di Michele Paris

È iniziato finalmente questo fine settimana il tanto ritardato viaggio di Barack Obama in Asia. Reduce dalla pesantissima sconfitta nelle elezioni di medio termine, il presidente americano trascorrerà una decina di giorni tra India, Corea del Sud, Giappone e Indonesia, il paese che lo ha ospitato per parte della sua infanzia. Proprio a Jakarta, con i leader del più grande paese musulmano del pianeta, Obama cercherà di venire a capo delle molte questioni tuttora irrisolte nelle relazioni bilaterali e di dare così un impulso alla sua moribonda presidenza con un difficile rilancio in politica estera.

Ad influire sui colloqui con l’Indonesia ci saranno da un lato la necessità statunitensi di stabilire rapporti più saldi con uno dei paesi più stabili e strategicamente importanti del sud-est asiatico e, dall’altro, l’aspirazione indonesiana di aprire il mercato domestico agli investimenti internazionali. Nel paese che ospita il più vasto numero di fedeli musulmani, Obama visiterà significativamente la più grande moschea indonesiana e terrà un discorso pubblico simile a quello così carico di aspettative che aveva segnato la sua apparizione al Cairo nel giugno dello scorso anno.

Le speranze dell’amministrazione Obama di ricostruire un qualche dialogo con il mondo musulmano, tuttavia, risultano oggi decisamente più esili rispetto ai primi mesi del suo mandato. La politica estera di Washington, infatti, dopo un avvio promettente ha finito sostanzialmente per appiattirsi su quella promossa da George W. Bush. Il carattere generalmente moderato dell’Islam in Indonesia e la sua collocazione periferica risultano poi ben poco rappresentativi delle altre realtà del mondo arabo e musulmano in genere, dove il conflitto con l’Occidente continua ad essere fin troppo acceso. A ciò va poi aggiunto il rapporto speciale del presidente americano con questo paese, dove sul finire degli anni Sessanta trascorse quattro anni con la madre, che aveva sposato in seconde nozze proprio un cittadino indonesiano.

La trasferta di Barack Obama in Indonesia era già stata rimandata in un paio di occasioni nel corso del 2010, la prima delle quali quando il marzo scorso venne approvata definitivamente dal Congresso americano la riforma del sistema sanitario. Nel corso di questi mesi, ad almeno una delle questioni più controverse nei rapporti tra i due paesi è stata data una spinta importante, vale a dire il ristabilimento dei programmi di addestramento e finanziamento da parte americana delle forze speciali indonesiane (Kopassus) che erano fermi fin dal 1997.

Coinvolto in numerose violazioni dei diritti umani, tra cui a Papua, Aceh e Timor Est negli anni Novanta, il Kopassus era visto da molti con grande diffidenza a Washington. Il sostegno alla riapertura dei canali di collaborazione con i reparti scelti indonesiani già assicurato dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva tuttavia aperto la strada alla visita del numero uno del Pentagono, Robert Gates, inviato a Jakarta la scorsa estate quando è stato suggellato il definitivo sdoganamento del Kopassus.

La collaborazione con i reparti scelti indonesiani appare d’altra parte una mossa strategica fondamentale per la partnership che gli USA desiderano costruire nell’ambito della lotta al terrorismo in quest’area del continente. A pensarla in questo modo non sono però tutti gli indonesiani. I ricordi dei crimini commessi dal Kopassus sono ancora molto vivi e le proteste pubbliche che si attendono in questi giorni minacciano di disturbare la calda accoglienza che l’Indonesia ha preparato per Obama.

I passi avanti nell’ambito della lotta al terrorismo da parte di Jakarta negli ultimi anni - come lo smantellamento della cellula integralista legata ad Al-Qaeda, Jemaah Islamiyah (JI) -sono inoltre apparsi sufficienti agli Stati Uniti, da dove già nel 2005 si era proceduto alla cancellazione delle sanzioni nei confronti dell’esercito indonesiano, anch’esso implicato in svariati abusi nei passati decenni. Subito dopo gli attacchi di Bali nel 2002, gli Stati Uniti avevano infatti aggiunto l’Indonesia e tutta l’Asia sud-orientale al fronte planetario della guerra al terrore. La presunta leggerezza di Jakarta nei confronti della minaccia terroristica interna aveva spinto l’amministrazione Bush a diffidare del governo indonesiano, suscitando un’ondata di anti-americanismo nel paese.

Se il fronte caldo del terrorismo per un Obama ben deciso a proseguire sulla strada del suo predecessore può rappresentare un terreno di intesa comune, non va però sottovalutata l’importanza strategica dell’Indonesia per Washington. Con un clima democratico relativamente prospero a partire dalla prima elezione del presidente Susilo Bambang Yudhoyono nel 2004, al contrario del deterioramento della situazione interna dei tradizionali alleati in quest’area (Thailandia e Filippine), Jakarta rappresenta un partner ideale. All’Indonesia la Casa Bianca intende perciò guardare con interesse per mantenere l’impegno di stabilire contatti diplomatici più intensi con il gruppo dei paesi appartenenti all’Associazione del Sud-est Asiatico (ASEAN).

Gli sforzi per un riavvicinamento al quarto paese più popoloso del pianeta, d’altra parte, rispondono per gli USA alla necessità, già manifestata in altre aree del globo, di controbilanciare l’espansionismo cinese. Tanto più che l’Indonesia possiede un corridoio strategico di enorme importanza come lo Stretto di Malacca, da dove transita qualcosa come l’80% delle importazioni di greggio di Pechino. Proprio sul controllo di queste acque così intensamente trafficate - e sulle quali si affacciano anche Singapore e Malaysia - Cina e Stati Uniti competono da tempo per estendere la propria influenza, principalmente cercando di garantire assistenza militare ai governi locali impegnati nelle operazioni di sicurezza.

La cooperazione tra Stati Uniti e Indonesia dovrebbe estendersi anche all’educazione, allo sviluppo di nuove infrastrutture e alla lotta al cambiamento climatico ma, soprattutto, dovrà fare i conti con un persistente senso di diffidenza verso Washington. Oltre ai sospetti nei confronti della lotta al terrorismo della precedente amministrazione, sono persistenti le ostilità dovute al ruolo degli investitori americani nella crisi finanziaria del 1997-98 che portò l’Indonesia sull’orlo del baratro. Ancora più datato ma tuttora presente è poi il senso di sfiducia nutrito per i progetti di esportazione della democrazia “made in USA”, un’agenda che riporta alla mente le azioni coperte della CIA in territorio indonesiano negli anni Sessanta in funzione anti-comunista.

Fin dalla caduta del dittatore Suharto nel 1998, d’altro canto, l’Indonesia da parte sua ha provato occasionalmente a costruire un rapporto più stretto con gli Stati Uniti, sia pure con scarsi risultati, anche a causa dei tradizionali impulsi nazionalistici che ne hanno caratterizzato la politica estera. Una tendenza che si è concretizzata in una spiccata attitudine protezionistica e, conseguentemente, nella mancata apertura del paese ai capitali americani ed esteri in genere. Proprio l’adozione delle consuete riforme in senso ultraliberista, dettate troppo spesso dagli organismi internazionali, rappresentano la ricetta che oggi Washington suggerisce a Jakarta per spianare la strada agli investimenti e rendere il paese competitivo rispetto a Cina, India e persino Vietnam.

Un’evoluzione che le élites politiche ed economiche indonesiane hanno già iniziato ad abbracciare, come dimostra il trattato di libero scambio firmato con la Cina nell’ambito dell’ASEAN ed entrato in vigore dal primo gennaio di quest’anno. Un accordo che stimola non poco gli appetiti di Pechino per le cospicue risorse energetiche indonesiane e che, inevitabilmente, allarga anche a quest’area nevralgica del continente asiatico la crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti d’America di cui Obama dovrà tenere conto nella sua visita a Jakarta.

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