sennonché, stando alla Costituzione varata nel 2008, il 25% dei seggi deve essere obbligatoriamente assegnato ai militari. Due terzi dei candidati totali, inoltre, provengono dal Partito della Solidarietà e dello Sviluppo dell'Unione (Usdp, il partito dei militari) o dal Partito d'Unità Nazionale (Nup). Quest'ultimo rappresenta i vecchi soldati vagamente socialisti che tennero in mano la dittatura fra il 1962 e il 1988.  Al di là di qualche disaccordo in materia economica, sono di fatto sostenitori del regime.

L'opposizione, invece, è semplicemente a brandelli. L'Nld è scomparso: seguendo l'esempio di Suu Kyi, che si è rifiutata di votare, il partito ha deciso di non presentarsi nemmeno alle elezioni, andando incontro allo scioglimento forzato. Alcuni dissidenti dell'Nld hanno creato un nuovo partito, la Forza Democratica Nazionale (Ndf). Si tratta del più grande fra i movimenti di opposizione, ma riesce a correre solamente per il 10% dei collegi. Nel complesso, le opposizioni non sono in grado di presentare più di 500 candidati a fronte dei famosi 1.162 seggi in palio. Risultato: in molti collegi quello del regime sarà l'unico candidato.

Com'è possibile? Semplice, ogni candidatura costa la bellezza di 500 dollari, che in Birmania equivale a uno stipendio medio moltiplicato per sette. I candidati pro regime godono di risorse inimmaginabili per gli altri: in cambio di voti offrono prestiti a tasso zero, case popolari, riso. Poi, naturalmente, le minacce: se ti viene in mente di non andare a votare, o di votare dalla parte sbagliata, sai di correre un pericolo.

Non è finita. All'opposizione, in tempo di campagna elettorale, non era permesso scendere in piazza, né cantare slogan. Com'è ovvio, la stampa è sempre stata censurata col massimo della severità. E quando finalmente è arrivato il giorno di andare alle urne, sono stati banditi dal paese giornalisti e osservatori internazionali.

Nel frattempo, le carceri sono stracolme di prigionieri politici, almeno duemila. Fra loro c'è anche Suu Kyi (o "La Signora", come la chiamano i birmani, a cui il regime proibisce di pronunciarne il nome). Fu arrestata la prima volta nel 1990, dopo aver stravinto le elezioni. Un anno dopo, mentre si trovava ai domiciliari, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Rilasciata nel '95, è stata imprigionata nuovamente nel 2000 e nel 2002.

Un appello per la liberazione di Suu Kyi e di tutti i prigionieri politici birmani è arrivato da Barack Obama, in questi giorni in visita in India. A Mumbai, di fronte ad una platea di studenti, il presidente americano ha sottolineato anche che "da troppo tempo il popolo birmano si vede negare il diritto di decidere del proprio destino" e che le elezioni di oggi "saranno tutto fuorché libere e giuste". In sostanza, il teatrino delle elezioni birmane sembra ribadire un concetto piuttosto banale, forse un po' retorico, ma indiscutibile. Peggiore di chi ti leva la libertà è soltanto chi finge di restituirtela.

 

di Michele Paris

È iniziato finalmente questo fine settimana il tanto ritardato viaggio di Barack Obama in Asia. Reduce dalla pesantissima sconfitta nelle elezioni di medio termine, il presidente americano trascorrerà una decina di giorni tra India, Corea del Sud, Giappone e Indonesia, il paese che lo ha ospitato per parte della sua infanzia. Proprio a Jakarta, con i leader del più grande paese musulmano del pianeta, Obama cercherà di venire a capo delle molte questioni tuttora irrisolte nelle relazioni bilaterali e di dare così un impulso alla sua moribonda presidenza con un difficile rilancio in politica estera.

Ad influire sui colloqui con l’Indonesia ci saranno da un lato la necessità statunitensi di stabilire rapporti più saldi con uno dei paesi più stabili e strategicamente importanti del sud-est asiatico e, dall’altro, l’aspirazione indonesiana di aprire il mercato domestico agli investimenti internazionali. Nel paese che ospita il più vasto numero di fedeli musulmani, Obama visiterà significativamente la più grande moschea indonesiana e terrà un discorso pubblico simile a quello così carico di aspettative che aveva segnato la sua apparizione al Cairo nel giugno dello scorso anno.

Le speranze dell’amministrazione Obama di ricostruire un qualche dialogo con il mondo musulmano, tuttavia, risultano oggi decisamente più esili rispetto ai primi mesi del suo mandato. La politica estera di Washington, infatti, dopo un avvio promettente ha finito sostanzialmente per appiattirsi su quella promossa da George W. Bush. Il carattere generalmente moderato dell’Islam in Indonesia e la sua collocazione periferica risultano poi ben poco rappresentativi delle altre realtà del mondo arabo e musulmano in genere, dove il conflitto con l’Occidente continua ad essere fin troppo acceso. A ciò va poi aggiunto il rapporto speciale del presidente americano con questo paese, dove sul finire degli anni Sessanta trascorse quattro anni con la madre, che aveva sposato in seconde nozze proprio un cittadino indonesiano.

La trasferta di Barack Obama in Indonesia era già stata rimandata in un paio di occasioni nel corso del 2010, la prima delle quali quando il marzo scorso venne approvata definitivamente dal Congresso americano la riforma del sistema sanitario. Nel corso di questi mesi, ad almeno una delle questioni più controverse nei rapporti tra i due paesi è stata data una spinta importante, vale a dire il ristabilimento dei programmi di addestramento e finanziamento da parte americana delle forze speciali indonesiane (Kopassus) che erano fermi fin dal 1997.

Coinvolto in numerose violazioni dei diritti umani, tra cui a Papua, Aceh e Timor Est negli anni Novanta, il Kopassus era visto da molti con grande diffidenza a Washington. Il sostegno alla riapertura dei canali di collaborazione con i reparti scelti indonesiani già assicurato dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva tuttavia aperto la strada alla visita del numero uno del Pentagono, Robert Gates, inviato a Jakarta la scorsa estate quando è stato suggellato il definitivo sdoganamento del Kopassus.

La collaborazione con i reparti scelti indonesiani appare d’altra parte una mossa strategica fondamentale per la partnership che gli USA desiderano costruire nell’ambito della lotta al terrorismo in quest’area del continente. A pensarla in questo modo non sono però tutti gli indonesiani. I ricordi dei crimini commessi dal Kopassus sono ancora molto vivi e le proteste pubbliche che si attendono in questi giorni minacciano di disturbare la calda accoglienza che l’Indonesia ha preparato per Obama.

I passi avanti nell’ambito della lotta al terrorismo da parte di Jakarta negli ultimi anni - come lo smantellamento della cellula integralista legata ad Al-Qaeda, Jemaah Islamiyah (JI) -sono inoltre apparsi sufficienti agli Stati Uniti, da dove già nel 2005 si era proceduto alla cancellazione delle sanzioni nei confronti dell’esercito indonesiano, anch’esso implicato in svariati abusi nei passati decenni. Subito dopo gli attacchi di Bali nel 2002, gli Stati Uniti avevano infatti aggiunto l’Indonesia e tutta l’Asia sud-orientale al fronte planetario della guerra al terrore. La presunta leggerezza di Jakarta nei confronti della minaccia terroristica interna aveva spinto l’amministrazione Bush a diffidare del governo indonesiano, suscitando un’ondata di anti-americanismo nel paese.

Se il fronte caldo del terrorismo per un Obama ben deciso a proseguire sulla strada del suo predecessore può rappresentare un terreno di intesa comune, non va però sottovalutata l’importanza strategica dell’Indonesia per Washington. Con un clima democratico relativamente prospero a partire dalla prima elezione del presidente Susilo Bambang Yudhoyono nel 2004, al contrario del deterioramento della situazione interna dei tradizionali alleati in quest’area (Thailandia e Filippine), Jakarta rappresenta un partner ideale. All’Indonesia la Casa Bianca intende perciò guardare con interesse per mantenere l’impegno di stabilire contatti diplomatici più intensi con il gruppo dei paesi appartenenti all’Associazione del Sud-est Asiatico (ASEAN).

Gli sforzi per un riavvicinamento al quarto paese più popoloso del pianeta, d’altra parte, rispondono per gli USA alla necessità, già manifestata in altre aree del globo, di controbilanciare l’espansionismo cinese. Tanto più che l’Indonesia possiede un corridoio strategico di enorme importanza come lo Stretto di Malacca, da dove transita qualcosa come l’80% delle importazioni di greggio di Pechino. Proprio sul controllo di queste acque così intensamente trafficate - e sulle quali si affacciano anche Singapore e Malaysia - Cina e Stati Uniti competono da tempo per estendere la propria influenza, principalmente cercando di garantire assistenza militare ai governi locali impegnati nelle operazioni di sicurezza.

La cooperazione tra Stati Uniti e Indonesia dovrebbe estendersi anche all’educazione, allo sviluppo di nuove infrastrutture e alla lotta al cambiamento climatico ma, soprattutto, dovrà fare i conti con un persistente senso di diffidenza verso Washington. Oltre ai sospetti nei confronti della lotta al terrorismo della precedente amministrazione, sono persistenti le ostilità dovute al ruolo degli investitori americani nella crisi finanziaria del 1997-98 che portò l’Indonesia sull’orlo del baratro. Ancora più datato ma tuttora presente è poi il senso di sfiducia nutrito per i progetti di esportazione della democrazia “made in USA”, un’agenda che riporta alla mente le azioni coperte della CIA in territorio indonesiano negli anni Sessanta in funzione anti-comunista.

Fin dalla caduta del dittatore Suharto nel 1998, d’altro canto, l’Indonesia da parte sua ha provato occasionalmente a costruire un rapporto più stretto con gli Stati Uniti, sia pure con scarsi risultati, anche a causa dei tradizionali impulsi nazionalistici che ne hanno caratterizzato la politica estera. Una tendenza che si è concretizzata in una spiccata attitudine protezionistica e, conseguentemente, nella mancata apertura del paese ai capitali americani ed esteri in genere. Proprio l’adozione delle consuete riforme in senso ultraliberista, dettate troppo spesso dagli organismi internazionali, rappresentano la ricetta che oggi Washington suggerisce a Jakarta per spianare la strada agli investimenti e rendere il paese competitivo rispetto a Cina, India e persino Vietnam.

Un’evoluzione che le élites politiche ed economiche indonesiane hanno già iniziato ad abbracciare, come dimostra il trattato di libero scambio firmato con la Cina nell’ambito dell’ASEAN ed entrato in vigore dal primo gennaio di quest’anno. Un accordo che stimola non poco gli appetiti di Pechino per le cospicue risorse energetiche indonesiane e che, inevitabilmente, allarga anche a quest’area nevralgica del continente asiatico la crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti d’America di cui Obama dovrà tenere conto nella sua visita a Jakarta.

di Giuliano Luongo

COINTELPRO, ovvero Counter Intelligence Program. Dietro quello che sembra il nome di un medicinale in compresse, si nasconde una strategia delle agenzie federali americane per controllare la popolazione; in particolare quella che, almeno all’apparenza, non è immersa al 100% nella cultura mainstream. Tutto questo è avvenuto per un ventennio, a partire dagli anni ’50, in maniera più o meno riconosciuta.

E nel mondo globalizzato, “terrorizzato” e ricco di nuovi spunti da guerra fredda, ecco riapparire questo spettro dall’odore di maccartismo in una sede quantomeno affollata: nel mondo dei social network, con Facebook in testa. Ma cosa significa davvero COINTELPRO? Cerchiamo di spiegarlo brevemente prima di entrare nel caso attuale.

Nel 1956 la Commissione per le Attività Antiamericane, per gestire al meglio il problema delle “spie comuniste” ed un po’ tutte le questioni rilevanti a chi avesse anche una seppur vaga aria di “rossore”, venne coniato questo termine per definire le strategie di infiltrazione e di conseguente demolizione di gruppi “sovversivi”.

In pratica venivano inviati agenti - federali o del controspionaggio - sotto copertura in un partito politico oppure in un qualsiasi gruppo di attivisti non solo per monitorarne le attività, ma per creare al loro interno correntismo, dissidi ed eventuali scissioni per demolirle senza colpo ferire.

Tutto ovviamente all’oscuro dei cittadini. Vittime di questa strategia sono stati il partito comunista americano, vari gruppi socialisti, attivisti per i diritti civili, il movimento per i diritti dei nativi americani, quello per i diritti degli islamici, le Pantere Nere, gli studenti politicizzati, i comitati anti-guerra del Vietnam. L’85% delle attività COINTELPRO bersagliava i detti gruppi ed i loro affini, ritenuti “sovversivi”. Il restante 15% era dedito a sradicare comitati per la “supremazia bianca”, come il Ku Klux Klan.

Le strategie di questo tipo furono interrotte nel 1971, dopo che un gruppo di attivisti riuscì ad ottenere e rendere pubblici i documenti che ne descrivevano le attività. La reazione a catena che ne seguì portò all’abbandono di questa strategia, ritenuta inapplicabile in un regime democratico. Fino ad oggi, o meglio fino alla settimana scorsa. La Electronic Frontier Foundation (EFF), gruppo impegnato nella difesa dei diritti individuali in ambito information technology, in collaborazione col dipartimento di legge dell’Università di Berkeley, ha denunciato numerose agenzie governative a seguito del rifiuto di queste ultime di dare chiarimenti sulle loro attività di sorveglianza su siti internet di gruppi di informazione indipendenti e noti social network.

La battaglia legale è iniziata a fine 2009, ma solo di recente sono venute fuori le prime informazioni interessanti, per la verità leggermente trascurate dai network di informazione più noti. E’ stato reso pubblico un memorandum del Servizio Cittadinanza e Immigrazione (USCIS) del 2008, interamente dedicato all’importanza dei social networks, nel quale si sottolinea l’importanza degli stessi per smascherare possibili frodi. In pratica gli agenti federali vengono spinti a divenire utenti attivi, “amici” delle persone sospettate, per poter controllare le loro attività personali e prevenire così i crimini.

Uno stile degno delle attività della Stasi negli anni del muro di Berlino. Facebook e MySpace sono stati i primi “terreni d’indagine”. In un clima del genere, sarebbe sufficiente lasciare un commento od un semplice aggiornamento di stato volutamente esagerato per innescare un’indagine governativa. Sono tenute d’occhio anche le pagine usate come punto d’incontro per la partecipazione ad eventi pubblici. Esempio eclatante, la nomina di Obama a Presidente: il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale (DHS, Department of Homeland Security), ha raccolto dati massicci sulle organizzazioni e sui singoli individui legati all’evento senza esplicita autorizzazione.

Parliamo di privati cittadini interessati a un evento pubblico di enorme rilevanza, non certo dei pregiudicati connessi a chissà quali loschi affari. Inutile ovviamente ricordare come tali enti governativi abbiano negato ogni coinvolgimento: a voler essere precisi, il DHS ha sostenuto di essere autorizzato a fare ciò, sfruttando un cavillo di un documento legislativo del 2008, mentre l’USCIS si è limitato a negare. Evidenziamo inoltre che gli stessi Facebook e MySpace hanno negato ogni possibilità di un loro sfruttamento per eventuali controlli illegali sull’utenza svolti da terzi.

In ogni caso, la lista dei siti monitorati è in crescita ed inizia a comprendere anche blog e siti di critica politica indipendente; sarà comunque difficile che il grande pubblico venga correttamente informato su eventuali evoluzioni, visto che esclusa la Foxnews, quasi nessuna testata mainstream ha dato peso alla vicenda.

 Ben vengano quindi i numerosi interventi indipendenti sul tema: un contributo apparso lo scorso primo ottobre sul Seattle Examiner, scritto dal noto avvocato Alfred Lambremont Webre, porta l’attenzione sul ruolo dello stesso Facebook. E’ stato scoperto tramite investigazioni private che Facebook ha volontariamente sabotato l’organizzazione di gruppi volti al boicottaggio di grandi marchi, come il gruppo Target (finanziatore di attivisti omofobi) e la BP (non c’è bisogno di presentazioni). Il sabotaggio si è concretizzato nella chiusura - prima parziale e poi definitiva - delle pagine di discussione di tali gruppi, non sappiamo se solo grazie a “segnalazioni di utenti” che li ritenevano non idonei alle linee guida del sito.

Mentre sia BP che Target hanno negato ogni coinvolgimento nella faccenda, Facebook si è limitato a confermare che le pagine molto grandi vengono controllate dai manager del sito: si ha quindi la conferma esplicita che, una volta divenuto “rilevante”, un gruppo finisce necessariamente sotto l’occhio dei censori. Censori che sono gli stessi gestori di un sito che dovrebbe favorire la discussione e l’avvicinamento di persone con le stesse idee. Un’ulteriore nota: la BP, in particolare, è stata sostenitrice della campagna di Obama con Steven Chu, l’attuale ministro dell’Energia, che ha visto il proprio portafogli appesantirsi di 500 milioni di dollari “petroliferi” al momento dell’accettazione della carica.

In attesa di ulteriori sviluppi, non rimane che fare alcune considerazioni generali. In primo luogo, notiamo come la paranoia del governo americano continua ad attestarsi su alti livelli, con la rievocazione di strategie di controllo della popolazione degne dei punti più oscuri della Guerra Fredda. In secondo luogo, ci accorgiamo ancora una volta che i cosiddetti paladini della libera comunicazione non sono altro che strumenti di controllo più subdoli nelle mani dei possessori di capitale.

Non rimane dunque che il coraggio di voler continuare a cercare di esprimere le proprie idee, anche quando i mezzi migliori per farlo e le istituzioni democratiche remano contro: alla fine siamo noi ad aver creato questi strumenti e possiamo benissimo riuscire, almeno per una volta, ad usarli esclusivamente a buon fine.

 

 

 

 

di Mariavittoria Orsolato

La rivista statunitense Forbes, famosa per stilare le più disparate classifiche sui più del mondo, anche quest'anno non rinuncia a elencare quelli che sarebbero i 68 uomini più potenti al mondo. La notizia è sicuramente quella che vede non un americano, come consuetudine, bensì un cinese al primo posto. Stiamo parlando del presidente Hu Jintao che, dopo anni passati ad indossare la medaglia d'argento, spodesta un Obama già fiaccato dalle elezioni di mid-term e sempre meno popolare.

Che la Cina fosse più vicina di quanto pensassimo è un dato di fatto, ma vedere che la persona più influente del mondo ha gli occhi a mandorla è senz'altro significativo nella misura in cui sottolinea il primato, ora anche politico, della potenza dalla Grande Muraglia. Sono finiti i tempi in cui lo zio Sam la faceva da padrone: l'impopolarità delle guerre sul fronte mediorientale unite alla disastrosa crisi economica che, partita dagli States, ha infettato tutto il mondo civilizzato, ha spinto anche i più accaniti fautori delle stelle e strisce a riconsiderare il peso specifico della Cina e ad ammettere (finalmente) che il born in the USA tira ormai molto meno del made in China.

L'analisi della rivista economica, recentemente rilevata per il 40% dal leader degli U2 Bono Vox, si fonda infatti su quattro criteri di valutazione che quantificano il valore aggiunto di ogni protagonista della scena mondiale: bacino di persone su cui esercita influenza, ricchezza personale, forza in un determinato ambito e capacità di esercitarla sugli altri. Come leader indiscusso della Repubblica Popolare Cinese, Hu Jintao governa su 1,3 miliardi di persone - su per giù un quinto della popolazione mondiale - ed è a comando dell'esercito più imponente del mondo. Dalla sua, dice Forbes, molte condizioni irripetibili: “A differenza dei colleghi occidentali, può deviare i fiumi, costruire città, mettere in carcere i dissidenti e censurare Internet, senza ingerenze da parte di fastidiosi burocrati e tribunali“. Difficile, partendo da queste premesse, che altri possano superarlo in futuro.

Troviamo così che oltre al democratico Obama, Hu Jintao supera di misura anche il più ricco tra gli emiri arabi, il re dell'Arabia Saudita Abdullah bin Abdul Aziz al Saud. Un podio multiculturale quindi, che tiene bene a mente gli assetti planetari del XXI° secolo, sbilanciati sempre più a oriente. In questa particolare classifica di superman il quarto posto è riservato allo "zar" russo Putin, mentre il quinto gradino è riservato a papa Ratzinger, potente sulla carta ma evidentemente imbelle di fronte alla degenerazione dei suoi sottoposti, coinvolti a diverse latitudini in storiacce di pedofilia e vessazione.

Solo quattordicesimo il nostro Premier Berlusconi: che il giudizio di Forbes sia più che lusinghiero lo dimostra il fatto che nella nota biografica si dica placidamente che in Italia "è ancora lui l'istrione", che però sulla Fifth Avenue le notizie arrivino dopo lo dicono le recenti cronache nostrane, sempre più impegnate nel rendere conto della ricattabilità di Berlusconi, ostaggio vero e proprio di escort conclamate ed aspiranti starlette disposte a tutto pur di avere addosso i riflettori dei media.

In settima posizione troviamo il nuovo primo ministro britannico David Cameron, davanti al presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, alla presidente del Congresso indiano, Sonia Gandhi, e al presidente di Microsoft, Bill Gates che chiude la top ten. Al tredicesimo posto c'è il magnate australiano dell'informazione Rupert Murdoch - che anche nella classifica di Forbes si attesta un gradino più in alto rispetto alla nemesi italiana Berlusconi - e al quindicesimo il presidente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet.

Il presidente francese, Nicholas Sarkozy, è invece soltanto 19° posto, superato anche dal presidente indiano Manmohan Singh, ma tiene dietro il Segretario di Stato americano Hillary Clinton.

Scorrendo il lungo elenco di Forbes si incappa poi in quello che molti potrebbero considerare un miracolo: al cinquantasettesimo posto spicca infatti il nome di Osama Bin Laden, fondatore di Al Quaeda e organizzatore degli attentati dell'11 settembre. Il barbuto rampollo sunnita è stato dato per morto almeno cinque volte da quando, nell'autunno del 2001, cominciò a infuriare la guerra in Afghanistan. Si parlava del suo cadavere tra le rovine di Tora Bora già nel 2003 e poi, nel settembre 2006, alcuni giornali francesi hanno diffuso la notizia della sua morte per febbre tifoidale, fino a che la compianta leader pakistana Benazir Bhutto ammise la sua uccisione nel 2007 ad opera di uno 007 locale.

Insomma, morto o vivo, il ricercato numero uno della CIA continua a far parlare di sé e ad influenzare la vita politica mediorientale, al punto che sono ancora evidentemente molti i giovani disposti a sacrificarsi letteralmente per la causa coranica ed anti-israeliana.

Altra soppressa è trovare come fanalino di coda il fondatore del sito Wikileaks, il giornalista australiano Julian Assange. Temuti da ogni governo o multinazionale che abbia più di uno scheletro nell'armadio, Assange e i suoi redattori hanno l'incommensurabile merito di spiattellare sul web tutti quei documenti classificati cui i comuni mortali non potrebbero mai avere accesso. Con il coltello perennemente dalla parte del manico, Wikileaks rappresenta ad oggi l'exemplum gratiae di quello che dovrebbe essere il giornalismo ed è normale e naturale che il suo giudizio sia temuto dai colletti bianchi e dai gabinetti di Stato di mezzo mondo.

La speranza è ovviamente quella che l'anno prossimo Assange e i suoi hacker acquistino ancora maggiore influenza, perché, come dice la nota informativa di Forbes "l'informazione vorrà anche essere libera, ma spesso ha bisogno di una mano".

 

 

di Mario Braconi

Funziona così: al condannato vengono somministrati, in quest’ordine, tre sostanze,: una per indurlo all’incoscienza, un’altra per paralizzarlo totalmente e una terza per fermargli il cuore. Per quanto sia grave ed odioso il crimine commesso dal condannato, la lugubre procedura che vede lo stato trasformarsi in boia e i suoi dipendenti in complici, fa accapponare la pelle persino ai fan più scatenati della pena capitale. Contrariamente a quanto si pensa, utilizzando questo metodo non si muore immediatamente, ma per farlo occorrono 6 / 7 minuti e non è affatto sicuro che non si soffra: il fatto di essere completamente sedati aiuta, ma se qualcosa non va per il verso giusto, è bene ricordare che si tratta di un’agonia per asfissia interrotta da un infarto fulminante.

E’ stato così anche per Jeffrey Landigan, divenuto protagonista, suo malgrado, di una vicenda grottesca che lo ha coinvolto nelle ultime ore della sua vita disperata. Il 13 dicembre del 1989 Landigan, dopo essere evaso dalla prigione in Oklahoma dove stava scontando una prima condanna per omicidio di secondo grado (l’iniziale condanna a morte era stata commutata in quaranta anni di reclusione), trascorse il pomeriggio con Chester Dyer, 42 anni. Dopo aver bevuto e aver fatto sesso, qualcosa deve essere andato storto, dato che i due uomini hanno cominciato a lottare.

Due giorni dopo Dyer venne rinvenuto cadavere nel suo letto, attorniato da carte da gioco pornografiche (sulla schiena, l’assassino lasciò un asso di cuori). Secondo l’Arizona Republic, ad incastrare Landigan sarebbero state le sue impronte digitali e un’orma insanguinata sul luogo del delitto. Un report di Amnesty USA, però, racconta la storia in modo diverso: nonostante la ricostruzione giudiziaria sostenga che al momento del delitto nell’appartamento di Dyer vi fossero solo Landrigan e la vittima, le analisi effettuate sui reperti biologici rinvenuti sulla scena del crimine hanno attestato che essi appartenevano a due persone e che nessuno dei due DNA era compatibile con con quello di Landrigan.

Anche se gli elementi messi in evidenza da Amnesty ovviamente non provano in modo definitivo che Landigan non si sia macchiato dell’omicidio di Dyer, certamente essi fanno pensare che la ricostruzione dei fatti presentata al giudice non fosse molto accurata o effettuata in perfetta buona fede. E’ interessante notare come i media, negli USA come in Europa, ignorino simili “dettagli”. Per esempio, quasi solo Clive Stafford Smith, fondatore di Reprieve (una ONG che si batte contro la pena di morte), dalle colonne del Guardian ricorda che il cervello di Landigan era “gravemente danneggiato”: abbandonato dalla madre naturale all’età di sei mesi, dopo una gravidanza funestata dall’assunzione di alcol e stupefacenti, è in seguito stato adottato da un’alcolizzata che, oltre a farsi fuori un litro di vodka al giorno, lo maltrattava e lo picchiava (una volta lo colpì sulla testa con una padella tanto forte da abbozzarla).

Secondo quanto riportato da Amnesty, nel 1998 una (tardiva) perizia condotta sul condannato da un neuropsichiatra concluse che “la combinazione di fattori ereditari, esposizione prenatale a sostanze ed alcol, abbandono precoce e relazioni tormentate con la famiglia adottiva avevano reso l’uomo incapace di funzionare in società”. Il comportamento dell’avvocato d’ufficio (Landigan ovviamente non poteva nominarne uno), un pivello al suo primo caso di pena capitale, è stato censurato per non aver nemmeno tentato di portare all’attenzione del giudice le circostanze attenuanti che avrebbero salvato la vita all’imputato.

La beffa è che lo stesso giudice che lo ha condannato a morte ha recentemente dichiarato che, se ai tempi in cui ha deciso del suo destino avesse saputo dei danni cerebrali di Landigan, avrebbe senz’altro commutato la pena di morte in ergastolo. Si noti il candore di una simile dichiarazione, che tra l’altro certifica il fatto che, a quanto pare, negli USA ad un giudice che decide sulla vita di un uomo non si richiede, come minimo, di acclarare lo stato mentale dell’imputato.

In generale, il caso Landigan è paradigmatico di come funziona la pena capitale negli Stati Uniti: solitamente comminata a persone malate, appartenenti a minoranze etniche (Landigan è nativo americano), viene comminata al termine di processi di sconcertante superficialità, in cui la difesa ha un ruolo poco più che simbolico. Il trionfo della vendetta di Stato stile Far West, beninteso limitata a chi non abbia cervello, soldi e conoscenze sufficienti a mettere KO il boia.

Tuttavia non è per questo che verrà ricordato il caso Landigan, quanto piuttosto per aver sollevato il velo di ipocrisia poco conosciuto che copre chi fa affari con la “morte di stato”. L’unica azienda americana a produrre il Pentothal approvato dalla FDA è la Hospira, che però ha recentemente fatto sapere di non essere in grado di fornire il farmaco almeno fino all’inizio del 2011. A quanto risulta da una comunicazione inviata dall’azienda allo stato dell’Ohio, intercettata dall’Associated Press, Hospira avrebbe dichiarato di “occuparsi di migliorare e/o di salvare vite e pertanto di disapprovare l’uso dei suoi prodotti nelle esecuzioni capitali”, anche se pubblicamente cita la carenza di un componente del prodotto, attualmente non reperibile sul mercato, come causa dell’interruzione della produzione.

Insomma, benché non sia dato sapere se sia un tardivo (seppur ben accetto) scrupolo morale o un oggettivo problema produttivo a causare la mancata produzione di Penthotal, il fatto è che l’Arizona si è trovata senza una delle tre sostanze utilizzate per uccidere i condannati a morte. Lo Stato ha dovuto ammettere pubblicamente che si sarebbe rivolta ad un fornitore straniero di “buona reputazione”: abbastanza per consentire agli avvocati di Landrigan di sollevare formalmente la questione di una possibile esecuzione dolorosa nel caso di somministrazione di una sostanza non approvata dalla FDA, cui segue la sospensione temporanea dell’esecuzione.

Sotto la pressione incrociata dagli avvocati di Landrigan e dei media, l’Arizona è costretta a riconoscere che il Penthotal viene dalla Gran Bretagna: dunque, bando agli scrupoli, il prodotto è “buono”, e l’esecuzione s’ha da fare. Il 26 ottobre Landrigan viene ammazzato nell’Arizona State Prison Complex di Florence, usando, tra gli altri prodotti, un tiobarbiturico non approvato dalla FDA, ma fortunatamente proveniente da un Paese dall’ottima “reputazione”.

Tutto bene, dunque, per i fan della pena capitale (che peraltro si erano fatti avanti nel momento di stallo dell’esecuzione, sostenendo che non c’è mai carenza di proiettili né di mazze da baseball sul mercato) soddisfatti nella loro brama di vendetta grazie all’assassinio di un ritardato mentale condannato a seguito di un processo ridicolo degno della giustizia iraniana. Meno serena, però, l’opinione pubblica in Gran Bretagna, poco a suo agio con l’idea di un’azienda farmaceutica del proprio paese che specula sulla pena di morte.

Risolto velocemente il “giallo” sul nome della società, visto che l’unica a detenere la licenza per produrre il Penthotal in Gran Bretagna è la Archimedes Pharma UK, la quale, però, oppone alla sua improvvisa nudità un’improbabile foglia di fico, sostenendo che, “coerentemente con le leggi correnti, non detiene informazioni sugli acquirenti finali dei suoi prodotti.” Un problema non solo d’immagine, dato che il regolamento dell’Unione Europea 1236/2005, immediatamente operativo in tutti i Paesi Membri senza necessità di normative statali di recepimento, prevede letteralmente che “gli operatori economici della Comunità non derivino alcun beneficio da un commercio che promuove o altrimenti faciliti l’implementazione di politiche di pena di morte, tortura o altro trattamento o punizione crudele, inumana o degradante”.

E’ possibile che, grazie ad un meccanismo di triangolazione, la Archimedes Pharma riesca a sfuggire alla legge europea, dimostrando così di aderire, come scrive Stafford Smith, al “giuramento di Ipocrita più che al giuramento di Ippocrate”. Tuttavia, a nessuno dovrebbe sfuggire il ruolo che avrebbero società come Hospira o Archimedes Pharma nella cancellazione della pena di morte negli USA. Se interrompessero la produzione di Penthotal costringerebbero moltissimi Stati degli USA ad uno stop delle esecuzioni, stimolando una riflessione generale del Paese su questa barbarie e dando forza a chi si batte perché essa sia considerata non costituzionale. Ma, come avrebbe detto Vespasiano, il denaro non ha odore.


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