di Eugenio Roscini Vitali

«Esprimiamo le nostre condoglianze ai parenti delle vittime e siamo profondamente turbati per le violenze avvenute a El Aaioun e nel campo di Gdaim Izyk»: questa è la nota con cui l’ambasciatore britannico e presidente di turno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Mark Lyann Grant, ha licenziato l’irruzione armata dei militari marocchini avvenuta l’8 ottobre scorso contro il sit-in di protesta organizzato dalle autorità sahrawi a quindici chilometri circa dalla capitale.

L’Onu non si è quindi espressa sulle tre istanze invocate dai vertici del movimento indipendentista e dalle maggiori organizzazioni umanitarie: una commissione d’inchiesta indipendente che indaghi sui fatti avvenuti nell’ex colonia spagnola, richiesta bloccata  dal rappresentante francese nel corso della riunione del Consiglio promossa dal Messico; l’invio di una delegazione dell’Onu nei territori occupati dal 1975 con la Marcia verde voluta dal re Hassan II del Marocco, una presenza che praticamente manca da 16 anni; l’ampliamento del mandato dei Caschi blu dell’Onu (missione Minurso) alle questioni umanitarie.

Ma la poca attenzione dimostrata in questi giorni per la questione sahrawi non è solo un fatto legato alle decisione prese all’interno del Palazzo di vetro. Mentre in Spagna una mozione che chiedeva una forte presa di posizione contro Rabat è stata votata a favore da quasi tutti i partiti tranne che dai socialisti al governo, a Bruxelles i ministri degli Esteri europei hanno deciso infatti di rinviare l’esame della sanguinosa repressione marocchina alla prossima riunione del Consiglio di associazione Unione Europea - Marocco in programma per il 13 dicembre.

La Casa Bianca continua non sbilanciarsi e, auspicando un “un maggiore impulso politico”, si dice pronta a sostenere le Nazioni Unite per trovare una soluzione pacifica al conflitto; da Roma il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini si è invece detto estremamente preoccupato per i morti e per i numerosi feriti registrati nei giorni scorsi e chiede di «mantenere la necessaria calma e moderazione per evitare scontri che causerebbero ulteriori vittime civili e spargimenti di sangue».

In effetti, ad eccezione dell’Algeria, alleato storico del Fronte popolare di liberazione di Saguía el Hamra e del Río de Oro (Polisario), e della Nigeria, che nel dicembre 1984 ha riconosciuto il Sahara Occidentale come Stato sovrano, soltanto l’Unione Africana ha fatto passi concreti. L’organismo intergovernativo con sede ad Adis Abeba, dal quale Rabat si ritirò nel 1984 quando venne riconosciuta l’indipendenza della Repubblica Araba Sahrawi Democratica, ha chiesto apertamente al Marocco di «astenersi da atti di forza, privilegiando la via del dialogo come solo mezzo efficace per risolvere la crisi e creare condizioni propizie alla ricerca di una soluzione durevole alla questione del Sahara Occidentale».

Negli altri casi ha prevalso il pragmatismo politico e gli interessi economici hanno premiato ancora una volta la  posizione marocchina, una posizione espressa dallo stesso re Mohammed VI che nei suoi discorsi parla ancora dei sahrawi come «nostri fedeli sudditi dei campi di Tindouf», le zone autonome in territorio algerino dove sorgono i quattro campi profughi che ospitano circa 50.000 rifugiati:  Auserd, Dakhla, El Aaiun e Semarah.

Nella capitale El Aaioun e nel campo di Gdaim Izyk, montato da più di un mese per chiedere il rispetto dei diritti del popolo sahrawi, i militari sono entrati in azione proprio nel giorno in cui a New York era in programma la ripresa dei colloqui mediati dall’Onu tra Rabat e il Polisario. Nonostante il bilancio delle violenze sia contrastante si contano diverse decine di morti: per i media marocchini i disordini sarebbero opera di criminali che usano metodi simili a quelli impiegati da note organizzazioni terroristiche e gli scontri avrebbero causato la morte di 12 persone, 10 delle quali militari marocchini.

Di tutt’altra opinione il portavoce del Polisario che parla di almeno 36 civili sahrawi uccisi e 4.000 feriti, oltre a più di 2.000 arresti e centinaia di persone scomparse. Le operazioni non avrebbero interessato la sola capitale ma si sarebbero estese ad altre località, comprese El Aaiun, dove si è verificata una feroce caccia all’uomo, e Samarah, città dell’entroterra considerata la “capitale religiosa” del Sahara occidentale.

Di fronte alla possibilità che la presenza degli stranieri potesse portare alla luce dell’opinione pubblica le violenze e la repressione messa in atto nel Sahara Occidentale, le autorità marocchine hanno deciso di isolare la regione. Oltre a negare il visto d’ingresso ai media e agli attivisti delle associazioni internazionali le forze di sicurezza hanno infatti “invitato” i non residenti a lasciare l’ex colonia spagnola e in alcuni casi le persone fermate sono state costrette a firmare una dichiarazione con la quale ammettevano di essersi introdotti nel Sahara Occidentale senza gli appositi permessi.

Durante l’irruzione dell’8 ottobre i pochi attivisti stranieri rimasti all’interno del campo di Gdaim Izyk sono comunque riusciti a diffondere un video nel quale venivano denunciate le atrocità perpetrate ai danni dei civili: maltrattamenti, torture ed uccisioni commesse dalla polizia e dai militari marocchini che, dopo aver soffocato la protesta nel sangue, hanno rastrellato i quartieri sahrawi della capitale a caccia degli oppositori.

Anche se la vita sembra essere tornata alla normalità, fonti vicine alla resistenza descrivono El Aaioun come una città praticamente militarizzata: il coprifuoco è stato ufficialmente tolto e sono stati riaperti i negozi, i mercati e gli uffici, ma gli elicotteri sorvolano le aree di Matallah, Haimatar e Colombina, quartieri ad alta presenza sahrawi, e l’esercito spegne con la forza anche il minimo focolaio di resistenza. Le strade sono controllate dalle truppe  marocchine e dal tramonto all’alba qualunque sahrawi venga fermato rischia di essere arrestato e portato via.

Tra i pochi organismi ad aver ottenuto il permesso di raccogliere informazioni c’è Human rights watch (Hrw), l’organizzazione non governativa americana che sin dai primi rapporti ha parlato di molti sahrawi picchiati fino a perdere conoscenza e di detenuti privati del sonno, del cibo e dell’acqua. Ai cittadini marocchini sarebbero state distribuite delle fasce bianche per distinguerli dai sahrawi e negli ospedali della capitale non si sa quante persone siano ricoverate, ne si conosce il la sorte di quelle dimesse. Anche le strutture di detenzione e il commissariato di polizia della capitale sarebbero ancora pieni di detenuti, così come l’istituto scolastico utilizzato come carcere, e i prigionieri considerati più pericolosi o quelli il cui nome compare sulla lista delle persone ricercate sarebbero estradati in Marocco.

«Il Marocco e il Polisario si sono impegnati in ampie discussioni sul Sahara Occidentale in un’atmosfera di mutuo rispetto, nonostante ognuna delle due parti abbia respinto le proposte dell’altra come base per futuri negoziati»: queste le parole l’inviato speciale delle Nazioni Unite nella regione alla fine dell’incontro tenutosi nei pressi di New York. Christopher Ross ha riferito alla Reuters che i partecipanti si sono accordati per rincontrarsi a dicembre e nei primi mesi del 2011, ma in realtà il terzo round di colloqui informali tra il Polisario e il governo marocchino si è concluso con l’ennesimo nulla di fatto.

Dopo vent’anni di rinvio del referendum per l’indipendenza dal Marocco il governo di Rabat ha ormai blindato la regione e tra gli attivisti sahrawi c’è la convinzione che questa sia una tattica per scatenare una guerra civile, lasciando ai coloni il compito di risolvere una questione politicamente irrisolvibile.

 

di Carlo Musilli

Due morti e diciassette feriti, circa settanta edifici distrutti, sono il bilancio di uno scambio di artiglieria tra Corea del Nord e Corea del Sud che ha avuto luogo ieri mattina. Teatro dello scontro l’isola Yeonpyeong, situata in acque la cui nazionalità è oggetto di disputa tra i due paesi. Stando alla ricostruzione di Pyongyang, diramata attraverso un dispaccio dell’agenzia di stampa KCNA, sarebbero stati i soldati di Seul ad aprire il fuoco per primi, lanciando “decine di proiettili” contro i soldati nordcoreani. “Nonostante i nostri ripetuti avvertimenti, la Corea del Sud ha esploso decine di proiettili contro le nostre truppe a partire dall’una del pomeriggio e immediatamente abbiamo deciso di rispondere al fuoco”.

Versione opposta da parte del governo di Seul, la cui presidenza ha reso pubblico un comunicato nel quale - secondo l’agenzia Yonhap - definisce quanto successo “una chiara provocazione militare di Pyonyang” e avverte che, nel caso si ripeta, ci sarà “una dura rappresaglia”. La Corea del Sud ha dispiegato nella zona aerei da combattimento ed ha elevato al massimo lo stato d’allerta. Loscambio d’artiglieria si è concluso quando una telefonata tra le due coree, attraverso una linea speciale istituita per fronteggiare situazioni d’emergenza come quella occorsa ieri, ha determinato il “cessate il fuoco” tra i due eserciti.

La tensione tra i due paesi ha subìto negli ultimi giorni un’escalation, dovuta principalmente a due fattori: l’inizio di manovre militari sudcoreane al limite delle proprie acque internazionali - che Pyongyang considera una minaccia - e le dichiarazioni sullo stato dell’arte nel nucleare nordcoreano da parte di Siegfried S. Hecker, per il quale "rapidamente e in segreto" i nordcoreani hanno costruito un nuovo impianto per l'arricchimento dell'uranio. Si trova nel sito nucleare di Yongbyon ed è di altissimo livello tecnico. Le affermazioni sono state fatte al New York Times proprio da Siegfried S. Hecker, professore a Stanford e ex direttore del Laboratorio Nazionale di Los Alamos, che il 12 novembre scorso è stato portato per mano a fare un tour nel nuovo impianto. E ne è rimasto "sbalordito".

I nordcoreani hanno invitato il professore per far capire al mondo quello che sono in grado di fare. Ma senza dare troppi dettagli: Hecker non ha potuto scattare fotografie, né gli è stato concesso di verificare se nella struttura fosse già iniziata la produzione di uranio. Il professore americano ha pubblicato su internet il suo rapporto, secondo cui sarebbero "centinaia e centinaia" le centrifughe utilizzate nel nuovo impianto per arricchire l'uranio ("duemila", dicono da Pyongyang), tutte gestite da un centro di controllo "ultramoderno".

Nonostante le cautele degli scienziati asiatici, alcuni sospetti ad Hecker sono venuti lo stesso. La Corea del Nord, infatti, si era impegnata a utilizzare l'uranio prodotto in un "reattore ad acqua leggera", vale a dire in una centrale energetica. Ma, secondo il professore di Stanford, "ci sono ragioni per dubitare che sia vero".

Eppure, una settimana prima di Hecker, a Yongbyon era arrivato l'ex inviato speciale Usa per la Corea del Nord e attuale presidente del Korean Economic Institute, Charles Pritchard. Secondo lui il famoso "reattore ad acqua leggera" sarebbe in costruzione. E probabilmente il nastro inaugurale sarà tagliato nel 2012, visto lo stato "non ancora avanzato" dei lavori.

Una lentezza sorprendente, soprattutto se paragonata alla velocità fulminea a cui invece è stato costruito il nuovo, futuristico centro per l'arricchimento dell'uranio. Poche informazioni trapelano dal governo di Pyongyang, ma di una cosa gli Stati Unisti sono sicuri: quell'impianto non esisteva ancora nell'aprile 2009, quando si consumò lo strappo con la comunità internazionale. All'epoca, infatti, furono espulsi dal Paese tutti gli ispettori internazionali e la Corea del Nord abbandonò i negoziati sul programma nucleare.

Com'è riuscito in un'impresa del genere un paese povero e isolato, i cui primi test nucleari risalgono a soli quattro anni fa? Secondo i sospetti più diffusi, Pyongyang sarebbe riuscita ad aggirare le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu (come punizione contro il rifiuto di ispezioni internazionali) grazie a qualche aiutino proveniente dall'estero. In ogni caso, dagli Stati Uniti non si sbilanciano.

Con gli occhi fissano i monitor su cui scorrono immagini satellitari del territorio nordcoreano, ma a parole si tengono sul vago: "La Corea del Nord continua a percorrere una strada di destabilizzazione della regione", ha detto senza particolare ispirazione Mike Mullen, capo di stato maggiore Usa.

Un atteggiamento più che diplomatico. In questi giorni, infatti, é arrivato a Pyongyang Stephen Bosworth, emissario speciale Usa per la Corea del Nord. La sua missione è far riprendere i negoziati: la Corea del Nord (che da parte sua vorrebbe un incontro faccia a faccia con Washington) sarà fortemente esortata a riaprire i colloqui con i magnifici cinque del nucleare mondiale: Cina, Giappone, Russia, Stati Uniti e Corea del Sud.

Nonostante la pesantezza dell'incarico, Bosworth si sforza di minimizzare. Del nuovo impianto nordcoreano "eravamo a conoscenza da qualche tempo", ha dichiarato. Secondo lui l'episodio sarebbe certamente "molto spiacevole", tuttavia non costituirebbe "motivo di crisi".

Molto più schiette le valutazioni che arrivano dal Pentagono. Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, ha detto chiaro e tondo di non credere alla storiella del programma nucleare pacifico. La nuova struttura consentirà ai nordcoreani di produrre "un certo numero" di armi nucleari, che andranno ad aggiungersi a quelli che con ogni probabilità il regime di Pyongyang ha già messo da parte.

Gates ha poi ricordato che la Corea del Nord, nel frattempo, sta costruendo anche nuovi missili a lungo raggio e forse perfino un dispositivo balistico intercontinentale. "Tutti questi programmi - ha concluso il capo del Pentagono - suscitano grande preoccupazione in ogni paese".

Una preoccupazione forte soprattutto in Giappone, il primo dei big asiatici ad uscire allo scoperto sulla vicenda. Secondo il portavoce del governo nipponico, infatti, "lo sviluppo del nucleare nordcoreano è totalmente inaccettabile dal punto di vista della pace e della stabilità nella regione".

di Michele Paris

Il summit della NATO andato in scena nel fine settimana a Lisbona ha decretato ufficialmente la presenza illimitata delle truppe occidentali in Afghanistan. Oltre a cancellare la scadenza del luglio 2011 fissata da Obama lo scorso anno per l’inizio del ritiro delle forze alleate da Kabul, i 28 membri del Patto Atlantico e i loro ospiti hanno provveduto a delineare il ruolo futuro dell’Alleanza per il ventunesimo secolo, le cui minacce - più o meno reali - verranno fronteggiate anche grazie ad un nuovo costosissimo sistema di difesa missilistico in Europa e ad una partnership con la Russia ancora tutta da costruire.

Accolti dalle consuete manifestazioni di protesta, i leader riuniti nella capitale portoghese hanno cercato di partorire una strategia presentabile per giustificare il prolungamento indefinito dell’occupazione afgana. Di fronte ad un’opinione pubblica da entrambe le sponde dell’Atlantico sempre più contraria ad un conflitto ormai quasi decennale, i vertici NATO, sotto la guida del presidente Obama, hanno fissato ora l’anno 2014 come il termine ultimo per le operazioni di combattimento. Entro quella data dovrebbe terminare una fase di transizione durante la quale il controllo delle operazioni sul campo passeranno progressivamente al governo afgano.

Se le forze di sicurezza di Kabul, come ampiamente prevedibile, non saranno però in grado di cavarsela da sole, Washington e i suoi alleati continueranno a stazionare in Afghanistan con svariate decine di migliaia di uomini. L’accordo per la permanenza dei militari occidentali nel paese centro-asiatico è stato siglato dal segretario generale della NATO, l’ex primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen, e dal presidente Hamid Karzai.

Quest’ultimo, invitato speciale al summit di Lisbona, ha dovuto subire i rimproveri non troppo velati dello stesso Obama e del comandante delle forze NATO nel suo paese, generale David Petraeus. Entrambi si erano infatti risentiti per una recente intervista al Washington Post nella quale Karzai si lamentava con i propri padroni per le conseguenze devastanti sulla popolazione civile dei raid notturni che regolarmente vengono effettuati per catturare o uccidere leader ribelli.

A Karzai non solo è stato imposto di sottoporre preventivamente alla delegazione americana il suo discorso ufficiale di fronte ai membri dell’Alleanza per evitare spiacevoli sorprese, ma gli è stato in sostanza anche ricordato che è Washington a condurre i giochi in Afghanistan e che non saranno certo qualche centinaia di vittime innocenti a far cambiare la strategia di guerra, comunque la pensi il suo governo fantoccio.

Con un artificio retorico si è così spostato l’accento dalle operazioni di guerra a quelle di addestramento delle inconsistenti forze di sicurezza afgane, nella speranza di placare la rabbia crescente dei cittadini europei, americani e canadesi. Allo stesso tempo, con un tale espediente si cercherà di ottenere l’invio di una manciata di soldati/addestratori - come ha fatto il governo italiano - da aggiungere ai quasi 150 mila uomini già di stanza nel paese occupato.

Ben poco impensieriti dalle implicazioni che tale prolungata presenza avrà sulla popolazione civile in termini di morti e distruzione, i capi di stato e di governo riuniti in Portogallo hanno così fornito tutto il loro sostegno alla strategia statunitense. Una strategia dettata essenzialmente dal Pentagono e che ha prevalso sul piano inizialmente offerto da Obama agli americani, quando sul finire del 2009 decise di aumentare sensibilmente il proprio contingente militare in Afghanistan.

Questo paese d’altra parte continua a rappresentare un punto nevralgico per gli interessi degli Stati Uniti, al di là della presunta minaccia terroristica che incombe sul territorio americano. Washington semplicemente non può abbandonare quest’area dell’Asia centrale - come non può abbandonare i Medio Oriente lasciando l’Iraq - dove l’influenza su paesi che dispongono di vaste riserve minerarie, e da dove transitano rotte energetiche di importanza vitale, è duramente contesa con le altre potenze planetarie, Cina in primis. A conferma di ciò, l’amministrazione Obama sta da tempo negoziando con il governo afgano un accordo bilaterale - separato da quello firmato a Lisbona - che prevede un “supporto” indefinito da parte statunitense in ambito economico, culturale e della sicurezza.

Oltre all’Afghanistan, l’altro obiettivo principale degli USA e della NATO a Lisbona era la riproposizione del sistema di difesa missilistico da installare in Europa, già voluto a suo tempo da George W. Bush e poi abbandonato in seguito all’opposizione della Russia. Il nuovo progetto ha incassato invece ora l’ok del presidente Medvedev, anch’egli presente al summit per inaugurare un nuovo corso cooperativo con la NATO, il quale pur tra qualche dubbio ha assicurato che Mosca fornirà la propria collaborazione alla rete di difesa europea, dal momento che quest’ultima non viene più percepita come una minaccia nei confronti della Russia.
 
Secondo la versione ufficiale, lo scudo anti-missilistico serve a difendere i paesi europei dal lancio di ordigni balistici dall’Iran, anche se la Repubblica Islamica non è stata ufficialmente nominata come possibile minaccia in seguito alle pressioni della Turchia, che continua ad intrattenere rapporti molto cordiali con Teheran. A rompere il silenzio ci ha pensato però il presidente francese Sarkozy che ha apertamente indicato l’Iran come la minaccia, peraltro del tutto inesistente, che incomberebbe sull’intera Europa.

Il segretario Rasmussen ha infine presentato i nuovi compiti dell’Alleanza che presiede, così da giustificarne la sopravvivenza a sessantuno anni dalla sua creazione. La NATO dovrebbe cioè rappresentare un baluardo contro le minacce globali di terrorismo e guerra informatica ma anche un sistema collettivo di difesa per prevenire crisi, gestire conflitti e stabilizzare aree interessate da guerre (possibilmente innescate dalla stessa NATO).

Nella realtà dei fatti, ciò che si intravede è ancora una volta la fabbricazione di sempre nuove minacce che permettano di continuare a vendere armi e che, soprattutto, rendano possibile il dispiegamento di forze destinate a servire gli interessi strategici occidentali, in primo luogo quelli di Washington. Un espansionismo che, oltre all’Afghanistan, riguarda già anche l’Asia meridionale e il Pacifico, l’America Latina e l’Africa. Il tutto con il “consenso” di una NATO che, per dirla con le parole di Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazione di Jimmy Carter, continuerà anche nel nuovo secolo a rappresentare un vero e proprio strumento per la “perpetuazione della strategia egemonica americana” su scala planetaria.

di Michele Paris

Il primo atteso rapporto della speciale commissione nominata da Barack Obama sul contenimento del deficit negli Stati Uniti ha fatto intravedere settimana scorsa tutte le minacce che a breve potrebbero materializzarsi per gli americani a basso reddito. Completamente disinteressati alla sorte di quelle decine di milioni di cittadini per i quali le conseguenze della crisi economica sono tutt’altro che superate, i politici democratici e repubblicani facenti parte della cosiddetta Commissione Nazionale per la Riforma e la Responsabilità Fiscale si sono in sostanza aggregati al coro dei falchi del deficit, che di questi tempi infestano le stanze del potere di mezzo mondo chiedendo una raffica di tagli alla spesa pubblica e un sistema tributario ancora più vantaggioso per le imprese e i redditi più alti.

Le proposte della commissione sono significativamente giunte subito dopo il voto di medio termine che ha segnato una pesantissima sconfitta per il partito del presidente. Come previsto alla vigilia, il trionfo repubblicano ha infatti preparato il campo per nuovi progetti mirati ad affrontare il principale pericolo che gli USA devono fronteggiare già a breve scadenza secondo la classe politica e i media istituzionali: un deficit dalle proporzioni enormi.

A guidare il gruppo di lavoro voluto da Obama, dietro suggerimento di alcuni elementi della propria amministrazione, preoccupati per le ripercussioni pubbliche delle pur modeste misure di spesa adottate nei primi mesi del suo mandato, sono l’ex senatore repubblicano del Wyoming Alan K. Simpson e l’ex capo di gabinetto di Bill Clinton, Erskine Bowles, il cui punto di vista obiettivo sul percorso di ripresa dell’economia americana è garantito dai suoi attuali incarichi nei consigli di amministrazione di Morgan Stanley e General Motors.

Tra i provvedimenti consigliati al prossimo congresso dal duo Simpson-Bowles è sufficiente citarne alcuni per comprendere subito la natura dell’operazione di assalto ad un welfare già esile in corso a Washington. Tra questi ci sono: tagli agli adeguamenti secondo l’inflazione per i benefici garantiti dalla Sicurezza Sociale ai pensionati e progressivo innalzamento dell’età pensionabile fino a 69 anni entro il 2075; contenimento delle spese sanitarie, con particolare attenzione ai popolari programmi Medicare e Medicaid; licenziamento di oltre duecento mila dipendenti pubblici e congelamento degli stipendi, militari esclusi; abolizione di alcune deduzioni fiscali, ad esempio quelle sui mutui, e riforma del sistema fiscale per ridurre l’aliquota dei redditi più alti dal 35 al 23 per cento e quella delle imprese dal 35 al 26 per cento.

Mentre uno dei due presidenti della commissione a Washington celebrava divertito l’impopolarità delle misure proposte, prevedendo per se stesso un imminente ingresso nel programma di protezioni testimoni per sfuggire all’ira della gente comune, da Seoul Obama lodava i primi risultati snocciolati dal gruppo di esperti da lui scelti. Il presidente, anzi, ha addirittura criticato quei pochi compagni di partito democratici che timidamente hanno giudicato eccessivi i tagli proposti.

Dalla Casa Bianca insomma ci si prepara ad una fruttuosa collaborazione con la neo-maggioranza repubblicana alla Camera sul fronte del deficit, così da preservare intatta la certezza del profitto per corporation e grandi banche e far pagare gli effetti della crisi a lavoratori e classe media.

A conferma di ciò vi è anche la recente uscita del principale consigliere del presidente, David Axelrod, il quale ha reso pubblica la disponibilità di Obama al compromesso sulla questione dell’estensione dei benefici fiscali per i redditi più alti voluti dal suo predecessore. Mentre in campagna elettorale e fino a pochi giorni fa il presidente si era dichiarato totalmente contrario al prolungamento dei tagli alle tasse oltre il 31 dicembre di quest’anno per le entrate superiori ai 250 mila dollari, ora sembra essersi adeguato alle richieste dei repubblicani che da un lato mettono in guardia da un debito pubblico insostenibile e dall’altro si adoperano per estendere un provvedimento che causerà un buco di bilancio di svariate centinaia di miliardi di dollari nei prossimi anni.

La totale incomprensione del problema economico da parte dei leader della commissione Obama, così come di una schiera di capi di governo, presidenti e ministri in Occidente, è stata messa in risalto da più di un autorevole economista. Nel caso degli Stati Uniti, l’esplosione della bolla speculativa alimentata dal mercato edile due anni fa ha trascinato verso l’abisso l’intera economia, producendo un collasso della domanda interna. In una tale situazione, al gap venutosi a creare può supplire unicamente il pubblico con un allargamento dei cordoni della spesa federale. Se, al contrario, in questo frangente la spesa viene compressa per un ingiustificato timore del deficit sul breve e medio periodo il risultato è un ulteriore crollo della domanda, un rallentamento dell’economia e la perdita di nuovi posti di lavoro.

Le idee partorite dalla commissione per il deficit negli Stati Uniti risultano d’altra parte ideologiche, come lo sono i provvedimenti adottati un po’ ovunque negli ultimi mesi da governi che rispondono unicamente ai diktat dei mercati e dei grandi interessi economici e finanziari. Se così non fosse, nel rapporto della commissione il problema dell’esplosiva spesa sanitaria verrebbe ad esempio affrontato da un’altra angolazione.

Il fatto che il sistema assistenziale in America sia in gran parte basato sulle compagnie di assicurazione private è in realtà la causa dell’aumento vertiginoso dei costi. La bancarotta di colossi come General Motors e Chrysler è stata infatti causata in parte anche dalla necessità di pagare ai loro dipendenti onerosi piani sanitari privati che avrebbero potuto essere offerti da un sistema pubblico, come avviene in gran parte del mondo occidentale.

Allo stesso modo, il bersaglio preferito dei tagli è l’insieme dei programmi federali di Sicurezza Sociale, anche se essi non contribuiscono alla crescita del deficit. Nella confusione della crociata contro tutto ciò che è pubblico, sfugge sempre il fatto che per tali programmi negli USA non è possibile spendere più di quanto entra nelle casse federali attraverso l’apposita tassazione che li finanzia. Nel propagandare l’innalzamento dell’età pensionabile, poi, si cita immancabilmente la crescita dell’aspettativa media di vita degli ultimi decenni. Gli studi tuttavia continuano a dimostrare come i cittadini con i redditi più bassi, che sarebbero costretti a lavorare più a lungo, beneficiano solo in minima parte dell’allungamento della vita.

Per finire, è stato vergognosamente tralasciato dalla relazione della commissione un qualsiasi riferimento ad una tassa sulle speculazioni finanziarie dei veri responsabili della crisi economica, un contributo consigliato persino dal Fondo Monetario Internazionale. Un provvedimento di questo genere avrebbe garantirebbe al governo federale entrate consistenti - nell’ordine dei 100 miliardi di dollari all’anno secondo uno studio degli economisti Dean Baker e Robert Pollin - senza oltretutto incidere negativamente sulle attività produttive.

di Eugenio Roscini Vitali

«La soluzione della crisi in Kashmir riguarda solo India e Pakistan che hanno interesse alla stabilità nella regione. Gli Stati Uniti non possono imporre una loro soluzione ma intendono facilitare il raggiungimento di un intesa»: è questo in pratica il risultato finale della visita in India del presidente americano Barak Obama, di quel leader democratico che prima delle elezioni del 2008 aveva detto al mondo che l’autodeterminazione di una delle zone più militarizzate del pianeta sarebbe stato uno degli obbiettivi principali della sua amministrazione.

A Nuova Delhi il capo della Casa Bianca ha invece parlato di lotta al terrorismo e di relazioni fra Usa e India e davanti al Parlamento ha annunciato il pieno sostegno Usa all’ingresso dell’India nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu come membro permanente. Non una parola sulla violazione dei diritti umani nel Kashmir, sulla sorte delle donne nei villaggi sperduti dove ci sono più soldati che civili, sui soprusi, gli interrogatori, gli arresti illegali e le torture, sulle migliaia di persone “scomparse”, sul coprifuoco permanente, la censura e le pallottole contro i manifestanti, sul futuro di una regione abitata per il 75% da musulmani e di una Vallata avvelenata dalla presenza di mezzo milione di soldati.

Negli ultimi anni in Kashmir il dominio militare indiano ha prodotto due facce della stessa medaglia: da un lato ha fiaccato la lotta armata portata avanti dai guerriglieri separatisti con il sostegno del Pakistan e ha ridotto, secondo il ministero degli Interni indiano, i militanti a meno di 500; dall’altro ha rafforzato la frangia più dura del movimento All Parties Hurriyat Conference (Aphc), l’organizzazione fedele al vecchio patriarca della resistenza kashmira, l’ottantatreenne Syed Ali Shah Geelani, e ha dato coraggio ai giovani che da tre anni a questa parte manifestano in piazza contro quella che considerano una “occupazione violenta”.

La rabbia della generazione cresciuta nella guerra sta però facendo i conti con una repressione diventata sempre più dura e sanguinosa: solo negli ultimi mesi sono state uccise 111 persone e si sono registrati più di tremila feriti e quasi mille arresti, soprattutto giovani non organizzati che rappresentano se stessi e che, impugnando pietre, affrontano i reparti antisommossa dell’esercito indiano.

La nuova intifada kashmira è iniziata l’11 giugno scorso, con la morte di un ragazzo che tornava da scuola, colpito da un candelotto sparato a distanza ravvicinata dai militari impegnati nel fronteggiare la manifestazione anti-indiana che si stava tenendo nei pressi dello stadio di Rajouri Kadal. La rabbia per l’omicidio dello studente si è andata a sommare a quella per i trasportatori uccisi a maggio dai reparti antiterrorismo lungo il confine pachistano.

Da allora il coprifuoco è stato esteso a quasi tutta la Valle e gli arresti e le uccisioni di civili disarmati non si sono più fermate; Nuova Delhi sospetta che tra i registi della protesta ci sia il Lashkar-e-Taiba (LeT), l’Esercito dei puri, il gruppo terroristico legato ad Al Qaeda e al Movimento della Jihad Islamica, accusato dall’India di aver organizzato gli attentati di Mumbai, ma secondo gli esperti la rivolta kashmira è solo una forma di protesta spontanea ed indipendente.

Sui fatti di Mumbai ci sono poi non poche zone d’ombra. E’ noto, infatti, che tra gennaio e giugno del 2008 i funzionari dell’intelligence statunitense avrebbero avvertito la controparte indiana circa una possibile azione terroristica contro obbiettivi occidentali in India e che, nel mese di settembre, un altro monito degli Stati Uniti avrebbe obbligato gli agenti dell’antiterrorismo indiano a rinforzare  le misure di sicurezza dell’Hotel Taj Mahal.

La fondatezza delle ipotesi americane sarebbe stata poi confermata dall’MI5 britannico, che alcuni mesi dopo l’attentato del 26 novembre 2008 avrebbe segnato alla CIA il nome di un presunto terrorista in contatto con una cellula di Al Qaeda in Europa: David Headley, al secolo Daood Gilani, un uomo d’affari statunitense poi rivelatosi militante di Lashkar-e-Taiba. Una volta arrestato, David Headley avrebbe confermato di essersi incontrato più volte con il referente di Lashkar-e-Taiba a Karachi; con lui avrebbe organizzato la squadra responsabile dell’operazione costata la vita a 175 persone. Un massacro che, nonostante gli avvertimenti americani, ha colto impreparate le forze di sicurezza indiane.

Nonostante i numeri ufficiali, negli ultimi vent’anni in Kashmir la causa separatista ha fatto quasi 30 mila desaparesidos e 70 mila vittime: uomini, donne e ragazzi morti nei combattimenti o nelle rivolte che hanno infiammato le strada di Srinagar o vittime delle torture subite in carcere o scomparse nel nulla. La fase di radicalizzazione dei musulmani indiani non è però solo una questione kashmira; nel 2002 i pogrom anti-islamici avvenuti nello Stato indiano del  Gujarat causarono 2.000 vittime e quasi 200 mila profughi.

Una strage partita da lontano, dalla spirale di violenza iniziata nel 1992 con la distruzione della moschea  Babri Masjid di Ayodhya, dove l’anno precedente i  kar sevak, espressione dell’ala extraparlamentare del movimento fondamentalista indù, avevano ucciso non meno di 600 musulmani.

Oggi l’intifada kashmira è nelle mani dalle generazioni nate e cresciute dopo i massacri degli anni ‘90, migliaia di ragazzi delle scuole medie e superiori e bambini delle elementari che al grido di “Quit India movement” sfilano per le strade di Srinagar con le madri e le sorelle. I nuovi martiri dell’indipendenza sfidano le pattuglie e gli odiati bunker disseminati lungo gli incroci della capitale sapendo che i tempi della rivolta saranno ancora lunghi e che ad ogni manifestazione seguirà una morte, un funerale e poi una nuova manifestazione, una nuova vittima e un nuovo funerale.

Ma sanno anche che il destino del Kashmir dipende da loro e che, come ha scritto sul New York Times la scrittrice paladina dell’autodeterminazione kashmira, Arundhati Roy, “né il silenzio di Obama né un suo intervento indurranno il popolo del Kashmir a mollare le pietre che serrano in pugno”.

 

 


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