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di mazzetta
Mai come ora il mondo osserva con il fiato sospeso Israele, paese che sembra chiamato ad affrontare uno dei periodi più duri della sua breve e travagliata storia. La sfida è ancora più pericolosa perché proviene dall'interno, non sono i vicini (e meno vicini) arabi o islamici a promettere un futuro fosco, ma le dinamiche interne. Dall'avvento del governo Bush e dei neo-conservatori, Israele ha avuto mano libera e partecipato con entusiasmo alla War On Terror.
I premier israeliani, tutti ex-generali dell'esercito, hanno trovato in Washington l'alleato ideale per infierire sui vicini. Nessuna delle numerose aggressioni o attacchi israeliani ai paesi confinanti ha mai ricevuto una sanzione dal Dipartimento di Stato e nemmeno le due vere e proprie guerre-lampo scatenate contro il Libano e Gaza hanno sollevato critiche sostanziali o anche solo rumorose.
Nonostante questo, nessuno può fare a meno di notare che è almeno dagli anni '70 che nessun paese dell'area aggredisce Israele e che, da allora, il divario tra la potenza militare israeliana e alleata e i vicini potenzialmente ostili è aumentato in progressione geometrica. Sono ormai un paio di decenni che nessun paese dell'area può coltivare velleità militari anti-israeliane, che sono anche fuori anche della portata di paesi come l'Iran, molto più grandi e popolosi di Israele, che però hanno spese militari non paragonabili, quasi sempre dedicate in gran parte al mantenimento del controllo interno e dei confini.
L'arroganza con la quale il governo israeliano affronta le critiche internazionali non aiuta, come non aiuta vedere Netanyahu raccontare sciocchezze smentite nel giro di qualche settimana dalla realtà e l'ossessivo ricorso alla forza militare come strumento per la soluzione dei problemi più diversi, fino a scatenare guerre per guadagnare voti.
La depressione universale delle sinistre negli stessi anni, non ha risparmiato Israele, dove l'opposizione a queste politiche avventuristiche e all'evidente spinta alla colonizzazione della West Bank a creare un “fatto compiuto”. Che é inaccettabile per chiunque non sia perso nel viaggio di quel nazionalismo a sfondo religioso che in Israele ha preso in ostaggio le fragili istituzioni democratiche, di fatto esautorate dal mantenimento di uno stato di guerra artificiale quanto eterno.
Da decenni Israele potrebbe evitare qualsiasi conflitto armato ed è evidente che i più recenti sono stati smaccatamente scatenati per basse ragioni di politica interna, perché alla popolazione in stato di guerra permanente devi dimostrare che sei disposto a fargliela pagare, a tutti quelli là fuori che ci vogliono distruggere. Il problema per Israele è che a questa paranoia collettiva non si accompagnano solo le conseguenze già tradizionalmente preoccupanti degli unanimismi nazionalisti, ma che oggi i partiti d'ispirazione religiosa hanno decisamente preso il controllo di pezzi fondamentali delle istituzioni e stanno cercando di adeguare l'assetto istituzionale del paese alla loro visione dell'ebraismo e della sua interpretazione fondamentalista.
In un paese con sette milioni e mezzo di abitanti, due milioni di ortodossi pesano molto; a maggior ragione se poi il governo deve essere formato necessariamente da coalizioni di partiti, il più “pesante dei quali ha raccolto settecentocinquantamila voti e ventotto seggi sui centoventi disponibili. Partiti che raccolgono la metà di questi voti sono decisivi e ce ne sono almeno due che rivaleggiano nello spingere Israele vero il medioevo.
Sono arrivati al governo in massa con Netanyahu, che si è accollato una bella compagnia di fuori di testa insieme a “Terror” Lieberman, ministro degli esteri. Alla Knesset, il Parlamento, vola di tutto e attualmente c'è in discussione il tentativo da parte degli ortodossi di attribuire l'autorità sulle conversioni proprio al rabbinato ortodosso. Un'idea folle che consegnerebbe agli ortodossi il potere di stabilire chi sia ebreo, almeno ai fini dell'acquisizione della cittadinanza israeliana. Un'azione che unita al tentativo di sopprimere la legge, che prevede la cittadinanza automatica ai discendenti di ebrei consegna un potere enorme agli ortodossi.
Come possa il governo Netanyahu svendere parte dello storico impianto ideologico-istituzionale e una peculiarità come la concessione della cittadinanza a una fazione religiosa, attiene sicuramente alla miseria degli scambi politici più bassi; ma questo genere di azioni si moltiplicano di mese in mese senza una significativa opposizione della popolazione non-ortodossa. Sul fronte interno l'unanimismo patriottico è marmoreo, chi non è d'accordo con il governo è contro Israele, un traditore.
La cosa non è piaciuta agli ebrei della diaspora, che hanno il loro peso, ma che all'interno della Knesset non ci sono e che pensano con sgomento all'idea di una Israele come casa degli ortodossi, che non sono d'accordo nemmeno sull'ebraicità di molte fazioni concorrenti che ritengono semplicemente impuri e contagiosi i laici.
Solo poche centinaia di persone partecipano ormai a manifestazioni per i diritti civili o contro la politica di colonizzazione o contro le ultime guerre e, spesso, sono soggetti ad aggressioni a sfondo politico o, più semplicemente, ad una rude repressione. Sembra che l'intero paese fatichi a rendersi conto di queste evoluzioni, sia perché ostaggio della paranoia, sia perché non è per niente facile fare opposizione o mostrarsi diversi quando ti definiscono traditore o ti sputano per strada.
Sono state proposte leggi che puniscono severamente chi simpatizzi per la campagna di boicottaggio ad Israele o per quei professori che condividano l'opinione dei loro colleghi internazionali sull'occupazione e si battono per contrastarla e, dove non arriva la censura militare, le cattive notizie s'infrangono su un'opinione pubblica a prima vista impermeabile a qualsiasi disfattismo.
In Israele oggi non ti sputano solo se dissenti, ti sputano anche se non sei abbastanza “modesto” e ti molestano in ogni maniera se non hai rispetto delle molteplici prescrizioni e credenze religiose dell'ortodossia. Ci sono quartieri nei quali le donne devono sedere sul fondo degli autobus e nei quali non è bene per le signore avventurarsi esponendo le proprie grazie, pena insulti e aggressioni. Il potere e l'influenza degli ortodossi dilaga, manifestano in massa ogni volta che sentono odor di sacrilegio e dove non ottengono il privilegio per vie legali, forzano la mano senza temere punizioni, che tanto non arrivano.
La loro ossessiva tendenza a regolamentare ogni aspetto della vita secondo le prescrizioni della Torah, tira dritto verso il medioevo, in direzione opposta alla storia della “unica democrazia”dell'area, verso una repubblica teocratica retta dal rabbinato ortodosso. Il fatto che Israele non abbia ancora una Costituzione, induce ulteriori preoccupazioni per l'ulteriore istituzionalizzazione dell'ingerenza religiosa nello stato.
Al nazionalismo si somma quindi il fanatismo religioso, con effetti perversi, ancora di più nelle colonie, dove spesso gli ortodossi costituiscono il nerbo degli insediamenti e il fertilizzante della loro crescita, visto che molti di loro non possono lavorare per precetto religioso e che apprezzano le famiglie numerose. Alimentati dalle casse dello Stato come massa colonizzante al servizio dei generali, sono diventati forza di riferimento nell'imponente (per i numeri israeliani) trasferimento di popolazione oltre i confini riconosciuti, in quei territori che nessun paese o istituzione internazionale al mondo riconosce come israeliani. Dice il rappresentante di Nordkin, una colonia vicino a Betlemme che ospita ortodossi e non, di origine russa, che l'insediamento ha rifiutato a grande maggioranza l'arrivo di famiglie non sufficientemente osservanti. A Nordkin, Lieberman ci ha preso casa e i non-ortodossi sembrano non aver voce in politica.
Così il rappresentante ufficiale della colonia, che vive e prospera grazie alla protezione e ai fondi di un paese che in teoria ripudia il razzismo, può dire senza timore di sanzioni o di sollevare scandalo che: “Il problema più grande é che, se accetti dieci famiglie nelle quali la madre non è ebrea, presto ci saranno trenta bambini e domani tuo figlio potrebbe innamorarsi della bella ragazza della porta accanto: è un vero problema. È già abbastanza difficile con le dozzine di terroristi che entrano ogni mattina”. (leggasi i palestinesi che lavorano per i coloni ndr). E prosegue: “Dobbiamo separarci dai gentili nel commercio e in tutto il resto, soprattutto nel vivere con loro. Potrebbe portare all'assimilazione o all'idolatria. Apre la porta a ogni genere di problemi. Potrebbero spingerci a commettere peccati che gli ebrei normalmente non commettono, come l'idolatria, l'incesto e tutte le altre perversioni di ogni genere. Per questo qui non c'è posto per loro.” Questo delirante discorsetto è tradotto da Haaretz.com.
È appena il caso di far notare che le stesse parole pronunciate in un contesto occidentale sarebbero considerate razzismo puro, ancora di più se l'oggetto dell'ostracismo fossero famiglie respinte perché ebree. Questo è il contesto culturale e sociale prodotto dagli estremisti religiosi nella sua brutale pochezza.
Purtroppo gli ortodossi non si limitano ad auto-segregarsi, ma hanno la tendenza a considerare le loro regole come le uniche appropriate per Israele e si applicano moltissimo allo scopo, nelle più lontane colonie come nel centro della metropoli, Gerusalemme. Per questo anche Anat Hofman, rappresentante di un gruppo di preghiera femminile, Le Donne del Muro, è stata prima aggredita e sputacchiata e poi arrestata per aver trasgredito una sentenza dell'Alta Corte che le vietava di leggere la Torah al Muro del Pianto, infrangendo un divieto stabilito ancora una volta dagli ortodossi che, da tempo, operano per a trasformare un monumento nazionale accessibile a tutti gli ebrei in un tempio all'interno del quale valgono le regole dell'ortodossia più stretta.
Una tale deriva spinge lontano dalle soluzioni auspicate internazionalmente o lontanamente accettabili per i palestinesi. Il sogno degli ortodossi è infatti un solo Stato dal quale siano possibilmente espulsi o emarginati tutti quelli non abbastanza ebrei, trasformando il paese in senso teocratico e provocando una frattura da antiche guerre di religione all'interno dell'ebraismo.
Una brutta aria per gli arabi israeliani, ma anche per gli altri israeliani, che al danno aggiungono la beffa di dover finanziare con le loro tasse lo stile di vita degli ortodossi, in gran parte a carico dello stato sociale. Di tutti i molteplici divieti uno solo è stato sollevato dal clero ortodosso, quello di arruolamento volontario nell'esercito per gli uomini, che al pari delle donne sono esentati dal servizio militare per motivi religiosi.
Le uniche forze in grado di contrastare questa inarrestabile avanzata sembrano gli Stati Uniti e quella, minore e comunque rilevante, della diaspora. Gli Usa garantiscono un ombrello legale con diritto di veto esercitato in automatico all'ONU e la protezione, l'assistenza militare e i finanziamenti dell'unica superpotenza mondiale.
C'è molto che gli Stati Uniti possono mettere sul piatto per far capire a Netanyahu e a Israele che la situazione si sta deteriorando oltre il tollerabile e che Israele nel medioevo non lo vuole nessuno. L'Unione Europea si è già incamminata in quella direzione, ma l'amministrazione Obama ancora arranca, esita, intimorita dalla sfacciata doppiezza di Netanyahu e distratta altre questioni. Nemmeno il Segretario di Stato H. Clinton sembra avere lo spunto giusto. Forse a qualcuno Israele piace proprio così.
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di Carlo Musilli
Se per quella sul campo ci sarà ancora da lavorare non poco, sembra proprio che nella guerra della corruzione non ci sia storia. Americani e europei vincono per distacco. Fra il 2002 e il 2009 gli aiuti internazionali giunti in Afghanistan ammontano a circa 40 miliardi di dollari. Di questi, una cifra compresa tra i 24 e i 27 miliardi non è mai arrivata a chi ne aveva bisogno, gli afgani. E’ questa la denuncia di Pino Arlacchi, eurodeputato Idv, membro della commissione Affari esteri e autore del rapporto “La nuova strategia dell’Unione Europea per l’Afghanistan”.
Durante una missione svoltasi nel marzo scorso fra Kabul e Herat, Arlacchi ha incontrato il ministro delle finanze afgano, Omar Zakhilawal. E si è accorto che i conti non tornano proprio. Di quei famosi 40 miliardi, soltanto 6 sono arrivati al governo di Karzai. Gli altri 34 sono passati per le varie “agenzie di assistenza umanitaria e di sviluppo del sistema internazionale: dagli uffici per la cooperazione e lo sviluppo dei paesi Ue e degli Usa all’Unpd (United Nations Procurement Division, ndr), dall’Unopos (United Nations Office of Project Services, ndr) alla Banca Mondiale, fino alle grandi Ong che operano in Afghanistan”, come si legge nel rapporto.
Attraverso questi canali apparentemente così sicuri, il 70 / 80 % di quei 34 miliardi si è dissolto nel nulla. Gli afgani non ne hanno più sentito parlare. Secondo Arlacchi i fondi si perdono lungo la catena di distribuzione e alla fine tornano da dove sono partiti, nella maggior parte dei casi attraverso percorsi di corruzione legalizzata, costi di intermediazione eccessivi e sovrafatturazioni. Come esempio della cattiva gestione e dello spreco di soldi pubblici, l’europarlamentare cita i 27 milioni di euro pagati ad una compagnia di sicurezza privata della Gran Bretagna per la protezione della rappresentanza diplomatica europea a Kabul. Lo stesso servizio “poteva essere fornito da qualsiasi forza di polizia europea - sostiene Arlacchi - con una qualità molto superiore e con costi pari a un terzo di questa somma, che basterebbe a gestire 20 ospedali”.
Ancora più inquietante è l’esempio della scuola. In Afghanistan per costruire un istituto di due piani e con venti classi non servono più di centomila euro. Ebbene, se dell’opera s’incarica un’organizzazione internazionale, i costi possono lievitare dalle tre alle dieci volte. Ciò è tanto più grave se si considera che in Afghanistan l’alfabetismo continua a calare e che di scuole bisognerebbe costruirne almeno seimila. A fare le cose in modo corretto, i soldi necessari equivarrebbero a quelli che normalmente vengono usati per finanziare una settimana di guerra.
Tutto questo, a detta di Arlacchi confermato tanto da membri del governo afgano quanto da analisti indipendenti, sembrerebbe gettare una nuova luce sulla decisione di Nita Lowey, la sovrintendente americana allo stanziamento di fondi per l’Afghanistan che un paio di settimane fa ha tagliato circa 4 miliardi di aiuti per il 2011. Ufficialmente, il provvedimento è stato causato dalle rivelazioni sulle ruberie di alcuni funzionari corrotti del governo di Karzai, che in due anni avrebbero sottratto circa 3 miliardi di dollari di aiuti internazionali portandoli fuori dal Paese. Ufficiosamente, questo ormai sembra più un pretesto, o quantomeno una giustificazione molto parziale e perciò poco convincente, a fronte di una situazione che gli americani dovrebbero chiarire prima di tutto in casa propria.
Se infatti è indiscutibile che il potere afgano sia contaminato ad ogni livello dal morbo della corruzione cronica, bisogna comunque cercare di non ripararsi troppo facilmente dietro questo comodo capro espiatorio. “Dal Governo di Kabul passa solo il 15% degli aiuti totali - spiega ancora Arlacchi nel suo rapporto - anche attribuendo alla corruzione locale un’incidenza del 50%, non si supera il 7,5% del volume complessivo della spesa finora effettuata in Afghanistan”. Gli Stati Uniti, da soli, gestiscono la maggior parte degli aiuti diretti in Afghanistan, causando il maggior spreco di denaro in assoluto. Nemmeno paragonabile a quello prodotto dai più furbetti tra i funzionari di Karzai.
Alla fine, però, il governo Usa si è convinto della necessità di istituire un Ispettorato Generale sulla ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) “che inizia a fare ora ciò che bisognava fare 9 anni fa: misurare l’impatto dei fondi stanziati per lo sviluppo del Paese, ricostruirne la mappa, identificare e prevenire gli abusi”. L’auspicio di Arlacchi è che anche per i fondi europei si crei un sistema di monitoraggio di questo tipo e che alla fine la gestione degli aiuti umanitari sia affidata alle autorità locali afgane. Sembra che siano molto più efficaci delle organizzazioni internazionali.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Negli ultimi anni la Germania ha concesso sempre meno visti ai cittadini extracomunitari, mostrandosi particolarmente avara con quelli provenienti dai Paesi più poveri. È quanto emerge dal rapporto diffuso in questi giorni dal Governo tedesco sui permessi di visita accordati negli ultimi nove anni, il primo nel suo genere a essere sottoposto pubblicamente a stampa e cittadini.
Un resoconto, a quanto pare, che si è fatto parecchio attendere: e il lungo indugio del Governo tedesco non ha mancato di creare sospetto, tanto che i più maliziosi si sono preoccupati di condurre un’analisi approfondita del fenomeno delineato.
I risultati non potevano passare inosservati: tra i permessi rifiutati c’è un filo conduttore comune politically uncorrect, che mette in discussione il grado di apertura della Germania agli stranieri e, con lei, di tutti gli stati europei.
Secondo il quotidiano berlinese di sinistra Tageszeitung, i dati parlano chiaro: se nel 2000 Berlino ha rifiutato il 6% del numero totale di richieste, nel 2009 la quota di visti negati è salita al 10%. Le percentuali, comunque, variano in maniera abbastanza regolare secondo i differenti Paesi cui appartengono i richiedenti. In particolare, i visti sollecitati dai cittadini turchi incontrano l’opposizione della Germania più spesso di molti altri Paesi: con una percentuale del 28%, i “no” detti ad Ankara rappresentano il doppio della media internazionale.
Ma i dati più scioccanti provengono dagli stati africani. La Guinea, nell’Africa Occidentale, ha registrato nel 2009 una percentuale di visti rifiutati pari al 54%, mentre al vicino Ghana è stato negato il 37% delle visite su suolo tedesco. Per questi Stati africani, tra l’altro, è particolarmente elevato il numero degli extracomunitari che non ci provano neppure: il Consolato chiarisce da subito la scarsa probabilità di ottenere il visto e i cittadini rinunciano immediatamente senza presentare domanda. Va da sé che questi casi non sono contemplati nelle cifre presentate dal rapporto: per quanto negative, le percentuali sono sarcasticamente arrotondate in positivo.
Tra i meno “desiderati” dallo Stato tedesco, in particolare, ci sono i cittadini senza reddito fisso e non sposati. Il grado di attaccamento di un cittadino alla sua terra d’origine costituisce uno dei requisiti fondamentali per la concessione di un visto turistico ed è misurato dal Consolato attraverso i rapporti professionali e familiari che il richiedente intrattiene a casa. Chi non ha lavoro né famiglia potrebbe non avere una forte motivazione a tornare al proprio Paese. Chi non ha nulla da perdere potrebbe tentare la strada della clandestinità in Germania partendo dal periodo di visto: e, come tutte le altre democrazie contemporanee, lo Stato tedesco preferisce prevenire piuttosto che curare.
La questione non fa una piega per il portavoce del Ministero degli interni liberale Serkan Tören (FDP): “Probabilmente i criteri per la concessione dei visti dipendono dagli accordi tra gli Stati per il rimpatrio dei clandestini illegali” chiarisce Tören, spiegando come con alcuni Paesi- tra cui la Turchia - non siano ancora stati presi chiari accordi per le permanenze illegali.
Una negazione di visto a prevenzione di eventuale futuro crimine, quindi. Una condanna preventiva di un’eventuale intenzione. E se il rapporto sulla concessione di visti non è stato pubblicato prima dal Governo, è stato semplicemente per evitare influenze negative nelle relazioni bilaterali tra gli Stati: non fosse stato per una richiesta della frazione di sinistra del Parlamento tedesco, Die Linke, non sarebbe stato pubblicato neppure ora.
Sevim Dagdelen (Die Linke), portavoce per l’integrazione politica di Die Linke, non si lascia incantare e riassume la problematica in mod più concreto: “Chi ha una situazione sociale poco stabile, ossia chi è più povero, non ha nessuna possibilità di visitare i propri parenti in Germania”. Per Dagdelen, i parametri con cui si negano e concedono i visti assomigliano a una “selezione sociale”. I ricchi possono viaggiare con più facilità dei poveri, cui non è concessa la fiducia: sembra quasi che, ancora una volta, siano la paura e il pregiudizio a spingere i disadattati ancora più a fondo.
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di Michele Paris
Qualche settimana fa Iran e Pakistan hanno siglato un importante accordo per la fornitura di gas naturale che dovrebbe provvedere al fabbisogno energetico pakistano. L’intesa per la costruzione di un gasdotto da quasi 8 miliardi di dollari, che diventerà operativo a partire dal 2014, è giunta nonostante l’opposizione degli Stati Uniti, impegnati ad isolare Teheran attraverso le sanzioni economiche appena approvate dal Congresso, ma costretti a non esercitare troppe pressioni su un alleato fondamentale nella strategia di stabilizzazione del vicino Afghanistan.
L’impianto in questione partirà dal sito del più grande giacimento di gas naturale conosciuto del pianeta, quello di South Pars, nell’Iran meridionale, e una volta a regime fornirà 21,5 milioni di metri cubi di gas al giorno al Pakistan. Prima dell’inizio dei lavori, però, Islamabad entro il 2011 dovrà svolgere uno studio circa la fattibilità della porzione di gasdotto che sorgerà sul proprio territorio.
L’annuncio del lancio del progetto è arrivato più o meno in concomitanza con la firma di Obama sul pacchetto di sanzioni unilaterali contro l’Iran (Comprehensive Iran Sanctions, Accountability, and Divestment Act), votate dagli USA dopo i provvedimenti adottati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La nuova legislazione americana prevede ritorsioni nei confronti di quelle compagnie straniere che fanno affari con la Repubblica Islamica, in particolare nel delicato settore energetico.
La contrarietà di Washington all’accordo sul gasdotto era stata ribadita di recente dall’inviato speciale del presidente Obama in Afghanistan e Pakistan, Richard Holbrooke. A queste pressioni, tuttavia, Islamabad non ha finora ceduto, malgrado le promesse di forniture alternative di gas proveniente dal Tagikistan attraverso l’Afghanistan. Le insistenze americane avevano convinto invece l’India ad uscire dall’iniziativa che inizialmente prevedeva il coinvolgimento anche di Nuova Delhi.
La determinazione del governo pakistano rischia ora di mettere nuovamente in imbarazzo la diplomazia statunitense. L’esclusione dal mercato americano delle compagnie straniere che contravvengono alle sanzioni contro l’Iran, non avviene in ogni caso in maniera automatica ed è probabile che alla fine da Washington si finirà per chiudere un occhio. Il Pakistan si trova d’altra parte in una situazione di estrema scarsità di energia elettrica - tanto da aver perso circa il 2 per cento del proprio PIL nell’ultimo biennio - così che azioni punitive da parte degli USA comporterebbero un nuovo grave motivo di tensione all’interno di una relazione bilaterale già sufficientemente agitata.
Come noto, per gli Stati Uniti il Pakistan rappresenta a partire dall’autunno del 2001 un partner potenzialmente decisivo nell’azione di contrasto alla guerriglia islamica che rende precaria l’occupazione dell’Afghanistan. Le sollecitazioni americane verso Islamabad per azioni sempre più incisive nei confronti dei gruppi talebani e legati ad Al-Qaeda operanti entro i propri confini si sono moltiplicate negli ultimi anni.
A fronte delle rassicurazioni ufficiali e delle operazioni militari, però, i vertici delle forze armate pakistane (e ancor più i servizi segreti) continuano a mantenere un rapporto molto stretto con molte di queste cellule jihadiste attive oltre frontiera, considerate un prezioso valore aggiunto per influenzare un futuro Afghanistan pacificato, da cui escludere il più possibile l’arcirivale indiano.
Allo stesso tempo, l’equilibrismo diplomatico del Pakistan è complicato dalla necessità di evitare screzi con Washington, da cui provengono ingenti aiuti economici e militari. Un contributo che, in ogni caso, non ha reso meno ostile l’opinione pubblica pakistana nei riguardi degli Stati Uniti e di un governo locale considerato troppo arrendevole ai diktat del potente alleato. La prova di forza sulla questione del gasdotto iraniano ha fornito così l’occasione al primo ministro Raza Gilani e all’impopolare presidente Zardari di dimostrare di saper resistere in qualche misura alle pressioni americane.
La strategia energetica di Islamabad ha finito poi per far emergere un altro fronte di contrasto con gli USA, in questo caso intorno alla questione del nucleare e dell’espansione dell’influenza cinese in Asia centrale. Il Pakistan, pur possedendo armi atomiche, non è firmatario del Trattato di Non-Proliferazione (TNP) e non potrebbe perciò accedere, almeno in linea teorica, al mercato della tecnologia nucleare per scopi pacifici.
Dal momento che all’India, anch’essa fuori dal Trattato, negli ultimi mesi dell’amministrazione Bush era stato concesso in via eccezionale di stipulare un accordo con Washington per ottenere assistenza nella creazione di una rete di centrali nucleari, il Pakistan ha richiesto agli USA il medesimo trattamento riservato all’odiato vicino orientale.
Incassato il rifiuto americano di siglare un simile trattato, il Pakistan si è rivolto alla Cina. Anche se a Pechino non sarebbe consentito di fornire tecnologia nucleare a paesi non firmatari del TNP, un progetto per la costruzione di due reattori nella provincia pakistana del Punjab è stato recentemente suggellato, senza alcuna reazione ufficiale da parte di Washington.
La presenza cinese in Pakistan è già ben consolidata e rappresenta precisamente un altro fronte della crescente rivalità con gli USA in un’area strategicamente molto importante e ricca di risorse naturali. In cambio degli investimenti promessi da Pechino, il governo pakistano ha ad esempio concesso lo sfruttamento del porto di Gwadar, situato sulla costa sud-occidentale della provincia del Belucistan che si affaccia sul Mare Arabico.
Una mossa quella cinese che rientra in una strategia più ampia, dettata dalla necessità di assicurare alle forniture di materia prima provenienti dal Medio Oriente rotte alternative a quella che passa attraverso lo Stretto di Malacca, soggetto al controllo navale statunitense. Per l’identico motivo, la Cina ha da poco concluso un accordo con la giunta militare del Myanmar per la costruzione di un oleodotto che dovrebbe collegare i due paesi e pare stia valutando di estendere il gasdotto tra Iran e Pakistan fino al proprio territorio.
Oltre a turbare gli Stati Uniti, l’ascendente cinese sul Pakistan inquieta ovviamente anche l’India, la quale ha a sua volta un rapporto tormentato con Pechino. Come contrappeso, da almeno un decennio l’India si è avvicinata agli Stati Uniti, i cui rapporti sempre più stretti con il Pakistan hanno però suscitato i timori di Nuova Delhi. L’irruzione della Cina nello scacchiere centro-asiatico per tutelare i propri interessi geo-strategici, così, non fa altro che aumentare le tensioni in un’area del globo dall’equilibrio già estremamente precario.
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di Mario Braconi
Il 13 luglio la Camera bassa del Parlamento francese ha approvato quasi all’unanimità (355 voti favorevoli, un contrario, venti astenuti) un progetto di legge che vieta alle donne di indossare il velo integrale tipico delle interpretazioni più estremiste della dottrina islamica. Anche se l’obbligo di indossare il burka ha origini culturali più che religiose, non essendo in effetti previsto letteralmente dal Corano, questa brutta tradizione è oggi appannaggio pressoché esclusivo delle correnti oltranziste islamiche, note per la loro brutale misoginia.
Se il provvedimento dovesse essere ratificato anche dal Senato e uscire indenne dal vaglio del Consiglio Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti Umani (ipotesi invero piuttosto remote), in Francia tra qualche mese una donna con il velo integrale rischierà una multa di 150 euro; poiché il burka rappresenta l’apoteosi di un’interpretazione religiosa che si distingue per l’estremismo maschilista e ha in odio il potere femminile (del corpo, della mente), correttamente la legge tenta di colpire gli uomini che obbligano le loro donne ad indossare il burka, minacciando sanzioni pecuniarie (fino a 30.000 euro) e promettendo, nei casi più gravi, perfino un soggiorno di un mese nelle patrie galere.
Si tratta di una legge che fa e farà discutere. Indiscutibilmente, l’humus nella quale essa è stata concepita non è dei più incoraggianti: è indiscutibile il fatto che la legge anti-burka finisca per vellicare (consapevolmente o meno) l’umore anti-islamico che serpeggia per il paese e per l’Europa intera (sono allo studio misure simili in Belgio e Spagna).
Da un punto di vista pratico, è lecito porsi qualche domanda sulla reale applicabilità delle future norme e sulle sue conseguenze indesiderate: ad occhio, sembra complicato provare in un tribunale (francese) che un padre / fidanzato / marito abbia veramente obbligato la figlia / fidanzata / moglie ad indossare il burka. E che ne sarà delle donne sottoposte al ripugnante giogo maschile che impone loro di lasciare scoperti a malapena gli occhi quando camminano per strada? Si può forse credere (in buona fede) che, a legge approvata, il maschio oppressore di turno diventi un cittadino modello, consentendo alle donne di casa di uscire non dico in minigonna, ma con un semplice foulard sul capo? O è forse più probabile che l’odiosa imposizione del burka, causa rischio multe, venga commutata in una vera e propria segregazione tra le quattro mura di casa?
Inoltre, la legge anti-burka ha le carte in regola per essere cavalcata da estremisti di ogni rango, i quali potrebbero trasformare il provvedimento in una ghiotta occasione per creare disordini nelle strade: sono intuibili le difficoltà in cui incorreranno i poliziotti chiamati ad imporre il rispetto di questa legge in una banlieu a forte densità islamica.
Se è lecito considerare criticamente tutte le leggi disegnate per “liberare” una qualche categoria di cittadini, irrilevanti quanto ciniche, sono le critiche alla legge basate sulla bassa incidenza statistica del fenomeno (si parla di 2.000 casi di donne in burka su circa 4-5 milioni di francesi di religione islamica): se anche potesse contribuire a soccorrere una sola donna oppressa, la legge avrebbe un senso. Va comunque notato che è una situazione inedita, e poco confortevole, la situazione in cui uno stato democratico occidentale legifera perfino su quello che i cittadini indossano: tende infatti a creare un collegamento logico quanto mai sgradito tra la République e la Repubblica Islamica iraniana…
La battaglia di Sarkozy, di cui la legge anti-burka è un tassello politicamente importante, ha come obiettivo un rafforzamento della cosiddetta identità francese: non ha torto Madeleine Bunting che, sul Guardian, si dimostra perplessa nei confronti delle decisioni politiche che suonano come un ultimatum, del tipo: “Questo è il nostro modo di vivere, sei dentro o sei fuori?”. Secondo la giornalista britannica, si tratta di una posizione pericolosa, se non altro perché apre la strada ad un altro quesito: chi è, alla fine, a decidere qual è il “nostro” stile di vita?
Pur con tutti i distinguo sopra citati, la legge del governo francese ha il pregio di mostrare attenzione ai diritti delle donne e di ribadire energicamente il principio della laicità dello stato. C’è chi vi vuole necessariamente vedere un attacco diretto agli stranieri e alle persone di cultura e tradizioni diverse dalle nostre: per onestà intellettuale, occorrerà ricordare che essa, pure all’interno di evidenti e numerosi limiti, ha come obiettivo polemico non una particolare tradizione religiosa, ma una specifica cultura, misogina, distruttiva e dunque particolarmente infetta per le sue vittime e per la società in generale.
Purtroppo sono molti gli intellettuali progressisti che sembrano non comprendere la gravità del significato del burka in termini di sottomissione della donna. Sembrano paralizzati dal loro timore di essere considerati politicamente scorretti o addirittura di tendenze razziste in senso lato (l’islam non è una razza, e comunque questo termine va bene al più per i cani) se si azzardano a mettere in discussione una tradizione culturale non occidentale, non importa se essa si dimostri in casi limite sciocca, barbara e criminale.
Esempio lampante di questa pericolosa cecità sono i commenti bislacchi di cui è infarcito il pezzo della Bunting sul Guardian del 14 luglio: “Sempre più spesso le ragazze scelgono spontaneamente di indossare il velo integrale, poiché lo considerano un potente segnale identitario. Alcune donne - una sparuta minoranza - probabilmente trovano profondamente offensiva la sessualizzazione pervasiva della cultura occidentale e reagiscono scegliendo un abbigliamento che segnali con forza la loro indisponibilità a venirci a patti e il loro sentirsi ‘altro’”.
Secondo la Bunting, dunque, sarebbero sempre più le islamiche a scegliere di andare in giro seppellite in quella che un deputato francese della Sinistra Repubblicana e Democratica ha definito “una tomba che cammina, una museruola”: parrebbe che la loro sia una “giusta” reazione al troppo sesso di cui è impregnata la nostra cultura. Secondo la Bunting queste donne non sarebbero dunque vittime di uomini ignoranti e violenti, ma di un mondo liberato in cui si dà al sesso l’importanza che merita. Se questo è il massimo cui possono arrivare le migliori menti progressiste europee, c’è poco da stare allegri.