di Mariavittoria Orsolato

La rivista statunitense Forbes, famosa per stilare le più disparate classifiche sui più del mondo, anche quest'anno non rinuncia a elencare quelli che sarebbero i 68 uomini più potenti al mondo. La notizia è sicuramente quella che vede non un americano, come consuetudine, bensì un cinese al primo posto. Stiamo parlando del presidente Hu Jintao che, dopo anni passati ad indossare la medaglia d'argento, spodesta un Obama già fiaccato dalle elezioni di mid-term e sempre meno popolare.

Che la Cina fosse più vicina di quanto pensassimo è un dato di fatto, ma vedere che la persona più influente del mondo ha gli occhi a mandorla è senz'altro significativo nella misura in cui sottolinea il primato, ora anche politico, della potenza dalla Grande Muraglia. Sono finiti i tempi in cui lo zio Sam la faceva da padrone: l'impopolarità delle guerre sul fronte mediorientale unite alla disastrosa crisi economica che, partita dagli States, ha infettato tutto il mondo civilizzato, ha spinto anche i più accaniti fautori delle stelle e strisce a riconsiderare il peso specifico della Cina e ad ammettere (finalmente) che il born in the USA tira ormai molto meno del made in China.

L'analisi della rivista economica, recentemente rilevata per il 40% dal leader degli U2 Bono Vox, si fonda infatti su quattro criteri di valutazione che quantificano il valore aggiunto di ogni protagonista della scena mondiale: bacino di persone su cui esercita influenza, ricchezza personale, forza in un determinato ambito e capacità di esercitarla sugli altri. Come leader indiscusso della Repubblica Popolare Cinese, Hu Jintao governa su 1,3 miliardi di persone - su per giù un quinto della popolazione mondiale - ed è a comando dell'esercito più imponente del mondo. Dalla sua, dice Forbes, molte condizioni irripetibili: “A differenza dei colleghi occidentali, può deviare i fiumi, costruire città, mettere in carcere i dissidenti e censurare Internet, senza ingerenze da parte di fastidiosi burocrati e tribunali“. Difficile, partendo da queste premesse, che altri possano superarlo in futuro.

Troviamo così che oltre al democratico Obama, Hu Jintao supera di misura anche il più ricco tra gli emiri arabi, il re dell'Arabia Saudita Abdullah bin Abdul Aziz al Saud. Un podio multiculturale quindi, che tiene bene a mente gli assetti planetari del XXI° secolo, sbilanciati sempre più a oriente. In questa particolare classifica di superman il quarto posto è riservato allo "zar" russo Putin, mentre il quinto gradino è riservato a papa Ratzinger, potente sulla carta ma evidentemente imbelle di fronte alla degenerazione dei suoi sottoposti, coinvolti a diverse latitudini in storiacce di pedofilia e vessazione.

Solo quattordicesimo il nostro Premier Berlusconi: che il giudizio di Forbes sia più che lusinghiero lo dimostra il fatto che nella nota biografica si dica placidamente che in Italia "è ancora lui l'istrione", che però sulla Fifth Avenue le notizie arrivino dopo lo dicono le recenti cronache nostrane, sempre più impegnate nel rendere conto della ricattabilità di Berlusconi, ostaggio vero e proprio di escort conclamate ed aspiranti starlette disposte a tutto pur di avere addosso i riflettori dei media.

In settima posizione troviamo il nuovo primo ministro britannico David Cameron, davanti al presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, alla presidente del Congresso indiano, Sonia Gandhi, e al presidente di Microsoft, Bill Gates che chiude la top ten. Al tredicesimo posto c'è il magnate australiano dell'informazione Rupert Murdoch - che anche nella classifica di Forbes si attesta un gradino più in alto rispetto alla nemesi italiana Berlusconi - e al quindicesimo il presidente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet.

Il presidente francese, Nicholas Sarkozy, è invece soltanto 19° posto, superato anche dal presidente indiano Manmohan Singh, ma tiene dietro il Segretario di Stato americano Hillary Clinton.

Scorrendo il lungo elenco di Forbes si incappa poi in quello che molti potrebbero considerare un miracolo: al cinquantasettesimo posto spicca infatti il nome di Osama Bin Laden, fondatore di Al Quaeda e organizzatore degli attentati dell'11 settembre. Il barbuto rampollo sunnita è stato dato per morto almeno cinque volte da quando, nell'autunno del 2001, cominciò a infuriare la guerra in Afghanistan. Si parlava del suo cadavere tra le rovine di Tora Bora già nel 2003 e poi, nel settembre 2006, alcuni giornali francesi hanno diffuso la notizia della sua morte per febbre tifoidale, fino a che la compianta leader pakistana Benazir Bhutto ammise la sua uccisione nel 2007 ad opera di uno 007 locale.

Insomma, morto o vivo, il ricercato numero uno della CIA continua a far parlare di sé e ad influenzare la vita politica mediorientale, al punto che sono ancora evidentemente molti i giovani disposti a sacrificarsi letteralmente per la causa coranica ed anti-israeliana.

Altra soppressa è trovare come fanalino di coda il fondatore del sito Wikileaks, il giornalista australiano Julian Assange. Temuti da ogni governo o multinazionale che abbia più di uno scheletro nell'armadio, Assange e i suoi redattori hanno l'incommensurabile merito di spiattellare sul web tutti quei documenti classificati cui i comuni mortali non potrebbero mai avere accesso. Con il coltello perennemente dalla parte del manico, Wikileaks rappresenta ad oggi l'exemplum gratiae di quello che dovrebbe essere il giornalismo ed è normale e naturale che il suo giudizio sia temuto dai colletti bianchi e dai gabinetti di Stato di mezzo mondo.

La speranza è ovviamente quella che l'anno prossimo Assange e i suoi hacker acquistino ancora maggiore influenza, perché, come dice la nota informativa di Forbes "l'informazione vorrà anche essere libera, ma spesso ha bisogno di una mano".

 

 

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