di Emanuela Pessina

BERLINO. Negli ultimi anni la Germania ha concesso sempre meno visti ai cittadini extracomunitari, mostrandosi particolarmente avara con quelli provenienti dai Paesi più poveri. È quanto emerge dal rapporto diffuso in questi giorni dal Governo tedesco sui permessi di visita accordati negli ultimi nove anni, il primo nel suo genere a essere sottoposto pubblicamente a stampa e cittadini.

Un resoconto, a quanto pare, che si è fatto parecchio attendere: e il lungo indugio del Governo tedesco non ha mancato di creare sospetto, tanto che i più maliziosi si sono preoccupati di condurre un’analisi approfondita del fenomeno delineato.

I risultati non potevano passare inosservati: tra i permessi rifiutati c’è un filo conduttore comune politically uncorrect, che mette in discussione il grado di apertura della Germania agli stranieri e, con lei, di tutti gli stati europei.

Secondo il quotidiano berlinese di sinistra Tageszeitung, i dati parlano chiaro: se nel 2000 Berlino ha rifiutato il 6% del numero totale di richieste, nel 2009 la quota di visti negati è salita al 10%. Le percentuali, comunque, variano in maniera abbastanza regolare secondo i differenti Paesi cui appartengono i richiedenti. In particolare, i visti sollecitati dai cittadini turchi incontrano l’opposizione della Germania più spesso di molti altri Paesi: con una percentuale del 28%, i “no” detti ad Ankara rappresentano il doppio della media internazionale.

Ma i dati più scioccanti provengono dagli stati africani. La Guinea, nell’Africa Occidentale, ha registrato nel 2009 una percentuale di visti rifiutati pari al 54%, mentre al vicino Ghana è stato negato il 37% delle visite su suolo tedesco. Per questi Stati africani, tra l’altro, è particolarmente elevato il numero degli extracomunitari che non ci provano neppure: il Consolato chiarisce da subito la scarsa probabilità di ottenere il visto e i cittadini rinunciano immediatamente senza presentare domanda. Va da sé che questi casi non sono contemplati nelle cifre presentate dal rapporto: per quanto negative, le percentuali sono sarcasticamente arrotondate in positivo.

Tra i meno “desiderati” dallo Stato tedesco, in particolare, ci sono i cittadini senza reddito fisso e non sposati. Il grado di attaccamento di un cittadino alla sua terra d’origine costituisce uno dei requisiti fondamentali per la concessione di un visto turistico ed è misurato dal Consolato attraverso i rapporti professionali e familiari che il richiedente intrattiene a casa. Chi non ha lavoro né famiglia potrebbe non avere una forte motivazione a tornare al proprio Paese. Chi non ha nulla da perdere potrebbe tentare la strada della clandestinità in Germania partendo dal periodo di visto: e, come tutte le altre democrazie contemporanee, lo Stato tedesco preferisce prevenire piuttosto che curare.

La questione non fa una piega per il portavoce del Ministero degli interni liberale Serkan Tören (FDP): “Probabilmente i criteri per la concessione dei visti dipendono dagli accordi tra gli Stati per il rimpatrio dei clandestini illegali” chiarisce Tören, spiegando come con alcuni Paesi- tra cui la Turchia - non siano ancora stati presi chiari accordi per le permanenze illegali.

Una negazione di visto a prevenzione di eventuale futuro crimine, quindi. Una condanna preventiva di un’eventuale intenzione. E se il rapporto sulla concessione di visti non è stato pubblicato prima dal Governo, è stato semplicemente per evitare influenze negative nelle relazioni bilaterali tra gli Stati: non fosse stato per una richiesta della frazione di sinistra del Parlamento tedesco, Die Linke, non sarebbe stato pubblicato neppure ora.

Sevim Dagdelen (Die Linke), portavoce per l’integrazione politica di Die Linke, non si lascia incantare e riassume la problematica in mod più concreto: “Chi ha una situazione sociale poco stabile, ossia chi è più povero, non ha nessuna possibilità di visitare i propri parenti in Germania”. Per Dagdelen, i parametri con cui si negano e concedono i visti assomigliano a una “selezione sociale”. I ricchi possono viaggiare con più facilità dei poveri, cui non è concessa la fiducia: sembra quasi che, ancora una volta, siano la paura e il pregiudizio a spingere i disadattati ancora più a fondo.

di Michele Paris

Qualche settimana fa Iran e Pakistan hanno siglato un importante accordo per la fornitura di gas naturale che dovrebbe provvedere al fabbisogno energetico pakistano. L’intesa per la costruzione di un gasdotto da quasi 8 miliardi di dollari, che diventerà operativo a partire dal 2014, è giunta nonostante l’opposizione degli Stati Uniti, impegnati ad isolare Teheran attraverso le sanzioni economiche appena approvate dal Congresso, ma costretti a non esercitare troppe pressioni su un alleato fondamentale nella strategia di stabilizzazione del vicino Afghanistan.

L’impianto in questione partirà dal sito del più grande giacimento di gas naturale conosciuto del pianeta, quello di South Pars, nell’Iran meridionale, e una volta a regime fornirà 21,5 milioni di metri cubi di gas al giorno al Pakistan. Prima dell’inizio dei lavori, però, Islamabad entro il 2011 dovrà svolgere uno studio circa la fattibilità della porzione di gasdotto che sorgerà sul proprio territorio.

L’annuncio del lancio del progetto è arrivato più o meno in concomitanza con la firma di Obama sul pacchetto di sanzioni unilaterali contro l’Iran (Comprehensive Iran Sanctions, Accountability, and Divestment Act), votate dagli USA dopo i provvedimenti adottati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La nuova legislazione americana prevede ritorsioni nei confronti di quelle compagnie straniere che fanno affari con la Repubblica Islamica, in particolare nel delicato settore energetico.

La contrarietà di Washington all’accordo sul gasdotto era stata ribadita di recente dall’inviato speciale del presidente Obama in Afghanistan e Pakistan, Richard Holbrooke. A queste pressioni, tuttavia, Islamabad non ha finora ceduto, malgrado le promesse di forniture alternative di gas proveniente dal Tagikistan attraverso l’Afghanistan. Le insistenze americane avevano convinto invece l’India ad uscire dall’iniziativa che inizialmente prevedeva il coinvolgimento anche di Nuova Delhi.

La determinazione del governo pakistano rischia ora di mettere nuovamente in imbarazzo la diplomazia statunitense. L’esclusione dal mercato americano delle compagnie straniere che contravvengono alle sanzioni contro l’Iran, non avviene in ogni caso in maniera automatica ed è probabile che alla fine da Washington si finirà per chiudere un occhio. Il Pakistan si trova d’altra parte in una situazione di estrema scarsità di energia elettrica - tanto da aver perso circa il 2 per cento del proprio PIL nell’ultimo biennio - così che azioni punitive da parte degli USA comporterebbero un nuovo grave motivo di tensione all’interno di una relazione bilaterale già sufficientemente agitata.

Come noto, per gli Stati Uniti il Pakistan rappresenta a partire dall’autunno del 2001 un partner potenzialmente decisivo nell’azione di contrasto alla guerriglia islamica che rende precaria l’occupazione dell’Afghanistan. Le sollecitazioni americane verso Islamabad per azioni sempre più incisive nei confronti dei gruppi talebani e legati ad Al-Qaeda operanti entro i propri confini si sono moltiplicate negli ultimi anni.

A fronte delle rassicurazioni ufficiali e delle operazioni militari, però, i vertici delle forze armate pakistane (e ancor più i servizi segreti) continuano a mantenere un rapporto molto stretto con molte di queste cellule jihadiste attive oltre frontiera, considerate un prezioso valore aggiunto per influenzare un futuro Afghanistan pacificato, da cui escludere il più possibile l’arcirivale indiano.

Allo stesso tempo, l’equilibrismo diplomatico del Pakistan è complicato dalla necessità di evitare screzi con Washington, da cui provengono ingenti aiuti economici e militari. Un contributo che, in ogni caso, non ha reso meno ostile l’opinione pubblica pakistana nei riguardi degli Stati Uniti e di un governo locale considerato troppo arrendevole ai diktat del potente alleato. La prova di forza sulla questione del gasdotto iraniano ha fornito così l’occasione al primo ministro Raza Gilani e all’impopolare presidente Zardari di dimostrare di saper resistere in qualche misura alle pressioni americane.

La strategia energetica di Islamabad ha finito poi per far emergere un altro fronte di contrasto con gli USA, in questo caso intorno alla questione del nucleare e dell’espansione dell’influenza cinese in Asia centrale. Il Pakistan, pur possedendo armi atomiche, non è firmatario del Trattato di Non-Proliferazione (TNP) e non potrebbe perciò accedere, almeno in linea teorica, al mercato della tecnologia nucleare per scopi pacifici.

Dal momento che all’India, anch’essa fuori dal Trattato, negli ultimi mesi dell’amministrazione Bush era stato concesso in via eccezionale di stipulare un accordo con Washington per ottenere assistenza nella creazione di una rete di centrali nucleari, il Pakistan ha richiesto agli USA il medesimo trattamento riservato all’odiato vicino orientale.

Incassato il rifiuto americano di siglare un simile trattato, il Pakistan si è rivolto alla Cina. Anche se a Pechino non sarebbe consentito di fornire tecnologia nucleare a paesi non firmatari del TNP, un progetto per la costruzione di due reattori nella provincia pakistana del Punjab è stato recentemente suggellato, senza alcuna reazione ufficiale da parte di Washington.

La presenza cinese in Pakistan è già ben consolidata e rappresenta precisamente un altro fronte della crescente rivalità con gli USA in un’area strategicamente molto importante e ricca di risorse naturali. In cambio degli investimenti promessi da Pechino, il governo pakistano ha ad esempio concesso lo sfruttamento del porto di Gwadar, situato sulla costa sud-occidentale della provincia del Belucistan che si affaccia sul Mare Arabico.

Una mossa quella cinese che rientra in una strategia più ampia, dettata dalla necessità di assicurare alle forniture di materia prima provenienti dal Medio Oriente rotte alternative a quella che passa attraverso lo Stretto di Malacca, soggetto al controllo navale statunitense. Per l’identico motivo, la Cina ha da poco concluso un accordo con la giunta militare del Myanmar per la costruzione di un oleodotto che dovrebbe collegare i due paesi e pare stia valutando di estendere il gasdotto tra Iran e Pakistan fino al proprio territorio.

Oltre a turbare gli Stati Uniti, l’ascendente cinese sul Pakistan inquieta ovviamente anche l’India, la quale ha a sua volta un rapporto tormentato con Pechino. Come contrappeso, da almeno un decennio l’India si è avvicinata agli Stati Uniti, i cui rapporti sempre più stretti con il Pakistan hanno però suscitato i timori di Nuova Delhi. L’irruzione della Cina nello scacchiere centro-asiatico per tutelare i propri interessi geo-strategici, così, non fa altro che aumentare le tensioni in un’area del globo dall’equilibrio già estremamente precario.

di Mario Braconi

Il 13 luglio la Camera bassa del Parlamento francese ha approvato quasi all’unanimità (355 voti favorevoli, un contrario, venti astenuti) un progetto di legge che vieta alle donne di indossare il velo integrale tipico delle interpretazioni più estremiste della dottrina islamica. Anche se l’obbligo di indossare il burka ha origini culturali più che religiose, non essendo in effetti previsto letteralmente dal Corano, questa brutta tradizione è oggi appannaggio pressoché esclusivo delle correnti oltranziste islamiche, note per la loro brutale misoginia.

Se il provvedimento dovesse essere ratificato anche dal Senato e uscire indenne dal vaglio del Consiglio Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti Umani (ipotesi invero piuttosto remote), in Francia tra qualche mese una donna con il velo integrale rischierà una multa di 150 euro; poiché il burka rappresenta l’apoteosi di un’interpretazione religiosa che si distingue per l’estremismo maschilista e ha in odio il potere femminile (del corpo, della mente), correttamente la legge tenta di colpire gli uomini che obbligano le loro donne ad indossare il burka, minacciando sanzioni pecuniarie (fino a 30.000 euro) e promettendo, nei casi più gravi, perfino un soggiorno di un mese nelle patrie galere.

Si tratta di una legge che fa e farà discutere. Indiscutibilmente, l’humus nella quale essa è stata concepita non è dei più incoraggianti: è indiscutibile il fatto che la legge anti-burka finisca per vellicare (consapevolmente o meno) l’umore anti-islamico che serpeggia per il paese e per l’Europa intera (sono allo studio misure simili in Belgio e Spagna).

Da un punto di vista pratico, è lecito porsi qualche domanda sulla reale applicabilità delle future norme e sulle sue conseguenze indesiderate: ad occhio, sembra complicato provare in un tribunale (francese) che un padre / fidanzato / marito abbia veramente obbligato la figlia / fidanzata / moglie ad indossare il burka. E che ne sarà delle donne sottoposte al ripugnante giogo maschile che impone loro di lasciare scoperti a malapena gli occhi quando camminano per strada? Si può forse credere (in buona fede) che, a legge approvata, il maschio oppressore di turno diventi un cittadino modello, consentendo alle donne di casa di uscire non dico in minigonna, ma con un semplice foulard sul capo? O è forse più probabile che l’odiosa imposizione del burka, causa rischio multe, venga commutata in una vera e propria segregazione tra le quattro mura di casa?

Inoltre, la legge anti-burka ha le carte in regola per essere cavalcata da estremisti di ogni rango, i quali potrebbero trasformare il provvedimento in una ghiotta occasione per creare disordini nelle strade: sono intuibili le difficoltà in cui incorreranno i poliziotti chiamati ad imporre il rispetto di questa legge in una banlieu a forte densità islamica.

Se è lecito considerare criticamente tutte le leggi disegnate per “liberare” una qualche categoria di cittadini, irrilevanti quanto ciniche, sono le critiche alla legge basate sulla bassa incidenza statistica del fenomeno (si parla di 2.000 casi di donne in burka su circa 4-5 milioni di francesi di religione islamica): se anche potesse contribuire a soccorrere una sola donna oppressa, la legge avrebbe un senso. Va comunque notato che è una situazione inedita, e poco confortevole, la situazione in cui uno stato democratico occidentale legifera perfino su quello che i cittadini indossano: tende infatti a creare un collegamento logico quanto mai sgradito tra la République e la Repubblica Islamica iraniana…

La battaglia di Sarkozy, di cui la legge anti-burka è un tassello politicamente importante, ha come obiettivo un rafforzamento della cosiddetta identità francese: non ha torto Madeleine Bunting che, sul Guardian, si dimostra perplessa nei confronti delle decisioni politiche che suonano come un ultimatum, del tipo: “Questo è il nostro modo di vivere, sei dentro o sei fuori?”. Secondo la giornalista britannica, si tratta di una posizione pericolosa, se non altro perché apre la strada ad un altro quesito: chi è, alla fine, a decidere qual è il “nostro” stile di vita?

Pur con tutti i distinguo sopra citati, la legge del governo francese ha il pregio di mostrare attenzione ai diritti delle donne e di ribadire energicamente il principio della laicità dello stato. C’è chi vi vuole necessariamente vedere un attacco diretto agli stranieri e alle persone di cultura e tradizioni diverse dalle nostre: per onestà intellettuale, occorrerà ricordare che essa, pure all’interno di evidenti e numerosi limiti, ha come obiettivo polemico non una particolare tradizione religiosa, ma una specifica cultura, misogina, distruttiva e dunque particolarmente infetta per le sue vittime e per la società in generale.

Purtroppo sono molti gli intellettuali progressisti che sembrano non comprendere la gravità del significato del burka in termini di sottomissione della donna. Sembrano paralizzati dal loro timore di essere considerati politicamente scorretti o addirittura di tendenze razziste in senso lato (l’islam non è una razza, e comunque questo termine va bene al più per i cani) se si azzardano a mettere in discussione una tradizione culturale non occidentale, non importa se essa si dimostri in casi limite sciocca, barbara e criminale.

Esempio lampante di questa pericolosa cecità sono i commenti bislacchi di cui è infarcito il pezzo della Bunting sul Guardian del 14 luglio: “Sempre più spesso le ragazze scelgono spontaneamente di indossare il velo integrale, poiché lo considerano un potente segnale identitario. Alcune donne - una sparuta minoranza - probabilmente trovano profondamente offensiva la sessualizzazione pervasiva della cultura occidentale e reagiscono scegliendo un abbigliamento che segnali con forza la loro indisponibilità a venirci a patti e il loro sentirsi ‘altro’”.

Secondo la Bunting, dunque, sarebbero sempre più le islamiche a scegliere di andare in giro seppellite in quella che un deputato francese della Sinistra Repubblicana e Democratica ha definito “una tomba che cammina, una museruola”: parrebbe che la loro sia una “giusta” reazione al troppo sesso di cui è impregnata la nostra cultura. Secondo la Bunting queste donne non sarebbero dunque vittime di uomini ignoranti e violenti, ma di un mondo liberato in cui si dà al sesso l’importanza che merita. Se questo è il massimo cui possono arrivare le migliori menti progressiste europee, c’è poco da stare allegri.

di Eugenio Roscini Vitali

Il Partito di Dio è pronto ad affrontare Israele e si prepara a combattere le sue battaglie nei centri urbani del Libano meridionale, enclavi sciite diventate vere e proprie roccaforti della milizia Hezbollah: questo è l’ultimo allarme lanciato dall’Aman, il servizio di controspionaggio delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) che ritiene la minaccia reale e imminente e che sarebbe in possesso di migliaia di fotografie scattate negli ultimi quattro anni dagli UAV e dai satelliti israeliani; immagini che provano le attività dei militanti sciiti all’interno delle aree urbane prossimi al confine con lo Stato ebraico.

Secondo quanto riportato dal giornale israeliano Haaretz, durante un briefing con la stampa, il colonnello dell’IDF, Ronen Marley, avrebbe mostrato una simulazione in 3D ed alcune fotografie relative al villaggio di al-Hiyam che proverebbero come anche le aree prossime alle scuole e agli ospedali verrebbero utilizzate dalle un’unità Hezbollah per nascondere le armi contrabbandate attraverso il confine siriano.

Marley avrebbe inoltre fatto riferimento alle attività d’intelligence svolte dai miliziani sciiti, alla consistente rete d’infrastrutture sorta per alloggiare alle rampe di lancio dei razzi a breve e media gittata e ai sistemi militari di comunicazioni e di comando e controllo che Hezbollah potrebbe utilizzare in un’eventuale scontro armato.

Il servizio d’informazioni israeliano stima che Hezbollah sia attualmente in possesso di un arsenale composto da circa 100 missili Scud ed M-600 e 40 mila razzi a corto e medio raggio, armi nascoste nei villaggi e nelle case a sud del fiume Litani dove inoltre si troverebbero quasi 20 mila militanti sciiti, ottomila dei quali preparati al combattimento nei campi di addestramento iraniani.

Lungo la zona cuscinetto controllata della Forza di Interposizione dell’Onu (Unifil) ci sono aree interdette ai Caschi blu dove il braccio armato del Partito di Dio avrebbe a disposizione un arsenale pari al doppio di quello del 2006 e una fitta rete di comunicazione e di centri comando, alle cui dipendenze opererebbero unità da combattimento formate da non più di duecento elementi ciascuna.

In un’intervista pubblicato dal quotidiano londinese in lingua araba Asharq al-Awsat il comandante sciita, Sheik Nabil Kaouk, avrebbe inoltre dichiarato che il movimento di resistenza libanese sarebbe in possesso di una lista di obbiettivi militari in territorio israeliano che i miliziani sarebbero in grado di colpire in qualsiasi momento.

La minaccia maggiore è sicuramente rappresentata dai missili terra-terra M-600, copia dei razzi iraniani Fateh-110, che grazie ad un raggio d’azione di circa 300 chilometri sono in grado di colpire la metà delle città israeliane, inclusa Tel Aviv. Gli M-600 consegnati ad Hezbollah sarebbero prodotti ed assemblati da un’azienda bellica siriana, frutto della collaborazione tra Damasco e Teheran.

Secondo la rivista francese Intelligence Online, la factory sorgerebbe in una località segreta e, in violazione alle Risoluzioni del Cosiglio di Sicurezza dell’Onu, metà della produzione sarebbe destinata al movimento libanese. Il supporto siriano non si fermerebbe però alla sola fornitura di armi, ma comprenderebbe anche l’organizzazione di una rete tecnico-logistica capace di supportare questo sistema d’arma, sicuramente più avanzato e sofisticato di quelli utilizzati nella guerra israelo-libanese del 2006.

Durante la seconda guerra israelo-libanese, i bombardieri dello Stato ebraico effettuarono più di 12.000 missioni di attacco e la marina lanciò 2.500 missili, per un totale di oltre 7.000 tonnellate di esplosivo; furono distrutti più di 600 chilometri di strade e 73 ponti, 15.000 edifici e 370 scuole, danneggiati 2 ospedali e 125 mila abitazioni, arrecati seri danni alla rete idrica, elettrica e telefonica, all’aeroporto internazionale Rafic Hariri di Beirut e a numerosi porti.

Hezbollah rispose colpendo e danneggiando seriamente con un missile radar guidato C-802 la nave israeliana INS Hanit; tra i boschi del Libano meridionale vennero attaccate le posizioni dell’IDF con i razzi iraniani Ra'ad 1 e con i sofisticati missili anticarro di fabbricazione russa ATGM 9M133 Kornet; furono lanciate su Israele quasi 30 tonnellate di esplosivo, pari a più di 4.000 razzi Katyusha da 122 millimetri, un numero imprecisato di granate RPG-29 Vampire da 105 millimetri e di missili iraniani terra-terra Fajr-3.

Nonostante il limitato raggio d’azione, un quarto di questi vettori  riuscì ad andare a segno: furono colpite le città settentrionali di Afula, Beit Shean, Haifa, Hadera, Karmiel, Kiryat Shmona, Maalot, Nahariya, Nazaret, Safed, Shaghur, Tiberiade, dozzine di kibbutz, moshavim (comunità agricole costituite da grandi fattorie) e villaggi arabi.

Tra il 12 luglio e 14 agosto 2006, il Libano contò quasi 2.000 morti (la metà dei quali civili) e più di 4.000 feriti; 43 furono i civili israeliani uccisi, 4.300 i feriti; 121 i soldati dell’IDF che persero la vita, due dei quali durante la prigionia.

Anche se l’intelligence israeliana è in possesso di prove inconfutabili sull’incremento delle attività militari dei militanti sciiti nei territori a sud del Litani, per ora le possibilità di uno scontro armato sono scarse. Il segnale può essere comunque percepiti come un allarme rivolto non solo a Israele ma anche alle stesse truppe Unifil, Forze di pace che Hezbollah considera comunque di occupazione. Le resistenze incontrate dai 13.000 Caschi blu nella ricerca di armi e gli scontri con gli abitanti che simpatizzano per il movimento di resistenza, ne sono la prova tangibile.

Secondo le regole d’ingaggio, se non autorizzata dall’esercito libanese, Unifil non può neanche entrane in molti villaggi del Libano meridionale; circa 160 piccoli paesi dove i bunker e le rampe di lancio dei missili che potrebbero arrivare a colpire il cuore di Israele potranno sempre essere difesi dallo scudo umano rappresentato dagli ignari abitanti civili.

 

di Fabrizio Casari

Lo scorso 1° Luglio, l’Assemblea Legislativa della Costa Rica, ha approvato con trentuno voti a favore e otto contrari, l’ingresso nel paese di 13.000 marines statunitensi, che saranno accompagnati da 46 navi d’appoggio, una portaerei e 200 elicotteri. Motivo ufficiale? La lotta al narcotraffico, of course. Motivo reale? Minacciare da vicino il Nicaragua di Daniel Ortega e il Venezuela di Hugo Chavez, che Washington proprio non riesce a normalizzare. La piccola repubblica centroamericana cambia così il suo destino o, perlomeno, la sua mission, trasformandosi da paradiso per turisti a base militare per gli Stati Uniti.

D’altra parte, la richiesta di questa sostanziale variazione di status era di quelle che non si potevano rifiutare, essendo pervenuta dalla locale ambasciata Usa il 21 giugno. Il Parlamento di San Josè ha offerto così una dimostrazione di tempismo ed efficienza, prima che di inclinazione alla servitù. Sembra quindi che il destino della Costa Rica vada evolvendo.

Un tempo noto come unico stato delle Americhe ad essere privo di forze armate, limitando alla sola Polizia Nazionale le funzioni difensive del paese - veniva chiamata la Svizzera del Centroamerica - San José ha deciso d’imprimere una svolta formale al suo status. A dire il vero, la singolarità dello Stato privo di apparato militare non era l’unica: anche sul piano finanziario, la Costa Rica ha sempre avuto un ruolo particolare nel continente, soprattutto nel proporsi come paradiso fiscale e nell’essere quindi utilizzato come lavatrice tropicale dei dollari sporchi.

Storicamente, San Josè è anche stata ripetutamente indicata come luogo adatto alla mediazione politico-diplomatica nella ribollente area Centroamericana. A fare da retroterra propagandistico a questa veste, veniva dichiarata una presunta neutralità politica della Costa Rica  nei confronti dei conflitti politici e militari dei suoi vicini. Ma questa presunta neutralità non ha mai trovato cogenti conferme nelle opere di mediazione cui è stata chiamata nei decenni, anzi.

Durante gli anni ’80, la Costa Rica si caratterizzava per una politica verso il Nicaragua fortemente ambigua: da un lato offriva mediazione diplomatica e piani per il cessate il fuoco, dall’altro garantiva rifugio e logistica alla Contra, che installò una delle sue componenti (la FDN di Edgar Chamorro) che venne smantellata dalle operazioni militari delle forze speciali dell’Esercito sandinista, non certo dalla polizia nazionale costaricense che avrebbe dovuto, per decenza, impedire che sul suo territorio s’installassero basi militari da cui partivano aggressioni al paese confinante.

Allo stesso modo, non si può certo dire che la mediazione di Oscar Arias (ex-Presidente della Costa Rica e Nobel per la pace) tra il legittimo presidente dell'Honduras, Manuel Zelaya, e i golpisti filo-Usa guidati da Micheletti, sia stata all'insegna del ripristino della legalità. Come se vittime e carnefici fossero sullo stesso piano, come se l'isolamento dei golpisti non fosse l'unica strada percorribile per il ripristino della democrazia a Tegucigalpa, la mediazione di Arias ha avuto come conseguenza la legittimazione dei golpisti e il rapido ritiro delle sanzioni più dure da parte dell'OSA (Organizzazione Stati Americani).

Ma oggi San Josè compie un ulteriore, gravissimo, salto in avanti. Con la decisione del Parlamento della Costa Rica, infatti, gli Stati Uniti circondano decisamente il Centroamerica e i Caraibi. Il Pentagono avrà ora un altro grande dispositivo militare da affiancare a quello già presente a Palmarola, in Honduras, la più grande base militare statunitense fuori dai confini (anche per questo Tegucigalpa è definita una portaerei statunitense).

Il nuovo spiegamento di truppe in Costa Rica si aggiunge poi alle 13 nuove basi Usa in Colombia (di cui allocazione, armamenti, numero degli effettivi e raggio d’azione sono secretati dal governo di Bogotà, in spregio alla stessa Costituzione colombiana), alla spedizione militare ad Haiti, alla base di Curazao e a Panama, oltre che al ripristino del dispiegamento della IV Flotta nel Mar dei Caraibi, voluto da un altro Nobel per la Pace: Barak Obama.

Il livello di armamenti e soldati che Washington ha raggiunto nell’area, con la complicità dei regimi alleati, è ormai difficile da interpretare come ordinario. E’ invece un vero e proprio costante riposizionamento militare e politico, che punta senza equivoci al dominio del “giardino di casa”. Uno spiegamento di forze che non solo altera profondamente gli equilibri militari tra paesi sovrani nell’area, ma si pone come ipoteca pesante sullo sviluppo dei processi politici locali e continentali e la stessa sovranità degli stati che la compongono.

Un triste evolversi della realtà latinoamericana anche per chi, meno di un anno fa, aveva ingenuamente sperato che, a Washington, i tempi stavano cambiando. L’evidenza della minaccia a Nicaragua e Venezuela la vede chiunque non voglia chiudere gli occhi.


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