di Alessandro Iacuelli

La Corea del Nord ha chiesto il riconoscimento ufficiale di "potenza nucleare", dopo anni di trattative e tira e molla, soprattutto con gli Stati Uniti ed il Giappone, da sempre contrari allo sviluppo atomico del regime corano. Il governo di Pyongyang ha dichiarato, attraverso l'agenzia di stampa di Stato, che costruirà tutti gli armamenti atomici che ritiene necessari. Il ministero degli Esteri ha anche detto, attraverso un memorandum reso pubblico, che il Paese si unirà agli sforzi internazionali sulla non proliferazione "solo se sarà trattato alla pari dalle altre potenze nucleari", ribadendo inoltre la richiesta di un trattato di pace permanente con gli Stati Uniti che rimpiazzi l'armistizio che mise fine alla guerra di Corea del 1950-1953.

Da Washington è stata subito respinta l'idea di un trattato di pace, se Pyongyang rifiuta di mettere fine al suo programma nucleare. In pratica, secondo l'agenzia Kcna, voce del governo di Pyongyang, "la Corea del Nord produrrà tanto nucleare quando riterrà necessario, ma non parteciperà alla corsa agli armamenti nucleari né ne produrrà più di quelli che sente necessari".

Certo, suona decisamente contraddittorio il voler produrre armamenti nucleari e contemporaneamente non voler partecipare alla corsa agli armamenti. Così come, sul piano internazionale, ma anche su quello del buon senso, ci si chiede cosa potrebbe significare quel "non ne produrrà più di quelli che sente necessari". Necessari per cosa? La Corea del Nord, oltre ad una mancata piena ripresa dei rapporti diplomatici con la vicina Corea del Sud, non è minacciata militarmente da nessuno ed è sotto l'ala protettiva del potente vicino cinese. Lo si è visto in sede di Consiglio di Sicurezza dell'ONU, dove da anni la Cina pone il veto ogni volta che si parla di sanzioni verso il regime coreano.

Di sicuro non vanno d'accordo con USA e Giappone, ma allora perché produrre armamenti nucleari? La cosa preoccupa fortemente il vicino Paese del Sol Levante, soprattutto dopo i recenti test missilistici coreani, che hanno dimostrato come i vettori di Pyongyang hanno gittata sufficiente per colpire proprio il Giappone.

Secondo alcuni esperti americani, il Paese asiatico dispone di circa 50 kg di plutonio, quantità sufficiente a realizzare da sei a otto armi nucleari. Pyongyang, che secondo alcune indiscrezioni di stampa starebbe preparando un terzo test nucleare a maggio o a giugno, ha boicottato i colloqui per il disarmo nucleare con cinque potenze regionali (tra cui gli Stati Uniti) per oltre un anno, ponendo condizioni sul suo ritorno al tavolo tra cui la fine delle sanzioni ONU imposte dopo i suoi test nucleari dello scorso maggio. Naturalmente questo terzo test complicherebbe una vicenda diplomatica già tesa, e contribuirebbe ad un ulteriore isolamento del Paese sul piano internazionale.

La chiave di lettura, probabilmente, è proprio in questo: nell'isolamento. La richiesta di essere riconosciuta come potenza nucleare, il voler essere trattati alla pari delle altre potenze nucleari, è forse il segnale chiaro che l'isolamento e le sanzioni ONU iniziano a pesare sulla testa del regime. Il Paese vuole "contare di più" sul piano internazionale. Ma non è un Paese con risorse e commerci tali da guadagnarsi l’attenzione, né trattasi di un Paese democratico sotto il profilo dei diritti umani. Non lo sono nemmeno Cina e Russia, certo. Ma con una seria differenza: la Russia può contare grazie alle sue risorse sul piano energetico, la Cina invece ha dalla sua il sistema industriale in crescita spaventosa e l'invasione commerciale dei mercati di tutto il mondo. Alla Corea del Nord cosa resta? Una manciata di bombe atomiche le torna quindi utile.

Questa presa di posizione internazionale della Corea infatti arriva proprio all'indomani del Vertice sulla Sicurezza Nucleare che ha riunito i rappresentanti di 47 paesi a Washington il 12 e 13 aprile, dove è stato affrontato il tema della potenziale minaccia rappresentata dal "terrorismo nucleare". Dal canto suo, il presidente Obama, che ha fatto della sicurezza nucleare uno dei suoi cavalli di battaglia, ha affermato che non useranno, né minacceranno di usare, armi nucleari contro i paesi che aderiscono al Trattato di Non Proliferazione. Trattato mai firmato dalla Corea del Nord che, assieme all'Iran, è stata esplicitamente esclusa dagli Stati Uniti dal recente vertice. Con la differenza che a tutt'oggi non vi sono prove che dimostrino che Teheran stia perseguendo un programma nucleare di tipo militare, mentre Pyongyang è ufficialmente in possesso di armi nucleari.

Convocando un vertice sulla sicurezza nucleare senza invitare la Corea del Nord e l'Iran, cioé un Paese in possesso di armi atomiche e un Paese firmatario del Trattato di non proliferazione che sta sviluppando un proprio programma nucleare, si sceglie di non dialogare con due Stati con i quali sarebbe essenziale discutere i temi della sicurezza nucleare mondiale. Obama, secondo soprattutto gli analisti arabi, ha dato un pessimo esempio di una politica di "doppio standard" nei confronti degli altri Paesi, un esempio di politica dei "due pesi e due misure".

di Giuseppe Zaccagni

L'Iran annuncia che "nei prossimi giorni" discuterà con i Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu (invece che con gli Stati del gruppo 5+1) la proposta di scambiare il proprio uranio scarsamente arricchito con uranio al 20%. Intanto la Francia respinge preventivamente ogni nuova proposta di Teheran. Risponde il ministro degli Esteri di Teheran, Manucher Mottaki: "Nei prossimi giorni condurremo discussioni dirette con i 14 membri del Consiglio di sicurezza e indirette con il quindicesimo membro, gli Stati Uniti, sullo scambio di combustibile". L'Iran, quindi, sul suo nucleare tratta, ma non molla. E rilancia all'Occidente una proposta tesa alla costituzione di un organo internazionale indipendente e la relativa sospensione dall'Aiea di chi minaccia di usare l'atomica.

E' questa la sintesi del vertice di Teheran che ha visto riuniti nei giorni scorsi  i ministri degli Esteri di otto paesi - tra in quali Iraq, Siria e Libano - e i viceministri di altri 14, tra i quali la Russia, oltre a esperti nucleari di una sessantina di nazioni. Anche la Cina, tra l'altro, era presente al vertice pur se con un rappresentante di secondo piano.

Nel corso dell'incontro si è parlato molto del Trattato di non proliferazione (Tnp), del disarmo delle potenze nucleari e del pericolo rappresentato dall'arsenale atomico israeliano. E in tal senso i partecipanti alla conferenza hanno messo in guardia contro qualsiasi attacco contro i siti nucleari iraniani, lanciando un appello ad Israele affinchè aderisca al Tnp.

E' chiaro, comunque, che l'iniziativa è stata anche una risposta al vertice sulla sicurezza nucleare andato in scena a Washington il 12 e 13 aprile scorsi e che è stato utilizzato dal presidente Obama per fare pressioni sui leader mondiali al fine di affrettare l'approvazione di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica di Ahmadinejad. Ma alle iniziative del leader della Casa Bianca ha subito risposto la Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, che con un messaggio ufficiale ha ribadito che "il solo criminale nucleare del mondo e cioè gli Usa afferma falsamente di essere impegnato a combattere la proliferazione di armi nucleari, ma non ha intrapreso nè intraprenderà mai alcuna serie azione in questo senso". Tesi e temi scottanti che spingono verso i fronti della nuova guerra fredda.

Dal canto suo il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha proposto, oltre a una "revisione equa" del Tnp, la creazione di "un organo internazionale indipendente sotto l'egida dell'Onu" che disponga di "pieni poteri per pianificare e supervisionare il disarmo e la non proliferazione nucleare". Inoltre, ha chiesto che "tutti gli Stati che sono dotati dell'arma nucleare, che l'hanno utilizzata o che hanno minacciato di utilizzarla" siano "sospesi dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea)". Un chiaro riferimento alla nuova dottrina in materia di nucleare approvata recentemente da Obama, che non esclude l'uso da parte degli Usa di armi atomiche contro l'Iran (e la Corea del Nord).

Nel vertice di Teheran - e sempre nel quadro di un pericoloso precipitare degli eventi - si è insistito soprattutto sulla piena attuazione del Trattato di non proliferazione che, ha spiegato il ministro degli Esteri iraniano, Manucher Mottaki, "fu costituito  sulla base di tre principi fondamentali: il disarmo nucleare, la non-proliferazione delle armi nucleari e l'uso pacifico dell'energia nucleare". Tuttavia - ha sottolineato  Mottaki - alcuni stati   nucleari "non hanno onorato" gli impegni in  materia di non  proliferazione, poichè  "hanno fornito assistenza a  Stati non del Tnp in particolare Israele a acquisire armi nucleari o sviluppare ulteriormente tali ordigni disumani".

Dello stesso avviso anche Kazem Jalali, portavoce della Commissione parlamentare per la Sicurezza Nazionale e Politica Estera, secondo cui alla prossima Conferenza di revisione del Tnp, in programma a maggio a New York, saranno presenti due fronti: "Il primo, guidato dagli Stati Uniti, mira a limitare il numero dei Paesi che intendono accedere alla tecnologia nucleare per usi pacifici, mentre il secondo fronte è costituito da Paesi non nucleari, che chiedono il disarmo in tutto il mondo".

Si è, di nuovo, al punto di partenza in un crescendo di tensioni. Perchè alla minaccia di nuove sanzioni Teheran risponde dando il via libera a dieci nuovi "siti" dove verranno realizzati impianti per l'arricchimento dell'uranio. E si sa che, attualmente, la Repubblica Islamica arricchisce il suo uranio presso l'impianto di Natanz senza rispettare gli "avvertimenti" del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. E allora: nubi nere sul futuro? Forse c'è anche qualche timida schiarita. Perchè il ministro degli Esteri iraniano Mottaki ha dichiarato di voler discutere con tutti i membri del Consiglio eccetto che con gli Usa. Da Washington per ora, non ci sono risposte. I tempi si allungano e la tensione resta alta. 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Poco prima di Pasqua, il ministero dell'Economia tedesco ha pubblicato il rapporto annuale 2008 sulle esportazioni di materiale bellico della Germania. Una comunicazione poco vistosa, diffusa quasi in sordina proprio mentre il Bundestag, il Parlamento tedesco, era in ferie e, soprattutto, fatta in grande ritardo. Il comunicato descrive in maniera particolareggiata le autorizzazioni e le licenze concesse dal Governo Merkel per l'export delle armi da guerra e degli armamenti nell'ormai lontano 2008: nonostante il ritardo, non ha mancato di destare l'attenzione dell'ala più critica dell'opinione pubblica tedesca. La relazione ufficiale è stata diffusa in questi giorni dal BITS, il Centro Informazioni per la Sicurezza Transatlantica di Berlino. A Otfried Nassauer, direttore del Centro, il compito di commentarne il contenuto nell'edizione odierna del quotidiano berlinese Tagesspiegel.

Nel 2008 il Governo tedesco ha autorizzato l'esportazione di materiale bellico per un totale di 5,8 miliardi di Euro, superando il valore dell'anno precedente di oltre 2 miliardi di Euro. I dati parlano chiaro: per quel che riguarda l'export di armamenti, tra cui radar e satelliti, camion, trasporto truppe e logistica a terra, la Germania ha aumentato il suo volume d'affari virtuale del 57,6 per cento nel giro di un anno. Secondo quanto riporta il quotidiano berlinese Tagesspiegel, si tratterebbe della cifra più alta raggiunta negli ultimi 13 anni. Forse, aggiunge Nassauer, addirittura dell'intera storia della Repubblica federale.

I dati contenuti nel comunicato ufficiale permettono anche un'analisi più approfondita del fenomeno.  Le autorizzazioni per l'esportazione di materiale bellico sono aumentate soprattutto per quel che riguarda le armi da guerra leggere nel senso più banale e crudele del termine, quell armi che possono essere trasportate facilmente da una persona singola o da un gruppo di persone, come mitra, lanciagranate, munizioni o mine antiuomo.

Dai 464 milioni di Euro previsti nel 2007, la Germania è passata ad autorizzare un'esportazione di 2,62 miliardi nel 2008. Altro particolare interessante, dal comunicato emerge che il 95 percento delle autorizzazioni sono state concesse a stati "terzi", non appartenenti né alla Nato né alla Comunità Europea.

Ciò che non viene affrontato in maniera chiara, invece, è il volume effettivo degli affari conclusi dallo Stato tedesco nell'ambito dell'export dell'equipaggiamento bellico in generale. E cioè quante sono le transazioni concretamente portate a termine indipendentemente dal valore delle autorizzazioni concesse dal Governo. Da questo punto di vista, secondo Nassauer, le informazioni vengono fatte passare con il contagocce e arrivano, spesso, troppo tardi. Come a voler evitare un confronto diretto con l'opinione pubblica.

Nel rapporto 2008, l'unico dato reso noto a questo riguardo è il valore delle armi da guerra, quelle finalizzate all'uccisione, effettivamente vendute dalla Germania. Secondo quanto riporta Nassauer, nel 2008 l'esportazione concreta di queste ultime - indipendentemente dalle licenze concesse - è diminuita leggermente, da 1,5 a 1,4 miliardi di Euro. Ma Nassauer non si lascia illudere: "Molte delle autorizzazioni alla vendita rlasciate dal Governo tedesco nel 2008 sono state probabilmente utilizzate per operazioni vere e proprie conclusesi soltanto nel 2009", sottolinea il direttore del BITS. Con ogni probabilità, stando ai ritmi attuali, per conoscere i dati relativi all'anno 2009 si dovrà aspettare il 2011.

Tra le esportazioni autorizzate nel 2008, tra l'altro, vengono segnalate anche alcune vendite "problematiche". Come le licenze per gli export verso l'Arabia Saudita, con cui sono state concesse autorizzazioni per un valore complessivo di 55 milioni di Euro, per la maggior parte investiti nell'acquisto di fucili d'assalto Heckler & Koch G36. Il Pakistan, invece, ha ottenuto permessi per una somma complessiva di 93 milioni di Euro, mentre alla Thailandia è stato venduto un simulatore di sommergibile: a quanto sembra, quest'ultima starebbe pianificando la costruzione di una flotta di sommergibili.

E sono proprio i sommergibili e i carri armati a essere tra i beni prodotti dall'industria bellica tedesca che riscuotono maggiore successo all'estero. A marzo, il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) ha pubblicato la classifica dei Paesi considerati i maggiori esposrtatori di materiale bellico del 2009: dopo gli Stati Uniti e la Russia, la Germania si ritrova al terzo posto. Un podio di scarso onore. 
 
 
 

di Eugenio Roscini Vitali

Aprendo il fuoco contro un aereo che sorvolava i cieli della città yemenita di Sa’ada, i ribelli sciiti Houthi hanno rotto la tregua sottoscritta con il governo centrale lo scorso 12 febbraio. L’episodio è certamente una delle più gravi violazioni fino ad oggi registrate e mina un cessate il fuoco che avrebbe dovuto porre definitivamente fine alla guerra civile nel nord. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Reuters, il velivolo su cui viaggiavano alcuni funzionari governativi e militari non sarebbe stato colpito.

Questo episodio rappresenta comunque un segnale evidente di come la pace concordata a febbraio non accontenti nessuno: non soddisfa i ribelli sciiti che, appoggiati da Teheran, puntano a ristabilire nel nord l’imamato zaydita rovesciato il 27 settembre 1962 dal golpe organizzato da un gruppo di nazionalisti legati al presidente della RAU, Gamal Abdel Nasser. E non soddisfa il governo, già alle prese con un’immagine minata dall’instabilità del aree controllate dalle cellule terroristiche legate ad al-Qaeda.

Tanto meno soddisfa l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, preoccupati per l’unità stessa del Paese e per l’esistenza di un movimento secessionista che nel sud controlla l’antica città portuale di Aden, la capitale commerciale dello Yemen che si affaccia su un tratto di mare dove passa gran parte del greggio diretto verso occidente. Ma soprattutto non soddisfa le vittime di questo conflitto, centinaia di migliaia di profughi che da anni fuggono alla ricerca un posto sicuro nei pochi ed affollati campi profughi messi a disposizione dalle organizzazioni umanitarie internazionali.

Aderendo alla tregua del 12 febbraio scorso, il governo del presidente Ali Abdullah Salehe e i ribelli Houthi guidati da Abdel-Malek al-Houthi avevano messo fine alla sesta fase di una guerra iniziata nel giugno 2004 con l’insurrezione del Sa’ada, la regione nord occidentale al confine con le province arabe di Asir, Jazan e Najran. In sei anni, il conflitto, che in questa occasione ha visto il coinvolgimento diretto delle truppe e dell’aviazione Saudita, ha causato la morte di circa 8.000 persone tra civili e soldati  ed ha costretto alla fuga più di 250.000 civili; una guerra interrotta da sei tregue più o meno traballanti e caratterizzata dalla cronica assenza di volontà nel voler rendere giustizia alla vittime e far luce sulle numerose violazioni contro le leggi di guerra perpetrate da entrambe le parti.

L’ultima fase di questa guerra a “puntate” (la precedente si era conclusa nel luglio 2008) è iniziata l’11 agosto 2009 con l’operazione “Terra bruciata”, un massiccio attacco portato contro le postazione della guerriglia Houthi dalle truppe del Generale Ahmed al-Ashwal, Capo di Stato maggiore dell’esercito yemenita. Con un centinaio di morti ed un numero imprecisato di feriti, i colpi dell’artiglieria e le bombe sganciate dai Mig-29 Fulcrum hanno messo subito a dura prova la popolazione shiita: decine di villaggi distrutti e migliaia di persone costrette a fuggire verso i campi profughi di Mandaba, nel distretto di Baqim, o verso quelli più a sud di Al-Muzruq, Al-Matama, Khaiwan, Hajja Haradh, Al-Mandhaba, o verso le tendopoli sorte ad Al-Boqe’e, alle porte di Sa’ada.

Una situazione allarmante che si è aggravata a novembre, quando l’Arabia Saudita ha annunciato il blocco di parte della costa yemenita ed è poi entrata in guerra dando aperto sostegno all’operazione intrapresa dal governo yemenita: con l’intento di creare una “buffer zone” di 10 chilometri, i Tornado IDS della Royal Saudi Air Force hanno attaccato le zona di confine ed hanno colpito i  distretti di Saqayn, Majz, Haydan, Sahar, Razih, Shada, Ghamr, Al-Dhahir e Harf Sufyan.

Nel dicembre scorso l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), precisava che pur non essendo possibile verificare il numero esatto delle vittime degli ultimi mesi, dal 2004 i civili che avevano perso la vita a causa del conflitto erano circa 1.750, gli sfollati 175.000 e almeno 800.000 le persone coinvolte negli scontri. Due mesi dopo le agenzie internazionali dichiaravano di poter assistere solo una parte dei 265 mila yemeniti che erano riusciti a sfuggire ai bombardamenti e alle angherie della guerriglia, sfollati che per la seconda o terza volta erano partiti alla disperata ricerca della protezione dell’Onu.

A differenza delle altre fasi, questa volta il conflitto ha catalizzato però l’attenzione dei media, soprattutto per l’intervento saudita a sostegno degli interessi Usa nella Penisola Araba e per l’appoggio iraniano ai ribelli Houthi. E’ stato così possibile amplificare le numerose denuncie delle organizzazioni umanitarie e delle stesse Nazioni Unite e venire a conoscenza della difficoltà in cui si trovava un popolo già provato dalle difficoltà di una vita estremamente dura. Numerosi i casi di violazione delle leggi di guerra, atti denunciati in un report pubblicato da Human Rigth Watch, dove si parla dei gravissimi danni causati dai bombardamenti compiuti in aree densamente abitate e dalle operazioni militari eseguite senza che la popolazione civile avesse avuto modo di evacuare le zone interessate.

Nel rapporto vengono anche elencate le numerose violenze consumate dai ribelli che, oltre ad aver impedito il ricovero dei feriti, avrebbero compiuto esecuzioni sommarie ed arruolato ragazzi non ancora diciottenni. Tutte azioni per le quali i guerriglieri Houthi erano già stati accusati e che lo stesso Abdel-Malek al-Houthi aveva negato con una lettera inviata il 22 giugno 2009 a Human Rights Watch.

Dalla metà di febbraio le Nazioni Unite riescono ad aiutare il 17% dei profughi, 45.000 civili ospitati in sette grandi tendopoli e nove insediamenti minori. I rimanenti 218.000 esuli sarebbero invece abbandonati a se stessi, ammassati all’aperto o in sistemazioni di fortuna costruite nei pressi dei centri d’accoglienza dove, a causa dell’ostruzionismo delle autorità e della limitata rete messa in piedi dall’organizzazione internazionale, non riceverebbero un’assistenza adeguata. Ci sono poi i civili che, a causa dei bombardamenti e delle recenti operazioni militari, sono stati costretti ad attraversare il confine settentrionale e che ora vengono scortati dalle forze di sicurezza saudite  fino alla frontiera ed “invitati”, in violazione alle leggi internazionali,  a rientrare nel loro Paese. Uno scenario drammatico, aggravato dalla presenza di migliaia di somali ed eritrei fuggiti dal Corno d’Africa e da un costante stato di tensione che potrebbe alimentare nuovi focolai di violenza e portare far crescere il numero di vittime indirette a diverse decine di migliaia. 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Per i polacchi e per tutta l'Europa dell'Est è un luttuoso "Na drugi dzien" con tanti e tanti interrogativi su un futuro al momento imprevedibile. E in questo clima c'è anche chi vuol ricordare quell’emblematica espressione - "L'ordine regna a Varsavia" - pronunciata alla Camera dal ministro degli Esteri francese dopo la durissima repressione russa, nel settembre 1831. Ma la realtà di oggi è ben altra. Nessuna recriminazione, nessuna speculazione che, visti i tragici fatti della catastrofe, non avrebbe senso.

Il ricordo ora va solo alla Polonia colpita dalla catastrofe del 10 aprile mentre tutti si preparavano a commemorare la strage di Katyn del 1945 quando i militi della polizia stalinista fucilarono, nella foresta di Smolensk, 4421 ufficiali polacchi internati nel territorio dell’URSS. Il Cremlino coprì l'eccidio e poi ne addossò la colpa ai nazisti. E fu una tragica menzogna di uno stalinismo vergognoso che per decenni ha macchiato le relazioni tra Varsavia e Mosca. Ed ora dopo che Putin nelle settimane scorse aveva reso omaggio ai martiri polacchi ristabilendo la verità storica arriva un messaggio del presidente russo Dmitrij Medvedev.

"Cari amici - dice l'uomo del Cremlino in un messaggio trasmesso in russo e in polacco da tutte le stazioni radiotv dei due paesi - io e tutti i cittadini della Russia siamo sconvolti dalla spaventosa tragedia - la morte del Presidente della Repubblica Polacca Leh Kacinsky, di sua moglie Maria, di tutti i cittadini polacchi che si trovavano a bordo del vostro aereo. In questi giorni con voi ci siamo ritrovati a ricordare le vittime dei tempi totalitari. Lech Kaczynsky si stava dirigendo in Russia per rendere omaggio, in prima persona, al ricordo degli ufficiali polacchi fucilati a Katyn. Sia come Presidente che come cittadino del suo Paese. Tutti i russi condividono ora il vostro dolore e il lutto. Vi prometto che tutte le circostanze dell’incidente aereo saranno scrupolosamente accertate in piena sintonia con la parte polacca. Ho già dato le relative indicazioni esaurienti alle strutture di pubblica sicurezza. A nome del popolo russo esprimo ora  un sincero cordoglio e una viva solidarietà a tutto il popolo polacco, il nostro dolore e la nostra partecipazione ai familiari e parenti dei morti e lunedì 12 aprile, in Russia sarà osservato il lutto nazionale".

Intanto sul piano delle indagini vengono esaminate tutte le varianti. Ma si fa sempre notare che il "number one" della presidenza polacca era curato in modo particolare e proprio di recente era stato sottoposto ad una revisione generale. Quanto alle previsioni per il futuro istituzionale e politico sulla Polonia colpita dalla strage dell'intero gruppo dirigente c'è ora l'ombra delle presidenziali. E si parla già della successione a Lech Kaczynsky. E qui si fa cenno ad una possibile candidatura del gemello Jaroslaw, il quale rivela sempre più le comuni caratteristiche biologiche ed ideologiche e  la cui linea di condotta è sempre stata quella del più duro e fanatico nazionalismo.

Come il fratello si è battuto e si batte contro l'Unione Europea dividendo il paese e ghettizzandolo in un assurdo isolamento. E nel conto di questo gemello c'è anche il suo stretto rapporto con quella stazione "Radio Marija", segnata da un viscerale antisemitismo e da un profondo fondamentalismo cattolico. Ma sulla scena delle prossime settimane avanzano già altre figure. In primo luogo quella del pragmatico premier Donald Tusk, uno degli "eroi" del periodo delle lotte di Danzica, impegnato da anni nel partito della destra moderata liberal-europea ("Piattaforma Civica") ed attore principale del riavvicinamento con la Russia di Putin. Posizione, questa, che ai nazionalisti non è andata mai a genio. Come non è stato mai accolto il pragmatismo che caratterizza i suoi rapporti con l'Est in generale.

L'altro candidato è Bronislaw Komorowski (58 anni) con un passato nel sindacato "Solidarnosc". Ora in vista delle prossime elezioni è presidente ad interim dal momento che è speaker della Camera bassa. Anticomunista accanito (e questa non è una novità per la classe dirigente polacca attuale...) Komorowski punta a serrare a destra le fila del Paese. Bisognerà vedere, ora, se le forze in campo - mentre il clima generale del Paese è di calma relativa - riusciranno a tagliare quel duro cordone ombelicale che ha unito in questi anni le destre alla reazionaria chiesa cattolica locale.
 

 


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