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di Mario Braconi
L’ayatollah iracheno Muhammad Hussein Fadlallah, definito ufficialmente “terrorista” dal Governo USA nel 1995, si è spento lo scorso 4 luglio a settantacinque anni per un’emorragia interna. Il religioso sciita, assai popolare nel suo paese ed in tutto il Medio Oriente, viene comunemente considerato uno degli sponsor più blasonati (addirittura uno dei “padri spirituali”, per così dire) di Hezbollah, a dispetto del fatto che negli anni 90 i suoi rapporti con il movimento politico-militare fossero piuttosto tesi.
La sua “benedizione” all’attacco terroristico di Hezbollah alle caserme delle Forze di Pace del 23 ottobre 1983 (cinque tonnellate e mezzo di tritolo, trecento militari americani e francesi uccisi, una sessantina di feriti) non lo rende un personaggio simpatico - almeno in questa parte del globo, né particolarmente potabile per i funzionari delle cancellerie dei Paesi Occidentali (con qualche rilevante eccezione, come si vedrà oltre).
Racconta Robert Pollock, il giornalista del Wall Street Journal che lo intervistò nel marzo del 2009, che nei corridoi dei suoi uffici Fadlallah aveva appeso i ritratti di quelli che egli considerava “martiri” islamici: tra di essi, quello di Imad Mughniyah, peso massimo del terrorismo internazionale, assassinato dal Mossad (pare con la complicità di qualcuno dei “suoi” cui non era particolarmente simpatico) con una carica esplosiva nascosta nel poggiatesta dell’auto il 12 febbraio del 2008; quando Mughniyah, cui viene attribuito un lungo elenco di crimini terroristici ributtanti (tra cui l’ideazione dell’attacco del 23 ottobre 1983) morì, Fadlallah ne pianse la dipartita con le seguenti parole: “Oggi la resistenza ha perso uno dei suoi pilastri”.
Per completezza ed obiettività storica, sia pure nel sordido pantano del terrorismo e delle guerre di occupazione, occorrerà comunque aggiungere che lo stesso Fadlallah fu oggetto di un tentativo di assassinio organizzato dalla CIA con la complicità dei sauditi che, oltre a fallire l’obiettivo (anche se alcune delle sue guardie del corpo perirono nell’esplosione dell’autobomba, l’ayatollah si salvò), uccise 60 persone e ne ferì duecento; tutta gente che passava di là per caso o che era andata in moschea.
Da un punto di vista politico, la scomparsa di Fadlallah coinciderà con un rafforzamento della stretta iraniana in Libano; considerazioni morali a parte, bisogna riconoscere che l’opposizione di Fadlallah alla Repubblica Islamica avrebbe costituito un’ottima carta per porre un limite alla nefasta influenza iraniana nel Paese dei Cedri: una carta che, tanto per cambiare, né gli USA né gli altri Paesi occidentali interessati a quello che accade in quell’area, hanno saputo giocarsi nel modo giusto. Come nota Pollock, infatti, Fadlallah non ha mai accettato la dottrina inventata da Khomeini e nota come “velayat-e faqih” (in persiano, “tutela dell’esperto della Legge”) secondo cui un giurista musulmano ha il diritto di bloccare qualsiasi legge del Parlamento che non sia perfettamente conforme alla sua propria interpretazione della shari’a (legge islamica): di fatto, la premessa all’imposizione di una teocrazia. “Sempre meglio l’influenza di Fadlallah rispetto a quella degli agenti iraniani che ora si presenteranno come i suoi eredi”, conclude Pollock.
A quanto pare, lo scomparso ayatollah era dotato di un carisma non comune: sono infatti ben due le professioniste (un’ambasciatrice e una giornalista della CNN) che hanno perso (o rischiato di perdere) il loro lavoro a causa dei commenti riservati alla memoria del religioso islamico subito dopo la sua scomparsa. Frances Guy, ambasciatrice del Regno Unito in Libano, nel suo blog ha così tratteggiato la figura del religioso: “Quando gli si faceva visita, si poteva esser certi di godere di un autentico dialogo, di uno scambio rispettoso di opinioni, e quando si andava via, si aveva la sensazione di essere una persona migliore. [...] Il mondo ha bisogno di più persone come lui, desiderose di spingersi oltre gli steccati delle diverse fedi”.
Sembra quasi incredibile che una persona di consumata esperienza, quale necessariamente deve essere quella che siede sulla poltrona attualmente occupata dalla signora Guy, possa lasciarsi andare ufficialmente a commenti di tale imbarazzante ingenuità. “Ciò non vuol dire”, conclude Pollock, “che qualsiasi commento positivo su quell’uomo debba automaticamente diventare off-limits”. Si noti che a dirlo è un giornalista non immune al fascino di Fadlallah, visto che nel suo pezzo fa sapere ai suoi lettori di quel “luccichio disarmante” che ha visto balenare negli occhi dell’anziano Fadlallah. Ma il mondo va in modo diverso da come vorrebbe Pollock e, ovviamente, la signora Guy ha dovuto ritrattare in fretta e furia per salvare il posto.
Peggio è andata a Octavia Nasr, redattrice senior della CNN per il Medio Oriente, costretta a dare le dimissioni per aver postato sul suo account Twitter un commento nel quale manifestava il suo dolore per la scomparsa di Fadlallah, da lei salutato come “uno dei giganti di Hezbollah”. Tanto è bastato per farla cadere nella graticola sulla quale gli ultrà pro-Israele sono stati lieti di cacciarla, e dalla quale ha potuto liberarsi solo dopo aver lasciato la CNN.
Il caso della Nasr fa particolarmente riflettere: come nota acutamente Brian Whitaker, del Guardian, decano dei corrispondenti dal Medio Oriente, sono in parte anche i moderni giornali ad invitare i loro giornalisti a “sconfinare nei cosiddetti social media, per stabilire un rapporto più personale ed informale con i propri lettori”. Un’interessante innovazione, si dirà, anche se capace di trasformarsi in doccia fredda per tutti i lettori che vivono nell’illusione che il giornalista sia un essere privo di opinioni proprie sul materiale che “copre”. E certo mettersi alla prova su un social network basato sull’impossibilità di veicolare messaggi più lunghi di 140 caratteri è una bella sfida.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. E' ufficiale: l’Europa potrà essere nuovamente spiata in nome della guerra al terrorismo. Dopo diversi mesi di trattative, il Parlamento europeo ha sottoscritto in questi giorni a Bruxelles il controverso patto Swift. Gli Stati Uniti avranno libero accesso alle banche dati di milioni di cittadini europei e potranno utilizzarli nella loro campagna antiterrorismo. E, ancora una volta, la privacy e la democrazia vengono sacrificate in nome di una guerra: una guerra ambigua che, come tutte le vere e proprie lotte armate, non ha né buoni né cattivi e in cui tutti sono sia vittime che carnefici.
Il patto Swift prevede innanzitutto uno scambio di dati unilaterale tra Europa e Stati Uniti: i Governi del Vecchio continente concederanno alla Casa Bianca pacchetti di informazioni riguardanti milioni di cittadini europei che verranno poi registrati nelle banche dati dei servizi segreti statunitensi. Qui potrebbero rimanere salvati per ben cinque anni, alla faccia della “legge bavaglio” e di tutte le diatribe italiane al riguardo.
L’accordo prende il nome dall’azienda di comunicazione che gestirà il delicato scambio di informazioni: è Swift, una multinazionale che ha la sua sede principale nel comune vallone di La Hulpe, in Belgio, a 30 chilometri da Bruxelles. Tra parentesi: la praticità delle scelte del neo Parlamento europeo lascia esterrefatti.
E la parte più controversa dell’accordo Swift è proprio il modo in cui il gruppo di comunicazione belga lavora. Swift, infatti, non si preoccuperà di passare le informazioni alla Casa Bianca in maniera precisa e mirata, quindi limitatamente ai singoli individui indiziati, ma a “pacchetti”. Se un sospetto vive a Milano, ad esempio, Swift potrebbe trasmettere ai funzionari statunitensi tutti i nomi dei cittadini che hanno versato soldi in un Paese extra europeo dalla regione Lombardia in un determinato periodo.
A scegliere i criteri di traffico dei dati, tra l’altro, saranno gli Stati Uniti: chi è sospetto, i motivi della presunta colpa di quest’ultimo e il grado di estensione dell’indagine stessa dipenderanno esclusivamente dai canoni statunitensi. A garanzia della correttezza nel trattamento delle informazioni ci sarà, a Washington, un unico e solo funzionario europeo. Nel Vecchio Continente, invece, le richieste d’indagine saranno esaminate dall’Europol, l’Ufficio europeo di polizia, che tutto ha a cuore tranne che l’intimità dei cittadini. Nessun magistrato, quindi, a gestire la nostra privacy quotidiana, ma un organo di polizia non specializzato nella faccenda.
Nonostante la netta maggioranza con cui l’accordo è stato sottoscritto nel Parlamento europeo - 494 voti a favore e 109 contro - la battaglia per la tutela della privacy e della democrazia in Europa non è ancora finita. Al momento, la Comunità Europea non ha un proprio sistema di valutazione per la lotta al terrorismo e quindi si deve affidare a Swift a queste condizioni. La prospettiva dei parlamentari europei è quella di crearne uno nei prossimi 5 anni, così da filtrare razionalmente l’eventuale trasferimento dei dati agli Stati Uniti. E in questo nuovo software di valutazione “nostrano” si cercherebbe di usare più delicatezza nei confronti della privacy dei piccoli.
I tratti del sistema di valutazione europeo dovrebbero essere definiti entro il prossimo anno: l’idea è redigere un accordo strutturale che difenda il singolo cittadino da un eventuale sistema di polizia troppo invasivo. Limitare l’analisi indistinta dei dati “in massa”, ad esempio, e dare una qualità giudiziaria al controllo e alla trasmissione di questi ultimi verso gli Stati Uniti, sarebbero già - seppur piccole - forme di rispetto del singolo. Attenzioni, in realtà, che erano già state considerate a Bruxelles in passato proprio in riferimento alla questione Swift e ora dimenticate.
La situazione, quindi, sarebbe solo transitoria. Ma si può sospendere temporaneamente il trattamento corretto della privacy di milioni di persone - e quindi uno dei valori della democrazia - in vista di un futuro cambiamento? Si potrebbe, forse, in nome della giustizia assoluta. Un valore che però non esiste e che comunque non appartiene alle istituzioni a stelle e strisce.
Quello che appare chiaro, ben più e ben oltre la sbandierata guerra al terrorismo, è che un paese - gli Usa - avrà il monopolio del possesso dati e l’arbitrarietà assoluta sulle modalità del loro utilizzo. Che sarà politico, militare e, cosa che difficilmente verrà ammessa, commerciale. I dati che non verranno considerati utili per la “war of terror” non verranno certo eliminati. Verranno in qualche modo consegnati alle imprese statunitensi che, a loro volta, avranno un vantaggio enorme sulle altre. L’antiterrorismo diventa un business e il business dell’antiterrorismo non conosce crisi.
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di Mariavittoria Orsolato
“Un nuovo terremoto” così il leader dei contadini haitiani Chavannes Jean-Baptiste ha definito il dono che la Monsanto - l’arcinota multinazionale agrochimica specializzata in OGM - ha destinato alle popolazioni colpite dal disastro dello scorso 12 gennaio. Sessantamila sacchi, 475 tonnellate circa di semi ibridi, per un valore complessivo di 4 milioni di dollari, che però i contadini sono caldamente invitati a boicottare.
Quella dei paysans haitiani è infatti una vera e propria protesta, maturata dall’idea che, con il pretesto dei soccorsi e della ricostruzione post-sisma, grandi multinazionali, come appunto la Monsanto, si vogliano inserire forzosamente nell’economia locale, un’economia prevalentemente a carattere di sussistenza che sarebbe irrimediabilmente 0000stravolta.
Secondo Chavannes, infatti, “le sementi rappresentano una sorta di diritto alla vita. Ecco perché oggi abbiamo un problema con la Monsanto e con tutte le multinazionali che vendono semi: semi e acqua sono patrimonio comune dell'umanità”.
Molti avranno sentito parlare della Monsanto a causa delle controversie che il suo metodo operativo ha aperto nello scenario degli OGM, scatenando le ire dei gruppi ambientalisti: essendo geneticamente modificati, i semi prodotti dalla multinazionale di St. Louis hanno sì grosse rendite in termini di dimensioni del raccolto o della resistenza a malattie e siccità, ma al contempo sono semi sterili, incapaci cioè di trasmettere le proprie caratteristiche agli esemplari figli; perciò chi decide di usare questo tipo di semenze è costretto, ad ogni semina, a comprare nuovi esemplari anch’essi sterili.
C’è però un altro problema ed è da questo che i contadini haitiani hanno mosso la loro protesta: per la naturale azione dei venti, le propaggini delle colture geneticamente modificate arrivano ad intaccare anche i prodotti di chi invece ha scelto di continuare a coltivare con il metodo biologico.
L’ MPP (il movimento dei paysans haitiani) si batte infatti per la sovranità alimentare - ossia per il diritto di ciascun Paese di definire in modo autonomo la propria politica agricola, il diritto delle comunità di decidere cosa produrre, e quello dei consumatori di poter consumare prodotti sani - e lo scorso 23 giugno un gruppo di agricoltori di Hince ha bruciato pubblicamente alcune sementi di mais ibrido donate del colosso dell’agrotecnologia, invitando i colleghi ad emularli.
Secondo il portavoce della società, Darren Wallis, è tutta una questione di buona fede: “Monsanto ha fatto questa donazione, in poche parole, perché era la cosa giusta da fare. Le necessità di Haiti sono significative e noi abbiamo i semi che potrebbero aiutare gli agricoltori a far crescere il cibo non solo per se stessi ma, con un raccolto abbondante, anche per i bisogni alimentari di altri cittadini haitiani”.
L'azienda ha poi sottolineato in un comunicato stampa che le sementi non sono geneticamente modificate, come sostengono Chavannes e i suoi paysans, ma ha ammesso che i semi sono stati in parte trattati con fungicidi e pesticidi, tra cui Maxim XO e tiramina (sostanze note per i loro effetti collaterali sulla salute umana).
“L’associazione che è stata fatta tra organismi geneticamente modificati e quello che stiamo facendo è completamente errata - dice Christopher Abrams della Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID) che sta contribuendo a distribuire le sementi - ma da allora, si sono generate opinioni tra la popolazione sul significato presunto di questa operazione”. E il significato presunto è, secondo Chavannes ma anche secondo il più semplice dei sillogismi, che “i nostri agricoltori smetteranno di essere autonomi e dovranno dipendere da una multinazionale come la Monsanto o altre multinazionali che vendono semi” e così dicendo il eader dell’MPP accusa anche il presidente haitiano René Préval di “collusione con l’imperialismo”, nell’intento di svendere il patrimonio agricolo nazionale.
Non è, infatti, sviluppo sostenibile quello che pretende di legare a doppio filo una realtà rurale come quella di Haiti con le teste di serie dell’universo multinazionale: costretti a pagare ciclicamente per delle sementi altrimenti gratuite, i contadini sarebbero comunque coattati ad attrezzarsi per il nuovo tipo di coltura e ad approvvigionarsi perciò all’azienda madre, la Monsanto appunto.
Ma c’è di più: nel momento in cui un agricoltore decide di servirsi dei semi prodigiosi della Monsanto, deve firmare una sorta di contratto in cui si impegna a non tenere da parte i semi e a non venderli a terzi: una semplice formalità, secondo molti, che cela però uno stretto controllo, espletato, secondo svariati testimoni, da un vero e proprio esercito di investigatori privati che segretamente acquisiscono immagini e video dei contadini.
La paura dei paysans haitiani è infatti quella di finire come i colleghi americani cui la Monsanto ha indirizzato ben 112 querele per un totale di 21,5 milioni di dollari di risarcimento: in breve, la multinazionale ha citato in giudizio tutti quei contadini che, dopo aver adottato il loro sistema, hanno contaminato i raccolti circostanti per effetto della naturalissima impollinazione che, da che mondo è mondo, permette di riprodurre le piante.
La multinazionale di St.Louis è a un passo dal monopolizzare il mercato delle sementi ed il pericolo più tangibile è che con l’adozione sempre più massiccia di tale tipo di coltivazione la semina convenzionale scompaia, rendendo la Monsanto di fatto padrona dell’approvvigionamento agricolo. Haiti è già una terra abbastanza martoriata ed è normale che questo dono, apparentemente disinteressato, venga considerato un cavallo di Troia.
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di mazzetta
La messa all'indice dell'Iran, ben oltre ogni ragionevole misura, soddisfa numerose esigenze di propaganda: l'Iran è diventato in pochi anni la principale minaccia all'Occidente, sostituendo al Qaeda che si è rivelata poco credibile e l'Iraq, che si scoperto che non era una minaccia per nessuno solo dopo averlo devastato. La minaccia iraniana è incredibilmente amplificata, essendo l'Iran un paese del tutto sprovvisto di aviazione militare; manca infatti di qualsiasi capacità di proiezione e di attacco al di fuori dei propri confini, nella guerra moderna senza il dominio dello spazio aereo non si va da nessuna parte.
Dicono quelli che sostengono l'esistenza della minaccia, che l'Iran ha un sacco di missili. Missili di origine negli anni '60, poi passati attraverso mani cinesi, nord-coreane, pachistane e, infine, iraniane. Niente di troppo moderno, ma sufficienti a trasportare una testata più o meno nei pressi dell'obbiettivo. I missili iraniani sono una copia di quelli pachistani, poiché è dal Pakistan che l'Iran ha avuto accesso alla tecnologia missilistica e nucleare, anche se i primi a fornire know-how nucleare al paese persiano sono stati proprio gli Stati Uniti; negli anni '70 la General Electric usava l'immagine di Reza Pahlevi, lo Scià di Persia, come testimonial.
Pochi giorni fa Robert Gates, il Segretario della Difesa statunitense, ha detto che l'Iran potrebbe innaffiare l'Europa di missili, anche centinaia. Non ha elaborato oltre e nessuno gli ha chiesto che motivo avrebbe l'Iran di provocare danni insulsi e attirarsi l'ira di cinquecento milioni di europei armatissimi, che le atomiche ce le hanno davvero, insieme all'aviazione e a un sacco di altri apparati mortiferi. I media hanno raccolto senza alcuna critica, così come quando, due giorni dopo, il capo della CIA ha detto che l'Iran ha abbastanza uranio per fare due bombe.
Nessuno ha fatto notare che si tratta di una notizia vecchia e di uranio arricchito pochissimo, inutile per le bombe, e che pure l'Iran si è già impegnato a far arricchire all'estero. Vero è che gli Stati Uniti vorrebbero vendere all'Europa quella doppia patacca che è lo scudo antimissile. doppia perché oltre a non aver mai funzionato si tratta di una difesa contro una minaccia inesistente, tanto che si deve far finta che l'Iran minacci l'Europa anche se i suoi quattro missili a lungo raggio arrivano a malapena alla Grecia e all'Italia del Sud e non si capisce bene a cosa dovrebbe servire un attacco del genere.
Unendo tutti i puntini, si può osservare come la pressione americana sull'Iran miri principalmente a evitare che l'Iran arricchisca in proprio il suo uranio. Una posizione giustificata ufficialmente dal timore che l'Iran costruisca ordigni nucleari con quell'uranio, ma in realtà una determinazione che porta dritta a un evidente tentativo di costruire ed espandere un mercato dell'energia nucleare nel quale si producano meccanismi di controllo e di cartello su questa fonte d'energia.
La situazione è curiosa, perché l'Occidente ha, di fatto, abbandonato il nucleare, tranne le eccezioni di Francia e Giappone che comunque non mettono in cantiere centrali da parecchio. Tuttavia è l'Occidente a detenere la miglior tecnologia sul mercato con le centrali di penultima generazione, che hanno parecchi difetti ma sono meglio dei reattori russi e non sono una sfida ancora da vincere come quelli francesi di “ultima generazione”. Niente di meglio dell'opportunità di spacciare tecnologia obsoleta e costosissima ai principali concorrenti commerciali si penserebbe, ma è qui lo sbaglio; o meglio, qui è solo una parte del guadagno.
Oltre a questa opportunità, il governo degli Stati Uniti sta lavorando alacremente per costituire un vero e proprio cartello dell'uranio arricchito e per fare in modo che questo cartello possa avere un mercato sicuro di riferimento, rappresentato dai paesi che vorrebbero ricorrere al nucleare nel prossimo futuro, ma che l'Occidente dice che non possono arricchire l'uranio perché con le stesse centrifughe ci si può anche arricchire l'uranio per fare le bombe.
Un vero e proprio uovo di Colombo: se poi il “contratto” prevede anche che le scorie saranno processate dal fornitore di uranio arricchito e infine accollate al paese contraente, si comincia a intravvedere un business di proporzioni ciclopiche. I paesi che volessero ridurre la loro dipendenza dal petrolio si troverebbero a dipendere da questo cartello di paesi terzi che s'incarica (a pagamento) di costruire le centrali, arricchire l'uranio e processare le scorie, lasciando le centrali e le stesse scorie processate nei paesi contraenti. Un business infallibile, almeno a prima vista, e clienti più che fidelizzati, in balia dei prezzi che i gentili fornitori vorranno stabilire, visto che dopo aver speso miliardi di dollari per la costruzione di una centrale è impensabile lasciarla spenta perché costa troppo alimentarla.
Una vera e propria schiavitù commerciale, per istituzionalizzare la quale mancano solo alcuni dettagli, il più importante dei quali è sicuramente l'adeguamento del Trattato di Non Proliferazione alle esigenze degli Stati Uniti e degli alleati. Con il TNP vigente qualsiasi paese firmatario ha diritto a usare l'energia atomica per scopi civili e a dotarsi di tutto quel che serve, compresi gli impianti per l'arricchimento. Il TNP proibisce inoltre ai paesi firmatari di fornire tecnologia nucleare ai paesi non firmatari, ostacolando così il recente mega-accordo tra Stati Uniti e India.
Il prezzo da pagare per mettere mano al TNP è la discussione della posizione di Israele, sempre in prima linea a segnalare l'Iran come stato-canaglia, ma che non aderisce al TNP e non consente alcun controllo sul proprio programma atomico, pur essendo a tutti gli effetti considerato un paese dotato di molte armi nucleari e della capacità di recapitarle a lungo raggio, anche fino al Nord Europa, a proposito di minacce atomiche.
L'altro prezzo da pagare è riuscire a travisare la logica apparente di un'operazione del genere e fare in modo che gli altri paesi accettino, per minaccia o convenienza, la narrativa fantastica proposta dal Dipartimento di Stato, che in questo caso si muove nel ruolo dei picciotti di un plausibile racket dell'uranio.
Uno degli ostacoli più duri da superare resta la resistenza del Giappone, che fino a poco tempo fa non ci pensava proprio di fare affari con paesi estranei al TNP, ma che adesso ci sta pensando. Anzi, ci deve pensare, perché americani e francesi premono perché il governo del Sol Levante cambi la sua politica, almeno nei confronti dell'India, che non aderisce al TNP e che vi aderirà in una forma light offerta appositamente dagli Stati Uniti al governo indiano come corollario all'accordo per la cooperazione atomica.
GE Hitachi e Toshiba-Westinghouse sono però aziende controllate da Tokyo che hanno bisogno della luce verde del governo prima di assumere qualsiasi impegno. Senza questo consenso il gioco si complica enormemente, ma il grande business sembra solleticare il neo-premier giapponese e in tempi di crisi è difficile resistere a opportunità del genere.
Dall'altra parte di questo futuro mercato è invece molto difficile spiegare a un paese come la Giordania che deve accettare lo stesso servizio chiavi in mano già scelto da Arabia Saudita, Emirati e altri (e tra questi potenzialmente anche l'Italia), perché la Giordania ha uranio proprio e il re, ottimo alleato, non riesce proprio a capire perché dovrebbe lasciare ad altri paesi la determinazione del suo prezzo una volta arricchito.
La Giordania è un paese poverissimo e l'idea che la magra risorsa uranifera vada ad alimentare un business altrui è davvero difficile da digerire, esattamente com'è difficile da digerire per l'Iran che già con il petrolio è stato preso in questo infernale meccanismo, visto che gran parte dei suoi guadagni dalla vendita di petrolio grezzo è spesa per l'acquisto di prodotti raffinati altrove e ben più costosi.
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di Fabrizio Casari
Non aver obbedito agli Usa gli è costato una condanna a quaranta anni di carcere, dopo essere stato deposto dal governo di Washington con un’invasione militare. Lo afferma, da un’aula di Tribunale a Parigi, dove è stato estradato per reati minori, l’ex Generale e Presidente panamense, Manuel Noriega, che degli Usa è stato agente fedele prima e nemico giurato poi. L’ex uomo forte di Panama, che a Parigi ha subìto una nuova condanna a sette anni per riciclaggio di narcodollari, riapre così, a venticinque anni di distanza, una delle pagine più nere della storia dell’intelligence e della politica statunitense.
Va anche detto che Noriega non è stato l’unico - e non sarà probabilmente l’ultimo - a passare dalle stelle alle stalle nella considerazione statunitense: basti pensare sia a Saddam Hussein che, soprattutto, a Osama bin Ladin, oggi il numero uno dei ricercati Usa, ma ieri collaboratore fedele della Cia e del Pentagono (che diede, tra l’altro, alla famiglia bin Ladin, una delle più importanti commesse militari).
Dall’organizzazione dei Mujaheddin afgani contro i sovietici, fino all’invio dei combattenti islamici in Bosnia contro i serbi, Osama bin Ladin ebbe un ruolo anche nello scandalo Iran-Contras, lo scambio di armi, droga e denaro tra l’Amministrazione Reagan e l’Iran di Khomeini, attraverso il quale la CIA finanziò la guerra contro il legittimo governo sandinista in Nicaragua, costata 50.000 morti al piccolo paese centroamericano.
Ma se lo sceicco ha preferito tacere sugli ambigui rapporti con l’intelligence militare statunitense, Manuel Noriega ha invece scelto di raccontare come divenne un nemico giurato degli Usa dopo esserne stato un alleato.
Ma chi era Manuel Noriega? In patria lo soprannominavano cara de pina (faccia d’ananas). Per via del volto butterato, certo, ma anche a causa di una buona dose di cinismo e ipocrisia, doti che lo aiutarono non poco ad arrivare al vertice del Paese.
Il Generale panamense, divenuto poi Presidente, era partito da molto lontano; diplomato alla scuola militare di Fort Benning, in Georgia, divenne presto un interlocutore affidabile degli statunitensi: scarsamente incline alle teorie militari, sviluppò però una spiccata passione per le teorie anti-insurrezionali. Ma, soprattutto, una notevole disposizione all'arricchimento a qualunque costo.
E’ per questo che diventò un riferimento modello per chi, a Panama, gestiva la Escuela de Las Americas, il centro d’addestramento militare statunitense dove i peggiori delinquenti latinoamericani, golpisti a tempo indeterminato e torturatori in servizio permanente effettivo agli ordini del gigante del Nord, vennero formati alla guerra contro il comunismo e la sovversione. Che sono, in sostanza, di due modi diversi di chiamare il virus dell’indipendenza latinoamericana che metteva in discussione il dominio della Casa Bianca sul continente.
Imperava la teoria Monroe (l’America agli americani) e al Pentagono e alla CIA non si lesinavano sforzi per compiacere Reagan e Bush, quest’ultimo direttore generale della CIA prima di diventare vicepresidente con Reagan e Presidente successivamente. In fondo, la carriera di Bush padre, come quella di Reagan (che spiava per conto del FBI), sembrano indicare significative coincidenze nel legame tra intelligence e governo nordamericano, quando quest'ultimo é di marca repubblicana.
E’ in quel contesto che Noriega diventa un alleato prezioso. Arruolato dalla CIA nei primi anni ’70, come ammesso dall’ex direttore generale di Langley, l’Ammiraglio Stanfield Turner, Noriega - stipendiato con 100.000 dollari all'anno - rimase vincolato all’agenzia fino al febbraio del 1988, quando la DEA spiccò un mandato di cattura internazionale per traffico di droga.
E’ utile ricordare che nel 1981, l'allora Presidente panamense, Omar Torrijos, venne fatto saltare in aria mentre si trovava a bordo di un elicottero: la United Fruit Company non aveva certo gradito la riforma agraria del generale divenuto presidente. E che gli Stati Uniti abbiano avuto molto a che fare con l'attentato, é stato rivelato ampiamente da documenti declassificati.
E Noriega? Beh, guarda caso, subito dopo la morte di Torrijos, divenne Capo di Stato Maggiore delle Forze armate panamensi. Non più, quindi, un affiliato alla CIA tra i tanti, ma un interlocutore privilegiato importante per Langley. Ma che Noriega fosse implicato nel traffico di droga non vi sono dubbi, come non ve ne sono sul fatto che lo realizzasse in nome e per conto suo personale e della CIA.
Noriega divenne un uomo fondamentale per gli Usa, perché straordinariamente importante era l’istmo di Panama, il cui omonimo canale era - ed è - l’unica via marittima di collegamento tra Oceano Pacifico e Oceano Atlantico ed è passaggio obbligato nel collegamento tra nord e sud del continente americano. Se si pensa a cosa questo significhi sotto il profilo del controllo commerciale e militare, si capisce come mai gli Usa abbiano avuto nel controllo di Panama una delle loro (tante) ossessioni dominanti. E il generale panamense divenne l’uomo giusto al momento giusto.
Noriega diede un notevole aiuto alle operazioni più sporche dell’Amministrazione Reagan, ma “la madre di tutte le operazioni” era certamente quella che la Casa Bianca mise in piedi per finanziare i contras nicaraguensi, impegnati nell’aggressione al governo sandinista in Nicaragua. Nel 1984, il Congresso Usa approvò l’emendamento Boland, limitando così la strategia di Reagan di aggressione al Nicaragua. Reagan decise quindi che la sua guerra poteva esser fatta per procura proprio dai contras.
Dopo il 1984, con il Congresso che limitava i movimenti e i sandinisti che vincevano sul terreno militare, l’ansia di guerra in Centroamerica espose ogni giorno di più la Casa Bianca nelle covert action illegali. Panama assunse un'importanza enorme per le operazioni militari statunitensi, soprattutto per quelle che non potevano essere realizzate in basi statunitensi, dentro o fuori gli Usa che si fossero trovate. Sia perché, appunto, in violazioni delle disposizioni del Congresso, sia perché la Casa Bianca e la CIA negavano ogni coinvolgimento nell’aggressione al Nicaragua. Per questo ci fu bisogno di operare fuori e tramite amici fedeli.
Ma questo non fermò certo la crociata reaganiana: nel corso dei due anni seguenti i funzionari del governo Usa, violando pienamente la legge americana e le leggi internazionali, continuarono a finanziare i contras. Il denaro arrivava dal traffico di droga organizzato con i narcos colombiani e le armi venivano acquistate con i proventi della droga. Venne alla luce il ruolo dell’aviazione militare salvadoregna, vera e propria agenzia di viaggi della coca proveniente dalla Colombia.
Dalla base aerea di Ilopango, in El Salvador, fino in Texas, la coca viaggiava ben custodita e non sorvegliata. Destinazione Los Angeles, dove operava Freeway Rick, spacciatore nicaraguense che diffuse crack in tutti gli states. La Commissione Kerry del Senato americano, appurò poi che anche l’aereoporto militare della Florida era una delle destinazioni previste di questi viaggi a basso rischio ed alto profitto.
E che il traffico di droga, dentro e fuori gli states, servì per finanziare i contras, venne dimostrato dalle inchieste giornalistiche realizzate da Gary Webb, pubblicate dal San Jose Mercury News e successivamente raccolte nel libro "The dark alliance". Gli articoli gli valsero per due volte il Premio Pulitzer di giornalismo, ma non gli salvarono la vita. Gary Webb venne “suicidato” nel 2005. Dissero che si era ucciso, ma i colpi sul volto erano due: strano modo, per non dire impossibile, di suicidarsi…
I contras, definiti da Reagan “combattenti per la libertà”, erano autentici macellai, gestiti da alcuni personaggi principalmente legati agli esuli anticastristi della Florida al comando di Felix Rodriguez e Luis Posada Carriles, agli ex appartenenti alla Guardia Nazionale di Somoza guidati dal maggiore Enrique Bermudez e a mercenari di varia nazionalità, arruolati in ogni dove del mondo. Erano addestrati da uomini dell’intelligence israeliana, argentina e cilena.
La supervisione del tutto era affidata alla CIA e il collegamento tra questa santa alleanza e la Casa Bianca era rappresentato dal colonnello Oliver North e dal maggiore Pointexder, mentre il garante della copertura presidenziale era il Vice presidente George Bush, ex capo della Cia. North, che agiva di concerto con Eliott Abrams e la struttura del direttorato per l’America latina del Dipartimento di Stato Usa, era il coordinatore di tutte le covert action statunitensi e fu proprio lui ad organizzare il tutto.
E se dell’addestramento dei contras si occuparono, appunto, cileni, israeliani ed argentini, nessuno dei tre paesi risultò utile sotto il profilo della logistica. Noriega venne quindi coinvolto e Panama - insieme a Honduras e Costa Rica - entrò a pieno titolo nell’operazione di sostegno ai terroristi contras. L’Honduras e il Costa Rica offrivano basi nel loro territorio, ma l’attenzione internazionale cominciava a diventare difficile da gestire e i sandinisti, poi, riuscivano a colpire le basi della contra in teritorio honduregno e costaricense. Proprio per diversificare le fonti d’accesso, quindi, Panama divenne quindi uno dei canali per i soldi e per le armi statunitensi.
Succede perciò che le pressioni della CIA verso cara de pina aumentano. Non chiedono più solo un ruolo di logistica e di sostegno diplomatico, ma vogliono che Panama divenga la base fondamentale per la guerra contro il Nicaragua e contro l’FMLN in El Salvador. Ma Noriega non ci sta, non vuole coinvolgere Panama in un ruolo attivo contro il Nicaragua e Cuba.
Dapprima respinge le richieste dell'esponente della destra salvadoregna, Roberto D'Abuisson, capo degli squadroni della morte e mandante dell’assassinio di Monsignor Romero, di limitare i movimenti dei capi del FMLN a Panama; successivamente, cosa molto più determinante per la sua fine, respinge le richieste del tenente colonnello statunitense Oliver North, che chiede di fornire assistenza militare ai contras del Nicaragua.
Noriega insiste oggi - ma non da oggi - nel dire che il suo rifiuto di andare incontro alle richieste di North sta alla base della campagna statunitense per estrometterlo. E sostiene che siano proprio gli Usa ad averlo incastrato. Il rifiuto di prestare Panama alla pianificazione dell’aggressione militare al Nicaragua divenne motivo di scontro aperto con i suoi vecchi capi. Noriega non era più né fedele, né fidato. Era di nuovo, soltanto, cara de pina.
Fin quando Noriega collabora e si arricchisce, alla CIA va bene. Ma diventa inutile e pericoloso quando, il 18 marzo del 1988, decide di rifiutare l’offerta che due funzionari statunitensi gli portano a Panama. Dal momento che cara de pina si tira fuori dal grande gioco, non serve più. Washington vuole sostituirlo e gli offre di ritirarsi in Spagna con alcuni milioni di dollari e lui, in cambio, dovà tacere per sempre. Noriega rifiuta, è convinto di avere ancora carte da giocare.
Ma ci sono anche altre versioni dell’accaduto, come quella che vede Noriega chiedere a North un aiuto per ripulire la sua immagine dopo la pubblicazione sul New York Times di un articolo di Seymour Hersh, offrendo la sua disponibilità al tenente-colonnello della Marina Usa ad aiutare i Contras. Secondo questa versione, North e Noriega si incontrarono il 22 settembre del 1986 a Londra per perfezionare l’accordo ma, purtroppo per entrambi, tre settimane dopo fu abbattuto dall’esercito sandinista un aereo pieno di documentazioni compromettenti che fece esplodere lo scandalo Contras. North non riesce nemmeno a difendere se stesso, meno che mai potrebbe aiutare il socio panamense. E a questo punto, Noriega si tira indietro definitivamente.
Il rifiuto del generale darà così il via all’operazione mediatica, politica e infine militare destinata a destituirlo. Il 20 Dicembre del 1989, Washington invade l’isola con 27.000 marines e rangers. Dopo cinque giorni di combattimenti contro i “battaglioni della dignità nazionale”, gli Usa prendono il controllo dell’istmo e Noriega, che si era rifugiato nella Nunziatura apostolica, si arrende il 3 Gennaio del 1990. Washington mette al suo posto Guillermo Endara, che presta giuramento - simbolicamente, si potrebbe dire - nella base militare USA a Panama.
Nel processo tenutosi a Miami, notoriamente luogo dei peggiori scandali giudiziari statunitensi, per via dell’estrema politicizzazione della Procura locale, vengono fuori le colossali balle con cui si sostiene l’impianto accusatorio. Impianto che venne rivisto completamente diverse volte, man mano che si sviluppavano problemi con i testimoni, le cui storie si contraddicevano l'una con l'altra. Il procuratore statunitense trattò con 26 diversi trafficanti, tra cui Carlos Lehderr, che ottennero riduzioni di pena, pagamenti in contanti e il permesso di tenersi i proventi della droga in cambio della testimonianza contro Noriega.
Peccato che diversi di questi testimoni erano stati arrestati dallo stesso Noriega per traffico di droga a Panama. Alcuni testimoni, in seguito, ritrattarono le loro deposizioni e numerosi agenti di CIA, DEA, DIA, e del Mossad israeliano, che erano a conoscenza del traffico di droga in Centro America, hanno dichiarato pubblicamente che il processo era una messinscena.
Ma non era giudiziaria l’accusa che pendeva sull’ex-generale: era politica, e politica doveva essere la sentenza. Noriega venne così dichiarato colpevole e condannato - il 16 settembre 1992 - a 40 anni di prigione per traffico di droga e estorsione, pena poi ridotta a trent’anni da un successivo giudizio. Il messaggio che arriva da Washington è chiaro: chi disobbedisce agli Usa, la paga.
Ma il Nicaragua, divenuto la croce di Noriega per l'ossessione di Reagan, é tornato sandinista. Daniel Ortega, vent'anni dopo l'invasione di Panama, governa di nuovo. Il messaggio che arriva da Managua é quindi altrettanto chiaro: chi disobbedisce agli Usa una volta, magari la paga; ma chi disobbedisce ogni giorno, per tutta la vita, vince.