di Carlo Musilli

Il cataclisma che da qualche giorno ingombra la sezione “Esteri” dei giornali, l’affare WikiLeaks, ha un fratello maggiore. Quarant’anni fa è successo qualcosa di simile. L’ “Afghan War Diary”, il dossier di 92mila file militari segreti pubblicato su internet e su tre dei maggiori quotidiani del pianeta, ha un precedente storico molto noto ai lettori americani, i Pentagon Papers. Il collegamento fra le vicende è piuttosto ovvio, ma ci sono banalità che conviene non dimenticare.

Nel 1967 il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Mc Namara, commissiona al Dipartimento della Difesa un rapporto sul coinvolgimento politico-militare americano in Vietnam dal 1945 al 1967. Nascono così, un anno dopo, i Pentagon Papers. Documenti top-secret, naturalmente. Tre anni dopo uno degli analisti militari autori del rapporto, Daniel Ellsberg, scopre di essere contrario alla guerra in Vietnam e decide di fare quanto in suo potere per fermarla. Fa una copia del rapporto e la passa a Neil Sheenan, reporter del New York Times.

La pubblicazione dei Pentagon Papers inizia nel giugno del 1971: le amministrazioni di quattro presidenti americani (Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson) vengono sbugiardate in prima pagina. Si scoprono bombardamenti in Cambogia e Laos di cui nessuno aveva mai sentito parlare. Si scopre che Johnson aveva pianificato di estendere la guerra e di bombardare il Vietnam del Nord già durante la campagna elettorale, quando prometteva il contrario. Vengono svelate falsità e mistificazioni. Quello dei Pentagon Papers è uno scoop in senso proprio: rivelazioni inaspettate di avvenimenti clamorosi.

In risposta, il presidente Nixon accusa Ellsberg di alto tradimento e ottiene da una corte federale un’ingiunzione che proibisce al New York Times di continuare a pubblicare i documenti. Non c’è problema, va avanti il Washington Post (da questo punto di vista il coraggio e l’autonomia degli americani andrebbero imitati). Nel frattempo la Corte Suprema, nel nome del celebre primo emendamento, ripristina il diritto del Nyt a pubblicare i Papers. E vissero felici e informati.

Ora proseguiamo con le banalità: nel 1971 non esiste internet. E’ quindi perfettamente logico che un analista come Ellsberg scelga le colonne di uno dei più importanti quotidiani per informare il pianeta. Inchiostro su carta. Meno intuitiva è la ragione per cui, quarant’anni dopo, un uomo come Julian Paul Assange scelga di fare la stessa cosa. Parliamo di un veterano delle reti informatiche: ex programmatore di computer, ex hacker, direttore da quattro anni del pluripremiato sito WikiLeaks. Eppure, un signore del web come lui, in grado di raggiungere il mondo intero in tempo reale, quando si è trovato per le mani l’Afghan War Diary ha alzato la cornetta e ha telefonato ai cari vecchi quotidiani.

New York Times (ancora), The Guardian e Der Spiegel. Tre icone della quality press. Evidentemente le testate storiche assicuravano a Assange qualcosa che lui sapeva di non poter garantire: la massima credibilità possibile. Si è sentito dire qualsiasi cosa a proposito di quei 92mila file, tranne che siano falsi. Se i giornalisti di New York Times, Guardian e Spiegel per un mese verificano una notizia e poi la pubblicano, chi si sente minacciato non può comunque negare, deve scegliere un’altra strategia difensiva.

E qui si sono aperte due strade fondamentali: da una parte “la pubblicazione di questi documenti mette in pericolo i nostri uomini e la nostra missione”, dall’altra “che c’è di nuovo? Sono cose che si sapevano già”. Entrambe confutabili, entrambe pericolose. Nel primo caso si fa appello al patriottismo becero, al rassicurante senso di far parte di una comunità minacciata dall’alieno, a tutto quel repertorio da sociologi d’accatto che rivela la disponibilità a giustificare ogni machiavellismo pur di continuare a sentirsi al sicuro.

In realtà, come spiega il direttore del New York Times, “nella loro forma originale, non rivista, questi documenti avrebbero potuto davvero mettere a rischio delle vite”, ma soprattutto “quelle dei cittadini afgani identificabili come collaboratori della Nato. E’ per questo che abbiamo realizzato un grande sforzo per eliminare questi riferimenti dai nostri articoli”.

Per quanto riguarda invece la posizione del “nulla di nuovo sotto il sole”, la questione è forse più delicata. Qui risiede la differenza più evidente fra Pentagon Papers e Afghan War Diary. I primi hanno fatto emergere verità effettivamente non conosciute, non sospettabili; anzi, hanno rovesciato delle convinzioni radicate. La gente ha capito di aver creduto vero qualcosa che era falso.

I documenti di WikiLeaks sembrano invece confermare qualcosa che più di una persona, non solo nelle alte sfere, già sospettava. I pakistani fanno il doppio gioco, le forze armate afgane sono inadeguate, molti civili sono morti durante la guerra. Sono alcuni esempi di cose atroci, non insospettabili. E con ciò? Siccome posso immaginare l’eventualità generale è inutile che venga informato sul fatto particolare? “Sono cose che si sapevano già”. E’ una frase inutile. E’ la frase di chi non trova un’opinione da controbattere quando sono i fatti a parlare.
 

di Michele Paris

Nel corso di una recente visita a Jakarta, il Segretario alla Difesa americano ha annunciato, relativamente a sorpresa, l’imminente ristabilimento dei programmi di cooperazione militare tra il suo dipartimento e le forze speciali indonesiane (Kopassus). Queste ultime si sono tristemente contraddistinte negli ultimi decenni per assassini di massa, omicidi, rapimenti e numerose altre violazioni dei diritti umani nel corso di operazioni repressive a Timor Est, Papua, Aceh, e ancora oggi mantengono ai propri vertici alcuni ufficiali responsabili di gravi abusi.

Frustrato dall’incapacità dei nazionalisti indonesiani di tenere testa ai reparti speciali olandesi (KST) che appoggiavano le forze della Repubblica delle Molucche meridionali (RMS), l’eroe nazionale, Alexander Kawilarang, nell’aprile del 1952 gettò le basi per la formazione del futuro Kopassus, inizialmente conosciuto col nome di Kesko TT (Kesatuan  Komando Tentara Territorium).

Ad assegnare l’attuale nome al reparto scelto sarebbe stato in seguito un ex membro delle stesse forze speciali olandesi rimasto in Indonesia dopo l’indipendenza. Il maggiore Rokus Bernardus Visser, conosciuto nel paese col nome di Mohammad Idjon Djanbi, fu anche il primo comandante del centinaio circa di soldati che componevano l’allora sola e unica compagnia del Kopassus (Komando Pasukan Khusus o Comando delle Forze Speciali).

Da allora, questo nucleo speciale dell’esercito indonesiano è stato impiegato in azioni di sabotaggio e di intelligence, ma anche per attività contro-insurrezionali e di anti-terrorismo. Praticamente in tutte le campagne militari del governo indonesiano, il Kopassus ha lasciato la propria impronta, spesso in maniera drammatica: dal contrasto ai movimenti ribelli interni negli anni cinquanta al conflitto con la Malesia tra il 1962 e il 1966 intorno alla questione del Borneo, dalle purghe anti-comuniste del 1965-1966 all’invasione di Timor Est nel 1975 dopo il ritiro dei portoghesi, fino alla soppressione dei movimenti separatisti che ancora oggi agitano il paese, in particolare nella provincia occidentale di Papua.

Alla luce dei precedenti del Kopassus, l’annuncio del numero uno del Pentagono, Robert Gates, ha incontrato le immediate critiche delle principali organizzazioni a difesa dei diritti umani e di alcuni membri democratici del Congresso USA. Per Amnesty International, la scelta dell’amministrazione Obama “invia il messaggio sbagliato a un paese nel quale hanno avuto luogo serie violazioni dei diritti umani in un clima d’impunità”. Human Rights Watch, a sua volta, ha condannato il ristabilimento dei contatti militari, dal momento che l’esercito indonesiano “non ha ancora dimostrato di voler assicurare alla giustizia i responsabili degli abusi”.

Il governo di Jakarta, poi, non avrebbe rimosso dai loro incarichi quei pochi soldati finora condannati, mentre continua a installare ai vertici dei reparti speciali ufficiali sui quali esistono gravi indizi di colpevolezza per violazioni dei diritti umani. Ad esempio, lo scorso mese di aprile, il colonnello Nugroho Widyo Utomo, accusato di essere uno degli organizzatori del massacro del 1999 a Timor Est, è stato nominato vice-comandante del Kopassus.

Proprio i fatti legati all’ex provincia indonesiana, diventata nuovamente indipendente nel 2002, furono all’origine dell’interruzione dei legami tra gli Stati Uniti e le forze armate locali. Già dopo il cosiddetto massacro di Dili (o di Santa Cruz) del novembre 1991, nel quale vennero uccisi un centinaio di manifestati pacifici nella capitale di Timor Est, il Congresso americano bloccò una serie di programmi di addestramento a favore dell’esercito indonesiano e l’accesso ad equipaggiamenti militari. La rottura dei legami residui con il Kopassus avvenne invece nel 1999, in seguito alle violenze scatenate dal voto per la secessione dall’Indonesia. In quell’occasione persero la vita circa 1.400 civili.

Nonostante il persistere dei dubbi circa i presunti passi avanti nel rispetto dei diritti umani propagandati da Jakarta nell’ultimo decennio, il ristabilimento ufficiale dei contatti tra gli USA e le forze armate indonesiane giunge alla fine di un processo di avvicinamento in corso da tempo. Questa evoluzione rientra in un quadro strategico nel quale il più popoloso paese islamico del pianeta rappresenta un centro nevralgico degli interessi statunitensi nel sudest asiatico.

Dopo l’inaugurazione della guerra globale al terrore nell’autunno del 2001, l’amministrazione Bush iniziò a cercare vie alternative per fornire assistenza all’esercito indonesiano, sul quale pesava appunto un bando approvato dal Congresso di Washington. Gli aiuti cominciarono così a giungere grazie ad un programma di anti-terrorismo, finché nel 2002, dopo gli attacchi terroristici a Bali che fecero quasi 200 morti, venne cancellata la proibizione di vendere armi a Jakarta.

L’arcipelago indonesiano, d’altra parte, è attraversato da rotte navali fondamentali, rese ancora più importanti per gli USA in un momento di grande preoccupazione per la crescente influenza cinese in tutta l’area. Un interesse strategico che rimane dunque predominante e che è stato ribadito apertamente dal Pentagono, dopo aver incassato le vaghe rassicurazioni del governo del presidente Susilo Bambang Yudhoyono di fare pulizia all’interno delle proprie forze speciali.

di Fabrizio Casari

Delicata. O, addirittura, pericolosa. Sono due delle possibili definizioni per la crisi diplomatica e politica tra Venezuela e Colombia. Datano già alcuni giorni, da quando cioè il governo di Bogotà ha accusato senza mezzi termini Caracas di dare ospitalità ai guerriglieri colombiani delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) e dell’Eln (Ejercito de Liberacìon Nacional) sul suo territorio.

Lo ha fatto nel corso di una riunione dell’OSA, l’Organizzazione degli Stati Americani. Niente di nuovo, Uribe aveva fatto in precedenza le stesse accuse all’Ecuador di Correa. Bogotà ha anche annunciato che denuncerà il Venezuela davanti alla Corte Penale internazionale per l'accoglienza che riserva sul suo territorio ed esponenti delle FARC e accusa per questo Caracas di perpetrare “crimini contro l'umanità”.

Fonti politiche colombiane, citate dall'emittente Caracol Radio, parlano addirittura di membri dell'Eta, cooperanti di Ong straniere e militanti "di ideologia bolivariana" che avrebbero visitato campi militari delle Farc nel territorio venezuelano. Insomma, una sorta di gruppi vacanze con tanto di torpedoni che il governo venezuelano organizzerebbe così, per farsi del male, come un Tafazzi qualsiasi.

Il quotidiano spagnolo El Pais non si tira indietro e si associa alla campagna: come da alcuni anni a questa parte, se c’è da sputare veleno sulla sinistra latinoamericana, lo fa senza risparmiarsi. El Pais ricorda così che Madrid tiene da tempo sotto osservazione i possibili contatti tra ETA e FARC, e sostiene che esponenti del gruppo terroristico basco sarebbero stati in campi delle FARC con l'aiuto dell'esercito venezuelano, che avrebbe condotto i visitatori, e li avrebbe fatti passare per diversi posti di blocco.

Il Venezuela ha respinto le accuse, non soltanto perché - è ovvio - ha ben altro da fare che promuovere il turismo guerrigliero, ma anche perché in nessun momento il Presidente per procura della Colombia, Uribe, ha offerto prove degne di tale nome a supporto delle sue accuse. Del resto, chiedere a Bogotà supporti documentali alle sue accuse sarebbe chiedere troppo.

E’ invece assodato, giacché confermato da prove innumerevoli, che il governo di Bogotà si è adoperato da sempre - e con maggior lena in questi ultimi anni - nella fabbricazione di documentazioni false circa gli aiuti ai guerriglieri che verrebbero dai paesi confinanti (Ecuador e Venezuela in primo luogo) e, ancor di più, circa le presunte responsabilità della guerriglia nelle operazioni genocide, condotte invece dai paramilitari colombiani nelle aree circondanti gli insediamenti delle FARC e dell’ELN. Villaggi rasi al suolo e stragi ripetute di civili accusati di “collaborazionismo” con la guerriglia, sono il marchio di fabbrica delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), i feroci paramilitari colombiani, che vengono poi spacciate mediaticamente come crimini della guerriglia. E, come già avvenuto con l’Ecuador, Bogotà non lesina nemmeno aggressioni militari nelle zone periferiche dei paesi vicini, salvo poi montare show mediatici a posteriori che ne giustifichino l’operato.

Ne hanno appena avuto riscontro sei parlamentari europei che hanno incontrato testimoni oculari di alcune di queste stragi. La delegazione del P.E. ha anche visto la fossa comune dove sono stati sepolti duemila contadini e le testimonianze del coinvolgimento dell'esercito colombiano nei massacri sono state chiare ed inequivocabili. C'erano anche europarlamentari spagnoli, ma di questo El Pais non scrive.

Ma torniamo alla crisi diplomatica. Caracas ribatte duramente alle accuse di Bogotà e rilancia: state tentando un’operazione militare contro il Venezuela. I servizi d’intelligence venezuelani, infatti, sono entrati in possesso d’informazioni abbastanza dettagliate circa il piano colombiano-statunitense in atto. La denuncia é stata fatta dal presidente Chavez in persona, che ha definito la fonte, già verificata in occasioni passate, assolutamente credibile.

Quello che sarebbe allo studio è un nuovo colpo di Stato, ma con modalità diverse da quello fallito nel 2002. Caracas, infatti, è considerata roccaforte chavista inespugnabile, come dimostrato proprio in occasione del fallito golpe. Per questo il piano prevedrebbe sì l’eliminazione di Chavez tramite sicari paramilitari, ma questa dovrebbe avvenire fuori da Caracas, in occasione di un viaggio del Presidente all’estero o in zone di frontiera del paese. Anche per questo il presidente venezuelano ha rinunciato al previsto viaggio a Cuba.

Non sarebbe un fatto inedito l’arrivo in Venezuela di uno squadrone della morte destinato ad uccidere il Presidente. Nel 2004, due anni dopo il golpe fallito, vennero scoperti ed arrestati un gruppo di paramilitari colombiani a Caracas. Erano cecchini e possedevano armi, mappe ed altra attrezzatura di tipo militare adatta a compiere attentati. Stesso dicasi per il recente arresto del “Panzon”, al secolo, Chavez Abarca, il terrorista agli ordini di Posada Carriles - quindi della FNCA (Fundacìòn Nacional Cubano Americana) e della CIA, che di Posada sono rispettivamente finanziatori e reclutatori - arrestato ed estradato a Cuba, dove era ricercato per numerosi attentati e omicidi dall’inizio degli anni ’90.

La prima fase del piano golpista consisterebbe in un’operazione di tipo mediatico: accusare il Venezuela di ospitare terroristi per preparare così la comunità internazionale ad una tensione che, successivamente, innescherebbe il conflitto armato. Che inizierebbe con il dispiegamento di un contingente armato statunitense in Costa Rica (già avvenuto nei giorni scorsi), la cui missione sarebbe appoggiare l’operazione in maniera aperta ove fosse necessario, dal momento che - secondo i golpisti - le reazioni delle FARC e dell’ELN in Colombia, così come quella (possibile) di cubani e nicaraguensi, renderebbero impossibile alla Colombia portare a termine il piano con le sue sole forze.

Ecco quindi che l’inaspettato quanto repentino arrivo di migliaia di marines in Costa Rica, accompagnati da 46 navi da guerra e 200 elicotteri miltari modello Apache, sembra voler indirettamente confermare almeno lo scenario delle forze in campo e i nessi organizzativi tra i diversi elementi del progetto golpista. Il piano vedrebbe anche la possibilità di neutralizzare una parte della Forza armate venezuelane, alla quale verrebbero promessi denaro e ruoli nell’esercito del dopo-golpe. Ex ufficiali venezuelani fungerebbero da collegamento tra i golpisti e i militari locali disposti a tradire il loro paese e il loro governo a vantaggio di forze straniere.

Insomma, gli ingredienti del colpo di Stato ci sarebbero tutti, a cominciare dalla campagna mediatica che indica l’obiettivo come un "complice dei terroristi". Non è forse quanto venne fatto per giustificare la guerra negli anni ’80 con i sandinisti, accusati di aiutare i guerriglieri in El Salvador? E non è quanto venne fatto con l’invenzione della armi di distruzione di massa in Irak? Si prepara il terreno e si semina, si tasta il polso alla reazione internazionale e si vede se e come procedere.

Ora non è chiaro se l’operazione andrà avanti o se verrà rimandata. Ma certo è che la prima parte, cioè quella inerente alla disinformazione attraverso false accuse e allo spiegamento di forze militari è in corso. Bogotà ha dato trenta giorni di tempo a Caracas per rispondere delle accuse, come se un protettorato potesse lanciare ultimatum a una nazione sovrana. La risposta venezuelana non si è fatta attendere e Chavez, che ha già rotto le relazioni diplomatiche, ha chiesto un’immediata marcia indietro alla Colombia, augurandosi che il nuovo Presidente Santos, (che entrerà nelle sue funzioni il prossimo 7 Agosto ndr) possa riprendere i fili del dialogo tra i due paesi. Gli sviluppi della crisi possono essere diversi, dipenderà dall’urgenza di Washington di liberarsi di Chavez e dalla disponibilità a pagare il costo politico e militare dell’operazione.

Ad alzarlo, almeno negli studi di fattibilità dell'operazione che il Pentagono e la Casa Bianca dovranno esaminare se vogliono portare il progetto a compimento, ha pensato Cuba. Raul Castro, intervenuto in un convegno a L’Avana, dove si celebrava la firma di 139 accordi economico-commerciali tra l’Avana e Caracas, ha ribadito che “Cuba sostiene il diritto del Venezuela a difendersi da minacce e provocazioni e, nel caso nascessero problemi con chiunque, nessuno potrà dubitare da quale parte si schiererà Cuba”.

 

 

di Michele Paris

Alla fine del 2004, l’esercito americano occupante in Iraq, sferrò una durissima offensiva sulla città di Falluja con metodi che rientrano abbondantemente nella definizione di crimini di guerra. Il prezzo pagato dalla città irachena, oltre alle migliaia di civili massacrati, continua a farsi sentire pesantemente ancora oggi, come ha messo in luce un recente studio epidemiologico condotto da tre ricercatori britannici, con un’incidenza di tumori, malattie genetiche, deformità e mortalità infantile addirittura superiore a quella rilevata tra i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.

A condurre il primo studio di questo genere su quasi cinquemila residenti della città di Falluja, sono stati i medici Chris Busby, Malak Hamdan ed Entesar Ariabi, i quali assieme ad un team di ricercatori, tra gennaio e febbraio di quest’anno, sono stati in grado di tracciare finalmente un quadro esaustivo delle conseguenze a lungo termine della battaglia scatenata dalle forze statunitensi. Il rapporto, intitolato “Cancro, mortalità infantile e rapporto tra i sessi alla nascita a Falluja, Iraq 2005-2009”, è stato pubblicato qualche giorno fa sull’International Journal of Environmental Studies and Public Health (IJERPH).

La causa principale dell’emergere di dati così preoccupanti tra la popolazione di Falluja è l’impiego di uranio impoverito da parte degli americani. Utilizzato come componente per granate e munizioni, l’uranio impoverito risulta particolarmente efficace per la sua elevata densità. Dopo l’impatto con l’obiettivo, l’esplosione determina la fuoriuscita di uranio nell’area circostante, dove può rimanere anche per molti anni provocando danni irreparabili alle persone. L’uranio impoverito attacca i linfonodi e il DNA, causando tumori e gravi malformazioni genetiche.

Proprio la percentuale di malati di cancro a Falluja da cinque anni a questa parte è aumentata di quattro volte e le forme in cui esso si sviluppa appaiono molto simili a quelle riscontrate nelle due città giapponesi dopo il lancio delle bombe atomiche nel 1945. La drammaticità della situazione è evidenziata anche dal rapporto con i paesi circostanti. Nella città irachena, a una settantina di chilometri a ovest di Baghdad, il numero di malati di leucemia è 38 volte superiore rispetto all’Egitto, alla Giordania e al Kuwait.

Il numero di bambini affetti da cancro é poi dodici volte più alto, così come la diffusione del cancro al seno è dieci volte superiore. I livelli d’incidenza di linfomi e tumori al cervello tra la popolazione adulta sono ugualmente al di sopra della media. La mortalità infantile tocca gli 80 decessi ogni mille nati, un numero cinque volte maggiore di quello normalmente registrato in Egitto e in Giordania e otto volte più grande rispetto al Kuwait.

Possibilmente ancora più preoccupante è l’inversione del rapporto tra i sessi alla nascita. Normalmente, nascono 1050 maschi per ogni 1000 femmine, mentre a Falluja tra il 2004 e il 2009 si è scesi ad un rapporto di 860 maschi per 1000 femmine. Un’alterazione quest’ultima già manifestatasi a Hiroshima al termine del secondo conflitto mondiale e che indica il verificarsi di un grave evento mutageno. Mentre i maschi hanno un solo cromosoma X, le femmine ne posseggono due, così da poter rimediare alla perdita di un cromosoma X in seguito ad un danno genetico come quello causato dagli effetti dell’uranio impoverito.

Prima della pubblicazione di questo studio, erano stati parecchi i segnali d’allarme lanciati da Falluja. Nell’ottobre dello scorso anno, ad esempio, alcuni medici iracheni e britannici avevano chiesto all’ONU di avviare un’inchiesta sulla diffusione di malattie collegate all’esposizione a radiazioni nella città. In quell’occasione veniva rivelato come le donne erano terrorizzate dall’idea di partorire figli a causa dell’aumento di deformità segnalate negli ospedali di Falluja. Nel settembre 2009, l’ospedale più grande della città contava 170 neonati, dei quali il 24 per cento morti entro i primi sette giorni di vita. Di questi, ben il 75 per cento presentava una qualche deformità.

Alle presenti e passate accuse, il Dipartimento della Difesa americano ha sempre sostenuto che non esistono studi qualificati che dimostrino il legame tra l’elevata incidenza di malattie genetiche con le azioni delle proprie forze armate. Una carenza di dati scientifici dovuta in larga parte anche all’ostruzionismo delle stesse autorità statunitensi e dei regimi da esse sostenuti. Proprio l’attività di ricerca condotta a Falluja, era stata infatti ostacolata dai media e dai rappresentati locali del governo di Baghdad che avevano bollato i medici britannici come terroristi.

Nonostante la prevalenza di cittadini sunniti, legati al regime di Saddam Hussein, la città di Falluja era stata una delle aree relativamente più pacifiche dell’Iraq dopo l’invasione americana. Il malcontento iniziò tuttavia a diffondersi dalla fine di aprile del 2003 dopo che l’esercito statunitense sparò indiscriminatamente su una folla di cittadini che protestavano contro la trasformazione di una scuola locale in una base USA uccidendo 17 persone. La reazione degli abitanti di Falluja trasformò la città nel centro di resistenza sunnita all’occupazione americana.

Il 31 marzo del 2004, poi, quattro dipendenti della famigerata compagnia privata di sicurezza Blackwater, alla guida di un veicolo, vennero bloccati e fatti scendere per poi essere picchiati e uccisi. I loro corpi dati alle fiamme sarebbero stati successivamente trascinati per le vie della città e appesi ad un ponte sull’Eufrate. L’uccisione dei quattro cittadini americani scatenò la reazione dell’esercito occupante, che nel mese di maggio fu però costretto ad abbandonare l’assedio di Falluja malgrado l’imbarazzante superiorità militare.

Nel novembre dello stesso anno, dietro autorizzazione del governo-fantoccio iracheno, guidato dall’allora primo ministro Ayad Allawi, venne scatenata una nuova e più violenta offensiva contro quella che era stata definita la roccaforte degli insorti iracheni. La città venne circondata e tutti gli abitanti rimasti vennero dichiarati “combattenti in armi”. Numerose famiglie furono uccise dagli americani nel tentativo di fuggire da Falluja, mentre durante l’attacco le forze USA fecero largo uso di fosforo bianco e, appunto, uranio impoverito.

L’operazione militare contro Falluja - nella quale 36 mila case delle 50 mila dell’intera città vennero rase al suolo - rappresentò per stessa ammissione dei vertici statunitensi, una punizione esemplare e collettiva per piegare la resistenza sunnita in tutto l’Iraq occupato. Una condotta perciò contraria al dettato stesso della Convenzione di Ginevra, la quale all’articolo 51 del Protocollo 1 proibisce “le punizioni collettive e qualsiasi misura di intimidazione o terrorismo”.

I crimini americani commessi a Falluja rappresentano uno degli episodi più dolorosi della recente storia militare nei confronti della popolazione civile di un paese occupato. Gli effetti su una città tuttora in rovina tuttavia, a differenza di altre stragi, come quelle quasi quotidianamente perpetrate in Afghanistan o in Pakistan, peseranno ancora per molti anni sulle generazioni future.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Da anni, ormai, la vita politica di Bodo Ramelow, capo della frazione Die Linke della Turingia (Germania centrale), è continuamente sottoposta all'attenta osservazione dell'Ufficio tedesco per la salvaguardia della Costituzione. Articoli, comunicati stampa, volantini, insieme a qualsiasi altra forma di comunicazione pubblica che abbia a che fare con Ramelow, vengono raccolti e analizzati dall'Ufficio federale: obiettivo dichiarato è la prevenzione di eventuali movimenti sovversivi che possano scaturire dal partito di sinistra tedesco cui Ramelow appartiene o, meglio, dalla sua la più estrema.

Inutile dire che Ramelow non è d'accordo: le presunte motivazioni non sussistono e il funzionario della Turingia ha sporto denuncia contro quei "servizi segreti" che, in nome della Costituzione tedesca, vanno a intaccare la sua privacy. Il processo, che continua ormai da anni, ha riservato al funzionario de Die Linke in questi giorni un'amara sorpresa.

La quérelle è nata a causa di alcune correnti politiche germogliate di recente in seno a Die Linke, tra cui l'iniziativa de Die Kommunistische Plattform, il forum virtuale che si propone di "conservare e sviluppare il patrimonio intellettuale marxista" e che raccoglie l'1% degli iscritti a Die Linke, e Cuba sì, il circolo che  si impegna a fornire "solidarietà concreta e politica" alla nazione dei fratelli Castro.

Tra le frasi che non sono piaciute all'Ufficio, in particolare, c'é l'auspicio di una  rivoluzione che porti a "una dittatura del proletariato". Parole magiche e controverse che, a quanto sembra, non passano mai inosservate. Agli occhi dell'accusa, tali propositi sono sembrati troppo estremi per essere considerati completamente democratici: tanto estremi, in verità, da poter essere sospettati di estremismo e anticostituzionalità.

E se Die Linke costituisce un punto di partenza per gruppi politici anticostituzionali, allora l'intero partito deve essere tenuto sotto osservazione, poiché i cittadini hanno il diritto di conoscere "i visi di coloro per cui vota una fazione anticostituzionale". Queste le conclusioni del tribunale di Lipsia (Est), che ha giudicato sensate le indagini condotte su Bodo Ramelow. Secondo il giudice, l'Ufficio federale per la salvaguardia della costituzione ha il diritto - se non il dovere - di raccogliere tutte le informazioni necessarie alla garanzia della "vera democrazia": in altro modo, ha spiegato il giudice, sarebbe difficile provare la verità su eventuali movimenti sbagliati. Va da se' che il permesso di indagine va esteso a tutti gli altri funzionari del partito di sinistra tedesco.

Alle orecchie di Ramelow, il verdetto suona come una pesante sconfitta nei confronti della sua intera fazione e rappresenta una "svalutazione distruttiva de Die Linke come partito politico". "Non può finire così", ha commentato Ramelow, "vogliono dare un'apparenza d’illegalità sovversiva all'intero partito a causa delle presunte attività anticostituzionali di alcuni suoi gruppi marginali". Gruppi, tra l'altro, che Ramelow ritiene assolutamente estranei a qualsiasi attività antidemocratica.

Il tribunale di Lipsia, in realtà, è stato il primo a esprimersi contro Ramelow nel corso di tutto il lungo procedimento legale che è corrisposto alla questione. Le prime due istanze, emesse dai tribunali di Colonia (Centro Ovest) e Muenster (Nord Ovest), gli avevano dato ragione: Ramelow è un funzionario pubblico e, in tale veste, non ha mai portato avanti nulla di anticostituzionale o antidemocratico che giustifichi qualsiasi tipo di osservazione particolare nei suoi confronti. Le indagini del'Ufficio, in altre parole, non risultano necessarie né mirate e devono essere cancellate dai registri.

La delusione recente, comunque, non ha ucciso la voglia di giustizia di Ramelow. La sua battaglia legale continuerà; prima di fronte alla Corte Suprema Costituzionale federale di Karlsruhe, che si occupa di valutare l'operato dei tribunali tedeschi e, se necessario, verrà  portata anche di fronte alla Corte di Giutizia Europea di Strasburgo.

Perché la questione, per Die Linke, è molto più ampia del processo individuale di Ramelow. Il partito viene già tenuto sotto osservazione dall'Ufficio in diversi Laender tedeschi, e cioè in Baviera, Baden Württemberg, Assia, Bassa Sassonia e Renania Settentrionale, tutte regioni che si distribuiscono nella parte Ovest della Germania. Il provvedimento appare ad alcuni irrazionale e vergognoso: è il caso di Ruediger Sagel, vice capo de Die Linke nella dieta regionale di Duesseldorf, che accusa CDU e FDP di abusare dell'Ufficio per la salvaguardia della Costituzione come se fosse "un proprio organo di campagna elettorale".

Per i più moderati, invece, un'eventuale sconfitta de Die Linke in tribunale non porterebbe che sviluppi positivi: sarebbe una lezione di vita per un partito che deve tornare con i piedi per terra e prendersi più sul serio per poter essere considerato in grado di far parte di una coalizione di governo, evitando di pestare i piedi come un bimbo capriccioso. Secondo questi ultimi, Die Linke si deve preoccupare di dare spiegazioni e di scendere a compromessi, omologandosi alla diplomazia tipica delle forze politiche.

Che la frecciata si riferisca, tra le altre cose, anche alla recente vicenda delle elezioni  presidenziali, questo è fuor di dubbio. Die Linke avevano presentato una propria candidata, Lucrezia Jochimsen, rendendo la strada ancora più difficile a Joachim Gauck, il candidato socialdemocratico. E il risultato è stato la vittoria di Christian Wulff, l'uomo di Angela Merkel.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy