di Fabrizio Casari

A poche ore dall’insediamento del nuovo presidente colombiano, Juan Manuel Santos, la tensione tra Venezuela e Colombia, costruita ad arte dall’uscente presidente Uribe, trova un nuovo focolaio interessato in Washington. Larry Palmer, designato dal Dipartimento di Stato come prossimo ambasciatore statunitense in Venezuela, si è infatti lasciato andare a dichiarazioni che di diplomatico hanno ben poco.

Scimmiottando le affermazioni di Uribe, nel rispondere alle domande poste in un questionario destinato al Senato statunitense (che dispone della facoltà di accettare o rifiutare la designazione dell’ambasciatore proposta dalla Casa Bianca) Palmer ha sostenuto che “nelle forze armate di Caracas il morale è basso; ciò a causa dell’aumento dell’influenza cubana, aspetto che sarebbe già stato rifiutato dai militari venezuelani”. Lo stesso Palmer ha poi aggiunto di aver chiari “i nessi tra la guerriglia colombiana ed il governo del Venezuela”.

Le parole di questo nuovo ambasciatore di guerra hanno trovato la pronta replica delle autorità venezuelane. Il Ministro della Difesa, Carlos Mata Figueroa, ha dichiarato che “le forze armate del Venezuela respingono categoricamente le dichiarazioni rilasciate da Palmer” e considerano che questo ipotetico ambasciatore “ in modo assurdo, temerario e irresponsabile, ha attaccato la dignità e il decoro dei militari venezuelani”. E ancora: “Solo una mente meschina, perversa e contorta potrebbe confondere la nostra collaborazione tra popoli fraterni con un’intromissione straniera”.

A giudizio del Ministro venezuelano, Palmer cerca di coinvolgere il Venezuela nel conflitto armato interno alla Colombia, “svelando il piano orchestrato dalle canaglie imperialiste rappresentate dal governo degli Stati Uniti”. Ognuno sceglie i toni che preferisce, ma é difficile dargli torto, in effetti, giacchè aldilà degli aggettivi, le dichiarazioni di Palmer sembrano direttamente confermare l’escalation della provocazione da parte di Washington nei confronti del governo venezuelano. Presentare le proprie credenziali da ambasciatore dopo simili affermazioni, sarebbe infatti un'autentica sfida alla sovranità del paese ospitante.

Le affermazioni dell’ambasciatore designato sembrano collocarsi perfettamente nel piano politico-mediatico redatto da Washington e Bogotà, destinato a portare Venezuela e Colombia ad una guerra. Il piano, già denunciato dal Presidente Hugo Chavez, prevederebbe l’eliminazione dell’inquilino di Miraflores e l’insubordinazione di settori delle forze armate venezuelane, che dovrebbero sabotare dall’interno le capacità di reazione dei militari leali alla Costituzione e all’autorità politica e istituzionale del paese di Simon Bolivar.

Il secondo aspetto del progetto golpista prevederebbe, infatti, sia l’entrata in azione delle forze armate colombiane (da qui la falsa accusa di sostegno alle FARC da parte di Caracas ndr) e sia - ove fosse necessario - il successivo affiancamento dei militari statunitensi, che dalle basi militari in Colombia, dalla IV Flotta di stanza nel Mar dei Caraibi e dalle truppe di terra stanziate in Costa Rica, dovrebbero riuscire a prevenire - o a respingere - eventuali reazioni dei paesi amici del Venezuela, significativamente Cuba e Nicaragua.

Il piano, pur con tutta la sua pericolosità, è naturalmente un progetto che non sarà né semplice, né indolore, provare a trasferire dalla carta a terra. D’altra parte, le dichiarazioni di Uribe circa la presunta copertura venezuelana ai guerriglieri colombiani delle FARC, non hanno raccolto grandi consensi nel subcontinente. Anzi, l’arcinota qualità di Bogotà nel fabbricare paccottiglia propagandistica, spacciandola per denuncia internazionale, proprio nei giorni scorsi ha subìto un’ulteriore conferma.

Un ufficiale dell’esercito colombiano, infatti, ha ammesso di aver manipolato a fondo il computer portatile di Raul Reyes, “Ministro degli ESteri” delle FARC ucciso durante un raid dell’esercito colombiano in territorio ecuadoregno, che vide un saldo di venticinque persone assassinate e la successiva crisi diplomatica tra Quito e Bogotà,che ha rischiato di degenerare persino sul piano militare, dal momento che il presidente Correa non consente passeggiate dei militari colombiani nel proprio territorio.

Quella del pc di Reyes è stata una delle pagine più comiche della fabbrica dei falsi di Uribe. Su quel computer, a detta dell’ex presidente colombiano, c’era di tutto: alleanze, appoggi, relazioni, strutture, capacità operative: insomma, sessanta anni di storia guerrigliera colombiana in un portatile.

Ovviamente, nello stesso portatile, come per incanto, appariva la conferma di tutte le tesi politico-propagandistiche di Bogotà e Washington circa la complicità internazionali con le FARC e l’ELN. Venezuela, Nicaragua, Cuba, Ecuador; le tesi colombiane circa gli aiuti alla guerriglia da parte di tutti i paesi dell’ALBA venivano miracolosamente confermate, guarda caso, dall’analisi dell’hard disk. Oggi, però, con la confessione del militare colombiano, si sa quel che già s’immaginava: le cosidette “evidenze” erano in realtà falsi costruiti su misura per gli scopi politici di Washington e Bogotà.

A poche ore dall’insediamento di Santos, dunque, le parole dell’ambasciatore designato sembrano voler indicare che Washington non gradirebbe un’eventuale correzione di linea rispetto a quella (fallimentare) di Uribe nei confronti del Venezuela. In risposta alla reazione dei paesi latinoamericani, che attraverso l’Unasur hanno fatto presente come questa crisi tra Bogotà e Caracas vada fatta rientrare al più presto e come l’intero continente attenda dal neopresidente colombiano un deciso cambio di rotta, in direzione della normalizzazione dei rapporti con il Venezuela, l’intenzione della Casa Bianca sembra essere quella d’innalzare quanto più possibile la tensione con Caracas. In questo senso, la designazione di Palmer sembra voler inviare contemporaneamente un messaggio sia alla Colombia che al Venezuela.

E se si vuole avere una conferma diretta a questa linea interventista di stampo imperiale che la Casa Bianca di Obama ha intrapreso verso l’America Latina, basta scorrere la recente pubblicazione della “lista nera”, cioè dei paesi che a detta di Washington non combattono il terrorismo. Cuba, Nicaragua, Bolivia, Ecuador, Venezuela; l’elenco dei “cattivi” abbonda soprattutto dei paesi membri dell’ALBA, che hanno avuto l’indicibile torto di abolire l’obbedienza dovuta al gigante del Nord. La lista, infatti, come’è ovvio, non ha niente a che fare con il terrorismo; è invece l’elencazione annuale che gli Stati Uniti fanno dei loro avversari politici. Anzi, spesso nemmeno dei loro avversari, quanto piuttosto dei paesi che non riconoscono al locale ambasciatore statunitense il ruolo di proconsole dell’impero.

La lista dei “cattivi” non è per niente diversa da quelle stilate dalle precedenti amministrazioni repubblicane, a significare una certa continuità di vedute e d’intenti tra il deplorato Bush e la novità Obama. L’idea che gli Stati Uniti possano fornire pagelle, decretare status, organizzare colpi di stato e destabilizzazioni nei paesi che considerano indipendenti non conforta certo chi riteneva che il dopo-Bush potesse mostrare un cambio di rotta, un’inversione di tendenza dal governo unipolare ad una governance multipolare.

Si deve perciò ricordare che Miami è un autentico resort per terroristi ricercati da diversi paesi dell’area, primo fra tutti l’ultraprotetto Posada Carriles, definito dagli stessi organismi Usa a difesa dei diritti umani “il bin Ladin delle Americhe”. Ora, che gli Stati Uniti, principali finanziatori e sostenitori del terrorismo contro Cuba e Venezuela, ispiratori di colpi di stato e dispensatori di aiuti economici e militari ai gruppi di destabilizzazione nei paesi come Cuba, Bolivia, Ecuador, Cuba, Venezuela e Nicaragua possano avere il coraggio di definire altri paesi come complici del terrorismo, risulterebbe comico, se non fosse tragico.

Da questo punto di vista le dichiarazioni provocatorie di Larry Palmer non sono quindi espressione di accenti fuori luogo dell’ambasciatore in pectore, né di estremismo verbale per compiacere i senatori repubblicani della Commissione Esteri; bensì una riduzione lessicale coerente di quanto il Dipartimento di Stato esprime con maggiore ampiezza.

Il Presidente Chavez, da parte sua, definendo “gravi” le dichiarazioni di Palmer, ha affermato che queste sono “oggetto di valutazione” e che “potrebbero inibirlo”. Sostanzialmente, ammesso che lo stesso riceva dal Senato nordamericano l’approvazione alla nomina, Miraflores valuta se accettare o rifiutare il gradimento alla nomina del neoambasciatore Usa. Perché a Washington possono anche approvare i loro desideri, ma è a Caracas che si decide il destino venezuelano del ciarliero ambasciatore.

 

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