di mazzetta

La situazione internazionale della Corea del Nord non è rosea, ma se possibile quella interna è ancora peggiore. Lo stato d'allerta generale nel paese, scattato a seguito dell'affondamento ancora abbastanza misterioso di una nave sud-coreana, è decisamente funzionale alla gestione di una situazione interna nuovamente ai minimi. E in Corea del Nord i minimi sono storicamente molto bassi. Il Caro Leader figlio del precedente Caro Leader ha un'idea stereotipata della gestione del potere ereditata dall'augusto genitore. Presunta per legge la sua infallibilità, è per forza colpa di altri quando le cose vanno male e quando vanno malissimo le colpe chiamano punizioni esemplari.

Kim Jong-il ha mano ferma e fin dalla presa del potere alla morte del padre ha dato segno di saper gestire con sicurezza l'arte della purga, se i nordcoreani avevano sperato in cambiamenti alla morte del dittatore, capirono subito di essere caduti dalla padella nella brace. L'esordio subito in salita: durante la grande fame del 95-98 Kim si liberò del segretario all'agricoltura, e di oltre duemila dirigenti del partito, uccisi insieme alle loro famiglie com'è uso locale, tutti accusati di essere stati spie degli americani negli anni '50, poi fece uccidere anche gli incaricati della purga perché avevano “ indebolito la fiducia del popolo nel partito operando per interesse egoistico e sete di potere”.

L'esercizio ricorrente di iniziative del genere genera paura, ma soprattutto impedisce la formazione di una classe dirigente di gruppi di potere o narrazioni alternative alla dittatura, che già di suo entra pesantemente nell'intimità dei cittadini, tutti considerati sacrificabili per l bene della nazione che coincide con quello del leader.

Così, a questo giro è toccata al direttore del dipartimento delle finanze e della pianificazione Pak Nam-gi e al suo assistente, che sono stati legati a un palo e fucilati di fronte a una folla di persone che dovevano essere educate da quelle esecuzioni. Il fatto che i due fossero semi-incoscienti per le torture ha aggiunto ulteriore realismo alla minaccia, ritrovarsi tra i “traditori del popolo” è una disgrazia e le centinaia di funzionari licenziati nell'occasione avranno i sudori freddi. Servono colpevoli per la fallimentare operazione di svalutazione dello Won coreano, che ha azzerato i risparmi dei pochi coreani che ne hanno e che, insieme alla scarsità di cibo, ha proiettato i prezzi dei pochi bene disponibili verso l'alto.

La crisi in Corea significa estese mancanze di cibo, il clima e l'impossibilità di acquistare fertilizzanti hanno abbattuto i raccolti e il paese corre alle armi con la pancia vuota, coerentemente con la mobilitazione molti coreani mangiano razioni militari, mentre le élite del partito sono impegnate a sopravvivere alle epurazioni più o meno casuali che ogni tanto si abbattono sulla burocrazia che regge ogni filo della vita del paese. Ogni ondeggiamento nel partito viene vissuto dalla leadership tipicamente paranoica come una minaccia e chiaramente Kim Jong-il non è tipo da esitare, anche perché ha un unico obbiettivo noto e riconoscibile in mezzo ad un'azione di governo che si è segnalata solo per l'incompetenza e la ferocia.

Kim Jong-Eun, è il terzo Kim che si affaccia nella storia nordcoreana, è figlio e nipote di Kim e sembra proprio che il babbo abbia intenzione di curare personalmente la successione liberando da ogni ostacolo l'ascesa del figliolo. Un pensiero gentile sollecitato dall'esperienza: mentre suo padre era ancora al potere toccò a lui stesso fare una strage di ufficiali educati in Unione Sovietica che criticavano il sistema e potevano costituire una minaccia al suo avvento al potere. Kim Jong-il è stato spesso dipinto come un cialtrone dalle scarse capacità, ma nessuno può negare che sia capace di quelle sanguinose purghe che servono ad alimentare e difendere il regime dittatoriale.

Se in Corea del Nord c'è da attendersi un bagno di sangue a breve, non è scontato che il regime riesca a mantenere la presa sul paese. Piegati da una dittatura che dura dagli anni '50 e probabilmente timorosi dell'avanzare di Kim III e degli ultimi fuochi di suo padre, i nordcoreani sanno oggi meglio di ieri cosa c'è oltre la frontiera e potrebbero cogliere l'occasione per dire no alla maledizione dei Kim. Il clima di mobilitazione generale potrebbe alla lunga rivelarsi ingestibile e aprire la strada ad un'implosione del partito: un esito comunque impossibile fino a che l'autorità assoluta dei Kim non sarà contestata visibilmente e con successo dall'interno.

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Una manifestazione oceanica: centomila ebrei ultraortodossi in piazza per rivendicare orgogliosamente il loro diritto di praticare la segregazione razziale. Un colpo d'occhio impressionante nel centro di Gerusalemme, come in una scena tratta da Matrix, dove gli agenti portano cappelli neri a tese larghe invece di occhiali a specchio.

Altrenotizie si è occupato in passato di questa incredibile storia di razzismo e discriminazione, che nasce nella colonia illegale di Immanuel, nel nord della West Bank. Nel piccolo villaggio di tremila abitanti, quasi tutti Haredim (ebrei ultraortodossi), c'è una scuola privata femminile dove si insegna sotto stretta osservanza religiosa.

In questa scuola elementare sono ammesse soltanto bambine ultraortodosse e, fin qui, niente di strano. Ora, all'interno della comunità ultraortodossa ci s’identifica in base al paese di provenienza dei propri antenati: gli Ashkenazi sono immigrati in Israele dall'Europa orientale, mentre i Sephardi provengono dai Paesi Arabi e dal Nord Africa.

La scuola di Immanuel è off limits per le figlie di genitori sefarditi. I genitori ashkenazi difendono con orgoglio la loro scelta, notando che “è come mettere americani e africani insieme: non possono studiare nella stessa classe per via della loro differenza mentale.” Una delle madri ribadisce i concetti in un'intervista rilasciata al quotidiano Haaretz: “Solo bambini puri possono andare alla nostra scuola. Le bambine sefardite hanno la televisione a casa mentre noi ashkenazi parliamo solo Yiddish. Le bambine sefardite hanno una pessima influenza sulle nostre figlie.”

Un padre sefardita, la cui figlia è stata segregata, pretende che “il Ministero dell'Istruzione intervenga per fermare la segregazione una volta per tutte. Gli ashkenazi pensano di essere più intelligenti di noi, ma in realtà quello che non sopportano è il colore della nostra pelle”. I genitori discriminati hanno fatto ricorso alla Corte Suprema, che ha obbligato la scuola (che riceve ingenti contributi statali) ad accettare le bambine sefardite. In segno di protesta, i rabbini ashkenaziti hanno ordinato ai genitori di ritirare tutte le loro figlie (ovvero la quasi totalità delle alunne) dalla scuola a fine dicembre dello scorso anno, in pratica boicottando l'intera scuola e bloccandone le attività.

La Corte Suprema ha dunque ordinato ai genitori ashkenazi di riportare le figlie a scuola oppure di finire in prigione per due settimane. Come in Italia, è illegale tenere i figli a casa per mesi interi. Secondo l'avvocato dei genitori, “in una disputa religiosa la decisione del rabbino invalida quella della Corte, perché la Torah è più potente di qualsiasi autorità.” Dopo l'ennesimo rifiuto della comunità ashkenazita di riportare i figli a scuola e mettere fine alla segregazione, la Corte ha condannato i genitori ashkenaziti a due settimane di prigione.

Giovedì mattina, ventidue madri e quattro padri si sono dati alla macchia mentre circa trentacinque padri sono saliti sul bus che li portava a Gerusalemme, dove si sarebbero consegnati alla polizia. Al loro arrivo a Gerusalemme, i genitori in stato d'arresto sono stati accolti da una folla oceanica di ebrei ultraortodossi ashkenazi, che al grido di “dio è il nostro signore”, li hanno accompagnati fino alla stazione di polizia. Prima di costituirsi, alcuni tra i genitori sono saliti sul palco della manifestazione per arringare la folla. “Vado in prigione a testa alta”, ha gridato un padre, “Faremo quello che ci ordinano i rabbini, e loro si occuperanno di educare i nostri figli.”

Una contemporanea manifestazione imponente si è verificata a Bnei Brak, il sobborgo ultraortodosso a Est di Tel Aviv. Entrambe le dimostrazioni sono state pacifiche, a differenza dei violenti scontri dei giorni scorsi, in cui centinaia di giovani ultraortodossi si sono scontrati con la polizia a Giaffa e in altre zone del Paese. Secondo i rabbini leader della protesta ashkenazita, “niente del genere era mai successo dalla seconda guerra mondiale, vedere ebrei ultraortodossi arrestati e finire in prigione.”

La comunità ortodossa in realtà è spaccata in due. Il partito ultraortodosso sefardita dello Shas, che è membro del governo Netanyahu, si trova tra l'incudine e il martello, con conseguenze a tratti demenziali se non fossero così tragiche. Il rabbino Ya'acov Yosef, figlio del famoso rabbino e leader dello Shas Ovadia Yosef, è il promotore del ricorso dei genitori sefarditi alla Corte Suprema, che ha dato inizio a tutta la faccenda. Allo stesso tempo, lo Shas è un partito religioso e non può andare contro la legge degli Haredim, che prevale sempre sulla legge dello Stato. Come compromesso, giovedì Ovadia Yosef ha dichiarato di essere contrario a ogni discriminazione, ma allo stesso tempo criticando la decisione della Corte Suprema, perché contraria alla Torah (anche se in difesa della sua comunità etnica).

La manifestazione di oggi porta con sé drammatiche conseguenze per lo Stato ebraico. La comunità ultraortodossa, i cui uomini per lo più non lavorano ma vivono dei sussidi statali, ha assunto una posizione eversiva e si è apertamente schierata contro lo Stato e le sue istituzioni. Allo stesso tempo, le scuole religiose, dove i rabbini incitano alla disobbedienza e a volte al sabotaggio, non potrebbero sopravvivere senza i massicci finanziamenti del governo.

Non passa settimana ormai senza che i giovani estremisti ultraortodossi si scontrino con la polizia, per protestare contro l'apertura di parcheggi durante lo Shabbat o la costruzione di edifici su presunti siti religiosi. Secondo Yossi Sarid, editorialista di Haaretz, lo Stato ha coltivato e coccolato una serpe nel suo seno e manca poco ormai alla guerra aperta tra ebrei laici e religiosi, ormai latente da troppo tempo. Sperando che le frange più estremiste degli Haredim, ovveri i coloni armati negli insediamenti in West Bank, non decidano di prendere alla lettera le incitazioni dei rabbini e le loro maledizioni contro alcuni membri della Knesset.

di Eugenio Roscini Vitali

A poco più di una settimana dall’attacco israeliano alla Mavi Marmara, Mahmud Ahmadinejad è tornato al centro della scena internazionale e lo ha fatto con la solita veemenza, forte del sostegno del premier turco Recep Tayyip Erdogan e attento a cogliere le opportunità offerte da un fronte anti-iraniano sempre più incerto e frammentato. Dopo mesi di negoziati, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha prodotto la Risoluzione 1929, un documento partorito il 9 giugno 2010 che ufficialmente impone nuove restrizioni commerciali alla Repubblica Islamica, ma che in realtà altro non è che il risultato del compromesso raggiunto con la Russia e la Cina e dell’opposizione espressa da Turchia e Brasile.

Tutti membri non-permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ma Paesi di grande influenza regionale che, il 17 maggio scorso, hanno firmato con l’Iran un accordo di collaborazione sullo scambio di combustibile nucleare, che prevede l’invio in Turchia di 1.200 chilogrammi di uranio arricchito al 3% in cambio di 120 chilogrammi di barre arricchite al 20%, materiale che Teheran utilizzerebbe per la produzione di radioisotopi per la cura del cancro.

La risposta iraniana alla Risoluzione 1929 è stata immediata e il 12 giugno, ad un anno esatto dalla sua contestata rielezione, Mahmud Ahmadinejad ha annunciato che la Repubblica Islamica continuerà a sviluppare il suo progetto atomico e riprenderà autonomamente le fasi di lavorazione dell'uranio fino a raggiungere i parametri previsti in precedenza, vale a dire lo stesso livello di arricchimento concordato con Ankara. In una conferenza stampa rilasciata a Shanghai durante una visita all’Expo 2010, il presidente ha dichiarato: «Noi abbiamo cercato di evitare altre sanzioni, ma considerando l’andamento della questione, annunciamo che, per produrre il combustibile di cui ha bisogno, l’Iran procederà con l’arricchimento dell’uranio fino 20%; l’approvazione di sanzioni contro Teheran si trasformerà presto in una mossa fatale, sia per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu che per lo stesso presidente Barack Obama».

Il giorno successivo, ai microfoni della televisione Al’an, emittente degli Emirati Arabi, Ahmadinejad ha rincarato la dose ed ha lanciato un messaggio all’Europa. L’ex sindaco di Teheran ha invitando il vecchio continente ad assumere nei confronti dell’Iran una politica più indipendente ed ha affermato che gli Stati Uniti sono ormai una potenza in declino, una potenza costretta a mendicare il consenso dei membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per far approvare un pacchetto di restrizioni senza valore.

Nella continua evoluzione delle dinamiche regionali le sanzioni decise dal Consigli di Sicurezza dell’Onu sono solo uno dei numerosi aspetti che potrebbero influire sulla sua situazione politica ed economica dell’Iran, forse quello che a breve termine avrà un impatto minore. Il presidente iraniano potrebbe utilizzare le restrizioni commerciali imposte dalla comunità internazionale per rafforzare piuttosto la sua posizione interna, limitando il controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAAE) sui siti nucleari ed infiammare la piazza per soffocare ogni possibile forma di opposizione.

Secondo quanto diramato dall’agenzia di stampa IRIB, la risposta sarebbe già pronta: domenica 13 giugno il  presidente della Commissione Sicurezza Nazionale e Politica Estera del Parlamento, Alaeddin Boroujerdi, ha dichiarato che il Majlis è pronto a discutere il disegno di legge con il quale vengono rivalutati i rapporti tra l’Iran e l’IAAE. Teheran sarebbe pronta a sospendere alcune collaborazioni volontarie con l’Agenzia Internazionale mentre per quanto riguarda la Russia e la Cina, la Repubblica Islamica non sembra intenzionata a modificare gli attuali rapporti che lo stesso Boroujerdi definisce buoni e costruttivi.

Sulla questione del nucleare iraniano la Casa Bianca ha recentemente intrapreso un atteggiamento meno votato al dialogo. La stampa americana ritiene che la prossima valutazione dell’intelligence americano (NIE) sarà decisamente diversa da quella di qualche anno fa e pur non contraddicendo il rapporto pubblicato nel 2007, quando in piena amministrazione Bush veniva elaborata la tesi secondo la quale Teheran aveva interrotto lo sviluppo di ordigni nucleari nel 2003 ed era passata ad tecnologia improntata alla produzione di combustibile atomico per uso civile, ora si parla un programma di ricerca dedicato alla costruzione di armi atomiche.

Le avvisaglie dell’intelligence non sembrano comunque scuotere più di tanto il presidente Obama che per ora tiene a freno il Pentagono e cerca di dissuadere Israele dal prendere azioni che potrebbero scatenare un conflitto dai costi enormi. Della stessa opinione potrebbe però non essere Tel Aviv, che al contrario si sente ormai assediato e sempre più vicina alle condizioni che la portarono alla guerra del Kippur del 1973.

Nei giorni scorsi il Times aveva pubblicato una notizia secondo la quale l’Arabia Saudita avrebbe messo a disposizione dei caccia israeliani il suo spazio aereo. Questo presupporrebbe un imminente attacco all’Iran ma, attraverso l’agenzia di stampa SPA, il Ministero degli Esteri saudita ha seccamente smentito l’informazione. A Teheran sono convinti che la notizia diffusa dal Times sia l’ennesimo tentativo per danneggiare i rapporti tra i due Paesi, ma che lo Stato ebraico sia sul punto di agire lo confermano le parole del Sottocapo di Stato Maggiore, il Generale Benjamin Gantz, che in un intervista a Defence News ha affermato che Israele non può esitare di fronte a prolungati periodi di  ostilità.

Facendo riferimento al piano operato in Cisgiordania, il Generale Gantz, sostiene che Israele deve ridurre la minaccia ad un livello ragionevole e per farlo deve prevedere azioni militari ripetute nel tempo: « In altre parole dubito che ci sarà la pace ma alla fine saremo in grado di estendere i periodi che intercorrono tra un picco di crisi e l’altro…. Attraverso la strategia del logoramento creeremo una situazione dove ogni nuova azione militare avrà conseguenze peggiori della precedente, e questo è un formidabile deterrente».

L’attenzione israeliana non sarebbe comunque rivolta al solo Iran e ai suoi alleati: Siria, Hezbollah ed Hamas; alla lista si è aggiunta la Turchia che da tempo tiene sott’occhio le attività israeliane in Kurdistan. Ankara sospetta che Gerusalemme possa aver appaltato al terrorismo curdo l’attacco contro la base navale turca di Iskenderun, avvenuto nello stesso giorno in cui si è consumato il dramma della Mavi Marmara. Secondo i turchi, il Mossad sosterrebbe attivamente il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (PJAK), movimento separatista curdo con base in Iraq che combatte in Siria, Turchia meridionale e Iran occidentale. Lo stesso ministro degli Interni turco, Besir Atalay, ha dichiarato che sono in corso estese indagini per accertare cosa è accaduto nell’incidente di Iskenderune e le possibili collusioni tra il gruppo che ha portato a termine l’azione e eventuali agenzie esterne.

Lo scorso anno la Turchia aveva denunciato le attività dell’esercito israeliano nel nord dell’Iraq, dove uomini del Mossad avrebbero addestrato i ribelli curdi ad azioni di terrorismo e di guerriglia urbana. Nel 2006 a parlarne era stato Seymour Hersh, giornalista investigativo americano che sul New Yorker aveva pubblicato un articolo nel quale metteva in luce il sostegno fornito da Israele e dagli Stati Uniti a un gruppo di resistenza curdo noto come il Partito per la Vita Libera del Kurdistan.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Che la manovra da 80 miliardi di euro proposta dal Governo tedesco non sarebbe affatto piaciuta alla Germania dei piccoli era quasi scontato. La Coalizione nero-gialla ha annunciato un piano di austerity che prevede tagli soprattutto nel sociale, a partire dal sostegno ai  genitori meno abbienti per finire con le pensioni di disoccupazione e l'istruzione. E la Germania non si ha esitato a manifestare il proprio dissenso. Con risultati, tuttavia, che lasciano un pò l'amaro in bocca.  
 
La manifestazione che più ha attirato l'attenzione dei media è quella di Berlino. Quasi 20 mila persone si sono riunite a Kreuzberg, il quartiere della Berlino "alternativa", per fare sentire la propria voce: 100 gruppi di diversa matrice hanno sfilato insieme sotto il motto "Non vogliamo pagare per la vostra crisi", sottolineando lo scontento dei ceti più semplici della popolazione cui è rivolto il taglio previsto dalla Coalizione nero-gialla.
 
La manifestazione di Kreuzberg, di per sé, non avrebbe fatto notizia, non fosse stato per un attacco tanto violento quanto inaspettato alla polizia che, come di routine, regolava la sfilata. Mentre i soliti autonomi lanciavano le ordinarie bottiglie e le usuali pietre contro le forze armate, improvvisamente il botto. Alcuni dimostranti hanno lanciato due bombe artigianali tra le fila della polizia: sono stati feriti 15 militari, di cui due, Olaf H. (47) e Stefan S. (35), gravemente e tuttora in prognosi riservata. Se gli ordigni fossero stati lanciati in aria, avrebbero potuto ferire al viso e, nel peggiore dei casi, uccidere.
 
Come siano state costruite le bombe è ancora un mistero. Qualcuno ipotizza bombe costruite con pezzi di metallo, qualcun altro immagine delle bombe a gas artigianali. E anche i colpevoli sono circondati dalla nebbia più fitta: nessuno sa chi possa essere stato, l'unica testuimonianza è un video apparso su youtube.com in questi giorni. Sono state fermate una decina di persone,  ma le sicurezze sono ancora veramente poche. 
 
Dieter Glietsch, il presidente della polizia berlinese, si è mostrato molto preoccupato al riguardo: la vicenda fa pensare a una nuova "escalation di brutalità contro la polizia" nella capitale tedesca, che, tra l'altro, costituisce da sempre uno dei centri nevralgici degli autonomi di tutta la Germania. Certo, le bombe artigianali non hanno lo stesso peso delle pietre lanciate contro le camionette militari, è normale che creino più scompiglio degli ordinari tafferugli da manifestazione. Ma non bisogna dimenticare che le bombe appartengono alla stessa famiglia di quelle bottiglie lanciate con rabbia contro le forze dell'ordine, la famiglia della violenza inutile e disperata di chi non ha nulla da perdere e dimentica lo scopo per cui sta manifestando per un attimo di collera.
 
Una domanda, ora, sorge spontanea: perché una manifestazione deve arrivare a questa assurda violenza per fare scalpore? Perché i media rivolgono la loro attenzione solo là dove si va "oltre", dove si superano i limiti e dove ci sono più colpe che meriti? E perché i manifestanti non capiscono che così non si arriva da nessuna parte? Sorge spontaneo, al riguardo un paragone: si tratta di un'altra manifestazione svoltasi, sempre a Berlino, in occasione della festa dei Lavoratori.  
 
Ogni anno, l'estrema destra tedesca si arroga per il Primo maggio il diritto di manifestare in nome della libertà di espressione e parola. La festa dei Lavoratori era una festa accettata da Adolf Hitler stesso, riconosciuta all’inizio della sua ascesa al potere, il primo maggio 1933. Inoltre, la sua morte risalirebbe al 30 Aprile 1945. I suoi pochi seguaci rimasti non la vogliono dimenticare.
 
L’estrema destra tedesca (NPD) ha organizzato per quest’anno la sua manifestazione nel quartiere di Prenzlauer Berg (ex Berlino Est): hanno partecipato 1000 nazi, che avrebbero dovuto sfilare per tutto il quartiere. Ma è successo qualcosa di impensabile.
 
Prenzlauer Berg è il primo sobborgo oltre-Muro modernizzato dal capitalismo della Riunificazione tedesca: per alcuni, la prima vittima della gentrificazione sociale, per altri il gioiello berlinese per eccellenza. Giovani coppie belle e alternative, artisti, intellettuali, per la maggior parte indipendenti e benestanti, migliaia di bimbi portati a fare yoga all’età di due anni, negozi bio, vestiti e locali vintage; le nonne sono sparite, i barboni pure, il residente più vecchio ha, massimo, quarant’anni e, minimo, due auto.
 
Nonostante l’autorizzazione, tuttavia, i nazi non hanno potuto sfilare. Prenzlauer Berg si è mobilitata: in 10.000 si sono seduti in mezzo alla strada e hanno impedito ai nazi di marciare. Senza violenza, senza muovere un dito, con il sorriso sulle labbra. Giovani, anziani, bambini, gente politicamente impegnata, studenti: tutti in strada per mantenere inviolato il proprio quartiere. Per difenderlo da un’ideologia sbagliata. Senza scontri, senza battaglie. E la polizia non li ha potuti (o voluti?) spostare.
 
Perché ne vale ancora la pena: aggrapparsi alle ideologie per non lasciarsi riempire la testa della spazzatura mediatica di cui ci vuol nutrire il capitalismo o, per lo meno, la sua zona d’ombra. Nonostante chi trasforma le manifestazioni in un atto vandalico senza senso e senza direzione e chi associa immancabilmente manifestazione a black block. Nonostante i violenti, nonostante i politici, nonostante i media. Perché agiatezza non significa consumarsi nello zapping dal divano di casa, e il benessere non deve ammazzare lo spirito critico in un mondo che tenta di occupare la realtà dell’individuo con calciatori, veline e politici viziati dal lusso. Dio sarà pure morto, ma nulla impedisce all’uomo di ricrearlo con la propria intelligenza. Con la violenza, forse, ci hanno già provato e non ha funzionato. Non resta che tentare senza.

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Nella regione asiatica della Kirghisia - sconvolta da una guerra civile che ricorda i primi tempi della Rivoluzione d'Ottobre - i morti sono più di 120, migliaia e migliaia i feriti, oltre 75 mila i profughi di nazionalità usbeka che hanno attraversato la frontiera fra Kirghisia e Uzbekistan. Carri armati e colonne di militari presidiano le maggiori arterie del Paese, mentre le lotte di strada si fanno sempre più cruente e il vento che soffia è quello delle faide di palazzo.

C'è una travolgente azione per vicende legate alle scalate verso un potere asiatico che già tanti danni ha regalato alle nazioni dell'area. C'è - nella capitale Biskek - un vecchio presidente in fuga e una leader come Roza Otumbaieva che si scontra con una crisi epocale che sta incendiando l'Asia, ci sono bande armate che organizzano pogrom. Tutto questo mentre nelle città di Osc e di Gialal Abad gli scontri e le scorribande sono anche caratterizzati da saccheggi e incendi. La Russia e gli Usa, intanto, che si sono dichiarati neutrali quanto alle lotte intestine, mostrano serie preoccupazioni per le loro basi militari esistenti nell'area.

E a questo magma di problemi si aggiunge il dramma che agita quella valle della Ferghanà, condivisa con Tagikistan e Uzbekistan. Popolata in massima parte da uzbeki, la più consistente minoranza etnica presente nella Kirghisia vede qui i due popoli - entrambi musulmani sunniti che pur parlano lingue affini di ceppo turco - divisi da profonde rivalità. E' lotta tribale per l'egemonia ed è l'incendio dell'Asia ex sovietica. Avvolge la Kirghisia e coinvolge l'Uzbekistan, ma anche altre regioni dell'area sono a rischio. Ed ora il conflitto - uno dei problemi più complessi e acuti - non è solo frutto di uno sconvolgimento politico: è un "fatto" etnico che mette in evidenza una questione soprattutto asiatica. L'allarme raggiunge Mosca e Pechino rivelando così la tragicità della situazione eurasiatica.

Le cronache e le cronologie segnano la complessità dello scenario. I disordini partono da lontano, quando scoppiò, una rivoluzione improvvisa, nel giugno del 1990, che venne chiamata la “rivoluzione della seta”, perchè avveniva in luoghi esotici e lontani, traversati un tempo dalla via della seta. Fu poi con la “rivoluzione dei tulipani”, nel marzo 2005, che venne destituito, il presidente Askar Akayev che aveva governato il paese per 15 anni. Era accusato di autoritarismo, nepotismo e corruzione. Al suo posto arrivò, tra scontri e duri attacchi, Kurmanbek Bakiyev, che a sua volta venne spodestato nell’aprile 2010 con le stesse accuse. Bakiyev - per tenere in piedi il suo potere - si appoggiò sui clan tribali di Osc e Gialal Abad, nel Sud del Paese.

Il vento della guerra civile, intanto, era sempre più presente. Ed è a questo punto che viene avanti una leader come Roza Otumbaeva (un passato nel ministero degli Esteri dell'Urss e un posto di direzione all'Unesco). E' lei che, da capo del governo provvisorio, sale sul carro delle proteste e da fuoco al Paese. Ed ora, in vista del referendum del 27 giugno sulla nuova Costituzione, chiede all'antica "madre Russia" di mandare nel Paese, «truppe di pacificazione».

Il Cremlino, in merito, si muove con prudenza. Natalja Timakova, portavoce del presidente Dmitrij Medvedev, fa presente che il capo del Cremlino ha dato disposizione ai ministri della Sanità Tatjana Golikova e della protezione civile Sergej Shojgù di prestare aiuto umanitario al Kirghizistan, alla volta del quale sono già partiti aerei carichi di generi di prima necessità ed altri per l’evacuazione dei feriti. Circa l’invio di truppe, Mosca fa sapere che «tale decisione può essere presa solo in accordo con la Carta dell’Onu e dopo consultazioni con tutti i membri di questa organizzazione». In ogni caso «si tratta di un conflitto interno e per ora la Russia non vede le condizioni per partecipare alla sua soluzione».

Detto questo Mosca non dimentica la gravità della situazione. Medvedev inizia consultazioni con i capi militari, compreso Nikolaj Bordjuzha, segretario dell’Odkb (truppe collettive della Csi sotto controllo russo) e con il presidente kazakho Nursultan Nazarbayev. Otumbaeva telefona al premier russo, Vladimir Putin. Nello stesso tempo una fonte del ministro della Difesa russo dichiara che i militari della base russa di Kant, in Kirghisia, «non saranno coinvolti nelle misure per il ristabilimento dell’ordine nel sud della repubblica». Questo contingente, infatti, «ha una sua missione precisa e non sarà chiamato ad adempiere ad altri compiti».

Prudente anche Pechino, che è pur sempre attenta a ogni rigurgito nazionalista, autonomista o islamista che infiammi l’Asia centrale, sapendo bene come la sua turbolenta regione autonoma dello Xinjang si potrebbe riscaldare di conseguenza. E sarebbe una dura prova. Le diplomazie asiatiche, in merito, non si pronunciano, ma si chiedono  quanto direttamente sia disposta Pechino a impegnarsi. Finora, la strategia cinese ha puntato sulla penetrazione economica nell'area e sul soft power. È forse ancora troppo presto per scendere nell’arena direttamente. E qui va ricordato che Washington ha sempre vagheggiato di fare della Kirghisia "una democrazia amica".

Intanto la situazione sul terreno è sempre più grave. Il vicepremier kirghiso Azimbek Beknazarov annuncia che lo stato d’emergenza, oltre che a Osh, è stato proclamato anche al vicino distretto di Suzak. Il governo, intanto, manda rinforzi di truppe a Osc e la polizia ha l’ordine di «sparare a vista» su persone che usino armi da fuoco.

La situazione si aggrava di ora in ora. E così dalla rivoluzione della seta del 1990 sono passati vent’anni e almeno altre due rivoluzioni popolari. Ora è allarme eurasiatico. E c'è l'alto rappresentante della Politica Estera e di sicurezza comune dell'Ue, Catherine Ashton, che alla riunione dei ministri degli Esteri, a Lussemburgo, manifesta serie preoccupazioni per gli scontri in Kirghisia, affermando che l'ondata di violenza è molto pericolosa per la regione. E da tutto questo - è la tragica conclusione del momento - l'Asia centrale diviene sempre più non solo una questione continentale, ma globale.

 

 


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