di Michele Paris

L’ondata di protesta contro l’illusione del cambiamento promessa due anni fa da Barack Obama ha puntualmente travolto martedì la Casa Bianca e la ormai defunta maggioranza democratica al Congresso. La più costosa elezione di medio termine della storia americana si è infatti risolta in una indiscutibile bocciatura del partito di governo che, nonostante il risicato margine mantenuto al Senato, ha visto passare ai repubblicani la Camera dei Rappresentanti, gran parte dei governatori e delle assemblee statali in ogni angolo del paese.

I disperati appelli del presidente, del suo vice Joe Biden, dei coniugi Clinton e della first lady Michelle Obama alla vigilia del voto sono falliti miseramente di fronte ad un elettorato senza più alcuna fiducia nei confronti di un Partito Democratico, e di tutta la classe politica in generale, incapace di dare risposte ai bisogni dei lavoratori e della classe media. Ad uno ad uno sono così caduti quasi tutti i candidati democratici impegnati nelle competizioni elettorali più incerte, compreso il successore designato al seggio del Senato che fu di Obama in Illinois, Alexi Giannoulias, sconfitto dall’oscuro deputato repubblicano Mark Kirk.

Complessivamente, il Partito Repubblicano, che veniva dato sull’orlo dell’estinzione appena due anni fa, ha guadagnato una sessantina di seggi alla Camera bassa del Congresso, spazzando via il margine di 39 deputati che i democratici potevano vantare. Il dissolvimento della base elettorale che aveva permesso il trionfo di Obama e del suo partito nel 2008 è stato decisivo. Gli elettori più giovani, le donne, i laureati e i cosiddetti indipendenti hanno in gran parte deciso di disertare le urne, mentre quelli che hanno scelto di partecipare al voto hanno favorito in larga misura i repubblicani. Il voltafaccia della working-class e degli anziani, giustamente allarmati per gli effetti deleteri della pseudo-riforma del sistema sanitario sui propri piani di copertura, ha fatto il resto.

La presunta resurrezione del Partito Repubblicano non rappresenta peraltro il risultato di una politica efficace proposta dalla sua leadership, né rispecchia una popolarità diffusa nel paese. La rivincita repubblicana è stata bensì possibile solo grazie alla delusione suscitata da una maggioranza democratica che ha tradito in tutti i campi le aspettative che erano emerse dopo gli otto anni dell’amministrazione Bush. Per questa ragione, la sconfitta democratica non appare tanto la conseguenza di un supposto spostamento a destra dell’elettorato americano - come viene in genere propagandato dalla stampa mainstream d’oltreoceano - ma piuttosto il prodotto di una politica troppo moderata che ha saputo rendere conto pressoché esclusivamente ai grandi interessi economici e finanziari.

Un ruolo considerevole nell’esito delle elezioni di “midterm” l’ha giocato il movimento del Tea Party, anche se non sempre con esiti favorevoli al Partito Repubblicano. Prodotti in gran parte dei media, il Tea Party e i vari raggruppamenti libertari e di estrema destra al quale fanno capo, nonostante il sostegno dei poteri forti, hanno saputo convogliare il malcontento ampiamente diffuso tra la gente comune indirizzandolo verso lo strapotere del governo federale, gli immigrati, le tasse e una fantomatica deriva socialista dell’amministrazione Obama.

Se alcuni candidati del Tea Party hanno incassato vittorie pesanti in svariati distretti elettorali per la Camera e al Senato - tra cui Marco Rubio in Florida e Rand Paul in Kentucky - altri sono apparsi al limite della presentabilità per le loro posizioni troppo estreme, danneggiando di fatto il Partito Repubblicano e compromettendo le chance di riconquistare la maggioranza anche al Senato. È il caso, ad esempio, del Nevada e del Delaware, dove il leader dei democratici al Senato, Harry Reid, e Chris Coons hanno avuto la meglio sulle ultraconservatrici Sharron Angle e Christine O’Donnell.

La presenza al Congresso di una folta pattuglia di deputati e senatori che fanno capo al Tea Party da un lato potrebbe creare divisioni all’interno di un Partito Repubblicano che vede il suo baricentro spostarsi ulteriormente a destra, mentre dall’altro determinerà un abbandono definitivo delle velleità riformistiche dello stesso Obama. Dalla Casa Bianca, forse senza dispiacersi eccessivamente, si dovrà infatti scendere a compromessi con la maggioranza repubblicana alla Camera quando già dalle prossime settimane saranno all’ordine del giorno questioni delicate come il prolungamento dei tagli alle tasse per i redditi più alti voluti da George W. Bush e il contenimento del deficit federale.

La rabbia degli elettori nei confronti dei candidati della maggioranza si è manifestata significativamente soprattutto in quelle regioni del Midwest che rappresentavano il centro nevralgico dell’industria manifatturiera americana e negli stati meridionali che nel 2006 e nel 2008 avevano segnato una tappa importante della riscossa democratica. I repubblicani si sono aggiudicati cinque seggi per la Camera dei Rappresentanti in Pennsylvania, altrettanti in Ohio, tre nell’Illinois di Barack Obama, uno in Michigan, due in Indiana e Wisconsin. Nel sud, tredici seggi già detenuti dai democratici hanno cambiato colore, tra cui tre rispettivamente in Florida, Virginia e Tennessee.

Il tracollo democratico non ha risparmiato veterani del partito che solo fino a pochi mesi fa sembravano al riparo da sorprese. Alla Camera, il presidente della commissione per le forze armate, Ike Skelton, deputato per il Missouri dal 1977, e John Spratt, rappresentante della South Carolina da 27 anni, hanno entrambi perso il loro seggio. Identica sorte è toccata poi al senatore del Wisconsin con fama di indipendente, Russ Feingold, in carica dal 1993. Nel momento in cui scriviamo, i democratici sono certi di 51 seggi su 100 al Senato; il Partito Repubblicano è a quota 46, mentre tre competizioni risultano ancora in bilico, in Alaska, Colorado e Washington.

Nella corsa per le cariche di governatori, il Partito Repubblicano ha inoltre messo le mani su ben 39 stati, contro i 24 che controllava prima del voto di martedì. Alla vigilia delle importanti decisioni che verranno prese sulla ridefinizione dei confini dei distretti elettorali nei vari stati, il controllo dei governatori promette di rivelarsi fondamentale per gli equilibri di potere tra i due partiti nelle elezioni future. In quest’ottica, significativo è stato il successo repubblicano in Ohio, Stato spesso decisivo nelle elezioni presidenziali, dove il democratico in carica Ted Strickland ha ceduto il passo all’ex deputato e già dirigente di Lehman Brothers, John Kasich.

La striscia vincente dei repubblicani ha compreso anche i governatori in altri stati precedentemente guidati da democratici, come Iowa, Kansas, Michigan, Nuovo Messico, Oklahoma, Pennsylvania, Tennessee e Wyoming. All’ecatombe democratica sono sfuggiti invece, tra gli altri, Colorado, Massachusetts, probabilmente Illinois e Minnesota, dove il margine è ancora troppo esile per dichiarare ufficialmente il vincitore, e soprattutto California e New York. In questi ultimi due stati Jerry Brown, già governatore tra il 1975 e il 1983, e Andrew Cuomo, figlio dell’ex governatore democratico Mario Cuomo, hanno avuto vita relativamente facile rispettivamente sull’ex CEO di eBay, Meg Whitman, e sul discutibile candidato del Tea Party, Carl Paladino.

Ben lontane dal delirio delle dichiarazioni della vigilia da parte dello speaker in pectore della Camera, il deputato dell’Ohio John Boehner, il quale aveva prefigurato un voto in difesa della libertà, della Costituzione e di un governo che sappia operare entro limiti ben precisi, le elezioni di medio termine hanno rivelato ancora una volta la profonda crisi in cui versa il sistema politico americano.

Con i due partiti che si dividono invariabilmente il potere unicamente al servizio delle grandi corporation e dei colossi di Wall Street e con regole elettorali che consentono agli stessi potentati economici di sborsare liberamente centinaia di milioni di dollari per influenzare l’esito del voto, nessuna soluzione concreta si prospetta per i ceti più bassi duramente colpiti dalle conseguenze della crisi economica.

In questo scenario, l’autocritica di Obama per la batosta elettorale, la promessa di un imminente cambio di rotta e la proposta di collaborazione con la nuova maggioranza repubblicana, suonano totalmente vuote. L’incapacità dei democratici di costruire un’alternativa progressista e di porre un qualche rimedio alle distorsioni di un sistema capitalistico senza freni è la prova più evidente dell’abisso esistente tra la popolazione americana e la propria classe politica. All’interno dell’attuale apparato di potere politico, economico e giudiziario, per la gran parte degli americani non esiste dunque alcuna prospettiva di cambiamento, di vera democrazia e di giustizia sociale.

di Carlo Musilli

Alla fine qualcosa si è mosso. Dopo le rivelazioni del sito Wikileaks sulle torture e i massacri in Iraq di cui nessuno per anni ha saputo nulla, l'Alto Commissario Onu per i Diritti Umani Navi Pillay ha deciso che era arrivato il momento di prendere la parola. Chi si aspettava un provvedimento diretto è rimasto deluso: i funzionari dell'Onu non possono pretendere di ispezionare le carceri irachene, perché il Paese non ha sottoscritto la "Convenzione contro la tortura" (con una certa coerenza, verrebbe da dire).

Ma almeno la Pillay ha trovato il coraggio di pubblicare un comunicato in cui sollecita i governi degli Stati Uniti e dell'Iraq a indagare per "consegnare alla giustizia i responsabili delle uccisioni illegali, delle esecuzioni sommarie, delle torture e di tutte le altre gravi violazioni dei diritti umani". In particolare, Pilley punta il dito contro l'esercito americano, reo di aver consegnato centinaia di detenuti agli iracheni "pur sapendo del loro diffuso ricorso ai maltrattamenti e alla tortura". Sulla stessa linea Manfred Novak, Responsabile Speciale Onu per la Tortura, cui gli americani hanno più volte negato l'accesso ai centri di detenzione in Iraq.

E negli Stati Uniti, come hanno reagito al dossier dell'infamia? Sorvolando sui soliti ritornelli buoni un po' per ogni evenienza ("già si sapeva", "non mettete in pericolo i giovani americani"), vale la pena soffermarsi sulle nuove virili esternazioni di alcuni repubblicani. Per Christian Whiton, ex funzionario del Dipartimento di Stato, bisognerebbe trattare Julian Assange, padre di Wikileaks, "come un combattente nemico".

Vale a dire, dovrebbe essere spedito a Guantanamo insieme ai talebani, senza la seccatura di un processo. Il governo poi, secondo un illuminato editorialista del quotidiano conservatore Washington Times, dovrebbe anche "contrastare la presenza di Wikileaks sul web". Non c'è male, per la democrazia più progredita del pianeta.

Tuttavia, i destrorsi americani non sono tutti così impetuosi. Con meno fascismo, ma più malafede, il New York Post di Rupert Murdoch sostiene che grazie ai documenti di Wikileaks è stato dimostrato che "in Iraq le armi di distruzioni di massa c'erano, dopo tutto". In risposta, il quotidiano inglese The Indipendent fa notare che, volendo essere pignoli, le armi ritrovate rientravano in programmi d'armamento abbandonati diversi anni prima che iniziasse l'invasione americana dell'Iraq.

Ma se Atene piange, Sparta non ride. Anche la Gran Bretagna, infatti, in questi giorni ha dovuto imparare di quali atrocità siano capaci i soldati in guerra. Perfino quelli della Regina. Sulla scia di Wikileaks, il Guardian è riuscito a scucire al ministero della Difesa alcuni documenti agghiaccianti (un giornale che fa pressioni al governo, ci sarebbe di che riflettere).

È emerso così che di tutte le vittime civili causate dai soldati inglesi in Iraq, due terzi sono state uccise da tre sole unità militari. Coldstream Guards, Royal Marine e Rifles sono responsabili di almeno 21 incidenti in cui hanno perso la vita, fra gli altri, diversi bambini e un uomo malato di mente. Paul Flynn, deputato laburista e membro del Comitato sulla Salute del Consiglio d'Europa, ha richiesto un'inchiesta che sveli "quali atrocità siano state commesse in nome del popolo britannico".

Non basta, gli inglesi sono stati messi di fronte ad una realtà ancora più odiosa. Il Governo ha infatti riunito una commissione speciale per indagare su 90 nuove accuse di violenza nei confronti di 128 civili iracheni fra il marzo 2003 e il luglio 2009. Dal ministero fanno sapere che le indagini non dureranno meno di due anni. Si tratta di gravissime violazioni dei diritti umani: uomini incappucciati o bendati costretti a stare per ore in posizioni innaturali, confinati in celle minuscole e gelide, privati del sonno, del cibo, dell'acqua.

Alcuni dettagli fanno ancora più schifo. Pare che i compassati inglesi abbiano sperimentato il sesso come arma particolarmente efficace per intimidire e umiliare i detenuti. Soldati che si masturbano e si accoppiano davanti agli occhi dei prigionieri. Film porno proiettati a tutto volume. Riviste porno lasciate in bella vista. E, naturalmente, la nudità come supremo strumento di coercizione mentale: gli iracheni erano lasciati senza vestiti finché non si decidevano a cooperare. Prima che una violenza fisica, uno stupro cerebrale.

Di fronte a rivelazioni di questo tipo, anche il movimento sciita di Hezbollah ha esortato le Nazioni Unite a punire i responsabili delle violenze. "Ci chiediamo se questo sia abbastanza per l'Onu - si legge in un comunicato del gruppo - per svegliarsi e avviare finalmente un'indagine reale sugli orribili crimini commessi contro la popolazione irachena". La risposta è no. Se un'indagine ci sarà, non sarà dell'Onu.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Infuoca in Germania il dibattito sull'immigrazione scatenato qualche tempo fa dal libro di Thilo Sarrazin "La Germania si distrugge da sola", in cui l'ex dirigente della Bundesbank giustificava il razzismo con la necessità di una selezione biologica conforme all'intelligenza e al ceto sociale. Ed è proprio sullo sfondo di questa discussione che il quotidiano di sinistra berlinese Tageszeitung (Taz) offre un interessante confronto tra i vari modelli di gestione dei flussi migratori nei vari Paesi europei, nonché uno sguardo d'inseme sulla neodirettiva comunitaria proposta dalla Commissione nel 2009: una riflessione che lascia intravedere numerose incertezze per il futuro.

Se, da una parte, Eurolandia si sente pronta per una politica di integrazione comune a tutti gli Stati membri, dall'altra non si può evitare di notare le numerose differenze di base che contraddistinguono i singoli Stati. Ogni Paese ha esigenze profondamente diverse che mettono in discussione l'effettiva utilità di una direttiva comunitaria. Una legge, del resto, estremamente severa e incentrata ancora una volta su lavoro e reddito.

In Germania, ad esempio, l'ultimo reclutamento sistematico di forze lavoro dall'estero risale al 1973. Eppure, già nel 2000 è stata introdotto un permesso particolare per tecnici specializzati, primo segnale di una crisi di personale qualificato. Alla scadenza del permesso, i tecnici possono rimanere solo se guadagnano più di 66mila Euro all'anno. L'immigrato che guadagna meno, invece, viene messo alla sbarra: il datore di lavoro deve garantirne l'assoluta necessità all'interno dell'azienda e dimostrare che nessun tedesco o comunitario è in grado di prendere il suo posto. Dal 2007, inoltre, i familiari di coloro che possono raggiungere i propri congiunti solo dopo aver superato un test di lingua. Il diritto a rimanere in Germania viene concesso anche a coloro che non vengono espulsi entro sei anni.

In Danimarca, invece, la selezione degli immigrati avviene tramite una valutazione 'a punteggio'. Si tratta di una stima sistematica delle possibilità effettive di un extracomunitario di trovare lavoro: la laurea, ad esempio, vale 50 punti, la giovane età può arrivare a garantire 15 punti, mentre una formazione europea regala al candidato ben 10 punti.  Cento punti, 10mila euro e un'assicurazione sanitaria garantiscono al potenziale lavoratore un permesso di sei mesi, periodo durante il quale il candidato può trovarsi un lavoro. Se questo avviene, l'extracomunitario ottiene un permesso di tre anni e ha la possibilità di trasferire anche la famiglia.

La situazione degli extracomunitari in Italia non è purtroppo delle migliori. Qui gli immigrati sono parte integrante della società ma offrono un contributo che rimane quasi completamente sommerso. Assistenza sociale e paramedica, agricoltura, edilizia e catene di montaggio sono solo alcuni dei settori in cui la manodopera degli extracomunitari è indispensabile, laddove cioè l'italiano medio non vuole più lavorare. La maggior parte degli immigrati, tuttavia, lavora in nero e le possibilità di vedersi concesso un permesso di soggiorno effettivo diminuiscono sempre più.

I permessi, di regola, vengono concessi solo per un anno. Chi ha un contratto a tempo indeterminato si vede rinnovare il permesso per un biennio. Un permesso di soggiorno a tempo indeterminato viene concesso solo a chi vive in Italia da più di sei anni. Il che, vista la campagna anti immigrazione portata avanti dalla Lega e sostenuta più o meno apertamente dal governo tutto, è un traguardo umano e sociale, prima che legale.

L'unica a mostrare una certa apertura nei confronti degli immigrati illegali è forse la Spagna, che conta d'altra parte più un milione di immigrati illegali nel suo territorio. Per il momento, la politica di integrazione spagnola è molto diretta: chi ha lavoro può rimanere, chi è senza lavoro se ne deve andare. Il governo socialista di Zapatero vuole tuttavia introdurre il concetto di “radicamento professionale” e “sociale”. Il radicamento professionale garantisce a chi dimostra due anni di lavoro regolare la possibilità di richiedere “los papeles”, mentre quello sociale riconosce dei diritti di permanenza a coloro che trovano un'occupazione dopo essere stati per almeno tre anni in Spagna, anche illegalmente.

E ora Eurolandia sente il bisogno di una direttiva comune nei confronti degli extracomunitari, forse per ribadire a voce ancora più alta la propria identità. Teoricamente, le basi per un controllo dell'immigrazione a livello comunitario sono già state gettate. Dopo parecchi anni di discussione, nel 2009 gli stati membri hanno trovato l'accordo per la cosiddetta 'Blue Card', un visto comunitario simile alla Green Card americana.

Secondo la proposta della Commissione europea, la Blue Card dà agli extracomunitari il diritto di cercare lavoro per due anni soltanto nel Paese da cui è stata emessa. Per un eventuale prolungamento, il candidato deve ottenere un posto di lavoro che gli garantisca uno stipendio di una volta e mezzo maggiore rispetto a quello medio del Paese. Concretamente, però, i singoli Stati possono alzare a piacere la soglia di stipendio richiesta.

La Commissione, tuttavia, ha già ben chiara la direzione di questa Blue Card. Secondo le prime stime, infatti, saranno i più qualificati a concorrere per il permesso. Ciò significa l'1.7% dei lavoratori del continente africano; in Canada, tanto per fare un confronto, sono il 7.3% a rientrare nel parametro. Un furto legalizzato di forze lavoro specializzate, quindi, a quei Paesi che non appartengono alla comunità europea, nonché una selezione a priori di quale tipologia di extracomunitario potrà entrare in Europa. Nonostante molti Paesi abbiano minacciato il veto, la direttiva entrerà in vigore nei Paesi membri della EU entro marzo 2011. Le premesse non lasciano intravedere la maggiore flessibilità sperata in ambito integrazione. Dopo avergli saccheggiato le risorse, gli rubiamo anche la mano d’opera. L’Europa dei mercanti sa fare i suoi affari.

 

di Fabrizio Casari

Con il 56% dei voti, Dilma Rousseff, candidata del PT e, prima ancora, candidata di Lula alla guida del Paese, è stata eletta Presidente del Brasile. E’ la prima volta, in oltre 120 anni di Repubblica, che il gigante latinoamericano sceglie una donna per la presidenza. Un successo che si annunciava già dai sondaggi che si accavallavano in campagna elettorale; i due mandati del suo predecessore e mentore, Ignacio Lula da Silva, erano stati segnati da un tale successo che il proseguimento del Partito dei Lavoratori al potere era sembrato inevitabile.

Il fatto che lo stesso ex-presidente uscente avesse deciso, in totale autonomia, di candidare l’ex-guerrigliera, ha avuto l’effetto di calamitare il voto anche di chi della Roussef conosceva poco. L’elezione di Dilma, infatti, per molti brasiliani è stata anche un modo di rendere tributo agli anni di presidenza Lula, considerati universalmente come i migliori della storia moderna brasiliana. L’aver dovuto ricorrere al secondo turno, pare semmai essere, al momento, la tassa di successione che l’economista esponente del PT abbia pagato per gestire il patrimonio lasciatole da Lula.

Lo stesso Partito dei Lavoratori risentirà positivamente del successo ottenuto dalla Roussef, giacché è indiscutibile che la sua candidatura, proprio perché priva del carisma autosufficiente del predecessore, ha espresso un voto favorevole anche al partito nel quale ha sempre militato, che non si è risparmiato nella campagna elettorale.

E seppure la popolarità di Lula (l’83% dei brasiliani giudicano “ottima” o “molto buona” la sua presidenza ndr) é stata certamente determinante per il successo della nuova Presidente, Dilma Rousseff non può essere considerata esclusivamente il prodotto di una scelta di continuità. Da guerrigliera a Ministro della Repubblica, questa donna di 62 anni ha dedicato la sua vita al Brasile.

Che la sua popolarità sia passata dai verbali della polizia politica della dittatura militare brasiliana, (che in esecuzione del Plan Condor era impegnata nel perseguire agli oppositori) a quella dei quartieri del ceto medio e delle favelas brasiliane, è merito proprio di un carattere e di una abilità politica di Dilma che non vanno sottovalutate. E se il voto brasiliano si è espresso nel segno della continuità con gli anni della presidenza Lula, scegliendo la continuità, la nuova inquilina del Planalto si troverà a dover gestire una fase politica di grande prospettiva.

Gli anni di presidenza Lula hanno visto ridursi di venti milioni il numero dei poveri, una crescita economica impetuosa, con un Pil che è volato su livelli cinesi ed un ruolo internazionale del Paese che è enormemente cresciuto. Il Brasile che Lula lascia in eredità alla Rousseff ha avuto una prepotente crescita economica e sociale. Sul piano sociale è stata straordinaria la campagna “fame zero”, che ha destinato risorse economiche alla popolazione più emarginata, che solo con la Presidenza Lula si è vista trasformare da problema di ordine pubblico in oggetto di politiche sociali.

L’economia brasiliana è oggi l’ottava al mondo e le politiche keynesiane sviluppatesi nei sette anni appena scorsi (che pure non hanno subìto un aumento dell’inflazione, come i suoi detrattori vaticinano ogni volta che la finanza viene subordinata alla crescita economica generale) hanno permesso la crescita del mercato interno, che ha avuto a che vedere in buona parte con l’accesso al credito di circa 40 milioni di brasiliani, che hanno potuto lasciare il proletariato per divenire classe media.

Il Brasile che lascia Lula, non poi è solo un esempio di buongoverno, ma anche di leadership internazionale. Il Paese, infatti, oltre ad essere impegnato nell’avanzamento della sua crescita economica, è stato parte fondamentale della gestione politica della nuova democrazia latinoamericana. Brasilia, infatti, è stata ed è tuttora alla testa dei processi che, a livello continentale, disegnano il nuovo profilo delle democrazie latinoamericane. Compito che Lula ha svolto con grande abilità; con toni certamente diversi da quelli di Chavez, ma con nettezza non certo minore, la cancelleria brasiliana ha svolto un ruolo decisivo nella riduzione del peso statunitense nel continente.

Il sostegno a Venezuela, Bolivia, Argentina e Cuba, il suo ruolo attivo nella difesa della vita dell’ex-presidente hondureno Zelaya, in sfida ai golpisti honduregni e ai loro sponsor Usa, è stato condotto in simultanea con il progressivo miglioramento dei rapporti bilaterali con i paesi vicini, rendendo il Brasile interlocutore ineliminabile per le controversie regionali e per i piani di crescita economica, tanto a livello continentale che internazionale. Il Brasile ha decisamente modificato il suo status, cessando di essere solo una potenza regionale per divenire un attore globale, il cui peso incide negli equilibri internazionali.

La sua stessa candidatura al seggio permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu è rapidamente diventata una battaglia di quasi tutti i paesi sudamericani, che nel gigante carioca vedono il loro rappresentante destinato a bilanciare per il Sud - almeno parzialmente - lo squilibrio del peso politico del Nord in seno alla comunità internazionale. Mantenere questo livello di prestigio nei diversi fori internazionali - dal G-20 al FMI, all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) - sarà uno dei compiti principali della nuova Presidenza Rousseff.

Nelle sue prime dichiarazioni successive alla vittoria, la Rousseff si é riferita alla “immensa forza che sorge dal popolo” quale arma decisiva per affrontare le sfide maggiori della sua presidenza. La popolazione brasiliana, come i governi democratici latinoamericani, hanno tirato un sospiro di sollievo alla notizia della sua vittoria. L’onda lunga, cominciata negli anni ’90 con la nascita del Foro di Sao Paulo e concretizzatasi poi nella sinistra al governo nella maggior parte dei paesi latinoamericani, é ancora forte. Le pretese di riconquista Usa sul continente, sembrano ancora destinate al magazzino delle nostalgie irripetibili.

di Eugenio Roscini Vitali

Nel luglio scorso, dopo l’annuncio dell’ennesima strage di vittime collaterali, persone innocenti uccise da un razzo che aveva centrato una casa nel distretto di Sangin, nella turbolenta provincia meridionale di Helmand, il presidente afghano, Hamid Karzai, chiedeva alla NATO di introdurre ogni possibile misura per evitare danni ai civili durante le operazioni militari: «Il successo contro il terrorismo non si ottiene lottando nei villaggi afghani, ma colpendo i santuari e le fonti ideologiche e finanziarie che si trovano oltre frontiera».

Il 30 agosto, a poche ore dalla morte di 14 militari americani uccisi in tre diversi attentati e a dopo la pubblicazione dei dati relativi all’incremento delle perdite civili registrate nei combattenti tra i reparti dell’International Security Assistance Force (Isaf) e la guerriglia talebana, Karzai rafforzava la sua posizione affermando: «L’esperienza negli ultimi otto anni dimostra che combattere i talebani nei villaggi afghani è stato inefficace e non porta a nulla tranne che ad uccidere civili. Nell’attuale situazione ripensare e ridefinire la strategia per contrastare gli insorti è diventata un’urgente necessità».

Retorica di un uomo che deve molto del suo successo alle amministrazioni americane che l’hanno sostenuto o coscienza del fatto che questa è una guerra destinata a durare ancora a lungo? Hamid Karzai conosce perfettamente l’importanza geopolitica del suo Paese e sa che la Casa Bianca farebbe di tutto per mantenere il controllo militare dell’Afghanistan, una regione che insieme all’Asia centrale ha ormai assunto una posizione chiave nella moderna filosofia della “strategia del dominio globale”. Una strategia lanciata alla fine del secolo scorso con la Guerra del Golfo e che si è poi sviluppata con l’intervento nei Balcani, in Iraq, nello stesso Afghanistan e con le operazioni segrete nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica: Cecenia, Georgia, Azerbaijan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan.

In realtà, in questi Paesi le attività americane erano cominciate ben prima della guerra contro il terrorismo: negli anni Ottanta era stata la CIA ad organizzare la colossale operazione “Ciclone” e, in collaborazione con l’MI5 britannico e l’intelligence pakistano (ISI - Inter-Services Intelligence), furono i suoi agenti ad addestrare ed armare quegli stessi mujahiddin che, di li a pochi anni, avrebbero costretto l’Armata Rossa alla resa. Un modello talmente efficacie che negli anni Novanta venne esportato anche in Cecenia e che in un prossimo futuro potrebbe essere applicato ad altri Paesi.

Anche se inumano e immorale, fomentare le rivolte tribali e perpetrare atrocità di ogni genere per terrorizzare le popolazioni civili è una strategia che spesso paga e che giustifica le così dette guerre di mantenimento della pace: da un lato si alimenta l’insurrezione armata, dall’altro si spendono milioni di dollari per armare i combattenti dell’anti terrorismo locale. Le “malelingue” pensano che questa particolare strategia, che comprende l’uso della provocazione, dell’inganno e dell’infiltrazione, potrebbe essere stata utilizzata in Iraq per alimentare lo scontro tra sciiti e sunniti, e dal 2003 in Afghanistan, dove avrebbe scatenato la rivolta delle regioni di confine e avrebbe permesso di esportare il conflitto in Pakistan. In numerosi rapporti si parla di gruppi ribelli che avrebbero beneficiavano del sostegno degli Stati Uniti e di forze speciali britanniche e Usa che, nella regione conosciuta come Af-pak, avrebbero segretamente armato i taliban e i militanti jihadisti.

Oltre all’Isaf e alle forze speciali americane, in Afghanistan operano anche i così detti contractors, le compagnie private composte principalmente da ex militari ed ex ufficiali della CIA, mercenari che offrono i loro nefasti servizi a governi, banche e imprese transnazionali. In Iraq i contractors sarebbero stati responsabili del massacro di un ingente numero di civili e il sospetto è che lo stesso tipo di operazioni si starebbe ripetendo anche in Afghanistan ed in Pakistan.

Nonostante tutto, la Xe Services, ex Blackwater, l’esercito mercenario più grande del mondo, rimane il maggiore appaltatore privato dei servizi di sicurezza del Dipartimento di Stato Americano. Per mettere a tacere l’opposizione, il presidente Karzai avrebbe comunque già fatto stilare un piano che prevede lo smantellamento delle circa cinquanta società di sicurezza che operano nel Paese ed entro la fine dell’anno dovrebbero essere interrotti i contratti con la Four Horsemen International, la Compuss, la Ncl Holdings, la White Eagle Security Service, la Abdul Khaliq Achkzai e la stessa Xe Service.

Sin dall’inizio dell’Operazione Enduring Freedom le truppe dell’alleanza hanno avuto bisogno di una rete di rifornimenti, rotte sulle quali potessero viaggiare i camion carichi di carburante e materiale civile, bellico e logistico.  Fino ad oggi la via preferita era quella che dal porto di Karaci raggiunge, attraverso il passo Khyber e il valico di frontiera di Chaman, le basi militari di Bagram e Kandahar, ma ora che gli attacchi dei talebani e dei gruppi qaedisti hanno reso la rotta insicura il Pentagono ha iniziato a prendere in seria considerazione la possibilità di usare in modo permanente i canali di rifornimento che attraversano la regione centroasiatica.

Si tratta della cosiddetta “Rete di distribuzione nord”: la rotta che parte dal porto lettone di Riga e, attraverso la Russia, il Kazakistan e l’Uzbekistan, raggiunge il valico afghano di Termez-Hairatan; la rotta che collega il porto georgiano di Poti, sul Mar Nero, a quello azero di Baku, sul Mar Caspio, e continua poi fino al porto kazaco di Aqtau per poi rientare in Uzbekistan e la rotta, non ancora operativa, che attraversa il Kirghizistan e il Tagikistan.

Attualmente la Rete di distribuzione nord è certamente più sicura di quella pakistana, ma i Paesi che attraversa sono aree storicamente legate ai movimenti jihadisti ed quindi ovvio che, anche qui, la minaccia del terrorismo è qualche cosa di più di una semplice supposizione. C’è poi il problema russo, con Mosca che da tempo chiede agli Stati Uniti di lasciare la presa sull’Asia centrale e per questo ha già rilanciato la Collective Security Treaty Organization (CSTO), l’alleanza che oltre a Russia e Bielorussia comprende altri cinque Paesi dell’ex blocco sovietico: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Armenia. Per potersi assicurare il controllo della regione attraversata dalla Rete di distribuzione nord, Washington deve quindi fare i conti con il Cremlino e con la possibilità che l’area del conflitto afghano, si estenda anche a tutto l’Asia Centrale.

Secondo i servizi segreti americani le tribù afghane, tagike e uzbeke farebbero passare la droga attraverso le montagne che portano in Russia, passi difficilmente transitabili dove si viaggia solo a dorso di mulo; ma c’è anche chi sostiene che l’oppio potrebbe essere trasportato con mezzi più moderni e più rapidi. La difficoltà di portare a termine e con successo la distruzione dei campi di papavero e dei centri di lavorazione dell’oppio e dell’eroina lascia infatti supporre che in Afghanistan si potrebbe ripetere un film già visti: il trasporto su larga scala di eroina organizzato dalla CIA in Vietnam negli anni Sessanta.

Uno dei primi a parlarne è stato Hamid Gul, ex capo dei servizi segreti pakistani dal 1987 al 1989, che recentemente ha definito lo scandalo Wikileaks una denuncia orchestrata dagli stessi Stati Uniti per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica da faccende ben più compromettenti: «Conosco le vostre malefatte in Afghanistan e le lacune nella vostra leadership, il vostro coinvolgimento nel traffico di stupefacenti e come il vostro complesso della sicurezza stampi denaro e truffi i vostri stessi contribuenti». Accuse che il Pentagono ha rimandato al mittente ma che tra qualche anno potrebbero aprire la breccia per un nuovo caso Iran-Contras.

Negli anni Novanta, come si ricorderà, la stampa statunitense pubblicò una serie di rivelazioni esclusive spiegando come tra il 1981 e il 1986 i Contras avevano inondato di crack e cocaina i ghetti americani. Una serie di processi federali e di documenti dell’FBI mostravano l’aspetto più importante del traffico di stupefacenti, concepito, nonostante il divieto dell’ “Emendamenti Boland”, per continuare le operazioni in Nicaragua a sostegno dei Contras; il tutto trasferendo le attività della CIA e degli altri enti federali nelle mani di organizzazioni mercenarie dirette da organismi creati all’interno della stessa Casa Bianca.

La droga non è quindi una novità nelle guerre statunitensi e in Afghanistan l’oppio non è certo una merce rara: dal 2001 la produzione di droga è aumentata di 40 volte e il giro d'affari è ormai superiore al Pil di Paesi come la Slovenia e la Polonia; gli afghani sono i primi produttori al mondo di oppio e di hashish e il primi fornitori dei Paesi dell’Unione Europea e della Russia.

 

 


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