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di Emanuela Pessina
BERLINO. Che la manovra da 80 miliardi di euro proposta dal Governo tedesco non sarebbe affatto piaciuta alla Germania dei piccoli era quasi scontato. La Coalizione nero-gialla ha annunciato un piano di austerity che prevede tagli soprattutto nel sociale, a partire dal sostegno ai genitori meno abbienti per finire con le pensioni di disoccupazione e l'istruzione. E la Germania non si ha esitato a manifestare il proprio dissenso. Con risultati, tuttavia, che lasciano un pò l'amaro in bocca.
La manifestazione che più ha attirato l'attenzione dei media è quella di Berlino. Quasi 20 mila persone si sono riunite a Kreuzberg, il quartiere della Berlino "alternativa", per fare sentire la propria voce: 100 gruppi di diversa matrice hanno sfilato insieme sotto il motto "Non vogliamo pagare per la vostra crisi", sottolineando lo scontento dei ceti più semplici della popolazione cui è rivolto il taglio previsto dalla Coalizione nero-gialla.
La manifestazione di Kreuzberg, di per sé, non avrebbe fatto notizia, non fosse stato per un attacco tanto violento quanto inaspettato alla polizia che, come di routine, regolava la sfilata. Mentre i soliti autonomi lanciavano le ordinarie bottiglie e le usuali pietre contro le forze armate, improvvisamente il botto. Alcuni dimostranti hanno lanciato due bombe artigianali tra le fila della polizia: sono stati feriti 15 militari, di cui due, Olaf H. (47) e Stefan S. (35), gravemente e tuttora in prognosi riservata. Se gli ordigni fossero stati lanciati in aria, avrebbero potuto ferire al viso e, nel peggiore dei casi, uccidere.
Come siano state costruite le bombe è ancora un mistero. Qualcuno ipotizza bombe costruite con pezzi di metallo, qualcun altro immagine delle bombe a gas artigianali. E anche i colpevoli sono circondati dalla nebbia più fitta: nessuno sa chi possa essere stato, l'unica testuimonianza è un video apparso su youtube.com in questi giorni. Sono state fermate una decina di persone, ma le sicurezze sono ancora veramente poche.
Dieter Glietsch, il presidente della polizia berlinese, si è mostrato molto preoccupato al riguardo: la vicenda fa pensare a una nuova "escalation di brutalità contro la polizia" nella capitale tedesca, che, tra l'altro, costituisce da sempre uno dei centri nevralgici degli autonomi di tutta la Germania. Certo, le bombe artigianali non hanno lo stesso peso delle pietre lanciate contro le camionette militari, è normale che creino più scompiglio degli ordinari tafferugli da manifestazione. Ma non bisogna dimenticare che le bombe appartengono alla stessa famiglia di quelle bottiglie lanciate con rabbia contro le forze dell'ordine, la famiglia della violenza inutile e disperata di chi non ha nulla da perdere e dimentica lo scopo per cui sta manifestando per un attimo di collera.
Una domanda, ora, sorge spontanea: perché una manifestazione deve arrivare a questa assurda violenza per fare scalpore? Perché i media rivolgono la loro attenzione solo là dove si va "oltre", dove si superano i limiti e dove ci sono più colpe che meriti? E perché i manifestanti non capiscono che così non si arriva da nessuna parte? Sorge spontaneo, al riguardo un paragone: si tratta di un'altra manifestazione svoltasi, sempre a Berlino, in occasione della festa dei Lavoratori.
Ogni anno, l'estrema destra tedesca si arroga per il Primo maggio il diritto di manifestare in nome della libertà di espressione e parola. La festa dei Lavoratori era una festa accettata da Adolf Hitler stesso, riconosciuta all’inizio della sua ascesa al potere, il primo maggio 1933. Inoltre, la sua morte risalirebbe al 30 Aprile 1945. I suoi pochi seguaci rimasti non la vogliono dimenticare.
L’estrema destra tedesca (NPD) ha organizzato per quest’anno la sua manifestazione nel quartiere di Prenzlauer Berg (ex Berlino Est): hanno partecipato 1000 nazi, che avrebbero dovuto sfilare per tutto il quartiere. Ma è successo qualcosa di impensabile.
Prenzlauer Berg è il primo sobborgo oltre-Muro modernizzato dal capitalismo della Riunificazione tedesca: per alcuni, la prima vittima della gentrificazione sociale, per altri il gioiello berlinese per eccellenza. Giovani coppie belle e alternative, artisti, intellettuali, per la maggior parte indipendenti e benestanti, migliaia di bimbi portati a fare yoga all’età di due anni, negozi bio, vestiti e locali vintage; le nonne sono sparite, i barboni pure, il residente più vecchio ha, massimo, quarant’anni e, minimo, due auto.
Nonostante l’autorizzazione, tuttavia, i nazi non hanno potuto sfilare. Prenzlauer Berg si è mobilitata: in 10.000 si sono seduti in mezzo alla strada e hanno impedito ai nazi di marciare. Senza violenza, senza muovere un dito, con il sorriso sulle labbra. Giovani, anziani, bambini, gente politicamente impegnata, studenti: tutti in strada per mantenere inviolato il proprio quartiere. Per difenderlo da un’ideologia sbagliata. Senza scontri, senza battaglie. E la polizia non li ha potuti (o voluti?) spostare.
Perché ne vale ancora la pena: aggrapparsi alle ideologie per non lasciarsi riempire la testa della spazzatura mediatica di cui ci vuol nutrire il capitalismo o, per lo meno, la sua zona d’ombra. Nonostante chi trasforma le manifestazioni in un atto vandalico senza senso e senza direzione e chi associa immancabilmente manifestazione a black block. Nonostante i violenti, nonostante i politici, nonostante i media. Perché agiatezza non significa consumarsi nello zapping dal divano di casa, e il benessere non deve ammazzare lo spirito critico in un mondo che tenta di occupare la realtà dell’individuo con calciatori, veline e politici viziati dal lusso. Dio sarà pure morto, ma nulla impedisce all’uomo di ricrearlo con la propria intelligenza. Con la violenza, forse, ci hanno già provato e non ha funzionato. Non resta che tentare senza.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Nella regione asiatica della Kirghisia - sconvolta da una guerra civile che ricorda i primi tempi della Rivoluzione d'Ottobre - i morti sono più di 120, migliaia e migliaia i feriti, oltre 75 mila i profughi di nazionalità usbeka che hanno attraversato la frontiera fra Kirghisia e Uzbekistan. Carri armati e colonne di militari presidiano le maggiori arterie del Paese, mentre le lotte di strada si fanno sempre più cruente e il vento che soffia è quello delle faide di palazzo.
C'è una travolgente azione per vicende legate alle scalate verso un potere asiatico che già tanti danni ha regalato alle nazioni dell'area. C'è - nella capitale Biskek - un vecchio presidente in fuga e una leader come Roza Otumbaieva che si scontra con una crisi epocale che sta incendiando l'Asia, ci sono bande armate che organizzano pogrom. Tutto questo mentre nelle città di Osc e di Gialal Abad gli scontri e le scorribande sono anche caratterizzati da saccheggi e incendi. La Russia e gli Usa, intanto, che si sono dichiarati neutrali quanto alle lotte intestine, mostrano serie preoccupazioni per le loro basi militari esistenti nell'area.
E a questo magma di problemi si aggiunge il dramma che agita quella valle della Ferghanà, condivisa con Tagikistan e Uzbekistan. Popolata in massima parte da uzbeki, la più consistente minoranza etnica presente nella Kirghisia vede qui i due popoli - entrambi musulmani sunniti che pur parlano lingue affini di ceppo turco - divisi da profonde rivalità. E' lotta tribale per l'egemonia ed è l'incendio dell'Asia ex sovietica. Avvolge la Kirghisia e coinvolge l'Uzbekistan, ma anche altre regioni dell'area sono a rischio. Ed ora il conflitto - uno dei problemi più complessi e acuti - non è solo frutto di uno sconvolgimento politico: è un "fatto" etnico che mette in evidenza una questione soprattutto asiatica. L'allarme raggiunge Mosca e Pechino rivelando così la tragicità della situazione eurasiatica.
Le cronache e le cronologie segnano la complessità dello scenario. I disordini partono da lontano, quando scoppiò, una rivoluzione improvvisa, nel giugno del 1990, che venne chiamata la “rivoluzione della seta”, perchè avveniva in luoghi esotici e lontani, traversati un tempo dalla via della seta. Fu poi con la “rivoluzione dei tulipani”, nel marzo 2005, che venne destituito, il presidente Askar Akayev che aveva governato il paese per 15 anni. Era accusato di autoritarismo, nepotismo e corruzione. Al suo posto arrivò, tra scontri e duri attacchi, Kurmanbek Bakiyev, che a sua volta venne spodestato nell’aprile 2010 con le stesse accuse. Bakiyev - per tenere in piedi il suo potere - si appoggiò sui clan tribali di Osc e Gialal Abad, nel Sud del Paese.
Il vento della guerra civile, intanto, era sempre più presente. Ed è a questo punto che viene avanti una leader come Roza Otumbaeva (un passato nel ministero degli Esteri dell'Urss e un posto di direzione all'Unesco). E' lei che, da capo del governo provvisorio, sale sul carro delle proteste e da fuoco al Paese. Ed ora, in vista del referendum del 27 giugno sulla nuova Costituzione, chiede all'antica "madre Russia" di mandare nel Paese, «truppe di pacificazione».
Il Cremlino, in merito, si muove con prudenza. Natalja Timakova, portavoce del presidente Dmitrij Medvedev, fa presente che il capo del Cremlino ha dato disposizione ai ministri della Sanità Tatjana Golikova e della protezione civile Sergej Shojgù di prestare aiuto umanitario al Kirghizistan, alla volta del quale sono già partiti aerei carichi di generi di prima necessità ed altri per l’evacuazione dei feriti. Circa l’invio di truppe, Mosca fa sapere che «tale decisione può essere presa solo in accordo con la Carta dell’Onu e dopo consultazioni con tutti i membri di questa organizzazione». In ogni caso «si tratta di un conflitto interno e per ora la Russia non vede le condizioni per partecipare alla sua soluzione».
Detto questo Mosca non dimentica la gravità della situazione. Medvedev inizia consultazioni con i capi militari, compreso Nikolaj Bordjuzha, segretario dell’Odkb (truppe collettive della Csi sotto controllo russo) e con il presidente kazakho Nursultan Nazarbayev. Otumbaeva telefona al premier russo, Vladimir Putin. Nello stesso tempo una fonte del ministro della Difesa russo dichiara che i militari della base russa di Kant, in Kirghisia, «non saranno coinvolti nelle misure per il ristabilimento dell’ordine nel sud della repubblica». Questo contingente, infatti, «ha una sua missione precisa e non sarà chiamato ad adempiere ad altri compiti».
Prudente anche Pechino, che è pur sempre attenta a ogni rigurgito nazionalista, autonomista o islamista che infiammi l’Asia centrale, sapendo bene come la sua turbolenta regione autonoma dello Xinjang si potrebbe riscaldare di conseguenza. E sarebbe una dura prova. Le diplomazie asiatiche, in merito, non si pronunciano, ma si chiedono quanto direttamente sia disposta Pechino a impegnarsi. Finora, la strategia cinese ha puntato sulla penetrazione economica nell'area e sul soft power. È forse ancora troppo presto per scendere nell’arena direttamente. E qui va ricordato che Washington ha sempre vagheggiato di fare della Kirghisia "una democrazia amica".
Intanto la situazione sul terreno è sempre più grave. Il vicepremier kirghiso Azimbek Beknazarov annuncia che lo stato d’emergenza, oltre che a Osh, è stato proclamato anche al vicino distretto di Suzak. Il governo, intanto, manda rinforzi di truppe a Osc e la polizia ha l’ordine di «sparare a vista» su persone che usino armi da fuoco.
La situazione si aggrava di ora in ora. E così dalla rivoluzione della seta del 1990 sono passati vent’anni e almeno altre due rivoluzioni popolari. Ora è allarme eurasiatico. E c'è l'alto rappresentante della Politica Estera e di sicurezza comune dell'Ue, Catherine Ashton, che alla riunione dei ministri degli Esteri, a Lussemburgo, manifesta serie preoccupazioni per gli scontri in Kirghisia, affermando che l'ondata di violenza è molto pericolosa per la regione. E da tutto questo - è la tragica conclusione del momento - l'Asia centrale diviene sempre più non solo una questione continentale, ma globale.
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di Michele Paris
Il voto di domenica scorsa in Belgio ha confermato tutte le tensioni che da tempo attraversano le due comunità linguistiche che compongono questo paese di quasi undici milioni di abitanti. Il successo del partito nazionalista fiammingo conservatore di Bart de Wever, ha immediatamente scatenato le speculazioni per una possibile secessione nel prossimo futuro. Tuttavia, con un sistema elettorale che richiede un governo di coalizione che comprenda sia i partiti fiamminghi che quelli valloni, e di fronte ad un’opinione pubblica che sembra limitarsi a preferire una maggiore autonomia delle due regioni, l’ipotesi di una scissione, almeno per ora, appare alquanto remota.
Le elezioni anticipate in Belgio erano state indette lo scorso mese di aprile dopo la caduta del governo del cristiano-democratico Yves Leterme - diventato primo ministro nel novembre 2009 in seguito alla nomina di Herman Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo - su una disputa riguardante un distretto elettorale bilingue nei pressi di Bruxelles. Infliggendo una pesante sconfitta ai due principali partiti del governo uscente (i cristiano democratici e i liberali), la Nuova Alleanza Fiamminga (N-VA) ha conquistato il maggior numero di seggi in Parlamento, 27 su 150, con un incremento di 19 seggi. A ruota sono seguiti i Socialisti valloni con 26 seggi, sei in più rispetto al 2007.
Il partito di de Wever ha raccolto circa il 30 per cento dei consensi su scala nazionale, mentre almeno un altro 16 per cento nelle province fiamminghe é andato ad altri partiti separatisti, tra cui quello di estrema destra Vlaams Belang (Interesse Fiammingo). In Vallonia, quello Socialista è risultato il primo partito (36 per cento) e il suo leader di origine italiana, Elio di Rupo, potrebbe avere ora la priorità nelle consultazioni per la formazione del nuovo governo per diventare il primo premier francofono del Belgio da 36 anni a questa parte.
Il via libera ad un Primo Ministro di lingua francese sembra essere stato accordato dallo stesso de Wever, il quale all’indomani del successo del suo partito ha fatto sapere di non essere interessato a guidare il nuovo governo, quanto piuttosto a cercare un accordo per riformare lo stato federale. Sul tema della secessione, poi, il numero uno della N-VA ha chiarito che non sarà sua intenzione cercare la dissoluzione del paese nell’immediato futuro, preferendo invece una graduale ulteriore devoluzione dei poteri alle due regioni che lo compongono.
Il successo alle urne di de Wever, d’altra parte, sembra essere dovuto alla sua relativa moderazione e alla facciata presentabile del suo partito, rispetto alle formazioni estremiste e xenofobe che caratterizzano la destra fiamminga. Le spinte separatiste provengono principalmente dalle province settentrionali economicamente più prospere e frustrate nei confronti di quelle meridionali che continuano a pagare lo smantellamento dell’industria pesante degli ultimi due decenni. A ciò vanno poi aggiunte le inquietudini causate dalla crisi economica, che ha colpito duramente anche il Belgio, producendo uno spostamento dell’elettorato verso destra, come è accaduto un po’ ovunque negli ultimi mesi in Europa.
In ogni caso, le peculiari tensioni interne sono anche il risultato della crescente avversione per un complesso e inadeguato sistema federale, ma anche degli stessi presupposti sui quali il Belgio è stato fondato 180 anni fa. In seguito alla rivoluzione del 1830, le potenze europee, e soprattutto la Gran Bretagna, vollero uno stato-cuscinetto tra i Paesi Bassi (dai quali il Belgio aveva conquistato l’indipendenza) e la Francia, il cui esercito aveva appoggiato l’insurrezione. Il nuovo regno era composto da due comunità che ben poco avevano in comune l’una con l’altra, mentre le élite francofone avrebbero dominato a lungo la scena politica ed economica, emarginando i belgi di lingua fiamminga ed alimentando così il nazionalismo fiammingo e l’avversione nei confronti dei valloni.
In un sistema che sembra designato precisamente per rafforzare le divisioni, sono molti i timori per una paralisi politica prolungata proprio mentre il Belgio si appresta ad assumere la presidenza semestrale dell’UE ai primi di luglio. Intanto, Re Alberto II, rappresentante di una delle poche istituzioni che simboleggiano l’unità del paese, ha immediatamente dato il via alle consultazioni con i leader dei vari partiti, ma è più che probabile che la formazione di una nuova coalizione di governo dovrà attendere a lungo. Dopo le ultime elezioni, nel 2007, si dovette attendere ben nove mesi per veder nascere il nuovo governo.
Sul tavolo del nuovo gabinetto, ci sarà naturalmente la crisi economica. Quale che sia la composizione della coalizione di governo, la necessità dei tagli alla spesa pubblica occuperà anche qui un posto di rilievo nell’agenda politica. A medio e lungo termine, tuttavia, sarà ancora una volta la riforma dello stato federale a decidere della stabilità del governo e, probabilmente, del futuro stesso del paese.
Da chiarire ci sarà innanzitutto la contesa sullo status di Bruxelles, dove la maggioranza degli abitanti parla francese anche se ufficialmente la città rappresenta la capitale delle Fiandre. Ancora maggiore attrito tra le due comunità è prevedibile invece sulla questione del trasferimento dei poteri alle due regioni. Esse godono già di ampia autonomia, ma il desiderio dei fiamminghi di decentralizzare anche la giustizia, la sanità, le tasse e il sistema di sicurezza sociale non trova riscontro in Vallonia, dove si teme in particolare di perdere le protezioni sociali garantite attualmente dal governo centrale.
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di Michele Paris
Un recentissimo studio del Washington Post ha ancora una volta messo in evidenza, se mai fosse stato necessario, l’impressionante livello di promiscuità diffusa nel sistema politico d’oltreoceano che unisce, in una stretta mortale per una sana democrazia, membri del Congresso, lobbisti e grandi interessi economici. A finire sotto la lente d’ingrandimento del prestigioso quotidiano americano, sono stati i cosiddetti “bundlers”.
Costoro non sono altro che lobbisti con influenti contatti nella capitale che aggirano i limiti stabiliti per legge alle contribuzioni individuali a beneficio delle campagne elettorali, raccogliendo denaro da svariati finanziatori per poi versarli a loro volta nelle casse dei comitati elettorali e dei politici di entrambi gli schieramenti. Secondo le norme che regolano il finanziamento alla politica negli USA, infatti, sono consentite donazioni individuali solo fino a 2.400 dollari per ogni ciclo elettorale (4.800 dollari comprese le primarie).
I dati della Commissione Elettorale Federale (FEC) elencano ben 160 lobbisti regolarmente registrati che nell’ultimo anno avrebbero messo assieme almeno 9 milioni di dollari in favore dei due principali partiti e dei loro candidati a cariche di rilevanza nazionale. A beneficiarne sono stati soprattutto gli organi che si occupano delle campagne elettorali per il Partito Democratico, da qualche anno in maggioranza al Congresso.
La pratica del “bundling” costituisce un elemento fondamentale nell’attività dei lobbisti, grazie alla quale essi riescono appunto a conquistarsi una corsia preferenziale nei rapporti con i politici di turno. Una capacità di influire sulle decisioni di deputati e senatori che rappresenta precisamente il potere e l’autorevolezza di chi si dedica all’attività di lobbying a Washington.
Benché tutto avvenga in maniera più o meno trasparente, a sollevare più di un dubbio sull’opportunità di questa consuetudine è il fatto che gli stessi lobbisti che raccolgono fondi per i politici, sono impegnati nell’influenzare questi ultimi affinché legiferino in favore dei loro stessi clienti, che a loro volta hanno erogato i finanziamenti elettorali. Un lobbista che opera in funzione di banche d’affari di Wall Street, ad esempio, può trovarsi così a “negoziare” con un senatore coinvolto nella stesura di una legge che riguarda le attività finanziarie e al quale egli stesso ha provveduto a elargire contributi provenienti dai suoi clienti.
In seguito ad una norma approvata nel 2007, le donazioni raccolte in questo modo dai lobbisti devono essere rese pubbliche se superano i 16 mila dollari. I rendiconti dei versamenti, tuttavia, non devono necessariamente elencare i donatori, mentre i beneficiari dei fondi possono contare su deroghe che in alcuni casi permettono loro di non dover nemmeno comunicare alla Commissione Elettorale Federale i contributi stessi. Il presidente Obama all’inizio del 2010 aveva annunciato l’adozioni di norme più stringenti, anche se a tutt’oggi non è stata avviata nessuna iniziativa concreta.
Secondo i già citati numeri della FEC, il Partito Democratico ha ricevuto circa i tre quarti del denaro raccolto in questo modo dai lobbisti nell’ultimo anno, con il Comitato Elettorale per il Congresso che ha incassato 2,4 milioni di dollari e quello deputato al coordinamento delle campagne per il Senato 1,1 milioni. Nessun contributo dai lobbisti, seguendo una direttiva voluta da Obama, ha accettato invece il Comitato Nazionale Democratico (DNC), la segreteria nazionale del partito di maggioranza. Sull’altro fronte, 870 mila dollari sono stati destinati al Comitato per le campagne repubblicane del Senato, mentre il Comitato Elettorale repubblicano per il Congresso ha avuto dai “bundlers” poco più di 500 mila dollari.
Per quanto riguarda i singoli politici, a giovarsi maggiormente degli sforzi dei lobbisti è stato il democratico Charles Schumer, potente senatore democratico di New York e probabile prossimo leader di maggioranza alla Camera alta del Congresso USA. Negli ultimi mesi, i lobbisti registrati hanno raccolto per Schumer circa 570 mila dollari, tra cui più di 60 mila provenienti da Wall Street e 300 mila dall’attività di raccolta fondi di due lobbisti che operano per l’Associazione degli Ospedali dello stato di New York. Quest’ultima organizzazione, in particolare, dall’inizio del 2009 ha speso complessivamente 1,6 milioni di dollari per influenzare il dibattito sulla riforma sanitaria, ottenendo alla fine tagli meno consistenti del previsto sui rimborsi destinati agli ospedali di New York.
Il lobbista più zelante tra il 2009 e il 2010 è stato invece l’ex vice-governatore del Texas Ben Barnes, veterano democratico che è stato in grado di racimolare addirittura 640 mila dollari nel corso di un unico evento a favore del Comitato Elettorale democratico per il Congresso. Barnes presiede una propria compagnia di consulenza (The Ben Barnes Group) che ha come clienti principali General Motors, Motorola e Oracle.
Uno dei nomi di maggiore rilievo è però quello di Tony Podesta, altro “insider” democratico, particolarmente attivo per il numero uno del Senato, Harry Reid, al quale ha donato, a partire dal luglio 2009, circa 100 mila dollari. Grazie alle sue conoscenze a Washington, e soprattutto a quelle del fratello John, già capo di gabinetto durante l’amministrazione Clinton, grandi compagnie come Bank of America, Google, Lockheed Martin, Wal-Mart, Wells Fargo e la stessa BP possono contare su un trattamento di riguardo nelle stanze del potere quando le questioni più delicate vengono discusse dal Congresso.
Se la maggior parte dei lobbisti, come evidenziano le interviste condotte dal Washington Post, non ha alcuno scrupolo nel condurre operazioni - peraltro consentite dalla legge federale statunitense - qualcuno dall’interno del sistema sembra al contrario dover fare buon viso a cattivo gioco. Se il sistema dei finanziamenti elettorali, per quanto disprezzabile, si regge su tali pratiche, allora è necessario assicurare le risorse necessarie anche alla buona politica, se mai ne sia rimasta una. Nel frattempo, non resta che attendere un’improbabile svolta che istituisca regole più severe sulle donazioni private, oppure che ponga l’accento su un finanziamento completamente pubblico delle campagne elettorali.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Il Governo tedesco non riesce a trovare l’armonia e ogni questione, ormai, contribuisce a fare risaltare gli attriti già di per sé evidenti tra Liberali e Cristiano-democratici. L’ultima quérelle in ordine di tempo è nata dalla richiesta di aiuti economici statali per Opel, la casa automobilistica tedesca controllata dalla General Motors (GM) americana. E le divergenze non passano inosservate, tant’è vero che qualcuno già esterna il timore di una fine prematura del Governo Merkel. Secondo quanto scrive il quotidiano berlinese Tagesspiegel, questo qualcuno si nasconderebbe proprio tra le fila della coalizione nero-gialla.
Tutto ha avuto inizio a febbraio 2010, quando GM ha sollecitato un aiuto di oltre un miliardo di euro allo Stato tedesco per far fronte alla profonda crisi che tuttora accompagna il settore automobilistico europeo. In questo scenario, infatti, Opel ha registrato nei primi cinque mesi 2010 il 40.5% di vendite in meno rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Dopo una valutazione accurata della situazione, il Ministro dell’economia Rainer Bruederle (FDP) ha rifiutato categoricamente al gruppo GM i fondi statali, mettendo in dubbio che Opel avesse le carte in regola per un tale appoggio.
General Motors, in effetti, potrebbe compiere interamente da sé il risanamento dell’affiliata Opel, poiché la situazione economica negli Stati Uniti sembra essersi ripresa e il gruppo automobilistico americano ha la liquidità necessaria all’operazione. GM ha registrato nel primo trimestre del 2010 un utile di 1.8 miliardi di dollari statunitensi; rispetto all’anno scorso, nel mese di maggio ha visto un aumento delle vendite del 17%. Il piano di riassetto di Opel ha un costo complessivo di quasi quattro miliardi di euro, di cui solo la metà sono forniti dalla stessa GM.
All’inizio, tuttavia, Angela Merkel (CDU) non sembrava essersi rassegnata al secco no del Ministro dell’economia liberale Bruederle. “Non è ancora detta l’ultima parola”, si era fatta sfuggire la Cancelliera, lasciando sperare in qualche sostegno alternativo da parte dello Stato tedesco. Quella “ultima parola”, in effetti, spettava proprio a lei. E le critiche dei Liberali nei confronti della Merkel non si sono fatte attendere, più esplicite che mai: tanto per citarne una, il segretario generale Christian Lindner (FDP) ha giudicato gli sforzi di compromesso della Cancelliera come “tentavi da avvocato da strapazzo”. Altri suoi colleghi hanno accusato la Merkel di “non essere capace di imporsi a casa propria”.
Se con le sue parole la Cancelliera cercava solo di temporeggiare innocentemente in vista di un eventuale accordo, per Bruederle e i Liberali la questione Opel ha assunto un’importanza quasi esistenziale. Con il naufragio della riforma fiscale e di quella sanitaria, e con l’approvazione della recente manovra da 80 miliardi di euro, i Liberali hanno già dovuto rinunciare a diverse promesse centrali della loro campagna elettorale. Un’altra sconfitta non poteva essere sopportata: ne andava dell’identità del partito stesso. Voci di corridoio non ufficiali sostengono che Bruederle sarebbe stato pronto anche a dimettersi pur di non dare i fondi al gruppo Opel.
Nel frattempo, come in tutte le favole a lieto fine, la situazione sembra essersi risolta come per magia: i governatori dei quattro Laender che ospitano le filiali Opel hanno dato la loro disponibilità a coprire il buco della casa automobilistica tedesca. Assia, Renania Palatinato, Nord-Reno Vestfalia e Turingia (tutte nell’Ovest della Germania) si divideranno probabilmente i costi del risanamento. Opel dà lavoro a quasi 24'000 dipendenti tedeschi e la sua funzione all’interno dell’economia della Germania non è da sottovalutare, soprattutto per quelle regioni in cui Opel ha le sue sedi.
Se la stessa magia potrà aiutare anche la Coalizione nero-gialla a ritrovare l’equilibrio, questo è tutto da vedere: per ora, ogni questione appare come un groviglio troppo intricato per essere sciolto e la situazione s’inasprisce sempre di più. Secondo quanto riporta il Tagesspiegel, qualche politico della Coalizione stessa comincerebbe addirittura a temere per la tenuta del Governo: “Se resistiamo fino all’arrivo dell’estate, riusciamo anche a fare la legislatura” avrebbe commentato qualcuno. Ma a Berlino, si sa, l’estate tarda sempre ad arrivare.