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di Luca Mazzucato
New York. La proposta viene lanciata da due celebri studiosi inglesi, il biologo Richard Dawkins dell'Università di Oxford e Christopher Hitchens, giornalista e scrittore. Il prossimo 16 settembre 2010, quando Benedetto XVI poserà il piede sul suolo britannico, in visita per la beatificazione di un teologo britannico, per Joseph Ratzinger potrebbero aprirsi le porte delle prigioni britanniche. Non si tratta tanto di una provocazione, quanto di una sottile battaglia legale.
La Gran Bretagna non è nuova a questi exploit giudiziari, di solito alla ribalta delle cronache grazie al cosiddetto principio della giurisdizione universale. I giudici inglesi possono perseguire crimini contro l'umanità compiuti in qualsiasi parte del mondo, nel caso in cui non sia stato celebrato un processo nel paese dove è stato commesso il fatto. L'esempio più noto riguarda la minaccia di arrestare cittadini israeliani, ex ufficiali dell'esercito oppure membri del governo, accusati di crimini contro l'umanità, al momento del loro arrivo atterraggio a Londra. Per questo il Regno Unito è diventato off limits per una parte della classe dirigente dello Stato ebraico.
Nel caso di Ratzinger tuttavia non verrebbe usata la giurisdizione universale, ma una procedura ordinaria. La mole degli indizi contro il Papa si sta accumulando sotto forma di lettere autografe pubblicate in questi giorni su numerosi quotidiani americani. Tutti gli episodi risalgono a molti anni fa, quando Ratzinger presiedeva la Congregazione per la dottrina della fede.
L'immediata obiezione alla richiesta di arresto è che il Papa, in quanto Capo di Stato, gode dell'immunità diplomatica nell'esercizio delle proprie funzioni. Questo stesso argomento ha finora sempre funzionato, tenendo alla larga i giudici inglesi dai ministri israeliani in visita ufficiale in Inghilterra. Tuttavia, Dawkins e Hitchens, che fanno sul serio, hanno trovato il cavillo che potrebbe portare ad un enorme colpo di scena.
L'avvocato ingaggiato dai due studiosi, intervistato dal quotidiano britannico The Guardian, si dice “convinto che possiamo superare la soglia dell'immunità”. Questo perché, sostiene, “il Vaticano non è riconosciuto come Stato secondo il diritto internazionale. La gente assume che esista da tempo immemore, ma in realtà fu inventato da Mussolini e quando il Vaticano chiese di diventare un membro dell'ONU gli Stati Uniti glielo negarono.” Il parere di Giuseppe dalla Torre, capo del tribunale vaticano, è però radicalmente opposto: “Il Papa è certamente un Capo di Stato - ha detto in una recente intervista - e possiede lo stesso status legale di tutti gli altri suoi pari.”
La stessa questione tiene banco negli Stati Uniti, dove vari commentatori discutono dell'opportunità di chiamare a testimoniare il Papa nei numerosissimi processi ai preti pedofili, nei quali le lettere autografe di Ratzinger sono a volte tra le prove principali dell'accusa.
L'avvocato inglese di Dawkins e Hitchens prosegue spiegando le tre possibili procedure per portare il papa in tribunale. La prima “è che domandiamo un ordine di arresto al Tribunale Penale Internazionale. Alternativamente, si può dare il via a un'ordinaria procedura pubblica da parte del sistema giudiziario britannico; tuttavia è necessario che una vittima di abuso, perpetrato su suolo britannico, si faccia avanti. La terza opzione è che qualcuno sporga una denuncia civile.”
Quest'ultimo caso sembra il più probabile. Secondo il legale, alcuni sostenitori della causa cattolica, che hanno donato ingenti somme di denaro alla Chiesa, gli hanno espresso personalmente una forte disapprovazione del modo in cui la gerarchia ecclesiastica ha gestito gli abusi. Molti influenti donatori sarebbero disgustati dal fatto che i loro soldi siano stati usati per mettere a tacere le vittime degli abusi.
La proposta dei due scrittori inglesi è nel segno della loro lunga attività scientifica e letteraria sul fronte della lotta al fondamentalismo religioso, in particolare negli Stati Uniti, dove l'insegnamento della teoria dell'evoluzione è sotto attacco da parte di gruppi cristiani: in alcune zone gli studenti americani sono ormai costretti a studiare il creazionismo come valida alternativa alla biologia.
In una recente intervista al Washington Post, Richard Dawkins ha ribadito di voler vedere Ratzinger alla sbarra, ma alla domanda se il Papa dovrebbe dimettersi, ha risposto a sorpresa: “No. Un uomo le cui false credenze scientifiche sono responsabili delle vittime dell'AIDS in Africa; un uomo il cui primo istinto quando i suoi preti sono beccati con i pantaloni abbassati è di coprire lo scandalo e dannare le vittime al silenzio è, in sostanza, l'uomo giusto al posto giusto”. “Non deve dimettersi, perché è nella posizione perfetta per accelerare la caduta dell'organizzazione malvagia e corrotta di cui è il monarca assoluto”.
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di Marco Montemurro
Ore decisive in Thailandia. Circa 40.000 camicie rosse thailandesi si sono radunate l'altro ieri nella zona commerciale della capitale Bangkok, preparandosi alla "battaglia finale" per rovesciare il premier Abhisit Vejjajiva, appoggiato dall'esercito. "Useremo la zona di Rachaprasong come campo di battaglia finale per rovesciare il governo", ha detto oggi ai giornalisti il leader della protesta, Nattawut Saikua. "Non ci saranno altri negoziati".
Continua quindi la mobilitazione che ormai da diverso tempo tiene il Paese col fiato sospeso. Da settimane, la mobilitazione delle camicie rosse ha generato lo scontro politico più acuto nella storia thailandese recente. La fase più acuta dello scontro tra rivoltosi e governo si é avuta sabato 10 aprile, quando per la prima volta, il conflitto è sfociato in scontri violenti che hanno causato la morte di 21 persone. L’esercito ha scelto di non rimanere inerte e, per cercare di ristabilire l’ordine, ha aperto il fuoco nel quartiere di Bangkok dove sono insediati i manifestanti. Il bilancio è stato drammatico: sono stati uccisi 16 civili, 4 militari e un giornalista giapponese; un numero di vittime che i thailandesi non contavano dal 1992, anno in cui avvenne l’ultimo intervento cruento dell’esercito.
Da oltre un mese a Bangkok sono accampati i sostenitori dell’United Front for Democracy against Dictatorship (UDD) poiché, provenendo in molti dalle province, hanno scelto di rimanere nella capitale finché non sarà raggiunto il loro obiettivo, vale a dire lo scioglimento del governo di Abhisit Vejjajiva e le conseguenti elezioni anticipate. Accusano l’attuale primo ministro di non aver alcun consenso popolare, in quanto nel 2008 il suo partito è andato al potere senza essere stato eletto, e difendono l’ex premier in esilio, Thaksin Shinawatra, ricordato con benevolenza poiché condusse politiche a favore delle popolazioni rurali più disagiate.
Per mettere in difficoltà Abhisit, le camicie rosse (così chiamate per differenziarsi dai “gialli” leali alla monarchia) da oltre un mese organizzano incessantemente manifestazioni presso i luoghi nevralgici del paese. Il 15 marzo, ad esempio, hanno svuotato intere taniche di sangue davanti i palazzi del governo, del primo ministro e del partito di maggioranza Democrat Party, un’iniziativa che ha conquistato l’attenzione dei media internazionali. All’inizio di aprile, poi, le proteste, condotte sempre in modo pacifico, per cinque giorni si sono spostate nei distretti turistici di Bangkok, causando la chiusura dei centri commerciali e disagi agli alberghi di lusso. Dopodiché, il 7 aprile, i rossi si sono diretti verso il Parlamento, occupando il cortile del palazzo e costringendo il primo ministro Abhisit a fuggire tramite un elicottero.
Considerata la gravità dell’azione, la mattina seguente il Premier ha emanato lo stato di emergenza e, da quel momento, nel paese sono limitate le libertà civili, sono proibite le adunanze pubbliche e si possono censurare i media. Quel giorno stesso il premier Abhisit ha dovuto anche annullare il suo viaggio in Vietnam e, non potendo così recarsi al vertice dei paesi Asean, ha mostrato sul piano internazionale quanto sia critica la situazione in Thailandia.
Applicando il decreto per la sicurezza nazionale, è stato subito oscurato il canale televisivo People Channel, una rete vicina all’United Front for Democracy against Dictatorship (UDD), accusata dal governo di incitare alla violenza. Per difendere l’informazione e contestare la censura, le camicie rosse, sfidando le misure di emergenza, il giorno successivo hanno protestato presso la sede dell’emittente, la Thaicom, società che fu fondata dal loro benamato Thaksin.
Durante le scorse settimane, dunque, il conflitto è stato caratterizzato da rilevanti avvenimenti. La tensione è via via cresciuta e, una volta dichiarato lo stato di emergenza, sabato 10 aprile l’esercito, che finora non aveva mai represso le proteste, ha sparato colpi di fucile contro i dimostranti. La crisi non sembra attenuarsi, anzi, l’UDD è sempre più determinato nel chiedere le dimissioni di Abhisit, considerato adesso come un assassino con le mani sporche di sangue.
Le camicie rosse sono risolute nel perseguire il loro obiettivo, anche perché il Democrat Party, attualmente al governo, è sotto inchiesta dalla commissione elettorale, accusato di irregolarità durante la campagna elettorale del 2005. Sembra che il partito abbia ottenuto 258 milioni di bath dalla società Tpi Polene (azienda produttrice di manufatti in cemento), contravvenendo così la legge, poiché nel paese le forze politiche non possono ricevere in donazione oltre 10 milioni di Bath. Preso atto del reato, la Corte Suprema dovrà inevitabilmente sentenziare lo scioglimento del partito e l’esclusione dei suoi vertici dall’attività politica. Tale processo, pertanto, rafforza ulteriormente le forze antigovernative le quali, in attesa del verdetto, hanno già manifestato lo scorso 5 aprile presso la sede della commissione elettorale per sollecitare le indagini in corso.
Il primo ministro Abhisit è indubbiamente in difficoltà e, per cercare una soluzione, il 28 marzo ha concesso per la prima volta un incontro, perfino in diretta televisiva, con i rappresentanti delle camicie rosse. Nessun accordo però è stato raggiunto. Benché il premier si sia mostrato disponibile a indire elezioni anticipate entro il mese di dicembre, l’opposizione non ha voluto far compromessi, ferma nel pretendere dimissioni immediate. Per il momento dunque non s’intravede una soluzione tra le controparti e, inoltre, il conflitto sembra peggiorare, considerate le vittime dei recenti scontri.
Presto il governo dovrà decidere come poter risolvere questa crisi e anche le camicie rosse dovranno formulare concrete proposte politiche, dato che aspirano a governare il paese. Finora l’United Front for Democracy against Dictatorship si presenta solo come un movimento. Vi sono diverse correnti all’interno e, durante le proteste, sono numerosi i leaders che si alternano per parlare alle folle. Alle lotte partecipa infatti una popolazione eterogenea, composta da cittadini di Bangkok, studenti universitari, contadini delle province, monaci buddisti e comunisti. I programmi politici pertanto appaiono frammentati e, di conseguenza, ciò comporta una situazione dalla quale facilmente potrà trarre vantaggio Thaksin, l’ex primo ministro sostenuto dal movimento. Probabilmente i dimostranti dovranno valutare l’ipotesi di costituirsi come un partito e, in tale caso, potremmo intravedere il futuro del paese.
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di Michele Paris
Il summit sulla sicurezza nucleare voluto dall’amministrazione Obama e andato in scena a inizio settimana nella capitale americana, aveva come obiettivo ufficiale quello di promuovere il disarmo su scala globale e stabilire strategie condivise per impedire ai terroristi di accedere ad armi di distruzione di massa. Come ampiamente previsto, la sfilata a Washington dei leader di 47 paesi si è invece risolta principalmente nell’ennesimo tentativo degli Stati Uniti di raccogliere consensi per isolare ulteriormente i governi di Iran e Corea del Nord. Il tutto in previsione, per quanto riguarda almeno la Repubblica Islamica, dell’applicazione di nuove pesanti sanzioni con il beneplacito delle Nazioni Unite.
Che le promesse elettorali del presidente americano di avviare un dialogo senza condizioni con Teheran abbiano lasciato spazio alle posizioni dei falchi all’interno della sua amministrazione è noto ormai da tempo. Obama, tuttavia, continua a provare a dissimulare l’approccio aggressivo del suo predecessore, incoraggiando un atteggiamento apparentemente multilaterale e cooperativo. Difficile però nascondere il vero obiettivo: allargamento dell’influenza americana in Medio Oriente e in Asia Centrale in un frangente storico caratterizzato da una competizione sempre più feroce sullo scacchiere internazionale.
In tale contesto, la convocazione di un’assemblea con un numero di capi di stato e di governo da ogni parte del mondo come non si vedeva da oltre mezzo secolo sul suolo americano, ha rappresentato una perfetta operazione di pubbliche relazioni per l’amministrazione Obama. Di fronte ad un consesso così autorevole, la cui composizione è stata attentamente studiata, Washington spera di ottenere il maggior supporto possibile per procedere verso nuove ritorsioni contro i consueti nemici (Iran e Corea del Nord) e, parallelamente, consolidare la propria egemonia militare, sia per quanto riguarda le armi nucleare che per quelle convenzionali.
Tra i vari incontri bilaterali che hanno preceduto il summit vero e proprio, il più significativo è stato quello tra Obama e il presidente cinese, Hu Jintao. Secondo i resoconti ufficiali, dopo il faccia a faccia durato 90 minuti, Pechino avrebbe acconsentito in linea di principio a discutere delle sanzioni da applicare all’Iran, anche se nessuna promessa specifica sarebbe stata fatta agli americani. Nonostante gli USA provino da tempo a rassicurare che in caso l’Iran dovesse chiudere i rubinetti delle forniture di petrolio alla Cina, altri paesi arabi sarebbero pronti a prenderne il posto (Arabia Saudita in primis), la posizione di Pechino appare ancora incerta. A molti la posizione cinese ricorda, infatti, quella già tenuta qualche anno fa durante l’amministrazione Bush, quando il presunto accordo trovato per appoggiare le sanzioni contro Teheran si trasformò in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU alquanto ammorbidita, proprio in seguito ai veti di Pechino.
Il doppio binario seguito da Washington sulla politica nucleare, in ogni caso, si è rivelato in maniera clamorosa anche nella preparazione di questo summit. Come ci si attendeva, l’invito della Casa Bianca non è stato esteso ai paesi cosiddetti ostili - Iran, Corea del Nord e Siria - perché ritenuti in violazione del Trattato di Non Proliferazione (NPT). A ben guardare, però, Iran e Siria, entrambi comunque firmatari del Trattato, continuano a cooperare con gli ispettori dell’Agenzia Atomica Internazionale (IAEA), mentre la Nord Corea ne è uscita nel 2003, come previsto dallo stesso Trattato.
Al contrario, a Washington sono volati i rappresentati di altri tre paesi che appaiono in una posizione molto più difficilmente sostenibile dal punto di vista del diritto internazionale. Tutti e tre sono stati accolti a braccia aperte dall’amministrazione Obama, in quanto alleati degli Stati Uniti. India, Pakistan e Israele, infatti, pur non avendo mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, hanno sviluppato programmi nucleari a scopo militare - anche se Israele continua a negare ufficialmente il possesso di armi nucleari. La paradossale posizione israeliana, poi, è emersa ancora una volta proprio alla vigilia del summit, quando il primo ministro Netanyahu ha cancellato il proprio intervento per timore che i paesi arabi presenti potessero sollevare precisamente la questione del nucleare di Tel Aviv.
Così, mentre si è discusso diffusamente del pericolo che un ordigno nucleare possa finire nelle mani di Al-Qaeda, nonostante non vi sia prova alcuna che ciò sia accaduto o possa accadere nel prossimo futuro, nessun riferimento è stato fatto al pericolo rappresentato dagli arsenali militari dei paesi presenti al summit. Complessivamente, è stato stimato che gli otto paesi dotati di armi nucleari presenti a Washington (USA, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Israele, India e Pakistan) posseggano oltre due mila tonnellate di materiale nucleare, sufficiente per produrre 120 mila testate letali.
Sempre alla vigilia della conferenza, per dare un qualche contenuto concreto al comunicato ufficiale che prevedeva iniziative per la riduzione del materiale nucleare, Cile e Ucraina (e successivamente anche il Canada) avevano poi annunciato imminenti piani per smantellare le rispettive riserve di uranio arricchito. L’Ucraina, in particolare, possiede un quantitativo consistente di uranio ad alto arricchimento, facilmente convertibile in armi nucleari; un residuo dell’arsenale sovietico stoccato sul suo territorio e in gran parte già smantellato nell’ultimo decennio. In cambio, per entrambi paesi, si prevedono significativi aiuti finanziari da Washington.
Intanto, alla retorica di Obama su un mondo libero dalla minaccia nucleare hanno fatto da contrappunto le dichiarazioni alla stampa e alle televisioni americane del Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton, e del numero uno del Pentagono, Robert Gates. Alla firma del trattato START 2 con la Russia per la riduzione dei rispettivi arsenali nucleari e alla recente modifica della politica militare nucleare annunciata dalla Casa Bianca, che limiterebbe sostanzialmente l’impiego di armi nucleari contro Iran e Corea del Nord, i due falchi dell’amministrazione Obama si sono adoperati per sottolineare la persistente superiorità militare americana su scala planetaria.
Mentre l’Iran nel prossimo fine settimana organizzerà un proprio contro-summit sul nucleare, il prossimo passo nello sforzo americano per convincere l’opinione pubblica mondiale della necessità di un atteggiamento più aggressivo nei confronti di Teheran avverrà verosimilmente il mese prossimo, precisamente nel corso della conferenza presso le Nazioni Unite per la revisione del Trattato di Non Proliferazione. Ratificato nel 1970, il Trattato prevede incontri quinquennali tra i paesi firmatari teoricamente per fare il punto sull’avanzamento dei piani di disarmo adottati dai paesi possessori di armi nucleari. Come in passato, anche quest’anno si può già prevedere che ben poco si parlerà di quest’ultimo processo, mentre con ogni probabilità il vertice si risolverà in un nuovo round di minacce contro Teheran e Pyongyang.
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di Giuseppe Zaccagni
La Budapest mitteleuropea sceglie la destra e torna a vestire il nero di un tempo. C'è, infatti, una vera e propria svolta elettorale che, sulla base della consultazione dei giorni scorsi, porta il Paese nelle mani del partito di centro-destra Fidesz, guidato dall’ex premier Viktor Orban. Il quale vince la prima tornata delle parlamentari dopo otto anni di opposizione con il 52,8% dei voti, assicurandosi 206 seggi parlamentari su 386 e diventando così il primo partito dopo la caduta del comunismo nel 1990. Cade in basso il socialista MSZP (Magyar Szocialista Párt), l’ex partito al governo che ha registrato il 19,3% ottenendo 28 seggi.
Entrano così in Parlamento per la prima volta il partito di estrema destra Jobbik, attestatosi terzo con il 16,7% dei voti e 26 seggi, mentre il partito verde liberale LMP (Politics Can Be Different), con il 7,4%, è l’unico a superare la soglia necessaria del 5% per aggiudicarsi la presenza parlamentare, e guadagna 5 seggi.
Si rimescolano così - in un quadro di luci ed ombre - le carte della politica magiara. E si ricorda, in proposito, che il governo socialista, guidato da Gordon Bajnai, dal mese di aprile 2009 aveva apportato tagli al bilancio per frenare il deficit generale, provocando un malcontento dell'elettorato che si era andato sviluppando di pari passo con la peggiore recessione in 18 anni.
Sul piano generale del risultato magiaro va rilevato, di conseguenza, che dalle urne dell’intera regione esce - in un cortocircuito di passato e presente - la conferma che non si arresta l'ondata di estrema destra in Europa. Perché dopo le affermazioni nelle elezioni più recenti in Francia, Olanda e Austria, c'è ora il partito Jobbik, che nella pianura danubiana migliora la sua performance rispetto alle europee 2009.
E’ proprio l’Europ, infatti, a presentare sintomi di pericolose involuzioni politiche. L'avanzata della destra estrema e xenofoba si è infatti registrata anche alle recenti regionali francesi, dove il risultato positivo per i socialisti è stato affiancato da una nuova affermazione del Front National di Jean Marie Le Pen, tornato in auge dopo la cattiva prova alle presidenziali del 2007. A marzo l'Fn si è attestato oltre all'11%, raggiungendo vette di consensi oltre il 22% nelle zone rurali del nord del paese.
Successo della destra xenofoba anche in Olanda dove il partito anti-islam di Gert Wilders ha prodotto un miniterremoto alle regionali del mese scorso. Anche se il partito della Libertà dell'esponente politico noto per i suoi infuocati attacchi agli immigrati si è aggiudicato 17 consiglieri comunali in due circoscrizioni, le proiezioni su base nazionale dicono che alle politiche del 9 giugno potrebbe diventare il secondo partito d'Olanda e puntare decisamente ad essere l'ago della bilancia nella formazione del nuovo governo.
Netta affermazione dell'ultradestra anche in Austria, quando sono andati alle urne i cittadini della Carinzia nel marzo dello scorso anno. Roccaforte di Jeorg Haider, gli elettori hanno tributato al leader populista di estrema destra un successo elettorale senza precedenti dopo la sua morte in un incidente automobilistico. I movimenti di estrema destra potranno fare sentire ancora il loro peso nelle elezioni a venire, nel corso del 2010. A partire proprio dall'Olanda e dall'Austria dove si vota per le presidenziali il 25 aprile. Alle legislative nella Repubblica ceca a fine maggio non ci sarà invece il partito dei lavoratori che una corte ha bandito con l'accusa di seminare l'odio razziale e la xenofobia.
Torniamo all'Ungheria. A portare al successo delle destre sono state proprio le promesse - economia e occupazione - contenute nella campagna elettorale di Fidesz e che hanno attratto i votanti ungheresi; durante gli anni in carica tra il 1998 e il 2002, questo partito aveva operato per la riduzione delle imposte, creando posti di lavoro e sostenendo le imprese locali.
Orban ha promesso ora di diminuire le tasse sui salari, semplificare le imposte sul reddito, dimezzare il numero dei consigli comunali e dei seggi in Parlamento. Ha anche accusato il governo di nascondere le reali dimensioni del deficit pubblico. Sulla stessa linea va a collocarsi il partito nazionalista di matrice xenofoba, Jobbik, fondato nel 2003 (che in campo economico vuole eliminare le riforme di libero mercato) e che ora sfrutta il risentimento e la sfiducia degli elettori durante la recessione e il loro conseguente distaccarsi dai principali partiti politici.
Intanto il Paese è stato il primo dell’Unione europea a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale (FMI) per ottenere un salvataggio dopo la crisi del credito che ha bloccato investimenti ed esportazioni. Secondo gli economisti, i compiti più urgenti e necessari che spetteranno a Fidesz riguarderanno ora il consolidamento fiscale mediante riforme strutturali e la resa in maggiore efficienza dell’assistenza sanitaria e dei sistemi d’istruzione. Quanto al futuro, c'è da attendere la seconda tornata elettorale - già fissata per il 25 aprile - quando saranno decisi i restanti 121 seggi. E si sa già che si è in presenza di una desolante prospettiva che spinge indietro l'orologio della storia di una Mitteleuropa sempre più asburgica.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. C'è una Russia che vive nel terrore e sempre in attesa di nuove e terribili azioni criminali. Il "nemico" - annunciano radio e tv - non è più alle porte, ma è entrato in casa. Intanto i due massimi esponenti del Paese - Medvedev e Putin - corrono nella basilica del Santo Salvatore a pregare e a baciare il Patriarca ortodosso. E così la Pasqua, che per tre delle maggiori religioni del paese - ortodossa, cattolica ed ebraica - ha coinciso proprio nello stesso giorno, é divenuta il momento centrale di una mobilitazione religiosa senza precedenti. Ma sono i mezzi della polizia e dell'esercito che dominano rumorosamente la scena. Si cercano terroristi in ogni luogo e si fa il conto delle bombe e dei kamikaze.
Intanto a Mosca - dove la violenza del terrorismo ha lasciato vittime e distruzioni - le linee della metropolitana (300 km. con 180 stazioni) vengono pattugliate dalle forze speciali della sicurezza. Ci sono ancora feriti gravi negli ospedali della città, mentre vengono alla luce nuovi dettagli delle operazioni della lotta antirussa. Ed ora si conoscono anche le generalità di chi ha firmato gli attentati. Si cercano responsabilità individuali e collettive.
Lo scenario attuale - che il Cremlino insiste nel definire come caratterizzato da "attacchi terroristici" - è quello di una vera guerra, con atti di sabotaggio entro e fuori dei confini nazionali. Perché, come non mai, sono in moto forze che vengono dalla Cecenia e, soprattutto, dal Daghestan e dalla Inguscetia. Un incendio, quindi, a tutto campo, sul quale soffia ora il vento provocato dalle nuove esplosioni nella regione caucasica: a Karabulak, all'ingresso dell’edificio del Dipartimento distrettuale degli affari interni un kamikaze si è fatto saltare in aria. Sul campo è restato anche un poliziotto e altri tre sono rimasti feriti. Un gesto non isolato, perché poco dopo si è verificata un’altra esplosione: ferito un funzionario della Procura della Repubblica locale. Si è in presenza di un cortocircuito di passato e presente. E per l'intelligence russa il problema caucasico diviene così il punto cardine di tutta la politica "interna" del Cremlino.
Alla Cecenia - già ampiamente nota per le sue posizioni antirusse - si aggiungono ora con forza il Daghestan, le forze del wahhabismo e l'Inguscetia. Si muovono, in questo contesto, popoli diversi (àvari, darghini, lezghini, rutùli, kumyki) che gettano sul tavolo della geopolitica le loro secolari richieste nei confronti del potere russo centrale. Di conseguenza le tensioni interne si sviluppano lungo determinate linee: dalla politica alle tendenze nazionaliste, dalle situazioni etniche a quelle religiose. Si tratta di "problemi" epocali, che pongono in forse le linee dello sviluppo nazionale con Mosca che sta cercando di risolvere alla meglio l'intera questione caucasica. Ma è una battaglia persa in partenza.
Nel 2003, Vladimir Putin sorprese gli osservatori internazionali annunciando che il suo Paese aveva l'intenzione di chiedere l'adesione all'Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci). La proposta stupì ancora di più se si pensa che l'Ori, forum politico creato nel 1969 e composto da 57 stati a maggioranza musulmana, aveva tra i suoi scopi quello di far crescere la solidarietà islamica tra i suoi membri. La scelta di Putin - ci si chiese allora - aveva come obiettivo quello di porre l'intera Russia sul piano di un Paese musulmano? Un modo per superare gli ostacoli dando pari dignità a tutte le minoranze religiose?
Ma, sempre nel 2003, si scoprì che il problema russo non era (e non è) quello dell'islamizzazione del Paese. Si è scoperto, a poco a poco, che con la fine dell'Unione Sovietica si è consumata anche la fine di quella "formazione" rappresentata da quattro secoli di storia dell'impero multinazionale russo. E il tutto, osservato da questa prospettiva, ha dimostrato che la fine dell'Urss è stata parte del processo universale di dissoluzione degli imperi multietnici e della loro frammentazione in stati nazionali. Un processo che era già avvenuto, in Europa, con l’implosione degli imperi ottomano e asburgico dopo il primo conflitto mondiale e, fuori d'Europa, con la decolonizzazione seguita alla seconda guerra mondiale.
Lo scenario è andato modificandosi in seguito agli attentanti del settembre 2001 negli Usa. Quando Putin scelse di seguire la politica americana, assumendo il "terrorismo internazionale" come nemico pubblico numero uno. In realtà l'uomo del Cremlino voleva salire sul carro degli Usa per presentare i ceceni come terroristi e non come partigiani di una battaglia per l'indipendenza e la sovranità. E, proprio grazie a questa mossa strategica, Putin riuscì a ricollocare la Russia in una posizione centrale all'interno del sistema internazionale. Una posizione che sembrava perduta con la fine della guerra fredda e che la dirigenza russa ha cercato di recuperare per garantirsi un appoggio internazionale quanto a lotta al terrorismo.
Ma la domanda che, di conseguenza, viene avanti a Mosca proprio in questo periodo è questa: gli attentati di matrice caucasica sono solo atti di terrorismo o sono anche tesi a rivendicare l'autonomia delle regioni? E sarà forse a questo interrogativo che dovrà cercare risposte politiche e diplomatiche il nuovo governatore del Caucaso. Perché di fronte alla sostanziale inutilità delle azioni repressive del passato si è anche imboccata una via alternativa. Il 19 gennaio scorso, infatti, Medvedev ha istituito il Distretto Federale del Caucaso del Nord, che include le repubbliche di Dagestan, Inguscetia, Kalabardino-Balkaria, Circassia, Ossezia del Nord e Cecenia, oltre alla provincia di Stavropol.
Alla guida di questo super-governatorato il Presidente russo ha nominato Alexander Khloponin, quarantenne ex governatore della provincia di Krasnoyarsk, nella Siberia centrale. Sembra che l'obiettivo di Medvedev e Khloponin sia collegare l’azione sul territorio con lo sviluppo dell’occupazione, del benessere sociale, delle infrastrutture di cui le popolazioni del Caucaso russo sono drammaticamente carenti. Khloponin è un “outsider”, senza legami nel Caucaso, perciò è considerato imparziale, quindi temuto, anche per la sua reputazione personale. Ex oligarca rampante ai tempi di Eltsin, Khloponin diventa quindi un geniale governatore che trasforma la Siberia centrale, grande dieci volte l’Inghilterra, nel motore economico della Russia putiniana. Benessere e sicurezza fondata sulla legge e i diritti: questa è la missione di cui si dice protagonista Khloponin per pacificare il Caucaso.
E sembra questa anche la strategia di Medvedev, che considera il Caucaso come la principale emergenza nazionale. Ma questa prospettiva istituzionale è l’antitesi della “kadirovizzazione” voluta da Putin che aveva concesso carta bianca al presidente ceceno Ramzan Kadyrov per contenere la crisi all’interno del Caucaso. Alla fine la violenza ha generato soltanto altra violenza. Prima della riconciliazione e della ricostruzione la vera sfida di Khloponin è interrompere questo meccanismo mortale.
Intanto Medvedev, per salvare il salvabile, indica (e in questo è vero allievo di Putin al quale concede l'onore delle armi...) una serie di punti fondamentali nella lotta al terrorismo nel Caucaso. Annuncia: "Il rafforzamento delle forze dell’ordine, della polizia e del Fsb, nonché della magistratura", sostiene che "bisogna sferrare mortali colpi di pugnale ai terroristi, distruggere loro e i loro covi; aiutare coloro che decidono di rompere con i banditi; sviluppare l’economia, l’istruzione e la cultura; rafforzare la componente morale e spirituale”. E conclude la sua dichiarazione di guerra sostenendo che tutti devono comprendere una cosa ben precisa e cioè che "nel Caucaso, vivono nostri concittadini, cittadini della Russia. Non si tratta di una provincia straniera, anche questo è il nostro Paese". Questo vuol dire, semplicemente, che tutte le aspirazioni all'indipendenza soono respinte al mittente. Mosca non tratta. Proprio per questo dovrà (purtroppo) imparare a convivere con quello che chiama "terrorismo".