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di Michele Paris
Al già cospicuo numero di soldati caduti in combattimento nella “guerra al terrore” inaugurata nell’autunno del 2001, le forze armate statunitensi devono aggiungere un’altra drammatica statistica che si sottrae spesso all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. A preoccupare i vertici politici e militari di Washington c’è, infatti, il numero sempre crescente di suicidi commessi dai reduci dei conflitti in Afghanistan e in Iraq. Nonostante i ripetuti tentativi di negare il nesso tra il disagio che conduce a gesti estremi e i metodi di addestramento e le esperienze traumatiche vissute sul campo di battaglia, appare evidente come sia proprio lo sforzo bellico degli USA a produrre conseguenze devastanti sulla psiche di migliaia di giovani americani e sui destini delle loro famiglie.
Secondo le cifre ufficiali, a partire dall’invasione dell’Afghanistan fino all’estate del 2009, l’esercito americano ha perso 761 soldati in combattimento. Nello stesso periodo, il numero dei militari in servizio che si sono tolti la vita ammonta invece a 817. Più nel dettaglio, come ha rivelato un recente articolo del settimanale Army Times basato sui dati del Dipartimento degli Affari per i Veterani, in media i reduci che tentano il suicidio ogni mese sono 950. Questo numero, peraltro, considera esclusivamente quei veterani che ricevono una qualche assistenza psicologica dallo stesso dipartimento governativo. Ancora, il sette per cento dei tentativi di suicidio vanno a buon fine, mentre l’undici per cento di quanti non riescono e togliersi la vita la prima volta, riprovano nuovamente entro nove mesi. Complessivamente, sono 18 i reduci delle guerre americane che si suicidano ogni giorno.
A sottolineare la gravità della situazione e l’inutilità dello sforzo delle alte gerarchie dell’esercito per porre un freno a questa strage silenziosa, c’è poi il progressivo aumento del numero dei suicidi negli ultimi anni. Il tasso di suicidi tra i militari dal 2001 al 2006 è addirittura raddoppiato, malgrado tra la popolazione civile sia rimasto invariato. Nel 2009, 160 militari in servizio attivo si sono tolti la vita, contro i 140 del 2008 e i 77 del 2003. L’accesso alle cure del Dipartimento dei Veterani sembra avere una certa incidenza sul contenimento del numero dei suicidi. Anche tra di essi, però, lo scorso anno si sono registrati oltre 1.600 tentativi e la hotline dedicata, istituita dal Dipartimento, riceve qualcosa come dieci mila richieste di aiuto ogni mese.
Uno dei fattori scatenanti questo malessere diffuso è senza dubbio il ripetuto invio dei soldati nei teatri di guerra e il conseguente accorciamento del periodo di riposto (“dwell time”) di un esercito interamente composto da volontari. Per la maggior parte della durata dei conflitti in Afghanistan e Iraq, la smobilitazione momentanea dei soldati impiegati al fronte è stata di un anno, mentre attualmente è stata estesa a poco meno di due anni. Secondo gli psicologi, tuttavia, sarebbero necessari almeno tre anni per alleviare lo stress prodotto dal servizio in una zona di guerra. L’unica soluzione - a parte il ritiro di tutte le truppe - sarebbe dunque quella di aumentare ulteriormente il numero dei soldati inviati al fronte, una strada difficilmente percorribile vista l’impopolarità delle due guerre attualmente sostenute dagli Stati Uniti.
La risposta all’ondata di suicidi da parte della autorità militari e politiche si è finora limitata, nel migliore dei casi, all’impiego di una schiera di psicologi. In molti casi, però, si continua a fare ricorso soltanto a massicce prescrizioni di farmaci che stanno creando numerosissimi casi di dipendenza. Una delle vicende più sconcertanti è stata portata alla luce da un articolo del New York Times, nel quale venivano descritte le condizioni in cui versavano i reduci ospedalizzati presso una struttura dell’esercito a Fort Carson, nel Colorado. Qui, come in altre strutture, i soldati venivano praticamente lasciati a loro stessi, trattati a psicofarmaci e liberi di accedere ad alcool e sostanze stupefacenti.
Se la connessione tra lo svolgimento del servizio in situazioni di fortissimo stress in zone di guerra e l’alto tasso di suicidi appare sufficientemente chiaro, non così sembra ai comandanti militari. In una audizione al Senato a marzo, infatti, il responsabile della sanità per l’esercito americano, generale Eric Schoomaker, aveva attribuito il fenomeno in gran parte alle precedenti situazioni familiari problematiche dei soldati stessi. Situazioni che effettivamente ricorrono molto spesso nei casi di suicidi, ma quasi sempre create proprio dall’impatto psicologico dovuto allo svolgimento del servizio in una zona di guerra.
Le difficoltà dei vertici militari a riconoscere pubblicamente le ragioni di una tale situazione traspaiono anche da molte altre dichiarazioni ufficiali. Tra di esse, quelle del numero uno dell’esercito, generale George Casey, di fronte ad una commissione della Camera dei Rappresentanti, e del Segretario dell’Esercito, John McHugh, al Senato. Il primo non riusciva a capacitarsi del fallimento dei provvedimenti messi in atto per prevenire il dilagare dei suicidi, mentre il secondo faticava a comprendere le ragioni di questi gesti disperati. Per entrambi, c’è da credere, i motivi vanno infatti ricercati in una condizione “patologica” precedente all’arruolamento piuttosto che nelle condizioni estreme in cui i soldati vengono addestrati ed impiegati sul campo.
Proprio le tecniche di addestramento sono state prese in considerazione da uno psicologo dell’Università del Texas ed ex ufficiale dell’aeronautica americana. Secondo il professor Craig Bryan, i militari si troverebbero cioè vittime di una situazione senza via d’uscita. “Addestriamo i nostri combattenti all’uso controllato della violenza e dell’aggressività, a reprimere qualsiasi reazione emozionale troppo forte di fronte alle avversità, a sopportare il dolore fisico ed emotivo e a superare la paura delle ferite e della morte”, ha affermato Bryan in un’intervista a Time.
Queste cosiddette qualità, mentre risultano necessarie in combattimento, “sono associate al rischio di suicidio. Esse non possono essere rimosse senza avere conseguenze negative sulle capacità dei nostri militari in guerra”. Il suicidio, in sostanza, per i militari non sarebbe altro che un inevitabile inconveniente del loro stesso mestiere. L’esperienza della guerra, inoltre, contribuisce a diminuire la paura della morte. E il facile accesso alle armi può risultare fatale.
Per quanto sia la più drammatica, il suicidio non è l’unica conseguenza negativa che attende i veterani dell’Iraq e dell’Afghanistan una volta rimpatriati. Per molti di essi, il trauma della guerra si traduce in enormi difficoltà di reinserimento nella società civile. Tra i reduci americani, ad esempio, la percentuale di disoccupati è di circa il 50% superiore a quella ufficiale. Centinaia di migliaia sono anche i senza tetto costretti a vivere per strada.
Queste, in definitiva, sono le conseguenze nascoste che gli strati più deboli della società sono costretti a pagare e che si nascondono dietro la retorica di una guerra “giusta”, combattuta per la democrazia e contro la minaccia terroristica in paesi lontani.
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di Eugenio Roscini Vitali
La Somalia è certamente una delle aree più instabili del pianeta, una regione devastata dalla carestia e dalla costante presenza della violenza, un fattore al quale la popolazione civile sembra essersi ormai rassegnata, abbandonata a se stessa come in un incubo che, giorno dopo giorno, si consuma negli scontri di potere, nelle battaglie per il controllo dei quartieri e dei villaggi, nelle lotte tra fazioni e nelle leggi imposte con la forza.
Sono ormai tre anni che le milizie islamiche Al-Shabaab guidate da Moktar Ali Zubeyr, e il gruppo radicale Hizbul Islam di Hassan Aweys, hanno in pugno gran parte del paese, da quando l’ex capo delle Corti islamiche, Sheikh Sharif Ahmed, si è schierato della parte del Governo di Transizione ed ha così perso ogni credibilità agli occhi dei somali. Tre anni di combattimenti durante i quali Washington e l’Unione Africana hanno sostenuto una leadership divisa e impotente, schiava degli interessi personali e delle lotte tra i clan.
Tre anni che vanno ad aggiungersi ad un conflitto ventennale e alla tragedia di un popolo perseguitato dall’angheria dei regimi, dai processi sommari e dalle punizioni spietate; un popolo costretto a fuggire da una Mogadiscio ormai in rovine, sotto la costante minaccia del fuoco incrociato degli AK-47, dei colpi di mortaio da 82 mm e delle Tecniche, le micidiali mitragliatrici montate sul retro dei Toyota pick-up.
In quello che molti definiscono “l’eterno conflitto”, la violazione dei diritti umani è crimine di tutti i giorni. Un crimine che subisce gran parte della popolazione da parte di tutte le parti in lotta, un bollettino di morte che si rinnova di giorno in giorno. All’uso indiscriminato di armi pesanti e ai bombardamenti sferrati dalle truppe “regolari” del Governo di Transizione e dai suoi alleati, fanno da contraltrare gli attacchi dei miliziani contro i civili e contro gli operatori umanitari, prigionieri spesso degli scontri che, nella capitale, nel Middle Shabelle e nelle regioni centrali di Galgadud e Bakol, vedono di fronte Al-Shabaab e Ahlu Sunna Waljama'a, il gruppo paramilitare che nel marzo scorso ha sottoscritto un accordo con il governo somalo.
Si calcola che dal gennaio 2007, nella sola Somalia centro-meridionale, le vittime civili sono circa 16 mila, più di 1,4 milioni gli sfollati, quasi 3,5 milioni le persone dipendenti dagli aiuti alimentari di emergenza distribuiti dalle organizzazioni umanitarie, gran parte dei quali andati distrutti a causa della guerra. Inoltre, sarebbero più di 20 mila i somali fuggiti in Kenia, Etiopia, Yemen e negli altri paesi confinanti.
A Mogadiscio le ondate di violenza continuano a provocare la fuga di migliaia di persone e le Nazioni Unite stimano che negli ultimi sei mesi almeno 100 mila civili hanno abbandonato la capitale per rifugiarsi nei campi profughi situati 30 chilometri più ad ovest, nel corridoio di Afgooye, dove sono già ospitati più di 300 mila sfollati. Negli ultimi mesi i bombardamenti sarebbero sempre più frequenti e ad aprile avrebbero perso la vita almeno 50 persone, per la maggior parte civili, alcuni dei quali bambini. I violenti gli scambi di artiglieria tra Al-Shabaab e gli uomini fedeli al Governo di Transizione interessano soprattutto la periferia settentrionale della città, le piazze di Dabka e Talibunka e il quartiere di Hodan, dove la settimana scorsa i mujahidin hanno affrontato i caschi verdi dall’Amisom, la missione di pace dell’Unione Africana in Somalia.
Da alcuni giorni si sta assistendo poi a un diverso tipo di violenza: gli atti di terrorismo contro i luoghi di culto. E’ una strategia del tutto nuova per lo scenario somalo che cerca di abbassare il livello di consenso fino ad ora ottenuto da Al-Shabaab a Mogadiscio dimostrandone la vulnerabilità. Due gli attacchi registrati negli ultimi giorni: la mina fatta esplodere il 27 aprile nella moschea di Abu Hureya e il duplice attentato che il 1° maggio ha colpito il mercato di Bakara e la moschea di Abdalla Shideye e che ha causato 39 morti ed almeno 70 feriti, alcuni dei quali gravissimi. Un’azione portata durante la consueta preghiera di mezzogiorno, quando il quartiere era gremito di fedeli, e che aveva come obiettivo primario un alto dirigente del movimenti islamico, Fuad Mohamed Khalaf, noto come Fuad Shongole.
Secondo l’organizzazione mondiale della sanità, durante i combattimenti non esiste alcun rispetto per la sicurezza dei civili e le strutture sanitarie non riescono ad assistere tutti i feriti; gli ospedali che sorgono nell’area di Mogadiscio sono in grave difficoltà e la carenza di dottori, infermieri qualificati e medicinali è ormai cronica. Per chi vive nelle zone stabilmente controllate dai radicali islamici le cose non vanno comunque meglio e le organizzazioni per i diritti umani parlano di processi sommari e di brutali forme di repressione.
Al-Shabaab vieta la mescolanza tra i sessi e, se le donne escono di casa senza indossare un particolare tipo di abaya, l’indumento femminile utilizzato nei paesi musulmani, vengono arrestate o punite con 10 frustate, anche se l’indigenza delle famiglie non permette l’acquisto dell’abito. Proibito l'uso di campanelle nelle scuole perché troppo simili a quelle usate nelle chiese cristiane; i ragazzi devono frequentare le duksi, le scuole coraniche e, ancora adolescenti, vengono costretti ad arruolarsi. Proibito il cinema, la musica e la visione delle partite di calcio e chi non si piega alle leggi imposte dal gruppo o non collabora con le autorità rischia di veder colpiti anche i parenti più stretti. I capelli lunghi e l’abbigliamento occidentale (bastano un paio di pantaloni lunghi) viene punito con l’umiliazione pubblica, così come non è tollerato non frequentare regolarmente la moschea o simpatizzare per il Governo di Transizione, un “reato” che comporta la pena di morte.
Gravissime poi le azioni contro i media e le organizzazioni umanitarie, con omicidi e sequestri di molti operatori e giornalisti: bloccate le trasmissioni radiofoniche di Voice of America e della BBC perché accusate di diffondere propaganda cristiana a favore dei nemici dei musulmani; sequestrate le attrezzature del media britanno a Mogadiscio, Beledweyn, Baidoa e in due località dello Shabelle; minacciate le radio locali che ritrasmettono i programmi non autorizzati; colpita la seda dell'emittente satellitare al-Jazeera, centrata da un razzo lanciato il 29 aprile scorso contro gli uffici di Mogadiscio; numerosi gli operatori umanitari uccisi o rapiti, come i quattro somali che collaborano con l'associazione Stella bianca, nelle mani degli estremisti dal 3 luglio 2008.
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di Alberto Mazzoni
Science é la più importante rivista statunitense di scienza. Sul numero del 30 aprile ha pubblicato un breve articolo che dimostra due cose: la prima é che l’embargo americano di cibo e medicine è tra le cause significative di almeno tre epidemie a Cuba; la seconda é che, nonostante questo, la sanità cubana è più efficiente di quella statunitense, perché le due organizzazioni garantiscono la stessa identica aspettativa di vita utilizzando risorse neanche confrontabili. La conclusione dei due autori (uno statunitense ed uno canadese) è che gli USA dovrebbero rimuovere l’embargo e provare ad adottare alcune soluzioni organizzative utilizzate a Cuba.
Cuba aveva un’aspettativa di vita superiore alla media caraibica già durante Batista. Dopo la rivoluzione, nonostante la presenza dell’embargo, l’aspettativa di vita crebbe più velocemente di quella della media dei paesi sviluppati, giungendo ai livelli statunitensi nel 1975 (dati ONU). L’unico periodo in cui la crescita della vita media a Cuba si è fermata è stato il periodo especial degli anni 90. A causa del crollo degli scambi col blocco sovietico la situazione economica crollò e con essa quella sanitaria. Il consumo di calorie scese del 40%, si diffuse l’anemia.
Quale momento migliore per i parlamento americano per introdurre due nuove leggi - la Torricelli Bill (1992) e l’Helms-Burton act (1996), volte a limitare rispettivamente gli scambi cubani con sedi estere delle compagnie americane e con compagnie non americane? Come conseguenza di queste leggi nel 1996 il formulario farmaceutico cubano era sceso a 900 farmaci dai 1300 del 1989. L’articolo cita pubblicazioni che collegano la mancanza di farmaci all’esplosione della tubercolosi del 1992 e degli anni immediatamente successivi, alla diffusione delle malattie intestinali del 1993, alle epidemie di neuropatie periferiche e ottiche (come la sindrome di Guillain-Barré nel 1994).
Al momento l’aspettativa di vita cubana è nuovamente pari a quella statunitense (78,2 anni), anche grazie alla ripresa degli scambi con gli altri paesi centro e sud americani. Con pragmatismo anglosassone gli autori insistono sul fatto che lo stesso risultato è ottenuto dai cubani con una spesa infinitesima: il 7% del PIL e 355 $ a cittadino all’anno contro il 15% del PIL e 6714 $ a cittadino statunitense. Come è possibile?
Secondo gli autori Cuba riesce ad ottenere risultati da mondo sviluppato con fondi da paese in via di sviluppo grazie a una serie di misure organizzative sviluppate per controbilanciare i danni dell’embargo: diffusione di un sistema di medici e ambulatori capillare - accento sulla prevenzione (è prevista per ogni cittadino una visita medica completa obbligatoria l’anno) - gratuità delle cure nella gran parte dei casi. Può sembrare contro intuitivo che spendere per mantenere le cure gratuite conduca a un risparmio ma se le cure sono gratuite i cittadini vi ricorrono anche quando il disturbo è lieve quindi a) le epidemie vengono prevenute e b) le malattie progressive vengono curate prima che la situazione si aggravi, due fattori che contribuiscono al risparmio.
Così come in numerosi altri capitoli della politica estera, l’annunciata svolta di Obama su Cuba ancora non c’é stata. Nel maggio 2009 la Philips Electronics of North America Corporation (società olandese con 20% di capitale USA) ha ricevuto una multa di 128.000 dollari US Office of Foreign Assets Control per aver portato dal 2004 al 2006 equipaggiamenti medici a Cuba, proprio in virtù dell’Helms-Burton act.
Ci sono comunque due leggi in discussione nel Parlamento Usa, una per consentire i viaggi turistici a Cuba, l’altra per consentire l’acquisto di medicinali. Gli autori giudicano queste due leggi necessarie, puntualizzando che la cosa più sensata sarebbe rimuovere l’embargo del tutto. Suggeriscono inoltre di avviare studi ufficiali e collaborazioni per stabilire quali delle pratiche cubane potrebbero essere adottate dalla sanità statunitense.
L’articolo è interessante per la chiarezza e la documentazione, ma soprattutto come esempio di analisi pacata di un aspetto di un paese sul quale tendono spesso a scontrarsi le ideologie più che le argomentazioni razionali.
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di Michele Paris
A conferma del progressivo deteriorarsi della situazione in Afghanistan per le truppe della NATO, è giunto la settimana scorsa un dettagliato rapporto del Pentagono commissionato dal Congresso americano. In 150 pagine, sono stati gli stessi analisti del Dipartimento della Difesa a mettere impietosamente in evidenza la crescente espansione dell’influenza talebana nel paese e la scarsa fiducia della popolazione civile nel governo-fantoccio del presidente Hamid Karzai.
Lo studio del Pentagono, nonostante lasci comprensibilmente intravedere qualche spiraglio per le forze alleate occidentali, contraddice in maniera lampante la retorica dei vertici militari e politici statunitensi sull’efficacia di uno sforzo militare che ha dato il via a nuove sanguinose operazioni negli ultimi mesi dopo l’aumento di truppe voluto da Obama. Una volta perfezionata la strategia della Casa Bianca entro il prossimo mese di agosto, saranno infatti circa 30 mila i soldati che raggiungeranno l’Afghanistan, portando a centomila il totale degli americani impiegati.
La valutazione interna arriva in seguito all’offensiva lanciata dagli USA nella provincia meridionale di Helmand e alla vigilia di una nuova e più imponente operazione attorno alla città di Kandahar, vera e propria capitale spirituale dei Talebani. Secondo il Pentagono, la prima iniziativa ha ottenuto qualche risultato positivo, anche se gli insorti avrebbero immediatamente infiltrato loro uomini nelle strutture locali, persuadendo gran parte della popolazione a non collaborare con il governo afgano e l’esercito occupante.
Proprio nelle regioni meridionali del paese, i talebani godono di un vasto supporto tra la popolazione, tanto che il rapporto ammette che qui il movimento di resistenza difficilmente potrà essere sconfitto del tutto. Piuttosto, nella migliore delle ipotesi, sembra ci si dovrà accontentare di contenerlo nel lungo periodo, per evitare che minacci l’esistenza stessa del governo Karzai. Significativamente, tra i 121 distretti afgani più importanti al fine della stabilizzazione del paese, in ben 92 la popolazione risulta complessivamente ben disposta verso i Talebani.
Questi ultimi, oltre a mostrare un livello di sofisticazione sempre maggiore nel condurre le proprie operazioni di guerriglia, non si limitano ad intimidire le popolazioni locali. Bensì, i governatori-ombra da loro designati, contribuiscono a garantire un certo grado di giustizia e qualche servizio sociale in aree dove il governo centrale è pressoché totalmente assente.
Sfruttando la frustrazione diffusa tra la gente comune, i Talebani trovano inoltre terreno fertile per reclutare forze nuove nella loro battaglia contro gli occupanti. A ciò vanno aggiunte le accuse - quasi sempre fondate - rivolte verso la corruzione dilagante tra i rappresentanti delle istituzioni locali e del governo di Kabul. Accuse che vengono propagate in maniera massiccia grazie a efficaci campagne di informazione e propaganda.
In risposta, almeno in parte, all’aumento del contingente NATO in Afghanistan, tra febbraio 2009 e marzo 2010 il livello di violenza è aumentato poi addirittura dell’87%. Da parte americana, come se non bastasse, ci si attendono ulteriori passi avanti da parte dei ribelli nell’impiego dei cosiddetti “Ordigni esplosivi improvvisati” (IED) nei prossimi mesi. I Talebani hanno d’altra parte facile accesso ad armi ed esplosivi vari, così da potersi assicurare “efficaci mezzi” di sussistenza per le loro operazioni militari.
Un punto molto controverso del rapporto del Pentagono riguarda invece il numero di decessi causati dalle forze occupanti. Secondo gli americani, le vittime civili afgane sarebbero diminuite nell’ultimo anno, mentre la maggior parte di esse avverrebbe perché i Talebani utilizzano i civili stessi come scudi umani. Secondo alcuni media americani, tuttavia, i primi mesi del 2010 avrebbero fatto segnare un drammatico aumento delle vittime civili causate dai militari americani e dai loro alleati. Esse sarebbero state 87 durante i primi tre mesi del 2010, contro le 29 dello scorso anno durante lo stesso periodo di tempo.
Alla luce delle recenti rivelazioni sui ripetuti tentativi di insabbiamento delle stragi compiute dalle forze NATO ai danni di civili - donne e bambini compresi - c’è da ritenere peraltro che tali cifre siano abbondantemente sottostimate. La questione risulta di cruciale importanza, poiché la morte di civili innocenti si traduce in ulteriore avversione nei confronti degli americani e in sostegno per gli insorti. Tanto più che all’indomani della nomina a comandante delle forze alleate in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, lo scorso anno aveva individuato nel contenimento del numero delle vittime civili l’obiettivo prioritario per costruire un rapporto di fiducia con la popolazione locale.
Mentre i vertici militari alleati promettono che a breve ci saranno inevitabilmente altre numerose vittime nelle operazioni a Kandahar, suscitando così nuove ostilità verso gli americani, il Pentagono si aspetta progressi da parte dei Talebani anche in aree del paese dove nel recente passato la loro presenza era stata relativamente modesta. Si tratta delle province dell’Afghanistan settentrionale e occidentale, dove la strategia dei ribelli sarà mirata a ridurre la partecipazione alle elezioni per il rinnovo del parlamento previste per il prossimo settembre.
A completare una valutazione decisamente più negativa rispetto alle analisi del recente passato, il Dipartimento della Difesa americano ha infine lanciato segnali poco incoraggianti anche per quanto riguarda le prospettive delle forze di sicurezza afgane. L’addestramento dell’esercito e della polizia locali rappresentano un momento fondamentale per procedere con un eventuale ritiro delle truppe della NATO, come chiedono da tempo gli elettori occidentali ai loro governi. Gli sforzi per la creazione di un esercito nazionale efficiente hanno prodotto però progressi molto modesti nell’ultimo anno, rendendo tuttora indispensabile la presenza nel paese delle forze NATO ai fini della sopravvivenza stessa del fragile e screditato governo Karzai.
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di Michele Paris
Le consuete manifestazioni del Primo Maggio si sono trasformate quest’anno negli Stati Uniti in un vasto movimento di protesta contro i continui attacchi della politica e delle forze di polizia nei confronti degli immigrati senza documenti. A mobilitare decine di migliaia di persone in una settantina di città americane sono state, in particolare, la recente durissima legge anti-immigrazione approvata dallo stato dell’Arizona e la finora mancata promessa del presidente Obama di promuovere un nuovo quadro legislativo che consenta un percorso di integrazione agli oltre dieci milioni di immigrati irregolari presenti sul suolo statunitense.
Il corteo più numeroso che ha animato il “May Day” d’oltreoceano è stato quello di Los Angeles, al quale hanno preso parte oltre 50 mila persone, tra cui il sindaco di origine ispanica, Antonio Villaraigosa, e l’arcivescovo della metropoli californiana, Roger Mahony. Venticinquemila sono stati invece i manifestanti a Dallas, nel Texas, 10 mila a Chicago e a Milwaukee, nel Wisconsin, qualche migliaio a San Francisco, New York e Washington. Nella capitale si è vissuto qualche momento di tensione, con l’arresto del deputato democratico dell’Illinois, Luis Gutierrez, fermato dalla polizia assieme ad alcuni sindacalisti e leader delle associazioni a favore dei diritti degli immigrati per aver inscenato un sit-in di fronte alla Casa Bianca.
Queste dimostrazioni a sostegno degli immigrati irregolari erano già state annunciate dallo scorso mese di marzo, quando svariati gruppi della società civile avevano fissato per il Primo Maggio l’ultimatum al Congresso per la presentazione di una riforma complessiva. L’inerzia della politica e l’introduzione della già famigerata legge SB1070 in Arizona, ha però dato alle manifestazioni un impulso e un coordinamento del tutto inaspettati.
Molte delle personalità che hanno parlato alla folla, come il reverendo Jesse Jackson a Chicago, non hanno esitato ad accostare la lotta per i diritti degli immigrati a quella per i diritti civili degli anni Sessanta. Lo stesso Jackson ha definito l’Arizona come la nuova Selma, riferendosi alla cittadina dell’Alabama diventata il simbolo della battaglia contro la segregazione razziale nel Sud degli Stati Uniti. Tra gli aspetti più discussi del provvedimento adottato dal Parlamento locale dell’Arizona, ci sono la facoltà assegnata alle forze dell’ordine di fermare chiunque sia sospettato di essere un immigrato illegale per chiedere la verifica dei documenti, pena l’arresto e la deportazione, e l’aver reso un crimine penale il solo fatto di risiedere sul territorio dello stato senza permesso.
Al centro delle rivendicazioni dei partecipanti alle manifestazioni negli USA c’era la fine dei raid contro gli immigrati senza documenti , aumentati vertiginosamente negli ultimi mesi nonostante le garanzie offerte dall’amministrazione Obama per una risoluzione equa del problema. Per le personalità politiche (democratiche) presenti agli eventi nelle varie città americane, tuttavia, l’obiettivo principale era quello di convogliare la protesta verso il supporto per la riforma di cui si sta da qualche settimana cominciando a parlare a Washington.
Sia il sindaco di Los Angeles che il parlamentare democratico arrestato, così, si sono fatti interpreti della proposta di legge appoggiata dallo stesso Obama e che difficilmente può però essere considerata una giusta soluzione al problema dell’immigrazione. Riflettendo le continue concessioni alla demagogia repubblicana e dei gruppi di estrema destra che chiedono misure repressive, il progetto di riforma, pur prevedendo un lungo e complicato processo verso la cittadinanza americana, comprende infatti la massiccia militarizzazione del confine meridionale e l’istituzione di un sistema nazionale di identificazione personale al limite della violazione dei diritti civili.
Per quanto le manifestazioni del Primo Maggio abbiano lanciato un segnale molto forte per la politica di Washington, grazie ad una vasta mobilitazione su scala nazionale, in alcune città le presenze sono state tutto sommato modeste. In una città come New York, ad esempio, dove si stima vivano circa tre milioni di abitanti nati al di fuori dei confini americani, a Union Square si sono visti poche migliaia di dimostranti, sintomo della sfiducia e della disillusione che pervadono gli immigrati irregolari, ma anche dei loro crescenti timori nel venire a contatto con le autorità di polizia.
Anche se il testo della riforma che circola a Washington - frutto delle trattative tra il senatore democratico di New York, Chuck Schumer, e quello repubblicano della Carolina del Sud, Lindsey Graham - rappresenta una risposta quasi esclusivamente punitiva al problema dell’immigrazione, appare del tutto improbabile che il Congresso possa licenziare una nuova legge quest’anno.
Con un calendario dei lavori attualmente dominato da altre questioni delicate, come la riforma del sistema finanziario e la legge sul contenimento delle emissioni in atmosfera, anche Obama ha riconosciuto l’improbabilità di ottenere un qualche risultato concreto quest’anno. A ciò si aggiunga il desiderio da parte di entrambi i partiti di evitare dibattiti laceranti su temi scottanti come l’immigrazione durante la lunga campagna elettorale già in corso per le elezioni di medio termine del prossimo novembre.
Nonostante il polverone suscitato dalle misure adottate in Arizona e le proteste scaturite in tutto il paese, nulla di positivo c’è da attendersi nel prossimo futuro dalla Casa Bianca e dal Congresso. Come in altri ambiti, insomma, anche la questione dell’immigrazione sembra destinata a finire nella lista già folta delle illusioni e delle aspettative deluse da parte dell’amministrazione Obama.