di Michele Paris

Da qualche settimana si rincorrono su varie testate estere le descrizioni di movimenti di armi dagli Stati Uniti verso il Medio Oriente e l’Oceano Indiano, che sembrerebbero preannunciare - secondo alcuni - un più o meno imminente attacco militare alle istallazioni nucleari dell’Iran. Mentre le minacce occidentali nei confronti di Teheran sono aumentate esponenzialmente negli ultimi tempi, l’atteggiamento americano appare improntato per ora ad una relativa prudenza. La strada maestra da seguire rimane, almeno per il momento, quella delle sanzioni. La riluttanza della Russia e ancor più della Cina a seguire Washington su questa strada, assieme all’impazienza israeliana, potrebbero però contribuire a far precipitare la situazione in un futuro non così lontano e scatenare un nuovo conflitto dalle conseguenze rovinose.

La congettura più recente circa la preparazione di un’aggressione militare ai danni dell’Iran è stata avanzata pochi giorni fa dal quotidiano scozzese The Sunday Herald. Centinaia di bombe “bunker buster” starebbero per partire dalla California alla volta dell’isola britannica Diego Garcia nell’Oceano Indiano. Questi ordigni sono utilizzati per colpire un bersaglio sotterraneo, come appunto gli impianti che ospitano il programma nucleare della Repubblica Islamica.

Nell’isola sotto la sovranità di Londra sono stanziati appena una cinquantina di militari britannici, mentre il personale americano supera le tre mila unità. In virtù di un accordo stipulato tra i due paesi nel 1971, infatti, gli USA hanno di fatto la facoltà di utilizzare l’isola come una propria base militare. Da qui erano già partiti gli aerei da guerra statunitensi diretti verso l’Iraq sia nel 1991 che nel 2003. Da qui, secondo il giornale scozzese, potrebbe scattare l’attacco all’Iran in caso di definitivo fallimento dello sforzo diplomatico internazionale per fermare la presunta corsa al nucleare di Teheran.

Se la minaccia di un assalto militare è stata più volte pubblicamente agitata dal governo israeliano, a livello ufficiale Washington ha finora sempre cercato di richiamare l’alleato alla moderazione, invitandolo ad attendere che l’eventuale applicazione di nuove sanzioni faccia il proprio corso. Un’iniziativa unilaterale di Israele, d’altra parte, coinvolgerebbe immediatamente anche gli Stati Uniti, già sufficientemente sfiancati dagli sforzi bellici in Afghanistan e Iraq. Alle intimidazioni di qualche settimana fa, per di più, da parte americana hanno fatto seguito recentemente alcune prese di posizione più misurate.

Il Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton, ascrivibile alla categoria dei “falchi”, nonostante le pressioni fatte l’altro giorno a Mosca sul presidente russo Medvedev, ha riconosciuto che per trovare un accordo sulle sanzioni sarà necessario attendere ancora qualche mese, lasciando così qualche spazio al negoziato. In aggiunta, il capo delle forze armate americane in Medio Oriente, generale David Petraeus, ha comunicato al Congresso che almeno per un altro anno l’Iran non sarà in grado di costruire alcun ordigno nucleare. Il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen, da parte sua ha infine più volte avvertito che un attacco (israeliano) all’Iran rappresenterebbe un “enorme problema” per gli Stati Uniti.

Alla luce della situazione, sembra dunque che per il momento non ci siano i segnali perché la Casa Bianca possa autorizzare un’operazione militare nei confronti dell’Iran. Questa è anche l’opinione di Ian Davis, direttore del think tank indipendente “NATO Watch”, di stanza in Scozia. Secondo l’analista britannico, il dispiegamento di armi nell’isola Diego Garcia rientrerebbe piuttosto in una strategia complessiva tesa ad assicurare agli USA tutte le opzioni possibili riguardo alla risoluzione della questione iraniana. Peraltro, esiste anche la possibilità che il materiale trasferito dalla California possa rappresentare semplicemente un carico destinato ai militari in Afghanistan.

Sempre secondo Davis, infatti, la quantità di esplosivo in questione sarebbe decisamente troppo limitato per essere impiegato in un attacco, ad esempio, all’installazione nucleare di Natanz. Questo genere di bombe, inoltre, era già stato utilizzato contro i Talebani nel 2001 e potrebbe quindi essere impiegato nuovamente in conseguenza del rinnovato sforzo contro le forze ribelli afgane. Leggermente più possibilista verso un’azione militare statunitense è al contrario il professor Dan Plesch, direttore del Centro Studi Internazionali e Diplomatici presso la University of London. Malgrado l’impegno in Afghanistan e in Iraq, gli Stati Uniti a suo parere non avrebbero ancora raggiunto un punto critico nell’impiego delle proprie forze aeree e navali.

Per entrambi gli esperti, in ogni caso, una soluzione diplomatica sembra ancora possibile, anche se difficile. Per Ian Davis, sia Washington che Teheran dovranno però modificare entrambi il proprio approccio ai negoziati. Da parte americana, soprattutto, sarà fondamentale “abbandonare l’atteggiamento minaccioso e proporre invece incentivi più convincenti per l’Iran in caso di cooperazione”. Una soluzione regionale per il Medio Oriente è invece ciò che auspica il professor Plesch, con la necessità di un disarmo anche di Israele (il cui possesso di armi nucleari non è ufficialmente riconosciuto) per “giungere ad una zona libera da armi di distruzione di massa, secondo quanto stabilito dall’ONU e dal Trattato di Non Proliferazione”.

Quel che appare certo, in definitiva, è che le eventuali sanzioni verso l’Iran, anche se dovessero alla fine essere appoggiate da Mosca e Pechino, difficilmente porteranno ad una soluzione accettabile per Stati Uniti, il cui obiettivo finale appare sempre più improntato alla ricerca di un cambiamento di regime a Teheran. Lo sforzo per il riavvicinamento al governo iraniano, annunciato da Obama all’indomani del suo insediamento alla Casa Bianca, sembra poi destinato al fallimento, mentre la strategia di investire tutto il proprio capitale politico nella ricerca di consenso per sanzioni inefficaci rappresenterà un’ulteriore pesante insuccesso per Washington, come ha scritto pochi giorni fa sul britannico The Guardian il docente di Oxford Timothy Garton Ash.

Le ragioni dell’incapacità americana di venire a capo della questione iraniana, d’altronde, affondano le radici in una serie di cambiamenti avvenuti sullo scacchiere domestico e internazionale negli ultimi anni. Per spiegare il rifiuto di Teheran di accettare la mano tesa di Obama, spiega ancora Garton Ash, è necessario perciò guardare all’eredità di George W. Bush, in particolare riguardo al rafforzamento dell’Iran su scala regionale determinato dall’invasione dell’Iraq. Per spiegare le resistenze cinesi alle sanzioni proposte da Washington, bisogna tenere presente il peso internazionale assunto ormai da Pechino e i suoi interessi nelle risorse energetiche iraniane. Per spiegare la condotta dell’amministrazione Obama, infine, bisogna valutare le pressioni esercitate dal Congresso americano e il timore che Israele possa alla fine intraprendere unilateralmente un’azione militare contro le istallazioni nucleari dell’Iran.

di mazzetta

I telespettatori italiani hanno avuto la misura della gravità dei problemi che stanno travolgendo il governo israeliano dall'apparizione del primo servizio critico di Claudio Pagliara. L'inviato del TG1 è un riconosciuto apologeta d'Israele, dove fu mandato a sostituire un corrispondente sgradito a Tel Aviv. La gravità della situazione é stata ribadita dall'apparizione del presidente Napolitano, che in visita in Siria ha dichiarato che è tempo che Israele restituisca a Damasco le alture occupate del Golan.

Oggi Israele è un paese isolato come non mai, perché al termine di una parabola durante la quale l'incapacità e le pessime intenzioni sono state mascherate con l'arroganza, è arrivato a minacciare addirittura il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. La storia presenta il conto delle licenze che i governi israeliani si sono presi, in particolare dal 2001 in poi, con il consenso dell'Amministrazione Bush. Israele ha avuto carta bianca e non ha saputo resistere alla tentazione di lanciare a ritmi mai visti prima la colonizzazione della West Bank, sigillandola con il Muro della vergogna, bombardando il Libano e Gaza, ma anche la Siria e addirittura il Sudan, compiendo o tentando omicidi degli avversari ospiti di altri paesi dell'area, fino all'ultimo caso che ha provocato l'offesa alla sovranità di Dubai e di alcuni paesi europei in un colpo solo.

Negli ultimi giorni c'è stata un'escalation impressionante, cominciata con l'offesa al vicepresidente americano Biden, in visita per perorare il processo di pace. L'annuncio dell'autorizzazione a costruire milleseicento case per Haredi a Gerusalemme Est è stato preso per uno sgarbo e Biden ha reagito male. Ancora peggio ha reagito il Segretario di Stato Clinton, che ha inviato a Netanyahu un richiamo all'ordine insolito per severità. I palestinesi l'hanno presa malissimo, sia perché gli haredi sono fanatici religiosi e la loro massiccia presenza nei quartieri arabi può essere giustificata solo dalla volontà di colonizzare anche Gerusalemme Est, sia perché Israele aumenta invece di allentare la morsa su Gza e West Bank.

Poi ci sono altre cinquantamila costruzioni in dirittura d'arrivo nelle colonie e, con la scusa della protezione del patrimonio storico, gli israeliani hanno pensato bene di assegnarsi il controllo di alcune aree d'interesse archeologico, mentre Gaza resta sigillata e la popolazione non può nemmeno riparare i danni delle ultime devastazioni. A Gaza andrà anche peggio, ora che l'Egitto si è convinto (è stato convinto) a costruire un muro alla sua frontiera che correrà sottoterra a trenta metri di profondità.

Che i rapporti tra Israele e USA dovessero ridefinirsi al tramonto di Bush era ovvio a chiunque, ma che in Israele un governo di estrema destra sarebbe andato allo scontro frontale non era prevedibilissimo. È un dato di fatto che l'esecutivo israeliano sembri un Barnum d'estremisti. Dal ministro della Sanità che propose prima di tutto di rinominare l'influenza suina in messicana (perché il maiale non è kosher) ai tempi dell'allarme-pandemia, fino al ministro degli esteri Lieberman, l'eccesso di papabili rende davvero difficile assegnare la palma del peggiore o del più impresentabile.

Secondo l'ambasciatore israeliano a Washington, questa è la peggiore crisi tra i due paesi dal 1975: un bel problema, perché la dipendenza d'Israele dalla protezione americana è totale. Gli Stati Uniti finanziano e riforniscono la supremazia militare israeliana, ma offrono anche la protezione all'ONU, esercitando il diritto di veto in Consiglio di Sicurezza ogni volta che Israele è chiamato sul banco degli imputati. Quello con l'America è l'unico rapporto di amicizia che resta a Israele, a parte l'ipocrita sostegno di Berlusconi, che vale meno di niente.

L'Europa manifesta la propria insofferenza da tempo e chiede di ridurre l'occupazione e il tormento dei palestinesi. Sudamerica, Asia e Africa seguono in ordine sparso e non aiuta che in mezzo all'aspro confronto con gli USA Lieberman si sia messo a fare i dispetti al presidente brasiliano Lula  in visita a Tel Aviv, colpevole di non aver voluto rendere omaggio alla tomba del fondatore del sionismo Theodor Herzl. Richiesta bizzarra e al di fuori del protocollo, giusto per avere il pretesto di mostrare i muscoli a favore dei compatrioti fanatici. Fratture che non hanno risparmiato l'alleanza militare con la Turchia, tramontata pure quella.

Israele ha tagliato i ponti con il resto del mondo e oggi sembra sprofondato nella paranoia, con quel che resta della sinistra in piazza a protestare contro la segregazione sessuale sugli autobus, pretesa e ottenuta dagli oltranzisti religiosi insieme a molti altri provvedimenti, benefici e privilegi che si traducono immancabilmente in una riduzione delle libertà e in un danno per i più laici. Obama in Israele è visto da parecchi come un pericolo, un cripto-musulmano, un antisemita (così l'ha definito anche il cognato di Netanyahu in un'intervista che ha fatto scalpore), ma non va meglio con la considerazione verso gli europei, generalmente giudicati in blocco (ancora) antisemiti.

La maggioranza tende evidentemente a farsi beffe del diritto internazionale e dei richiami della comunità delle nazioni, sostenendo sia la colonizzazione della West Bank che la repressione a mano armata dei vicini mediorientali, mentre punta a gran voce il dito contro l'Iran e si dice minacciata dai vicini. Ma come a chi nella favola gridava “al lupo!” oggi a Israele non risponde più nessuno Il copione è logoro e, se ancora funziona all'interno, si sta rivelando del tutto controproducente nei confronti della comunità internazionale, per lo più irritata da tante rumorose ed arroganti prese in giro e dalle infinite dichiarazioni di disponibilità al dialogo senza alcun riscontro che non fosse l'ulteriore pressione sui palestinesi o l'aggressione a qualche paese vicino.

Funziona sempre meno anche nella comunità ebraica statunitense, che ha partorito Jstreet, un'organizzazione filo-israeliana alternativa alla famigerata AIPAC, ad interpretare un'opposizione che in Israele è ridotta malissimo e incapace di evadere il menù della guerra infinita. L'alternativa dovrebbe essere il partito di Livni, che però non ha esitato a bombardare Gaza sperando di averne un tornaconto elettorale.

Solo il governo americano ha il potere di mettere mano alla situazione, Netanyahu lo sa e sta cercando in ogni modo di riparare ai danni, mentre in casa spiega che è una finta per tener buono l'uomo nero. Obama non è l'uomo nero e a Washington non butteranno a mare l'alleanza, ma Obama è la politica americana, sono i democratici e i repubblicani che devono rispondere ad elettori sempre più ostili ad Israele. Elettori che, da tempo, si chiedono perché Israele morda la mano che lo protegge e che non capiscono le esigenze “difensive” nel reprimere, recludere ed occupare i palestinesi, ma soprattutto non capiscono più perché i soldi delle loro tasse debbano finanziare questi avventuristi che si permettono pure d'offendere. A completare il pessimo quadro ci sono poi quelli per i quali la crisi è figlia dei soliti “banchieri ebrei”, il più classico capro espiatorio, buono anche oggi per distrarre l'attenzione dai banchieri bianchissimi e molto anglosassoni che hanno sfasciato il giocattolo.

Non sono però gli estremisti antisemiti americani la vera minaccia per Israele: molto più pericoloso che congressisti e membri dell'Amministrazione siano giunti alla conclusione che a trattare con Israele non c'è niente da guadagnare, o che un capo militare come il generale Petraeus dica senza alcun problema il conflitto israelo-palestinese mina la credibilità degli USA, accusati di tenere sfacciatamente le parti d'Israele. Quella che appare un'ovvietà ha suscitato la reazione piccata dell'ADL (L'Anti Defamation League, capace anni fa di conferire a Berlusconi il premio di “statista dell'anno”), che a sua volta ha suscitato una sollevazione in difesa del generale, aggredito per aver osato pronunciare una constatazione banalissima e del tutto auto-evidente.

La deriva estremista in Israele è un problema per l'assetto di tutto il Medioriente e Israele è ormai da tempo nella lista nera dei paesi che “minacciano la pace” in tutti i sondaggi delle opinioni pubbliche dei paesi avanzati. Un problema di sostanza e un problema d'immagine allo stesso tempo, l'immagine di un fallimento di fronte alla quale una Casa Bianca che voglia ribadire la leadership dell'unica superpotenza non può tirarsi indietro, sacrificando per l'ingrato alleato valori (anche etici) che eccedono di molti i già robusti aiuti militari e politici a Tel Aviv.

Resta da vedere se l'attuale Amministrazione americana avrà la forza e la volontà di intervenire con tutto il suo peso e mettere all'angolo i rozzi estremisti della destra israeliana, ma la radice del problema rimane in Israele, una società che sembra aver barattato gli alti ideali della fondazione con l'incubo a mano armata di un paese ostaggio di nazionalisti religiosi che non si fermano davanti a nulla, disposti ad uccidere un leader come Rabin perché si era incamminato verso la pace e persino ad aggredire l'alleato più fedele ed importante, senza la protezione del quale Israele avrebbe vita molto più grama.

Tipico della destra nazionalista ad ogni latitudine, prima o poi l'esaltazione nazionalista fa perdere il contatto con la realtà e commettere errori gravi, come quello di confidare sulla supremazia militare per non dover rendere conto a nessuno, senza considerare che quella potenza non stata è prestata ad Israele per soggiogare i paesi vicini, ma perché ne derivasse un deterrente sufficiente a garantire che l'esistenza d'Israele non sarà minacciata da nessuno.

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Si diceva un tempo: “Uno spettro si aggira per l'Europa: è lo spettro del comunismo”. Poi il comunismo è arrivato in forma di potere terreno e, dopo alcuni anni, è rientrato nei libri delle teorie. Ed ecco ora che in Russia, alla vigilia del 65mo anniversario della Vittoria sul nazismo (9 maggio), un nuovo spettro si aggira dal Baltico al Pacifico. E’ quello di Josif Vissarionovic Stalin, il “generalissimo” della grande guerra, che (dopo la messa in silenzio ordinata da Krusciov) tornerà nelle strade e nelle piazze della Russia. Tipografie e studi di decoratori sono al lavoro.

Si preparano gigantografie che lo presentano nella tradizionale divisa militare, si riproducono manifesti con la sua immagine. Su tutto dominerà un pannello (sempre dei vecchi tempi) con Stalin che sovrasta una schiera di soldati dell’Armata Rossa che vanno all’attacco coperti da una grande scritta che dice: “Avanti, verso la distruzione dell’occupante nazista, per cacciarlo dalla nostra patria!”.

Seguirà a tutto questo un’orgia di riproduzioni di cartoline dedicate alla vita di Stalin, di opuscoli e libri in suo onore. Torneranno a circolare i distintivi con la sua effigie. Si venderanno nelle strade busti in gesso e in bronzo, riproduzioni di ogni tipo, bandiere e cimeli vari. E chi in questo momento scrive dalla capitale russa, ricorda bene quel tempo dell’Urss caratterizzato da uno “stalinismo popolare”. Erano i primi anni dell’epoca di Breznev, quando autisti di taxi o di camion portavano sul parabrezza o accanto al posto di guida ritratti di Stalin vedendo nel periodo passato momenti eroici, caratterizzati da forti credenze.

Ora contro questo revival si fanno vivi i liberal-democratici della nuova Russia e quelli dell’organizzazione “Memorial”. Protestano contro il sindaco di Mosca, Luzkov, accusandolo di dare spazio agli stalinisti. E lui (con un forte appello alla popolazione diffuso in diretta dalla tv) si difende ricordando che l’Urss, con Stalin, vinse la guerra, contribuendo a fare della Russia sovietica una potenza militare e industriale globale, in grado di decidere assieme agli Stati Uniti l'assetto del mondo postbellico. E il fatto stesso di andare controcorrente, di conseguenza, costringe il pur chiacchierato sindaco liberista a intervenire con decisione contro quelle forze politiche di centro-destra del paese, che tendono a scindere la vittoria dalla figura di Stalin e dal sistema comunista.

Secondo Boris Gryzlov, un laudatores del Cremlino che guida il partito di maggioranza «Russia Unita» (la formazione che sostiene Putin e Medvedev) «é stato il popolo a vincere la guerra, non Stalin (...) nessun poster potrà mai correggere il discutibile ruolo di Stalin nella vita del nostro paese». A rincarare la dose è poi il leader nazional-liberale Vladimir Zhirinovsky, secondo il quale «Abbiamo perso i primi mesi di guerra a causa sua e vinto la guerra non per lui. Stalin giustiziò i vertici militari e furono i nuovi comandanti cresciuti nelle trincee assieme ai soldati russi a battere l'esercito nazista, Stalin non ha nessun merito al riguardo».

In questo contesto si sviluppano ulteriori polemiche. Con il dibattito che ormai esula da considerazioni ideologico dottrinarie, come ai tempi della destalinizzazione del Ventesimo congresso kruscioviano. Si può quindi dire che oggi tutto fa parte del processo di costruzione identitaria della Russia postsovietica. Si lotta contro chi cerca di far convivere il passato imperiale zarista, quello sovietico e il presente di un Paese che, sebbene amputato di gran parte dei suoi ex territori, ancora si concepisce come potenza mondiale.

Ma è anche chiaro che non c’è - a livello della società civile - nessuno spirito di rivalutazione per i tempi di Stalin. Si combatte infatti contro una “riabilitazione” dettata da ambienti di varia ispirazione, che vanno dagli stalinisti agli ultranazionalisti di estrema destra e che si muovono sotto gli slogan di una «Russia eterna e indivisibile». Per molti si tratta di una classica concezione nazionalista, dove momenti di drastica cesura come la rivoluzione bolscevica o il crollo dell'Urss, vengono ridotti a mero “incidente della storia”.

Intanto ad appoggiare la “riabilitazione” di Stalin sono, in primo luogo, i veterani della grande guerra e le formazioni comuniste. In particolare si distinguono i comunisti di Ziuganov che (aiutati dalla recentissima avanzata elettorale) si presentano come dogmatici custodi della storia e della Vittoria. Si schierano, quindi, a difesa delle scelte del municipio di Mosca rilevando che «tutti i comandanti del fronte riconobbero il talento militare di Stalin e non avrebbero mai immaginato una vittoria militare senza di lui».
Varie, quindi, le interpretazioni nella Russia di oggi. Sia sul piano propriamente storiografico che su quello politico tra conflittualità e instabilità.

Le diverse scuole di pensiero vengono ora ripercorse nei loro contributi e tratti essenziali: dai sostenitori della continuità a quelli della rivincita della Russia; dalla scuola totalitaria ai teorici della modernizzazione; dall'interpretazione termidoriana a quella del dispotismo orientale; dagli studi classici all'ampia galassia "revisionista" che ha arricchito e  ampliato nell'ultimo ventennio la storiografia sull'Urss. Per i molti che oggi auspicano il ritorno dello stalinismo e per molti che lo temono questa prossima giornata che ricorda la Vittoria sarà, di conseguenza, un momento di grande prova.

Ma sarà, appunto, solo una prova e non un fatto di numeri. Perchè la Russia post-sovietica - pur se attraversata da contraddizioni - ha già dimostrato di aver fatto un passo avanti nella sua costruzione sociale. Superando, quanto a conduzione politica, quel concetto che portava a considerare il “Partito” come un “ordine” politico-ideologico destinato, per imposizione divina, a dirigere la società.

C’è, comunque, in tutta questa vicenda di revisioni storiche caratterizzate da una  rinascita di memoria popolare (o meglio di tante memorie parziali e contraddittorie), anche una appendice italiana per la prossima manifestazione della Vittoria. Si annunciano gruppi da Roma e da Milano che verranno ad unirsi ai cortei, coperti dalle bandiere rosse dei russi. E da Bologna arriva la notizia che un gruppo di “stalinisti” parteciperà al corteo di Mosca portando una testimonianza di un certo effetto. E precisamente il manifesto che la Federazione bolognese del PCI pubblicò nel giorno della scomparsa di Stalin ricordando “il grande amico del popolo italiano”. Altri tempi, per tutti, che la storia non può cancellare nonostante i contrapposti orientamenti.

di mazzetta

Mohamed el Baradei è stato per due mandati consecutivi il capo dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), posizione scomoda nella quale se l'è cavata benissimo. Non era facile: el Baradei si è trovato solo contro gli Stati Uniti e il desiderio dell'amministrazione Bush di trovare pretesti, prima per l'aggressione all'Iraq e in seguito per la messa all'indice del regime iraniano. La storia dimostra che almeno sull'Iraq aveva ragione e che l'Agenzia che ha diretto non si è piegata alle pressioni esercitate per spingerla fin là dove si voleva.

Pressioni pesanti, tanto che el Baradei è stato oggetto di attacchi furiosi e anche di un clamoroso tentativo di coinvolgerlo in uno scandalo montato ad arte da parte di due repubblicani del Congresso degli Stati Uniti. Una resistenza sulla linea della verità che insieme ad una positiva gestione dell'Agenzia gli è valsa il Premio Nobel per la Pace.

Esaurito il suo secondo mandato, el Baradei è tornato in Egitto ed è stato accolto da folle plaudenti che lo hanno accolto come la grande speranza, l'uomo in grado di sconfiggere la dittatura di Mubarak. El Baradei è ormai un politico di lungo corso, anche se la sua carriera si è svolta all'estero e si è ritrovato nella condizione d'essere la personalità egiziana di maggior spicco non coinvolta negli affari della corrottissima politica egiziana.

Ma Mubarak si è premurato da tempo d'escludere possibili outsider, la costituzione egiziana emendata nel 2005 da poco più del 20% degli aventi diritto al voto, prevede oggi che possa candidarsi alle presidenziali solo chi è stato leader almeno per un anno di un partito esistente da almeno altri cinque o, in alternativa, con il consenso di almeno duecentocinquanta parlamentari, quindi con il consenso dello stesso partito di Mubarak.

Per questo el Baradei, al quale si sono uniti i partiti d'opposizione, nell'accettare informalmente l'ingrato compito ha fatto presente che si presenterà al voto solo se la costituzione sarà emendata in senso più democratico. Già il fatto che le forze di sicurezza abbiano impedito a decine di migliaia di persone mobilitatesi attraverso Facebook di accoglierlo al rientro in Egitto, spiega bene che Mubarak tratterà el Baradei esattamente come gli altri concorrenti, per i quali sono sempre e solo state possibili due opzioni: correre con parecchi handicap e il fiato della repressione sul collo o farsi assimilare (comprare) dal partito di Mubarak.

I progetti di Mubarak, che ha 81 anni e si ripresenterà per un altro mandato di sei anni nel 2011, sono noti da tempo e prevedono che a succedergli sia prima o poi il figlio Gamal. Da quando è salito al potere nel 1981, dopo l'assassinio di Sadat, il dittatore egiziano ha consolidato la sua presa sul potere con ogni mezzo. Dopo il 9/11, quando l'amministrazione americana ha lanciato il suo ipocrita processo di “democratizzazione” del Medioriente, le cose in Egitto sono peggiorate e le modifiche costituzionali del 2005 hanno reso ancora più monolitica la dittatura, che dal 1981 governa protetta da una legge emergenziale che concede all'esecutivo poteri platealmente incompatibili con qualsiasi idea di democrazia. Tanto monolitica che oggi solo il figlio Gamal potrebbe candidarsi a sfidare il padre alle solite elezioni-farsa, alle quali gli egiziani partecipano con scarso entusiasmo, come per il referendum dove poco più del 20% dei votanti si è presentata alle urne, quasi tutti mobilitati dal partito di Mubarak, che il giorno delle elezioni precetta gli impiegati pubblici e li conduce al voto per mano.

Se la transizione informale da “repubblica araba socialista” (che è ancora la definizione ufficiale, come per la dittatura tunisina che con l'Egitto condivide parecchie similitudini) ad un'economia più o meno di mercato dominata dalla cleptocrazia locale, potrebbe giustificare la benevolenza dell'Occidente verso Il Cairo, le ragioni di tale benevolenza sono altrove e in particolare nella collaborazione di Mubarak ai piani degli USA e d'Israele per l'area. Grazie a tale benevolenza Mubarak può permettersi di sparare sugli scioperanti e fare il bello e il cattivo tempo senza che nessuno protesti, tanto più che fino a ieri l'unica seria concorrenza politica era rappresentata dai Fratelli Musulmani, che in Occidente quasi tutti assimilano al terrorismo islamico.

L'apparizione di el Baradei pone problemi diversi, perché non lo si può certo far passare per un islamista radicale, perché la sua fama travalica i confini dell'Egitto e perché in nessun paese realmente democratico una personalità del suo calibro e delle sua qualità potrebbe essere impedita dal prendere parte alla competizione elettorale. Per ora Mubarak ha deciso di non calcare la mano e di nascondersi dietro la Costituzione emendata del 2005, mentre nel campo avverso i partiti all'opposizione cercano una configurazione che permetta di nominare per tempo el Baradei a leader di un partito o di una coalizione che abbia le caratteristiche adatte a permettergli di correre comunque, anche con l'attuale costituzione.

È comunque molto difficile che el Baradei possa avere qualche chanche di ben figurare, le elezioni in Egitto sono da tempo una farsa e, come per alte autocrazie ereditarie in Medioriente, Unione Europea e Stati Uniti non sembrano per niente interessati a metterle in discussione o a supportare movimenti o la società civile nel loro tentativi di ottenere maggiore democrazia. Le accuse di brogli elettorali in Egitto e paesi alleati non hanno ottenuto un briciolo dell'attenzione offerta alle elezioni iraniane ed è addirittura capitato che un leader come Silvio Berlusconi (che con i dittatori si trova benissimo) abbia offerto l'apologia di Mubarak, un vero maestro, al quale Berlusconi avrebbe addirittura chiesto il segreto della sua longevità politica.


 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Ai tempi dell’Urss c’erano i piani quinquennali economici che dettavano le regole di sviluppo del Paese. Oggi c’è una svolta moderna e tecnologica segnata da una dottrina militare che si annuncia anche come una nuova interpretazione del sistema politico e come un piano di sviluppo relativo alla sicurezza. La firma è del Cremlino e, precisamente, del suo massimo inquilino, Dmitrij Medvedev, che in qualità di presidente si assume la responsabilità dei cambiamenti strategici da attuare da qui al 2020: più armi moderne, più tecnologia, aumento dei quadri nelle file dell’esercito, sviluppo delle diverse tecnologie d’avanguardia in tutta la società.

La svolta programmata è chiara. Per la Russia il nemico è la Nato che, nel quadro delle sue funzioni “globali”, tende sempre più a violare le norme del diritto internazionale ampliando le sue attività, dispiegando le sue forze e gli “elementi” del suo scudo antimissile in Europa, militarizzando lo spazio cosmico e installando sistemi strategici non nucleari di armi ad alta precisione.

E tra le minacce attuali riferite alla Nato e agli americani il Cremlino indica anche la presenza dei contingenti militari di paesi stranieri nelle aree confinanti con la Federazione Russa e con i suoi alleati, nonché i conflitti regionali. Mosca vede anche come pericoli che vengono dall’esterno quei tentativi di rovesciare l’ordinamento costituzionale, di scalzare la sovranità e l’integrità territoriale. Di conseguenza entra in crisi l’attuale architettura della sicurezza internazionale, compreso il suo meccanismo giuridico internazionale, che, di fatto, non garantisce la sicurezza uguale di tutti i paesi.

Per il Cremlino c’è poi il nodo dolente dell’arma nucleare. E la “dottrina” presentata da Medvedev, in proposito, prevede che l’arma di questo tipo rimarrà il decisivo fattore di prevenzione dei conflitti mlitari. Si ammette pertanto la possibilità di trasformazione di un conflitto “ordinario” in quello nucleare. Per questo motivo, prendendo in considerazione le minacce d’oggi, la Russia si riserva il diritto di usare l’arma nucleare per neutralizzare gli eventuali atti aggressivi nei suoi confronti. Al tempo stesso, nella Dottrina si sottolinea che alla base della politica della Russia vi è “la non ammissione di qualsiasi conflitto armato ordinario o nucleare”.

Di conseguenza il piano della Russia prevede il “contenimento nucleare fino al 2020”. Ed ora, commentando la situazione che si viene a creare seguendo i piani della nuova architettura strategica, il vice segretario del Consiglio di Sicurezza del Paese, l’ex capo dello Stato Maggiore, Generale Juriji Baluevsky, dichiara che la Russia “intende sviluppare tutte le tre componenti della sua triade nucleare difensiva: terreste, marittima ed aerea”. E questo sta a significare che l’arma nucleare e i suoi vettori rimangono per la Russia una garanzia dello sviluppo sicuro, della stabilità e del contenimento strategico.

Queste linee portanti vengono presentate nel documento reso noto dal Cremlino come fattori importanti “per prevenire l’insorgere di guerre nucleari e conflitti militari con l’uso di mezzi convenzionali di distruzione” non solo nel caso di conflitti su vasta scala, ma adesso anche nel caso di guerre regionali. E Mosca insiste anche annunciando che si riserverà il diritto di usare armi nucleari in risposta all’uso della forza contro di essa e (o) contro i suoi alleati con armi nucleari e di distruzione di massa, così come nel caso di aggressione contro la Russia con armi convenzionali, che minacciano l’esistenza stessa dello Stato.

Mentre si dispiega questa nuova dottrina militare si delineano anche voci di più o meno dissenso nei confronti delle scelte del Cremlino. Ad esempio sul quotidiano Novaja gazeta il politologo Pavel Felghengauer ricorda che Putin nel 2000 aveva già delinato una sua dottrina politica, poi però più volte riscritta. Ora quella attuale prevede una certa inversione di tendenza. Che può anche essere interpretata secondo nuovi schemi. E cioè che il nemico non è la Nato e non sono gli Usa. Ma è il fatto dell’avvicinamento dell’Alleanza ai confini della Russia.

C’è poi la posizione di quanti prevedono, in conseguenza dei nuovi annunci un inasprimento delle relazioni Est-Ovest. Ne parla splicitamente il potilologo Andrej Uglanov che sul settimanale Argumenty nedeli si riferisce all’ultimatum lanciato da Washington a proposito dell’urgenza di firmare un accordo per la limitazione delle armi strategiche. Un passo, questo, che se non sarà rispettato porterà la Russia a perdere lo status di nazione prioritaria da parte degli Usa. Preoccupazioni arrivano anche da Nikolaj Patrusev, segretario del Consiglio di Sicurezza, il quale pur rilevando che le “possibilità di aggressione alla Russia sono minime” ricorda che c’è sempre il pericolo di una Nato che avvicinando le sue strutture alla Russia “destabilizza la realtà militare del mondo”.

Si delinea quindi l’applicazione della nuova dottrina in un clima di contrasti e speranze, ma anche di nuove inimicizie. Perchè nel complesso le analisi del Cremlino ipotizzando un incremento delle turbolenze regionali - relative all’intero medioriente e all’Asia con paesi a rischio come Pakistan, Iran, Afghanistan e Corea del nord - fanno comprendere agli occidentali che le dinamiche delle innovazioni tecnologiche (militari) saranno sempre più presenti sullo scenario mondiale.

Di qui le preoccupazioni dell’Ovest nei confronti delle “ambizioni” del Cremlino. Che sono pur sempre quelle di tornare a essere una superpotenza globale attraverso la ripresa di un deciso antagonismo verso l’occidente, con la rivendicazione di una propria sfera d’influenza ben definita sul piano strategico-militare, e una rinnovata enfasi sulla propria capacità di risposta nucleare.

Non è un caso, quindi, se la nuova dottrina militare - come rileva il russo The New Times - viene vista dalle cancellerie mondiali come un vero e proprio manifesto politico, volto a definire le future priorità geopolitiche del paese negli assetti mondiali che vanno definendosi. Ma è anche chiaro - sostengono alcuni osservatori - che gli Usa continueranno ad assolvere la funzione di garanti dell’equilibrio planetario pur se altre potenze (Russia in testa, seguita da Cina e India) rivestiranno un ruolo strategico maggiore rispetto all’oggi.

Intanto gli uomini del think tank al quale si riferisce Medvedev sembrano ispirarsi nella loro attività a una visione planetaria che prefigura una futura comunità internazionale che non sarà più univoca  e composta solo di stati-nazione. Il potere - si sostiene - sarà più disperso e le regole del gioco si modificheranno. Con soluzioni che dovrebbero portare l’occidente ad indebolirsi. Di conseguenza prenderebbe piede la tendenza della maggioranza dei Paesi a investire sempre più nel proprio benessere economico aumentando gli incentivi verso la stabilità geopolitica complessiva. I pronostici, comunque, non danno risposte univoche in un mondo che anche per la Russia è sempre più globalizzato nonostante le cortine che ancora la dividono dall’Europa.


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