di Carlo Benedetti

MOSCA. L'appuntamento per la nuova fase distensiva tra Est ed Ovest - il nuovo "Start" - è fissato per l'8 aprile a Praga, dove si firmerà un accordo sul disarmo che stabilirà un tetto di 1.550 testate nucleari operative e di 800 vettori nucleari. A sancire l'inizio di questa nuova fase distensiva saranno il russo Dmitri Medvedev e l'americano Barack Obama. E sarà una cerimonia carica di significati, a partire dalla capitale prescelta per la firma: una Praga ex Paese del Patto di Varsavia, adesso membro della Nato, che ospita le due superpotenze chiamate a "dare il buon esempio" alla comunità internazionale con un accordo sul disarmo. Il documento politico-militare contribuirà, quindi, alla non proliferazione.

Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov commenta l'avvio di questa fase "primaverile" annunciando che il nuovo trattato aumenterà la fiducia reciproca tra la Russia e gli Stati Uniti. E sempre il Capo della diplomazia del Cremlino ritiene che il compito principale, per ridurre le armi strategiche offensive sulla base della parità aderente al principio di parità di sicurezza, è stato risolto. Ed è sicuro che i colloqui sulla riduzione delle armi nucleari continueranno.

Dall'altra parte dell'oceano gli fa eco Obama che sta preparando le valigie per la missione nel cuore della Mitteleuropa. “Stati Uniti e Russia - dice l'americano – hanno concluso l'accordo per il controllo degli armamenti più completo in quasi vent'anni”. Un documento - precisa - che “riduce in modo significativo i missili e i lanciatori” ma, allo stesso tempo, “garantisce la sicurezza” degli alleati dell'America. Il presidente americano ricorda poi la fitta agenda d’impegni su questo dossier. In particolare il vertice sulla non proliferazione che ha convocato a Washington, con i leader dei 40 Paesi firmatari del trattato di non proliferazione, la settimana successiva e la conferenza di New York, più avanti in primavera, per "costruire" sui progressi effettuati a Washington.

Sul tema della non proliferazione nucleare si ritroveranno, nella capitale Usa, i leader di oltre 40 Nazioni. Un summit dove Obama, come ha detto un funzionario della Casa Bianca, "potrà esibire fatti e non solo parole". Intanto risulta con sempre maggiore evidenza che l'accordo Russia-Usa sulla limitazione degli armamenti strategici (che conferma il reset nei rapporti bilaterali) lancia un ammonimento a nazioni come l'Iran e la Corea del Nord sulla determinazione di Washington e Mosca nella lotta alla proliferazione nucleare. Ma restano incerti i riflessi generali che l'accordo avrà sullo scudo anti-missile.

Perché questa nuova fase delle trattative, pur essendo la più importante in due decenni, prevede un limite di 1.550 testate nucleari (una diminuzione del 74% rispetto all'accordo Start del 1991) e di 700 vettori (un dimezzamento rispetto al vecchio Start scaduto nel dicembre scorso). "Le grandi potenze lanciano una campagna di valore planetario" spiega Obama rilevando che questa è stata la settimana più trionfale della sua presidenza che vede anche la storica riforma sanitaria (la sua priorità nella agenda dei problemi interni). "C'é voluta pazienza, c'é voluta perseveranza, ma non ci siamo mai arresi", ha detto Obama, riferendosi ai negoziati con Mosca ma anche alla riforma sanitaria.

All'offensiva diplomatica della Casa Bianca e del Cremlino, intanto, fa riferimento il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, che insiste sul fatto che l'accordo nucleare lancia un preciso segnale a Paesi come l'Iran e la Corea del Nord. Da Mosca però si sottolinea che l'accordo include un collegamento "legalmente vincolante" tra armi strategiche di attacco (come appunto i missili) e quelle di difesa (come lo scudo antimissile).

Un’interpretazione che viene però respinta dalla Casa Bianca: l'accordo non contiene vincoli allo sviluppo dello scudo anti-missili. Alla radice della divergenza c'é il fatto che sia Obama che Medvedev devono ottenere la ratifica dei rispettivi parlamenti prima che il trattato possa entrare in vigore. Obama ha bisogno del voto favorevole di 67 senatori su 100, deve convincere quindi anche almeno una decina di senatori repubblicani a votare per l'accordo. "Spero che si formi un forte sostegno bipartisan per ottenere la ratifica del trattato" dice. Ma per arrivare a questo risultato occorre che l'accordo non minacci lo scudo, che ha i suoi sostenitori più forti proprio tra i repubblicani. Di conseguenza dopo avere ottenuto il reset delle relazioni con Mosca, adesso Obama è chiamato ad una impresa ancora più difficile: il reset dei rapporti con i repubblicani dopo la feroce battaglia per la riforma sanitaria.

Ma ecco che mentre soffiano buoni venti distensivi tra Mosca e Washington - via Praga - arrivano tempeste asiatiche firmate dalle due Coree. Tutto prende avvio con una nave sudcoreana affondata nel Mare Giallo da un siluro. Ed è subito tensione alle stelle lungo la frontiera marittima. Con la marina di Seul che apre il fuoco contro una nave non identificata poco dopo l'affondamento di una nave sudcoreana con 100 persone a bordo. Dalle prime informazioni l'affondamento sarebbe stato causato da un siluro e l'azione dell'unità sudcoreana potrebbe essere una rappresaglia per quell'attacco. Il governo di Seul ha convocato una riunione di emergenza dopo quanto accaduto nel mar Giallo.

Il ministero della Difesa sudcoreano al momento non ha confermato le informazioni che indicano un coinvolgimento della Corea del Nord nell'incidente. Lo riferisce la Bbc, ricordando però che a novembre dell'anno scorso un vascello sudcoreano aveva aperto il fuoco quando una nave di Pyongyang aveva superato il limite delle acque territoriali. All'epoca c'era stato uno scambio di fuoco e i nordcoreani avevano quindi smentito di aver oltrepassato il confine. Ed ora a Mosca e a Washington ci si chiede se questo nuovo "incidente" sia proprio una sorta di "giallo" destinato a gettare ombre sul rapporto pacifico Est-Ovest.

 

di Eugenio Roscini Vitali

«La costruzione di abitazioni a Gerusalemme est continuerà nella stessa maniera in cui è andata avanti negli ultimi 42 anni». Così aveva detto Benjamin Netanyahu ai deputati del Likud solo una settimana prima dell’incontro con il presidente americano Barak Obama, forte del fatto che fino ad ora e stata questa la linea seguita dai governi israeliani che si sono succeduti alla guida del Paese dalla fine della guerra del ’67. Israele potrà sempre contare sull’appoggio delle grandi lobby statunitensi filo-ebraiche: dall’Anti Defamation League (Adl), l’organizzazione che a livello mondiale lotta contro i movimenti antiebraici, all’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), il potente gruppo di potere fondato nel 1953, che durante l’ultima conferenza di Washington ha confermato il suo pieno appoggio alla politica degli insediamenti portata avanti dalla destra israeliana in Cisgiordania.

Mantenere le conquiste fatte nella Guerra dei sei giorni; incrementare l’urbanizzazione e la costruzione di alloggi nella cintura metropolitana di Gerusalemme est; tagliare definitivamente fuori dal resto della Cisgiordania i quartieri arabi della capitale; impedire la spartizione della capitale. Sono questi gli obiettivi dichiarati del governo israeliano che al tempo stesso però riconosce la necessità palestinese di avere una sua identità nazionale. Una situazione contraddittoria che non sembra mettere in alcun imbarazzo il primo ministro dello Stato ebraico, neanche di fronte alle pressioni dell’amministrazione americana e a una crisi che lo stesso ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, ha definito “di proporzioni storiche, la peggiore dal 1975”.

In realtà il rapporto tra i due grandi alleati non sembra destinato a cambiare: non è accaduto neanche il 10 marzo scorso quando, in occasione della visita del vice presidente americano Joe Biden, le autorità israeliane hanno annunciato la realizzazione di 1.600 nuove case che entro 2013 dovrebbero essere costruite al di là della linea verde, nel quartiere ultra-ortodosso di Ramat Shlomo. Tanto meno appare credibile come Washington e Gerusalemme possano interrompere una relazione che dura ormai da oltre mezzo secolo per un centinaio di  appartamenti che, entro breve, verranno edificati al posto dello Shepherd Hotel, il complesso alberghiero che sorge a poche centinaia di metri dall’Orient House, luogo ritenuto storico dai palestinesi e sede negli anni ottanta dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Risale alla scorsa estate la decisione di demolizione dello Shepherd Hotel ed anche allora la neo-eletta amministrazione Obama cercò di far valere le ragioni della politica internazionale agli interessi israeliani in Cisgiordania. In quella occasione il Dipartimento di Stato americano convocò l’ambasciatore israeliano negli Usa per esprimere il disappunto della Casa Bianca e per chiedere allo Stato ebraico di bloccare la costruzione di nuovo complesso residenziale a Gerusalemme est. Ma la risposta di Netanyahu fu chiarissima: «La nostra sovranità sulla città non può essere messa in discussione; questa è la politica adatta per una città che voglia dirsi aperta e non chiusa. Posso solo immaginare cosa sarebbe accaduto se fosse stato chiesto agli ebrei di non acquistare delle case a Londra o a New York. Ci sarebbe stato un biasimo internazionale».

A quasi dodici mesi di distanza la politica di Netanyahu non sembra cambiata e nemmeno la recente visita negli Usa e le pressioni di Obama sembrano aver ammorbidito la posizione israeliana sulla demolizione del Shepherd Hotel. Dopo una riunione con il gabinetto di sicurezza, che comprende i sette ministri più importanti, il capo della coalizione di destra che dal 31 marzo 2009 governa il Paese, ha infatti ribadito che «a Gerusalemme non ci sono limitazioni al diritto di proprietà. Arabi ed ebrei possono comprare e vendere liberamente le proprietà private e le case, questa è la realtà delle cose». E ad affermare l’esclusività ebraica di Gerusalemme e la ferma intenzione di costruire di nuovi alloggi a ridosso del quartiere arabo di Sheik Jarrah non è solo il governo: a fianco del primo ministro c’è il sindaco della capitale, Nir Barkat, che punta ad interrompere la continuità territoriale palestinese, ed Elisha Peleg, consigliere e braccio politico del Likud all’interno dell’amministrazione locale, che giorno dopo giorno verifica e sostiene il comitato distrettuale di Gerusalemme nella pianificazione, costruzione ed acquisto degli alloggi nei quartieri arabi ad est della linea verde.

Per il portavoce della Casa Bianca, Tommy Vietor, la politica portata avanti dall’amministrazione ebraica a Gerusalemme est non può che portare alla distruzione del processo di pace mediorientale ed è per questo che sul caso “Shepherd  Hotel” la Casa Bianca ha subito preso le distanze dal governo israeliano. Ma dall’altra parte dell’Oceano non tutti la pensano così: secondo il quotidiano Haaretz, alcuni giorni dopo l’incontro di Washington, che ha visto di fronte Barak Obama e Benjamin Netanyahu, il Generale David Petraeus, comandante in capo del Comando Centrale americano, si sarebbe messo in contatto con la sua controparte israeliana, il Generale Gabi Ashkenazi.

Durante il colloquio, il Generale Petraeus avrebbe chiarito la sua posizione nei riguardi di Israele, correggendo il tiro su quanto riportato nel report di 56 pagine pubblicato recentemente dallo stesso Comando Centrale e confermando il suo appoggio al Paese alleato. Nel rapporto si ritiene che il perdurare delle ostilità tra Israele e i paesi confinanti metterebbe in pericolo gli interessi Usa in Medio Oriente, ma secondo l’architetto delle strategie militari americane in Medio Oriente, che all’inizio di marzo aveva ammonito il Pentagono circa le relazioni con Israele definandole «importanti ma non quanto la vita dei soldati americani», si tratterebbe solo di una percezione.


 

di Michele Paris

Martedì 9 marzo, nel corso di un’audizione al Senato degli Stati Uniti, un prestigioso funzionario dell’OCSE richiamava l’attenzione sul pessimo stato complessivo dell’educazione superiore americana. Secondo Andreas Schleicher, ritenuto uno dei massimi esperti mondiali sui sistemi scolastici dei paesi avanzati, quello d’oltreoceano, autentico fondamento della superiorità americana dal secondo dopoguerra, appare ormai inesorabilmente superato da quelli di altri paesi occidentali. Pochi giorni più tardi, quasi a testimoniare l’inevitabile declino di un sistema all’avanguardia, la Commissione Scolastica del Texas approvava a larga maggioranza una serie di modifiche al curriculum studentesco dello Stato, riscrivendo di fatto parte della storia degli USA per meglio farla aderire ai presunti valori conservatori e cristiani che ne hanno permeato la creazione e la sua storia.

Con l’estrema destra già sulle barricate per contrastare un’amministrazione Obama che starebbe portando gli Stati Uniti verso il socialismo, i responsabili dei programmi scolastici nel secondo stato più popoloso del paese hanno pensato bene di correggere una volta per tutte quelli che loro stessi descrivono come i “pregiudizi liberal” di storici e insegnanti. Così, al termine di un’accesa discussione interna, ai dieci membri repubblicani del Texas Board of Education si è aggiunto uno dei cinque rappresentanti democratici eletti nella commissione statale per approvare oltre 160 modifiche ai programmi scolastici tradizionali. Senza consultare un solo storico, sociologo o economista sugli argomenti da “rivedere” la commissione ha varato interventi che cambieranno in maniera pesante i contenuti di tutti e tre questi ambiti di studio nel prossimo decennio.

I membri della commissione scolastica texana - nessuno dei quali storico o esperto in una delle materie affrontate - si erano resi protagonisti nel recente passato per un’altra battaglia ideologica che aveva avuto una qualche eco nel resto del paese, quella legata all’opportunità dell’insegnamento dell’evoluzionismo. Le linee guida della nuova iniziativa sono state fortemente volute dai sette repubblicani più conservatori del Board e intendono sottolineare i principi cristiani a cui, a loro parere, si sarebbero ispirati i Padri Fondatori, oscurando il più possibile la separazione tra Stato e Chiesa che lo stesso Thomas Jefferson aveva così vigorosamente promosso.

Proprio il terzo presidente degli Stati Uniti (1801-1809), principale autore della Dichiarazione d’Indipendenza e il più influente dei Padri Fondatori, è una delle vittime dei falchi dell’estrema destra texana. Mai amato dai conservatori per il suo appoggio alla separazione tra Stato e Chiesa e alla libertà di coscienza, Jefferson è stato rimosso dall’elenco di autori i cui scritti hanno maggiormente influenzato i movimenti rivoluzionari a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Negando che la filosofia dell’Illuminismo sia stata l’unica ad aver ispirato queste rivoluzioni, al suo posto hanno trovato spazio altri pensatori, come San Tommaso e Calvino.

La “Rinascita conservatrice” degli anni Ottanta e Novanta sarà inoltre argomento di studio, assieme, tra l’altro, alle gesta dell’attivista di destra e anti-femminista Phyllis Schalfly; al “Contratto con l’America”, che rappresentò la piattaforma politica repubblicana nelle elezioni di medio termine del 1994; alla produzione della Heritage Foundation, potente think tank conservatore di Washington legato a doppio filo con il Partito Repubblicano; al movimento cristiano-evangelico Moral Majority degli anni Ottanta e alla NRA, la principale lobby dei possessori di armi da fuoco.

Nell’ambito del movimento per i diritti civili, la commissione ha approvato poi una modifica che, a fianco dell’approccio nonviolento del reverendo Martin Luther King, introduce lo studio delle Pantere Nere. Le vicende legate all’approvazione, a metà degli anni Sessanta, delle leggi sui diritti civili, dovrà essere vincolata all’analisi del voto espresso dai partiti rappresentati al Congresso, così da mettere in luce il voto favorevole del Partito Repubblicano nei confronti della desegregazione delle Forze Armate, del Civil Rights Act del 1964 e del Voting Rights Act del 1965.

Gli studenti del Texas dovranno anche fare i conti con le “conseguenze negative” delle riforme sociali volute dal presidente Johnson e passate alla storia con il nome di Great Society. Tra gli altri emendamenti al programma scolastico, molti intendono evidenziare il carattere cristiano della storia americana, mentre altri sono stati adottati esplicitamente per mitigare i giudizi negativi nei confronti degli eccessi della destra nei passati decenni. La storia del maccartismo, ad esempio, dovrà essere controbilanciata dallo studio dei cosiddetti “Venona papers”, le trascrizioni delle comunicazioni tra l’Unione Sovietica e i suoi agenti negli USA che confermarono l’effettiva infiltrazione comunista in territorio americano.

Nettamente bocciate sono state, al contrario, alcune modifiche volute dai membri democratici della commissione. Come quella che richiedeva lo studio delle ragioni che indussero i Padri Fondatori a proteggere la libertà religiosa in America, impedendo al governo di promuovere o sfavorire una religione rispetto ad un’altra. In compenso, sono state introdotte disposizioni che includeranno lo studio della Bibbia nel nuovo curriculum di studi sociali.

L’integralismo conservatore non ha ovviamente risparmiato nemmeno l’economia e la sociologia. Nel primo caso, accanto ad Adam Smith, Marx e Keynes sono spuntanti i nomi di due paladini del neo-liberismo, Milton Friedman e l’austriaco Friedrich von Hayek. Contemporaneamente, il termine “capitalismo” verrà però sostituito da “sistema della libera impresa”, perché ormai connotato negativamente, secondo i promotori della modifica. In ambito sociologico, gli insegnamenti dovranno dare maggiore importanza alle responsabilità individuali nelle scelte relative alla sessualità, al suicidio, all’uso di droghe e ai disordini alimentari. La sociologia tradizionale, infatti, tenderebbe ad incolpare la società per qualsiasi comportamento anomalo.

Ancora, secondo il programma attualmente in uso, gli studenti del Texas esaminavano i cambiamenti avvenuti a partire dagli anni Cinquanta riguardo ai ruoli tradizionali di uomini e donne nella società. Un elemento però troppo pericoloso per gli esponenti conservatori della commissione, i quali temevano che i testi così redatti finissero per promuovere la transessualità e le operazioni per il cambio di sesso.

A testimonianza del livello di scrupolosità di un manipolo di integralisti impegnati a trasformare un programma scolastico in un manifesto politico per l’estrema destra, c’è infine una vicenda legata ad un’innocente lettura destinata alla scuola elementare. A gennaio, tale volume era stato rimosso dalla lista delle letture consigliate perché l’autore - Bill Martin jr. - era stato erroneamente identificato con un omonimo docente universitario che aveva scritto uno studio dal titolo “Marxismo etico: l’imperativo categorico della liberazione”. Una volta accertato che il trattato sul marxismo era stato pubblicato nel 2008 e che l’autore del volume per bambini era deceduto quattro anni prima, quest’ultimo è stato reintegrato nel programma.

I provvedimenti della Commissione Scolastica del Texas rischiano ora di avere effetti al di fuori di questo stato. Con la crisi economica che sta attraversando la California, il Texas è diventato infatti il primo acquirente di testi scolastici degli Stati Uniti. Ai programmi del Texas, così, potrebbero guardare gli editori che forniscono contemporaneamente i testi anche ad altri stati. Le modifiche, in ogni caso, verranno ora sottoposte ad una analisi pubblica per i prossimi trenta giorni, dopodiché nel mese di maggio si terrà il voto per la definitiva approvazione.

Vista la composizione della commissione, sostanziali modifiche appaiono improbabili. Una volta implementato, il nuovo programma servirà da modello per i testi scolastici da stampare e sarà in vigore per almeno dieci anni. Tra un anno, le case editrici interessate dovranno presentare alla commissione le bozze dei testi modificati per un’ulteriore approvazione. L’unica speranza è che l’elezione di alcuni nuovi membri, prevista nel corso del 2010, possa rimediare in qualche modo ad una così clamorosa manipolazione della storia americana.

di Marco Montemurro

Il governo thailandese, in vista dei cortei indetti per i prossimi giorni, ha deciso di estendere fino al 30 marzo le speciali norme di sicurezza, inasprendo i controlli a Bangkok e nelle province limitrofe. I militari potranno imporre il coprifuoco e installare posti di blocco, in modo tale da limitare gli spostamenti e contenere il dissenso. Le misure sono state sancite dal primo ministro, Abhisit Vejjajiva, per cercare di scoraggiare l’arrivo dei manifestanti nella capitale, città che da giorni è teatro delle proteste organizzate dalle cosiddette “camice rosse”.

Durante le ultime settimane ha ripreso vigore, di giorno in giorno in maniera crescente, il movimento conosciuto come United Front for Democracy against Dictatorship (UDD), determinato nel chiedere lo scioglimento del governo, elezioni anticipate e, soprattutto, la riammissione in politica dell’ex primo ministro e magnate delle comunicazioni Thaksin Shinawatra. Benché risieda all’estero, in esilio volontario dal 2006, il suo ruolo è molto influente nel paese e i messaggi da lui rilasciati, nei quali incita alla mobilitazione contro il governo, diffusi puntualmente tramite internet, hanno molto credito tra i dimostranti.

Il sostegno verso Thaksin potrebbe far apparire paradossale il conflitto politico, in quanto le rivendicazioni democratiche si affiancano agli interessi del noto imprenditore, tuttavia nelle province del paese l’ex premier continua a beneficiare del forte appoggio della popolazione. Durante il suo governo, tra il 2001 e il 2006, Thaksin ha introdotto nelle aree economicamente più depresse l’assistenza sanitaria gratuita e il microcredito; pertanto, sebbene sia stato condannato per conflitto d’interessi, corruzione e furto all’erario, continua a godere del sostegno dai ceti più poveri e rurali, degli studenti e degli attivisti politici.

Thaksin, grazie alle politiche sociali e populiste perseguite durante il suo incarico, ha ottenuto consenso. É difatti l’unico premier thailandese ad aver portato a termine il suo mandato quadriennale, riuscendo inoltre a essere rieletto nel 2005, in una tornata elettorale che ha registrato la più alta affluenza alle urne nella storia del paese. Nel settembre del 2006, però, accusato di corruzione e di scarsa lealtà nei confronti della monarchia, è stato deposto da un colpo di stato militare incruento, un’azione che ha comportato inevitabilmente l’inasprimento del conflitto politico.

Una volta messo fuori legge il partito di Thaksin, il Thai Rak Thai, parte dei sostenitori sono confluiti nel nuovo People's Power Party e in seguito, dissolto anch’esso, nel Pheu Thai Party, la formazione che tuttora si contrappone al People's Alliance for Democracy (PAD) e al Democrat Party dell'attuale primo ministro Abhisit.

Negli ultimi quattro anni, dunque, nella politica thailandese è cresciuto il contrasto tra le cosiddette “camice gialle” (così chiamate perché vestono i colori della monarchia che intendono difendere, legate all’élite urbane e vicine ai militari) e le “camicie rosse”, favorevoli all’ex premier miliardario Thaksin, che reclamano la democrazia e maggiori politiche sociali e sono sostenute dalla popolazione rurale. Tale conflitto ha dato luogo a forme di lotta eclatanti, cosicché diverse volte la Thailandia ha attirato l’attenzione mondiale.

Nel novembre 2008 i “gialli”, per chiedere le dimissioni del premier Somchai Wongsawat (cognato di Thaksin), occuparono per oltre una settimana i due aeroporti di Bangkok, bloccando completamente i voli e danneggiando così il turismo nel paese, settore cruciale dell’economia. In seguito nell’aprile 2009 i “rossi”, per protestare contro il nuovo primo ministro Abhisit, impedirono a Pattaya, località vicino la capitale, lo svolgimento del vertice tra i paesi Asean, Cina, Sud Corea e Giappone, mettendo in forte difficoltà il governo.

Pochi giorni fa, martedì 15 marzo, un altro clamoroso evento ha scosso il paese, richiamando l’interesse dei media internazionali. A due settimane di distanza dal verdetto della Corte Suprema contro Thaksin, sentenza che ha ordinato la confisca di 1,4 miliardi di dollari dai suoi beni, i “rossi” dell’United Front for Democracy against Dictatorship a Bangkok hanno gettato litri di sangue di fronte al palazzo governativo, alla residenza del primo ministro Abhisit e alla sede principale del Democrat Party.

Migliaia di volontari, intenzionati a lanciare verso il governo un segnale di forte valenza simbolica, hanno offerto il loro contributo affinché si potessero riempire intere taniche di sangue; cosicché, come se si volesse svolgere un rituale magico, le strade attorno ai palazzi del potere sono state tinte di rosso. Immediatamente le insolite immagini sono state presto diffuse in tutto il mondo, dimostrando quanto la protesta sia determinata e pacifica. A questa particolare forma di lotta ha fatto seguito un grande corteo, svoltosi il sabato successivo nelle strade della capitale, e al momento i dimostranti non sembrano demordere, dato che altre manifestazioni sono attese nei prossimi giorni.

Il movimento delle “camicie rosse” contro il governo si mostra dunque risoluto nel chiedere le dimissioni del primo ministro Abhisit, elezioni anticipate e un nuovo governo. Tuttavia, riguardo alla prospettiva di un ritorno in carica di Thaksin, non tutte le opinioni sono concordi. Pitch Pongsawat, professore alla Chulalongkorn University, sostiene appunto che molti cittadini di Bangkok sono favorevoli nei confronti del movimento, ma non sostengono Thaksin, poiché riconoscono che ha commesso abusi di potere e atti di corruzione. Il professor Pitch rivela infatti che i dimostranti hanno pareri differenti riguardo alla figura dell’ex premier però, purtroppo, “i media thailandesi sono il loro ostacolo, poiché rappresentano le ‘camicie rosse’ come dei ciechi sostenitori di Thaksin e, quindi, chiunque aderisce alle proteste viene mostrato inevitabilmente come un suo difensore”, come ha sostenuto il 20 marzo alla televisione Al Jazeera.

Nonostante non sia ancora ben definito il programma politico del movimento attualmente in campo, è evidente che le “camicie rosse” interpretano la loro lotta come fosse una contrapposizione tra i phrai, ossia la gente comune, e gli amataya, vale a dire le classi agiate, i burocrati e le élite. Il primo ministro Abhisit, ex professore di economia, nato in Gran Bretagna ed educato a Oxford, è appunto da loro considerato come un esponente del privilegio. Probabilmente le prossime azioni dei manifestanti e le decisioni del governo presto riveleranno le istanze e gli interessi in gioco nel conflitto.

di Michele Paris

Con l’arrivo nella capitale statunitense di una delegazione pakistana, mercoledì scorso è andato in scena il primo atto assoluto del “dialogo strategico” tra i due paesi con il coinvolgimento dei rispettivi responsabili degli affari esteri. La visita dei vertici diplomatici e militari del Pakistan negli Stati Uniti avviene in seguito all’accelerazione mostrata da Islamabad negli ultimi mesi sul fronte della lotta ai ribelli islamici operanti sul proprio territorio. Una guerra voluta fortemente dalla Casa Bianca e per la quale ora il fondamentale alleato in Asia meridionale di Washington sembra voler presentare il conto.

A guidare ufficialmente i rappresentanti del governo pakistano è stato il Ministro degli Esteri, Shah Mehmood Qureshi, anche se la personalità più importante appare chiaramente quella del capo delle forze armate di Islamabad, Generale Ashfaq Parvez Kayani. Quest’ultimo, infatti, aveva raggiunto gli USA anticipatamente per incontrare, in vista dei colloqui bilaterali, il numero uno del comando americano per il Medio Oriente e l’Asia Centrale, Generale David Petraeus, il capo di Stato Maggiore, Generale Mike Mullen, e il Segretario alla Difesa, Robert Gates. Prima della sua partenza, addirittura, Kayani aveva anche convocato tutti i ministri coinvolti nell’imminente trasferta a Washington senza nemmeno consultare il Primo Ministro, Yousuf Raza Gilani, o il sempre più indebolito presidente, Asif Ali Zardari.

Che siano i militari a dettare l’agenda diplomatica pakistana non è d’altra parte una novità. Il ruolo predominante assunto dal Generale Kayani conferma in ogni caso la dinamica del rapporto tra i due paesi. Come già accadeva con il deposto presidente-dittatore, Generale Pervez Musharraf, all’indomani dell’11 settembre, il Pakistan continua a fornire, sia pure con più di un’ambiguità, il proprio importantissimo supporto logistico agli Stati Uniti nell’ambito del conflitto nel vicino Afghanistan.

Quando il presidente Zardari visitò Washington, quasi un anno fa, la neo-insediata amministrazione Obama usò toni molto pesanti per convincere l’alleato a fare di più per contrastare le attività dei Talebani - con i quali ampi settori militari e dei servizi segreti pakistani mantenevano e continuano mantenere stretti rapporti - nelle aree tribali di nord-ovest. Da allora, l’esercito di Islamabad ha condotto un paio di operazioni su larga scala, nelle province di Swat e del Waziristan del Sud, assestando qualche colpo alla resistenza integralista ma, soprattutto, causando pesanti perdite tra i civili e sradicando qualcosa come due milioni di persone dalle loro abitazioni.

Parallelamente, gli Stati Uniti hanno intensificato le loro operazioni sul territorio pakistano, con il tacito accordo delle autorità locali, impiegando sempre più frequentemente i droni pilotati a distanza per colpire i Talebani. Una strategia che ha però alimentato ulteriormente un già diffuso sentimento anti-americano tra la popolazione, spesso colpita da quegli stessi attacchi aerei che si vorrebbero “chirurgici”.

Pressati da un’opinione pubblica sfiduciata e dal persistere dei nodi irrisolti legati alla propria sicurezza nazionale, Qureshi e Kayani si sono così presentati a Washington invitando il presidente Obama a prestare maggiore attenzione alle loro istanze. Oltre alla consueta richiesta di intervenire in maniera più incisiva nella disputa con l’India per la regione del Kashmir, la più recente pretesa emersa da Islamabad sembra essere quella di ottenere un accordo sul nucleare simile a quello garantito tra molte polemiche proprio al rivale indiano nel 2008 dalla precedente amministrazione americana.

Nuova Delhi, pur essendosi dotata di armi nucleari senza aver sottoscritto il Trattato di Non-Proliferazione, aveva eccezionalmente siglato con gli USA un patto per lo sviluppo del nucleare a scopi civili, così da sostenere il fabbisogno energetico di un’economia in rapida espansione. Nella stessa situazione dell’India si trova ora anche il Pakistan che gradirebbe un trattamento simile da parte di Washington per ristabilire l’equilibrio in ambito nucleare con il paese che continua a rappresentare, a torto o a ragione, la minaccia principale ai propri interessi.

Se l’eventuale accondiscendenza americana sulla questione nucleare finirà per infuriare il governo indiano, ulteriori frizioni saranno da mettere in preventivo anche nel caso venissero soddisfatte le richieste pakistane sul fronte degli armamenti. Il Ministro degli Esteri Qureshi, infatti, vorrebbe accedere agli equipaggiamenti statunitensi più sofisticati, tra cui appunto gli stessi droni che la CIA e l’esercito impiegano su larga scala in Pakistan. Su quest’ultimo punto, tuttavia, il Pentagono ha mostrato finora una certa freddezza e di certo nessun annuncio fondamentale sulle forniture militari verrà fatto al termine dei colloqui bilaterali.

Un altro punto all’ordine del giorno della visita pakistana a Washington è poi quello relativo alla trattativa con quei Talebani, ed esponenti degli altri gruppi ribelli, disposti a scendere a compromessi con il governo di Kabul. Una questione che si intreccia indissolubilmente con la necessità per Islamabad di giungere ad un governo afgano non ostile ai propri interessi una volta che le forze occidentali si saranno ritirate. In questa prospettiva, per il Pakistan risulta fondamentale limitare al massimo l’influenza indiana in Afghanistan, che in qualche modo è stata invece favorita da Washington negli ultimi anni nel perseguimento di un difficile equilibrio strategico.

La cattura da parte pakistana del leader talebano Mullah Abdul Ghani Baradar lo scorso mese di febbraio, a questo proposito, ha causato qualche attrito con Washington, nonostante le smentite. Secondo l’ex rappresentante ONU a Kabul, Kai Eide, l’arresto di colui che viene indicato come il vice del Mullah Omar avrebbe interrotto bruscamente i negoziati in corso tra il governo afgano e i Talebani. Una mossa decisa da Islamabad per ricordare agli americani e al presidente Karzai la volontà del Pakistan di ricoprire un ruolo di spicco in qualsiasi colloquio di pace in Afghanistan.

In definitiva, i vertici politici e militari pakistani appaiono voler incassare ulteriori concessioni dagli Stati Uniti per il proprio ruolo di contrasto alle forze integraliste negli ultimi tempi, ben sapendo che non sarà possibile prescindere dal loro contributo a qualsiasi soluzione pacifica verrà cercata per il futuro dell’Afghanistan e dell’intera regione. Una situazione della quale la Casa Bianca sembra essersi resa conto, anche se un punto di equilibrio, che dovrà pure tener conto delle preoccupazioni di Nuova Delhi, appare ancora lontano. Il rischio, nel frattempo, è che la rivalità indo-pakistana possa riesplodere complicando nuovamente i piani americani.


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