di Carlo Musilli

Aung Sang Suu Kyi non è stata liberata in quanto prigioniera politica illegalmente detenuta. Ha semplicemente finito di scontare una pena assurda, la cui durata era stata calcolata dal regime militare birmano con una precisione chirurgica. I generali avrebbero potuto inventare qualche pretesto per tenerla ai domiciliari chissà per quanti anni ancora. Se non l'hanno fatto, significa che non lo ritenevano conveniente. A loro serviva liberare Suu Kyi proprio in questi giorni.

L'eroina dell'opposizione birmana, icona nel mondo della lotta per la democrazia, ha rimesso piede fuori dalla sua casa-prigione appena in tempo per non disturbare le elezioni della settimana scorsa, che hanno consegnato all'Usdp (il partito della giunta) una quantità di seggi fra l'80 e il 90%.

Un plebiscito ridicolo, figlio dell'illegalità più assoluta, che sarebbe stato ostacolato dai discorsi universalistici e pieni di speranza di Sang Suu Kyi. Quelle stesse parole, invece, appena qualche giorno dopo diventano uno strumento fondamentale per i militari.

Non solo la liberazione della Signora (com'è chiamata dai suoi connazionali) distoglie l'attenzione del mondo dalle famose elezioni che, almeno per i prossimi cinque anni, consentiranno al regime di tenere stretta la morsa sulla Paese. C'è di più. La giunta ha acquisito nelle ultime due settimane un credito mai avuto prima d'ora.

In tutto il mondo si scrivono titoli accostando le parole "libertà", "Birmania", "democrazia", "Myanmar". Nel frattempo i grandi canali mediatici si scordano di andare a vedere come siano andate a finire le elezioni. La notizia ormai è superata.

Intendiamoci, nessuno al mondo crede davvero che in Birmania esista uno stato liberale. Chiunque si rende conto che il voto dello scorso 7 novembre è stato una farsa. Ma il regime è riuscito comunque a indicare all’opinione pubblica internazionale la via dell'illusione.

La liberazione di Suu Kyi ha suscitato il sentimento di un lieto fine possibile, se non già scritto. Si sente parlare di "inizio di un percorso", di "una data che verrà ricordata", di "transizioni realizzabili". Intanto gli uomini della giunta mettono in soffitta le divise militari e indossano democratici completi di taglio occidentale. Doppiopetti. Ecco l'unica vera novità in Birmania.

Il segretario generale di Amnesty International Salil Shetty ha fatto notare che nel Paese "ci sono ancora più di 2.200 prigionieri politici, condannati sulla base di norme vaghe, utilizzate sovente per criminalizzare il dissenso politico e detenuti in condizioni agghiaccianti, con cibo e servizi inadeguati e senza cure mediche.

Molti di essi sono stati torturati durante gli interrogatori e subiscono ancora torture da parte del personale penitenziario". L'organizzazione Human Rights Watch ha invece definito la liberazione di Sung Kyi "uno stratagemma cinico del governo militare. Se vogliono realmente allargare lo spazio politico dopo le elezioni, allora liberino tutti i prigionieri politici".

Il regime ha perfino cercato di disinnescare la Signora, suggerendole di tenere un profilo basso dopo la liberazione. Va bene il clamore dei sostenitori, la commozione, la retorica mediatica. Ma la politica, quella no. Naturalmente Suu Kyi, che ha passato in reclusione 15 degli ultimi 21 anni, non ha accettato nessuna condizione. Parlerà eccome, cercando di dare alla sua gente una speranza, qualcosa di più concreto di un'illusione.

Per farlo avrà bisogno di riportare in politica la Lega Nazionale per la Democrazia, il partito che lei stessa fondò più di 20 anni fa.

Oggi l'Nld è una formazione illegale, perché i suoi rappresentati hanno boicottato le ultime elezioni per non presentarsi con un leader diverso da Suu Kyi. Secondo la recente legge elettorale birmana, infatti, i partiti non possono essere guidati da persone con precedenti penali.

Nonostante tutto, le forze di sicurezza della giunta militare sono state abbastanza intelligenti da non intervenire quando, davanti a una folla di 40mila persone, la Signora ha tenuto il suo primo comizio da donna libera. "La mia voce, da sola, non è democrazia - ha spiegato Suu Kyi - niente può essere raggiunto senza la partecipazione della gente: dobbiamo camminare insieme, senza perdere la speranza, senza farci scoraggiare".

"Non credo che l'influenza e l'autorità di una sola persona possano far progredire un Paese. Una persona da sola non può fare qualcosa di così importante come portare la democrazia in un paese". E soprattutto, "se il mio popolo non è libero, come potete dire che io sono libera? Nessuno di noi è libero".

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. All’indomani dell’approvazione dell’impopolare riforma sanitaria, la Germania si trova ad affrontare un'altra vicenda poco rassicurante in materia. Un gruppo farmaceutico, specializzato nella produzione di medicamenti contro la schizofrenia, collaborerà dal prossimo anno con la cassa mutua della Bassa Sassonia (Nord della Germania) per il trattamento di pazienti schizofrenici. Un progetto che farà sicuramente risparmiare denaro allo Stato federale, ma che potrebbe costituire l’inizio di un’insana liberalizzazione del sistema sanitario.

L’apparato sanitario tedesco è finanziato da un sistema di casse mutue semipubbliche, o Krankenkasse, cui lavoratori e datori di lavoro versano i propri contributi tramite busta paga. I fondi a disposizione delle casse sono poi ridistribuiti per garantire che le risorse siano stanziate in modo equo: le singole casse mutue rimborsano i medici e gli ospedali secondo l’attività effettivamente svolta. E quando le casse facciano fatica a sostenere i costi, è lo Stato, assieme ai singoli Laender, a dover intervenire. In questo senso, nel 2010 la Germania si è trovata ad affrontare un deficit della sanità pubblica di ben 11 miliardi di euro.

Per risanare la voragine, il Governo di Angela Merkel (CDU) ha varato in questi giorni la tanto controversa riforma sanitaria. Dopo mesi di accese polemiche, i liberali e i cristiano democratici si sono accordati per un aumento del contributo obbligatorio. Dall'attuale 14.9% del salario si passerà al 15.5%: ai lavoratori dipendenti spetterà l’8.2% della quota, mentre sui datori graverà il 7.3% dell’assicurazione sanitaria. Una soluzione che non ha mancato di destare l’imbarazzo di sindacati e opposizione.

Le brutte sorprese, tuttavia, non sono ancora finite. A offuscare il panorama del sistema sanitario tedesco c’é anche lo spettro dell’assistenza integrata, un modello di previdenza sanitaria che verrà applicato nella Bassa Sassonia a partire dal 2011. Presentato come semplice esperimento, qualcuno teme già che si possa trattare di un progetto pilota. E il risultato dell’applicazione su scala nazionale sarebbe una sanità liberalizzata subordinata alle grosse case farmaceutiche.

Il programma di assistenza integrata prevede la collaborazione tra una srl a gestione imprenditoriale (I3G) e la AOK, una tra le più importanti casse mutue della Germania federale, per il trattamento di 13mila pazienti affetti da schizofrenia. I3G gestirà un’associazione di medici, cliniche e centri di riabilitazione che coopereranno fra loro in maniera sistematica per occuparsi in tutto e per tutto dei malati in questione. Oltre alla responsabilità qualitativa dell’assistenza medica, I3G si assumerà anche le spese totali delle cure dei suoi affiliati.

Grazie alla serrata collaborazione tra specialisti si eviteranno visite non necessarie, sostengono i promotori dell’iniziativa, così da rendere l’apparato sanitario più snello ed efficiente e ridurne i costi. Con gli accertamenti non necessari, tuttavia, va perso anche il confronto tra pareri medici. E ai più viene ancora difficile immaginarsi che I3G possa agire nel puro interesse del cittadino: il progetto assomiglia a una privatizzazione che trasforma il sistema sanitario in un monopolio di mercato per le case farmaceutiche.

I3G è una società totalmente affiliata al gruppo farmaceutico Janssen- Cilag GmbH, che ha sede nel Nord Reno - Vestfalia (Germania dell’Ovest). Le due aziende hanno la stessa sede legale e il chief executive officer di I3G, Klaus Suwelack, ha lavorato fino allo scorso agosto per Janssen- Cilag come -guarda caso- responsabile alla cooperazione. Janssen- Cilag, a sua volta, è il corrispettivo teutonico della Johnson + Johnson, uno dei maggiori gruppi farmaceutici statunitensi. Inutile aggiungere che Janssen- Cilag produce e smercia anche farmaci per il trattamento della schizofrenia: I3G è iscritta al registro del commercio tedesco solo da quest’anno e non ha nessuna referenza nell’ambito del trattamento di malattie psichiche, se non la ‘raccomandazione’ della Janssen- Cilag stessa.

Nonostante I3G si sia sforzata di assicurare la futura indipendenza dei medici impegnati nell’assistenza integrata dalla casa madre Janssen- Cilag, pochi riescono ad avere fiducia nelle belle parole dei dirigenti. L’associazione di ambulatori e ospedali dipende direttamente dalle decisioni amministrative di I3G: sarà difficile che lo staff medico possa mettere in discussione il profitto economico della Janssen- Cilag con scelte individuali completamente libere.

AOK ha presentato il progetto con grande entusiasmo, definendolo “il modello sanitario del futuro”.  Per ora, tuttavia, l’unico vantaggio atteso sembra essere il sollievo economico che I3G procurerà alla cassa mutua AOK e, con lei, allo Stato. Per non parlare dei lauti compensi che arriveranno alla casa farmaceutiche. Tranne i malati, ci guadagneranno tutti.

 

 

di Mario Braconi

L’ex primo Ministro australiano Howard lo aveva detto chiaro e tondo nel 2001: “decideremo noi chi verrà a vivere nel nostro Paese e le circostanze in cui lo fa”. La traduzione politica di questa affermazione è stata la cosiddetta “Pacific Solution” (amabile gioco di parole, Soluzione Pacifica, ma anche Soluzione del Pacifico): sette anni di repressione dell’immigrazione “clandestina”, basata sulla geniale soluzione di spostare i richiedenti asilo in paesi vicini, il cui unico obiettivo era assicurarsi che le loro richieste venissero “processate” fuori dal Paese (Nauru o Papua Nuova Guinea). Soluzione che ovviamente ha messo in allarme le associazioni che si occupano di diritti umani (Amnesty International e Human Rights Watch, tra le altre).

Il Governo conservatore ha sostenuto che per anni, grazie alla sua politica rigorosa (impietosa?) nei confronti dei boat people, il numero dei richiedenti asilo provenienti via mare si è sostanzialmente azzerato; niente affatto, ribatte Elaine Pearson, di Human Rights Watch, secondo cui i dati sbandierati dall’esecutivo non tengono conto delle imbarcazioni “dissuase” prima di liberarsi del loro carico umano, né del fatto che la gran parte dei “clandestini” sbattuti a Nauru hanno finito per ottenere comunque l’asilo politico in Australia - insomma, questa è la politica “dura” della destra australiana: vellicare il lato peggiore degli Australiani e complicare sadicamente l’iter per ottenere asilo politico.

Putroppo l’ossessione di una immaginaria invasione di immigrati, agitata anche da alcuni quotidiani scandalistici, trova un terreno fertile nell’opinione pubblica australiana: infatti perfino l’attuale premier laburista Julia Gillard, che quando era all’opposizione non aveva esitato a definire la “Soluzione Pacifica” una “farsa costosa ed insostenibile”, una volta al potere ha finito per proporre la seguente “alternativa”: un nuovo centro di “processamento” delle richieste di asilo dei clandestini diretti in Australia, opportunamente sistemato a Timor Est.

Tuttavia nessuno poteva immaginare che il governo inciampasse sul caso di due immigrati clandestini, noti ai media come con due orribili sigle, M61 e M69, i quali, grazie ai loro legali, sono riusciti a demolire un intero edificio di ipocrisia e di ingiustizia. Nell’ottobre del 2009, i due, cingalesi che sostengono di rischiare la vita a causa della persecuzione dell’esercito dello Sri Lanka in quanto presunti sostenitori delle Tigri Tamil, sbarcano su Christmas Island, un Territorio Non Autonomo australiano.

Grazie al Programma Soluzione Pacifica, dal settembre 2001 (e fino al 2008), Christmas Island è stata estromessa dalla cosiddetta Australia Immigration Zone, ovvero dalla zona in cui una persona che vi arrivi senza autorizzazione ha comunque diritto di chiedere un visto: insomma M61 e M69, assieme agli 89 richiedenti asilo che sono con loro, cadono nel trappolone ordito dal governo Howard ai danni dei disperati come loro.

A quel punto, il destino dei due è nelle mani di “contractor” privati assoldati dal Governo australiano per condurre il processo di Valutazione dello Status di Rifugiato - si immagini con quale livello di indipendenza. Sfortunatamente, il modo in cui i due dipingono le loro tribolazioni in Sri Lanka non è coerente con le informazioni ufficiali che il governo di Canberra ha deciso di credere su quel paese, per cui la loro richiesta viene respinta.

Potrebbe anche finire qui se non fosse per l’intervento di alcuni legali esperti che decidono di prendere di petto il governo e far scoppiare il caso: prima di tutto, sostengono, è discutibile che a decidere su una questione di vita o di morte sia un soggetto diverso da una Corte australiana. Inoltre, mentre a chi arriva in Australia in aereo e con un visto turistico è consentito chiedere asilo ed eventualmente ricorrere in appello contro un eventuale responso negativo, simili possibilità sono escluse per chi arriva, altrettanto illegalmente, via mare.

Un’altra circostanza, infine, contestano gli avvocati dei due richiedenti asilo (un collegio di professionisti di altissimo livello, che hanno prestato la loro opera gratis): le persone che attendono una decisione sul loro status di rifugiati politici lo fanno da detenuti. Poiché  la detenzione è possibile solo nei casi prescritti dalla legge e poiché l’intera procedura è disegnata proprio per liberarsi del fastidioso obbligo di rispettarla, la detenzione nel caso di specie è da considerarsi illegittima ed arbitraria.

L’11 novembre il verdetto dell’Alta Corte australiana ha dato ragione ai due richiedenti asilo politico: i suoi sette giudici, all’unanimità, hanno concluso all’unanimità che ai due è stata “negata una procedura equa”. Raggiante David Manne, uno dei loro avvocati: “E’ fallito il tentativo di mantenere queste persone al di fuori della legge australiana e delle garanzie previste dai nostri tribunali”. Un verdetto che rinfranca quelli che credono che anche agli ultimi sia concesso, almeno ogni tanto, di vivere un happy ending. Meno entustiasta il governo, che adesso dovrà affrontare la “grana” di migliaia di ricorsi da parte di persone detenute arbitrariamente dopo viaggi della speranza in mezzo ad indicibili sofferenze.

di Michele Paris

A più di otto mesi di distanza dalle elezioni parlamentari, la situazione di stallo nelle trattative per la formazione del nuovo governo iracheno sembra essere finalmente giunta a termine. Il nascente gabinetto di coalizione, guidato ancora dal primo ministro uscente Nouri al-Maliki, si fonda tuttavia su un accordo di spartizione del potere lungo linee settarie ed etniche alquanto fragile. Voluta fortemente da Washington, l’alleanza che proverà a governare l’Iraq nei prossimi mesi dovrà fronteggiare da subito numerose contraddizioni, apparse evidenti già poche ore dopo la firma dello stesso patto di governo.

Secondo le condizioni stabilite a Baghdad, l’Alleanza per lo Stato di Diritto, cioè il partito del premier Maliki, continuerà ad avere il controllo dell’esecutivo. Il leader dei curdi, Jalal Talabani, rimarrà presidente dell’Iraq, mentre alla coalizione sunnita Iraqiya sono stati garantiti due incarichi di minore importanza come la presidenza del Parlamento e di un consiglio non ancora ben definito, ma che dovrebbe vigilare sulle questioni relative all’economia e alla sicurezza nazionale.

Il raggruppamento Iraqiya, guidato da Ayad Allawi, sciita secolare, ex primo ministro e uomo della CIA, ottenne il maggior numero di seggi nel voto dello scorso 7 marzo - 91 su 325 - ma nei mesi seguenti non è stato in grado di mettere assieme una maggioranza per assicurarsi la guida di un nuovo governo. Le rivalità interne al mondo politico e alla stessa società irachena hanno impedito anche agli altri partiti usciti vincitori dalle elezioni di raggiungere un accordo: l’Alleanza per lo Stato di Diritto con 89 seggi, l’altro blocco sciita, Alleanza Nazionale Irachena, dell’ex premier Ibrahim al-Jaafari con 70 seggi e i nazionalisti curdi con 43 seggi.

Dai risultati era emersa subito l’impossibilità per entrambe le coalizioni con il maggior numero di seggi di formare un governo senza l’appoggio sia dei curdi che dell’Alleanza Nazionale Irachena, all’interno della quale il peso maggiore è esercitato dal Movimento Sadrista di Muqtada al-Sadr, fondatore della milizia che dal 2003 ha combattuto strenuamente l’occupazione americana dell’Iraq. Inizialmente contrari ad affidare l’incarico di governo sia a Maliki che ad Allawi, i sadristi hanno alla fine rinunciato al veto sul reincarico al premier in carica, verosimilmente dietro suggerimento di Teheran, spianando di fatto la strada all’accordo per il nuovo governo.

Il giorno successivo alla stipula del patto, le spaccature tra i vari protagonisti sono però immediatamente emerse. Giovedì scorso, a nemmeno tre ore dall’inizio della sessione parlamentare e dopo l’elezione di Osama al-Nujayfi a presidente del principale corpo rappresentativo iracheno, la maggior parte dei colleghi di quest’ultimo, facenti parte della coalizione Iraqiya, hanno abbandonato l’aula. Le loro richieste di votare sul rilascio di detenuti sunniti e sulla cancellazione di alcune deliberazioni prese dalla cosiddetta commissione per la “de-baathificazione”, incaricata di impedire la partecipazione alla vita politica agli ex membri del partito che fu di Saddam, erano, infatti, state respinte poco prima.

Senza i membri della coalizione Iraqiya, la rielezioni del presidente Talabani non è stata possibile al primo voto, nel quale sono necessari i due terzi dei deputati, ma solo al secondo tentativo grazie ad una maggioranza semplice, come previsto dalla legge. Una volta riconquistata la presidenza, Talabani ha affidato l’incarico per la formazione del nuovo gabinetto a Maliki, atteso ora da intense consultazioni che potrebbero durare anche parecchie settimane. Oltre alle richieste dei vari neo-alleati per ottenere posizioni di potere, Maliki dovrà tener conto delle pressioni degli Stati Uniti, da dove si farà di tutto per emarginare il movimento di Muqtada al-Sadr.

Il fragile risultato raggiunto a Baghdad è peraltro il frutto delle sollecitazioni statunitensi e di quelle dell’Iran, la cui influenza sulla politica irachena è aumentata considerevolmente negli ultimi anni. Mentre da Washington si spingeva per assegnare ad Ayad Allawi un ruolo di primo piano nel nuovo governo, da Teheran si è cercato, e ottenuto, di proiettare Maliki verso un nuovo mandato. Come già ricordato, è stato in sostanza il via libera dei sadristi a quest’ultimo a permettere il raggiungimento di un accordo, ovviamente in cambio di concessioni non specificate da parte del primo ministro in pectore.

Nelle ultime settimane di negoziati, i principali esponenti delle coalizioni si erano recati nelle capitali dei paesi confinanti, a dimostrazione delle contrastanti influenze esterne esercitate sulla vita politica dell’Iraq. A Iran, Siria e Turchia Maliki ha garantito l’impegno di contenere il movimento separatista curdo, mentre ai paesi a maggioranza sunnita ha ribadito la sua volontà di raggiungere un accordo con la minoranza sunnita irachena. Lo stesso Allawi è rimasto ben poco a Baghdad negli ultimi mesi, finché pochi giorni fa sembra essere stato convinto a fare un passo indietro da una telefonata del presidente Obama in persona.

In Iraq, il vice-presidente americano Joe Biden e, tra gli altri, gli influenti senatori John McCain e Joseph Lieberman avevano poi tentato, senza successo, di convincere i nazionalisti curdi a cedere la presidenza ai sunniti della coalizione Iraqiya. Ad Allawi rimarrà allora la guida di un consiglio le cui competenze, oltre che la denominazione ufficiale, restano ancora da stabilire. Se secondo gli americani il consiglio dovrà bilanciare i poteri del premier, Maliki ha già fatto sapere che non intende sottoporre le decisioni del proprio governo a nessuna autorità.

La sostanziale sconfitta degli USA nella promozione del nuovo esecutivo iracheno, come è stato sottolineato dagli stessi media americani, contrasta viceversa con l’importante successo strategico conseguito dal vicino Iran. La posizione subordinata che ancora una volta avrà la minoranza sunnita nel governo Maliki minaccia comunque già da ora la sopravvivenza dell’esile maggioranza parlamentare e di scatenare così nuovi scontri nel paese.

Le tensioni che attraversano la realtà politica irachena già si sono manifestate recentemente in varie violenze settarie che hanno ucciso 58 persone in una chiesa cattolica di Baghdad, 113 in una serie di attacchi coordinati nella stessa capitale e altre 11 in seguito a esplosioni nelle città sacre agli sciiti di Najaf e Karbala.

In questo scenario, e con il recente annuncio del boom petrolifero nei giacimenti del sud del paese, da Washington si stanno moltiplicando le voci di quanti chiedono un prolungamento della permanenza dei soldati americani in Iraq oltre la scadenza del dicembre 2011, come fissato dall’accordo stipulato tra Maliki e George W. Bush due anni fa.

di mazzetta

George W. Bush ha appena cominciato il lancio del suo libro di memorie e già si è procurato guai grossi. Lancio saggiamente ritardato a dopo le elezioni di midterm per il veto del partito repubblicano al gran completo. Tutti temevano che avrebbe ricordato agli americani alcuni episodi sgradevoli della loro recente storia e quanto il partito repubblicano abbia sostenuto tutte le scelte sbagliate e spesso sciagurate della sua amministrazione. Scelte che hanno impantanato gli Stati Uniti in diverse guerre in giro per il mondo, mentre si ponevano le basi per il più clamoroso crack finanziario della storia, puntualmente giunto sul finire della presidenza Bush.

Il libro è una banale apologia degli anni da presidente, ma contiene alcune affermazioni non scontate e gravide di conseguenze. La più evidente è la rivendicazione della decisione di autorizzare il waterboarding e altri metodi di tortura. Lasciando da parte la penosa giustificazione fornita da Bush, già dimostrata falsa da prove documentali interne alla stessa amministrazione, perché il reato di tortura non ammette scriminanti come lo stato di necessità e nemmeno può essere vanificato dal parere di un legale istruito dal vicepresidente, figurarsi invocare l'ignoranza o l'errata comprensione della legge.

Bastava una ricerca bibliografica per rendersi conto, gli Stati Uniti hanno impiegato una serie di pratiche che in passato avevano denunciato come tortura ai danni di soldati americani o alleati. Che oggi potrebbero essere torturati da nemici, che a loro volta si potrebbero giustificare dicendo che l'hanno dovuto fare per salvare vite dei loro, l'ha detto Bush che si può, lo fanno anche gli americani. E siamo alla barbarie.

La circostanza non è sfuggita ad Amnesty International e ad altre decine di associazioni per la protezione dei diritti umani, tra le quali l'ACLU (American Civil Liberties Union) che si è messa alla testa di un coro che chiede la nomina di un procuratore che indaghi se il presidente Bush ha violato la legge federale che proibisce la tortura. Le affermazioni di Bush non sono nuove, già aveva sostenuto la stessa posizione sul waterboarding in una trasmissione televisiva, ma stampate nero su bianco sul suo libro diventano della prova a carico meno contestabile, la confessione scritta.

Una confessione che a rigor di leggi nazionali e internazionali potrebbe, e in alcuni casi dovrebbe, portare all'arresto di George W. Bush, privato cittadino e non più capo di stato, non appena atterri in uno dei numerosi paesi che hanno siglato la convenzione ONU contro la tortura o in quelli che hanno sancito la giurisdizione universale nel caso di crimini contro l'umanità. Un problema relativo per Bush, che prima di diventare presidente non era mai stato all'estero, ma un problema serio per le istituzioni statunitensi, visto che l'accusa si potrebbe estendere ad altre personalità coinvolte nella pratica, dai generali fino a chi faceva davvero il lavoro sui detenuti, in questo gioco non vale nemmeno rispondere “ho solo obbedito agli ordini”.

Fino a oggi l'amministrazione Obama aveva affrontato il problema di possibili giudizi criminali sull'amministrazione precedente, nascondendosi dietro lo slogan “noi guardiamo avanti, al futuro e non al passato”. Idea bizzarra, accolta la quale vorrebbe dire che nessun crimine sarebbe mai censurabile, se non si guarda al passato i crimini cessano di essere tali non appena sono consumati.

Sofismi a parte, la confessione scritta di Bush pesa moltissimo, perché se il sistema si astiene dal giudicarlo una volta confessata la sua responsabilità, si lede gravemente la costituzione americana e si procura un colpo terribile alla credibilità del ceto politico, già abbastanza compromessa dall'aver assecondato proprio le politiche di cui Bush è stato alfiere per due mandati, quelle stesse che i neoconservatori sostengono e perseguono da decenni con stile inimitabile e sempre uguale.

La confessione di Bush offre l'attesa occasione per verificare se c'è traccia di volontà politica  di  sanzionare le plateali infrazioni delle leggi americane e internazionali commesse dall'amministrazione precedente. Un'occasione che probabilmente gli Stati Uniti perderanno, la crisi economica che corre verso nuove depressioni sminuirà sicuramente l'attenzione sulla faccenda,  Bush rischia veramente solo se a un certo punto dovesse montare la voglia di punirlo per una crisi economica sempre più lunga e severa.


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