di Carlo Musilli

Non è un tentativo di democrazia, non sono nemmeno prove generali. Al contrario, quello che sta accadendo in Birmania è lo stupro più vergognoso che della democrazia si possa fare. Trenta milioni di persone sono chiamate al voto per la prima volta dopo vent'anni, ma bisogna essere diplomatici in malafede per non vedere che queste elezioni sono tutto tranne che un primo passo verso la libertà. Il diritto non solo è negato, ma anche contraffatto e schernito.

L'obiettivo del regime militare che governa la Birmania è quello di garantirsi una parvenza di legittimazione. Dopo il genocidio, i massacri e le deportazioni di massa, gli uomini della giunta cercano di costruirsi un volto più civile, o semplicemente meno inaccettabile a livello internazionale. Le sanzioni economiche imposte dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti per le violazioni dei diritti umani, infatti, negano al Paese ogni possibilità di uscire dalla miseria cronica. E l'orizzonte è sempre più nero.

Con gli stati confinanti non esiste commercio, anzi, più volte si è sfiorata la guerra con Thailandia e Bangladesh. Anche Cina e Singapore, che a lungo hanno rifornito di armi il regime, da qualche anno non garantiscono più il loro appoggio. Non vedono di buon occhio le connessioni che si sono create fra i cartelli criminali della Birmania (secondo produttore di oppio al mondo, dopo l'Afghanistan) e la mafia cinese.

Ecco spiegato il teatrino delle elezioni, messo in piedi dagli uomini del regime in modo da escludere ogni incertezza elettorale. È scientificamente impossibile ogni risultato diverso dal plebiscito a loro favore, anche perché devono evitare di ripetere la brutta figura del 1990. All'epoca, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), il principale partito d'opposizione, guidato dall'eroica Aung San Suu Kyi, ottenne l'80% dei voti. Ai militari non rimase che sciogliere il Parlamento con la forza. I dissidenti finirono in carcere, fuggirono o morirono.

Oggi è un'altra storia. Si vota per eleggere le due camere del Parlamento e 14 consigli regionali, in 1.162 collegi. Sennonché, stando alla Costituzione varata nel 2008, il 25% dei seggi deve essere obbligatoriamente assegnato ai militari. Due terzi dei candidati totali, inoltre, provengono dal Partito della Solidarietà e dello Sviluppo dell'Unione (Usdp, il partito dei militari) o dal Partito d'Unità Nazionale (Nup). Quest'ultimo rappresenta i vecchi soldati vagamente socialisti che tennero in mano la dittatura fra il 1962 e il 1988.  Al di là di qualche disaccordo in materia economica, sono di fatto sostenitori del regime.

L'opposizione, invece, è semplicemente a brandelli. L'Nld è scomparso: seguendo l'esempio di Suu Kyi, che si è rifiutata di votare, il partito ha deciso di non presentarsi nemmeno alle elezioni, andando incontro allo scioglimento forzato. Alcuni dissidenti dell'Nld hanno creato un nuovo partito, la Forza Democratica Nazionale (Ndf). Si tratta del più grande fra i movimenti di opposizione, ma riesce a correre solamente per il 10% dei collegi. Nel complesso, le opposizioni non sono in grado di presentare più di 500 candidati a fronte dei famosi 1.162 seggi in palio. Risultato: in molti collegi quello del regime sarà l'unico candidato.

Com'è possibile? Semplice, ogni candidatura costa la bellezza di 500 dollari, che in Birmania equivale a uno stipendio medio moltiplicato per sette. I candidati pro regime godono di risorse inimmaginabili per gli altri: in cambio di voti offrono prestiti a tasso zero, case popolari, riso. Poi, naturalmente, le minacce: se ti viene in mente di non andare a votare, o di votare dalla parte sbagliata, sai di correre un pericolo.

Non è finita. All'opposizione, in tempo di campagna elettorale, non era permesso scendere in piazza, né cantare slogan. Com'è ovvio, la stampa è sempre stata censurata col massimo della severità. E quando finalmente è arrivato il giorno di andare alle urne, sono stati banditi dal paese giornalisti e osservatori internazionali.

Nel frattempo, le carceri sono stracolme di prigionieri politici, almeno duemila. Fra loro c'è anche Suu Kyi (o "La Signora", come la chiamano i birmani, a cui il regime proibisce di pronunciarne il nome). Fu arrestata la prima volta nel 1990, dopo aver stravinto le elezioni. Un anno dopo, mentre si trovava ai domiciliari, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Rilasciata nel '95, è stata imprigionata nuovamente nel 2000 e nel 2002.

Un appello per la liberazione di Suu Kyi e di tutti i prigionieri politici birmani è arrivato da Barack Obama, in questi giorni in visita in India. A Mumbai, di fronte ad una platea di studenti, il presidente americano ha sottolineato anche che "da troppo tempo il popolo birmano si vede negare il diritto di decidere del proprio destino" e che le elezioni di oggi "saranno tutto fuorché libere e giuste". In sostanza, il teatrino delle elezioni birmane sembra ribadire un concetto piuttosto banale, forse un po' retorico, ma indiscutibile. Peggiore di chi ti leva la libertà è soltanto chi finge di restituirtela.

 

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy