di Carlo Musilli

Come un pugile intronato, il Partito Democratico americano poteva sperare solo in un errore dell’avversario per non andare al tappeto prima della campanella. Il ring è quello delle elezioni di medio termine: il prossimo 2 novembre gli Stati Uniti voteranno per rinnovare l’intera Camera e un terzo del Senato. Tutto lasciava presagire un trionfo incontrastato dei Repubblicani, ma il partito dell’Elefante si è fatto lo sgambetto da solo. E Obama ringrazia. Perderà lo stesso, ma gli rimarrà il fiato per respirare.

Artefici del sabotaggio sono stati gli ultraconservatori del “Tea Party”, che in un paio di Stati fondamentali hanno soffiato ai repubblicani più moderati e credibili la candidatura al Senato, spalancando le porte della vittoria ai democratici. In principio fu il Delaware, dove nelle primarie repubblicane l’agguerritissima Christine O’Donnel ha sbaragliato Micheal Castle, che dalla sua aveva tutta l’establishment del partito. Qualche giorno dopo il Tea Party ha messo a segno un altro colpaccio, ancora più clamoroso: New York. Nello stato della Grande Mela, dove la partita si giocava tutta fra paisà italo-americani, il non meglio identificato Carl Paladino ha incredibilmente mandato a casa il super favorito repubblicano-doc Rick Lazio.

La rivincita di Carneade, insomma. Chi sono costoro? Non proprio figure rassicuranti. La signorina O’Donnell è nota fra i suoi stessi alleati per aver ritoccato con una certa fantasia il suo curriculum vitae. Una laurea in più fa sempre comodo. Non è nemmeno brillantissima come amministratrice di finanze, tanto che ha sfiorato la bancarotta del suo patrimonio personale. Ben più scozzonato, da questo punto di vista,  è “Compare Paladino”, imprenditore miliardario di Buffalo. Piccolo particolare: ha 64 anni e fino a ieri di politica non si era mai interessato.

Carl ha poi un certo gusto per la crapula e lo scherzetto da caserma: durante la campagna elettorale ha inviato ad amici e colleghi e-mail con battute razziste condite con delicatissime immagini porno. Ancora, quando un suo alleato ha definito il presidente dell’assemblea legislativa newyorkese “Anticristo” e “Hitler” (aveva l’imperdonabile difetto di essere ebreo), Paladino (nomen omen) non ha mancato di difenderlo. Tanto per gradire, ha anche proposto di spedire i poveracci nelle carceri dismesse “per insegnargli l’igiene”.

Ora, questi due soggetti saranno i prossimi candidati repubblicani per il due novembre. Questo significa che la vittoria del democratico Andrew Cuomo (altro “paisà”) nello Stato di New York è praticamente incisa su pietra. Leggermente meno scontato l’esito del voto in Delaware, dove pure sembra difficilissimo che la O’Donnell possa battere Chris Coons, del partito dell’Asinello. Contro di lei ha proferito verbo perfino Karl Rove, lo stregone delle elezioni che portò alla vittoria Bush Jr: “Le ho sentito dire abbastanza sciocchezze. Se prima potevamo vincere in otto seggi su nove, ora possiamo vincere solo in sette. In Delaware non c’è partita, abbiamo perso”.

I Repubblicani possono così dire addio al sogno di fare jackpot e sfilare ad Obama Camera e Senato. Il Presidente, che non è mai stato così in basso nei sondaggi, tira il fiato. Tanto più che non ha dovuto fare niente per evitare la debacle. Anche perché, ormai, nulla avrebbe potuto fare. I suoi avversari sapevano che per vincere negli Stati più importanti conviene presentare dei conservatori “soft”, non dei padri pellegrini redivivi, per evitare di alienarsi l’elettorato moderato e indipendente, che è decisivo. Stavolta però la situazione gli è sfuggita di mano: alle primarie sono andate a votare poche persone, per la maggior parte militanti furibondi, quindi il Tea Party era fortissimo. Quando il bacino elettorale si allargherà, tuttavia, la situazione sarà diversa.

Ma da dove salta fuori questo Tea Party? Partiamo dal nome, che si ispira al celebre “Boston Tea Party” del 1773, quando un gruppo di coloni si ribellò alle tasse della Madre Patria gettando a mare carichi di tè dalle navi inglesi (scintilla che fece scoppiare la Guerra di Indipendenza americana). Sorvolando sul triste giochino linguistico dietro la parola “party” (che vuol dire “festa”, ma anche “partito”), vale la pena di sottolineare che “Tea” è un acronimo. Sta per “taxed enough already” (già tassati abbastanza).

Lungi dall’interessarsi di alcuna questione sociale o realmente politica, infatti, i membri del Tea Party si concentrano essenzialmente su una becera e populista retorica economica. Sono nati nel 2009, quando un cronista della Cnbs Business News criticò la politica fiscale di Obama, suggerendo di protestare gettando a mare i titoli derivati (altro che tè). L’ideona ebbe successo. In nemmeno due anni il movimento è cresciuto in modo impensabile.

La protesta ha degli obiettivi specifici: vincolo al pareggio di bilancio federale, controlli contro gli sprechi delle agenzie, abolizione della riforma sanitaria, liberalizzazione delle politiche energetiche, falciatura delle tasse, etc. Il tutto proposto con toni roboanti, in grado di far vibrare le corde dell’anima ai reazionari meno pentiti. Non mancano, com’è ovvio, gustosi spunti razzisti.

La stampa Usa dipinge i membri del Tea Party come buffe macchiette, innocui zoticoni, rozzi illetterati. Ma è evidente che questi Tarzan della democrazia cominciano ad avere un peso sempre più rilevante. C’è di che preoccuparsi, sia da destra che da sinistra. Significativa l’immagine regalata da quell’inguaribile buontempone di Bill Clinton: “Ne ho visti parecchi - ha detto - e devo dire che rispetto a loro George W. Bush sembra un liberal”.      

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