di Carlo Musilli

Aung Sang Suu Kyi non è stata liberata in quanto prigioniera politica illegalmente detenuta. Ha semplicemente finito di scontare una pena assurda, la cui durata era stata calcolata dal regime militare birmano con una precisione chirurgica. I generali avrebbero potuto inventare qualche pretesto per tenerla ai domiciliari chissà per quanti anni ancora. Se non l'hanno fatto, significa che non lo ritenevano conveniente. A loro serviva liberare Suu Kyi proprio in questi giorni.

L'eroina dell'opposizione birmana, icona nel mondo della lotta per la democrazia, ha rimesso piede fuori dalla sua casa-prigione appena in tempo per non disturbare le elezioni della settimana scorsa, che hanno consegnato all'Usdp (il partito della giunta) una quantità di seggi fra l'80 e il 90%.

Un plebiscito ridicolo, figlio dell'illegalità più assoluta, che sarebbe stato ostacolato dai discorsi universalistici e pieni di speranza di Sang Suu Kyi. Quelle stesse parole, invece, appena qualche giorno dopo diventano uno strumento fondamentale per i militari.

Non solo la liberazione della Signora (com'è chiamata dai suoi connazionali) distoglie l'attenzione del mondo dalle famose elezioni che, almeno per i prossimi cinque anni, consentiranno al regime di tenere stretta la morsa sulla Paese. C'è di più. La giunta ha acquisito nelle ultime due settimane un credito mai avuto prima d'ora.

In tutto il mondo si scrivono titoli accostando le parole "libertà", "Birmania", "democrazia", "Myanmar". Nel frattempo i grandi canali mediatici si scordano di andare a vedere come siano andate a finire le elezioni. La notizia ormai è superata.

Intendiamoci, nessuno al mondo crede davvero che in Birmania esista uno stato liberale. Chiunque si rende conto che il voto dello scorso 7 novembre è stato una farsa. Ma il regime è riuscito comunque a indicare all’opinione pubblica internazionale la via dell'illusione.

La liberazione di Suu Kyi ha suscitato il sentimento di un lieto fine possibile, se non già scritto. Si sente parlare di "inizio di un percorso", di "una data che verrà ricordata", di "transizioni realizzabili". Intanto gli uomini della giunta mettono in soffitta le divise militari e indossano democratici completi di taglio occidentale. Doppiopetti. Ecco l'unica vera novità in Birmania.

Il segretario generale di Amnesty International Salil Shetty ha fatto notare che nel Paese "ci sono ancora più di 2.200 prigionieri politici, condannati sulla base di norme vaghe, utilizzate sovente per criminalizzare il dissenso politico e detenuti in condizioni agghiaccianti, con cibo e servizi inadeguati e senza cure mediche.

Molti di essi sono stati torturati durante gli interrogatori e subiscono ancora torture da parte del personale penitenziario". L'organizzazione Human Rights Watch ha invece definito la liberazione di Sung Kyi "uno stratagemma cinico del governo militare. Se vogliono realmente allargare lo spazio politico dopo le elezioni, allora liberino tutti i prigionieri politici".

Il regime ha perfino cercato di disinnescare la Signora, suggerendole di tenere un profilo basso dopo la liberazione. Va bene il clamore dei sostenitori, la commozione, la retorica mediatica. Ma la politica, quella no. Naturalmente Suu Kyi, che ha passato in reclusione 15 degli ultimi 21 anni, non ha accettato nessuna condizione. Parlerà eccome, cercando di dare alla sua gente una speranza, qualcosa di più concreto di un'illusione.

Per farlo avrà bisogno di riportare in politica la Lega Nazionale per la Democrazia, il partito che lei stessa fondò più di 20 anni fa.

Oggi l'Nld è una formazione illegale, perché i suoi rappresentati hanno boicottato le ultime elezioni per non presentarsi con un leader diverso da Suu Kyi. Secondo la recente legge elettorale birmana, infatti, i partiti non possono essere guidati da persone con precedenti penali.

Nonostante tutto, le forze di sicurezza della giunta militare sono state abbastanza intelligenti da non intervenire quando, davanti a una folla di 40mila persone, la Signora ha tenuto il suo primo comizio da donna libera. "La mia voce, da sola, non è democrazia - ha spiegato Suu Kyi - niente può essere raggiunto senza la partecipazione della gente: dobbiamo camminare insieme, senza perdere la speranza, senza farci scoraggiare".

"Non credo che l'influenza e l'autorità di una sola persona possano far progredire un Paese. Una persona da sola non può fare qualcosa di così importante come portare la democrazia in un paese". E soprattutto, "se il mio popolo non è libero, come potete dire che io sono libera? Nessuno di noi è libero".

 

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