di Michele Paris

Per la seconda volta in altrettanti anni di permanenza alla Casa Bianca, Barack Obama è chiamato a sostituire un membro della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. Come lo scorso anno, il giudice uscente fa parte della minoranza liberal del tribunale costituzionale americano, il 90enne John Paul Stevens, rendendo l’avvicendamento relativamente ininfluente ai fini degli equilibri ideologici della Corte. La scelta di Elena Kagan, tuttavia, può essere considerata un’occasione mancata per installare un membro dalle credenziali più spiccatamente progressiste e rappresenta, perciò, una mossa fin troppo cauta da parte del presidente di fronte all’agguerrita minoranza repubblicana, che giocherà un ruolo decisivo nel processo di conferma della nomina che inizierà la prossima estate al Senato.

La 50enne Elena Kagan, se confermata, sarà il 112esimo giudice della Corte Suprema e si unirà alle altre due donne che ne fanno parte: Sonia Sotomayor (nominata nel 2009 da Obama) e Ruth Bader Ginsburg. Scelta l’anno scorso per rappresentare il governo americano proprio di fronte alla Corte Suprema (“solicitor general”), la Kagan sarebbe anche il primo membro a non avere alcuna esperienza come giudice da quasi quarant’anni a questa parte. Cresciuta a Manhattan in un ambiente familiare di chiare tendenze democratiche, vanta studi a Princeton, Oxford e Harvard. La sua conferma comporterebbe per la prima volta l’assenza di un giudice protestante nella Corte Suprema. Elena Kagan è infatti ebrea, come altri due giudici, mentre ben sei sono cattolici.

La provenienza dall’ambito accademico e governativo costituisce per lei una sorta di arma a doppio taglio. Se da un lato la mancata esperienza di giudice potrebbe mettere in discussione le sue competenze nel supremo tribunale americano, dall’altro l’assenza di opinioni legali scritte in qualità di magistrato giudicante toglie, a quanti potrebbero opporsi alla sua nomina, gli strumenti principali per attaccare la sua visione della legge costituzionale. Quest’ultima carenza rende anche complicata una previsione delle posizioni che sarà chiamata a prendere sui casi più delicati che finiranno di fronte alla Corte Suprema nel prossimo futuro.

La scelta di Elena Kagan riflette chiaramente la volontà di Obama di evitare di inviare al Senato per la conferma un candidato considerato troppo liberal, come avevano ammonito gli ambienti conservatori nelle ultime settimane. Dopo le consuete pratiche di selezione, la rosa dei candidati a succedere il giudice Stevens si era ristretta a tre nomi. Oltre alla Kagan, erano stati considerati due giudici delle Corti d’Appello di Washington e Chicago, rispettivamente il moderato Merrick Garland e la più chiaramente progressista Diane Wood. Tra i tre, la scelta alla fine è ricaduta sulla centrista Kagan, identificata dalla Casa Bianca come la più adatta a influenzare il giudice - Anthony Kennedy - il cui voto determina spesso gli equilibri di una corte sbilanciata a destra sotto la guida del “Chief Justice” John G. Roberts.

Qualche possibile indicazione circa il pensiero giuridico di Elena Kagan si può ricavare allora dal suo curriculum. In passato, la candidata ha lavorato nello staff di uno dei giudici-icona della sinistra alla Corte Suprema, Thurgood Marshall, per poi trasferirsi alla scuola di legge dell’Università di Chicago nei primi anni Novanta, dove incrociò il percorso accademico di un giovane Barack Obama. Più tardi sarebbe entrata a far parte dell’amministrazione Clinton, ricoprendo la carica di vice-consigliere per gli affari interni alle dipendenze del democratico centrista Bruce Reed. In questa posizione, la Kagan contribuì alla stesura della riforma clintoniana del welfare che condusse alla soppressione di svariati programmi sociali.

Nel 1999 lo stesso Bill Clinton la nominò per la Corte d’Appello di Washington, uno dei tribunali più importanti del paese. La sua candidatura, però, finì per naufragare nel caos dell’impeachment del presidente, così che il Senato a maggioranza repubblicana non votò nemmeno la sua nomina. Lasciato l’incarico governativo, ottenne la leadership della facoltà di Legge a Harvard. A questo periodo risalgono almeno due episodi ai quali hanno fatto riferimento i suoi oppositori da destra e da sinistra. I primi le rimproverano di aver ostacolato le attività di reclutamento dell’esercito tra gli studenti di Harvard a causa della sua opposizione alla pratica discriminatoria che impedisce a chi si dichiara apertamente gay di servire nelle forze armate. Da sinistra, invece, si sottolinea come abbia chiamato numerosi docenti conservatori ad insegnare nella prestigiosa università americana.

La presa di posizione di Elena Kagan sulle discriminazioni nei confronti degli omosessuali evidenzia come il suo progressismo faccia riferimento più a politiche identitarie (diritti gay, femminismo) che alla giustizia sociale o agli stessi diritti civili legati all’espansione delle prerogative del potere esecutivo nell’ultimo decennio. Se la Kagan, infatti, definì una “mostruosa ingiustizia” la politica dell’esercito di negare l’arruolamento a gay e lesbiche, gli stessi scrupoli non ha manifestato, ad esempio, riguardo le detenzioni indefinite di presunti terroristi senza processo, gli assassini extra-giudiziali autorizzati dal presidente o le intercettazioni illegali ai danni dei cittadini.

Un pressoché incondizionato assenso agli eccessi della “guerra al terrore” la Kagan l’aveva dimostrato nel marzo del 2009, nel corso delle audizioni al Senato per la sua conferma a “solicitor general”. Sui temi economici, poi, è piuttosto evidente la sua tendenza a favorire gli interessi delle corporation, come dimostra anche il suo ruolo di consulente esterno per Goldman Sachs tra il 2005 e il 2008. Più di una riserva è stata sollevata infine anche dalle associazioni che si battono per il diritto all’aborto. Come ha rivelato la Associated Press, in un memorandum scritto nel 1997 per l’amministrazione Clinton, Elena Kagan sollecitava l’appoggio ad una legge restrittiva sull’interruzione di gravidanza.

In un clima politico notevolmente inaspritosi anche rispetto a un anno fa, Obama sembra dunque voler proporre una candidata in grado di raccogliere un consenso bipartisan. Nel 2009, inoltre, furono sette i senatori repubblicani a votare a favore di Elena Kagan per la nomina a “solicitor general”, circostanza che renderà ora complicato per loro un voto contrario alla sua candidatura alla Corte Suprema. La presenza nel tribunale costituzionale americano di un giudice che ha lavorato a stretto contatto con l’amministrazione Obama, poi, potrebbe tornare utile nel momento in cui dovessero finire all’esame della Corte un certo numero di casi che hanno a che fare con la legislazione promossa proprio dalla Casa Bianca (riforma sanitaria, leggi anti-terrorismo, riduzione delle emissioni in atmosfera).

Quel che è certo, come dimostrano le reazioni complessivamente negative da parte della sinistra del Partito Democratico, la scelta di Elena Kagan conferma nuovamente la rinuncia da parte di un presidente democratico a cercare di installare giudici in grado di promuovere la giustizia sociale dalla Corte Suprema, com’era accaduto fino almeno agli anni Sessanta. Ciò contrasta fortemente con la scelta deliberata da parte degli ultimi presidenti repubblicani di nominare conservatori irriducibili (Antonin Scalia, Clarence Thomas, Samuel Alito, John G. Roberts). Con l’addio del giudice John Paul Stevens, paladino di liberal e progressisti statunitensi, e la nomina da parte di Obama di Elena Kagan, così, nei prossimi anni il baricentro della Corte Suprema promette di spostarsi ulteriormente e pericolosamente verso destra.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Brutta sconfitta per la CDU nelle elezioni regionali di domenica nel Nordreno Vestfalia, il Land più popoloso della Germania federale, tradizionalmente di orientamento cristianodemocratico. Il partito di Angela Merkel ha perso parecchio terreno, lasciando spazio a Verdi, estrema sinistra e socialdemocratici. Un risultato che, probabilmente, non passerà inosservato neppure nelle grandi decisioni di Berlino, poiché toglie la maggioranza assoluta alla Cancelliera cristiano democratica.

La CDU del governatore uscente, Juergen Ruettgers, ha dovuto fare i conti domenica con il peggior risultato mai ottenuto in Nordreno Vestfalia (un inaspettato 34,6%); ironicamente simile la percentuale ottenuta dalla SPD di Hannelore Kraft, che sfoggia un 34,5%. Tradotti in numero, questi punteggi significano un disavanzo di 6.200 voti tra i due partiti: una differenza troppo esigua per fare davvero la differenza. Tra i grandi vincitori della giornata, i Verdi, che hanno raddoppiato il punteggio del 2005 raggiungendo il 12,1%, mentre Die Linke, alla loro prima comparsa nella Land, sono usciti a testa alta con il 5,9%.

Per il partito di Angela Merkel, la situazione è preoccupante. La CDU deve accontentarsi del 10% di voti in meno rispetto alle elezioni del 2005: un esito per cui gli attenti elettori tedeschi si aspettano spiegazioni. Già domenica sera, dopo le prime proiezioni, si parlava delle possibili dimissioni del Ministro e governatore Juergen Ruettgers, smentite tuttavia quasi subito dal segretario generale cristiano democratico, Andreas Krautscheid. Ma la crisi della CDU c’è e non deve essere ignorata, soprattutto in considerazione dei risultati ottenuti dai grandi rivali del Governo di Angela Merkel, i socialdemocratici.

L’SPD ha letto le elezioni nel Nordreno Vestfalia come la spia della probabile rinascita. “Il messaggio è chiaro, dal Nordreno Vestfalia si diffonde in tutta la nazione: la SPD c’è ancora” ha commentato Hannelore Kraft, la candidata socialdemocratica, riferendosi al disastro dei socialdemocratici nelle recenti legislative. La Kraft si è detta soddisfatta e ha già cominciato a considerare le possibilità di coalizione.

A caldo, Hannelore Kraft non ha escluso un governo con Verdi e liberali, mantenendo però una posizione decisa nei confronti dei Die Linke della Land del Nordreno Vestfalia, che non considera “in grado di grado di governare”.  Ma la Kraft non vede di buon occhio neppure una Grande Coalizione con Ruettgers: alla leader socialdemocratica potrebbe stare stretto il ruolo di partito minore accanto a una CDU perdente.

L’unica certezza è che in Nordreno Vestfalia non continuerà il governo dei cristianodemocratici con i liberali, veri, grandi delusi di queste elezioni con uno sparuto 6,7%. Il vicecancelliere, Guido Westerwelle, (FDP) ha ammesso di non aver ottenuto il risultato sperato: sull’onda del grande successo che lo aveva condotto alla coalizione con la Merkel lo scorso settembre, Westerwelle si aspettava un risultato a due cifre.

Per qualcuno, i risultati delle elezioni nel Nordreno Vestfalia rispecchiano una sconfitta personale del governatore uscente Ruettgers, che, d’altra parte, ha giocato tutta la campagna elettorale sulla sua persona. Per qualcun altro, invece, la CDU non può nascondersi dietro la figura di Ruettgers. Forse queste elezioni sono il risultato di un revival delle sinistre e dei Verdi: in una situazione di crisi economica internazionale, i cui risvolti concreti sembrano affiorare solo ora, gli elettori provano a cambiare prospettiva e cercano la loro stabilità altrove. Qualcuno, invece, legge nelle elezioni nel Nordreno Vestfalia un primo verdetto popolare - estremamente negativo - nei confronti del Governo Merkel.

Per Angela Merkel, ora, governare sarà decisamente più difficile. La Cancelliera e il liberale Westerwelle hanno perso la maggioranza assoluta nel Bundesrat, l'organo attraverso il quale i Laender tedeschi partecipano al potere legislativo e all'amministrazione dello Stato, passando da 37 voti a 31 su un totale di 69 membri. Un cambiamento da non sottovalutare: l’approvazione del Bundesrat è irrinunciabile per qualsiasi grande progetto, da un’eventuale riforma fiscale a una possibile riorganizzazione sanitaria.

Una cosa è sicura: i risultati delle elezioni regionali in Nordreno Vestafalia presuppongono, in futuro, una maggiore apertura della Cancelliera verso SPD e Verdi, con buona pace dei liberali e di tutti i loro capricci.

di Ilvio Pannullo

Trenta miliardi da risparmiare in tre anni attraverso tagli e congelamenti occupazionali, salariali e pensionistici. Questo il piano anti-crisi varato dal premier greco Papandreou per salvare la Grecia dalla bancarotta. In particolare, per i dipendenti pubblici ci sarà la riduzione o l'abolizione della tredicesima e quattordicesima mensilità, a seconda dei redditi, mentre ai privati toccherà la riduzione dell'indennità di licenziamento e la liberalizzazione della normativa sull'impiego.

Non solo. È previsto un aumento del 2% sull'Iva che arriverà così al 23% ec un’ulteriore crescita del 10% per quanto riguarda le imposte su carburanti, alcolici, sigarette e beni di lusso. Non solo tagli dunque, ma anche un inevitabile aumento del costo della vita. Con questo pacchetto d’iniziative, la Grecia estende dal 2012 al 2014 l'obiettivo di riportare il deficit sotto la soglia europea del 3%. "Non abbiamo scelta - ha detto il primo ministro greco - o queste misure dolorose o la bancarotta".

Adesso forte dell’approvazione del piano lacrime e sangue, il premier socialista potrà volare a Bruxelles per ottenere quanto recentemente concordato con le istituzioni comunitarie. Il riferimento è all'accordo raggiunto come previsto domenica scorsa. La Grecia ha raggiunto un’intesa con l'Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale per un prestito da 110 miliardi di Euro in tre anni. Un programma di aiuti per l'azione di questa portata non si vedeva in Europa dai tempi del piano Marshall. Dalla UE arriveranno 30 miliardi nel solo 2010; soldi prestati direttamente dagli altri governi della zona Euro pro quota: l'Italia dovrà versare almeno 5,5 miliardi, poco meno del 20% del totale. Il piano - annunciato a più riprese da oltre un mese, ma sempre rallentato dall'opposizione tedesca - dovrà scattare entro il 19 maggio, quando la Grecia sarà obbligata a reperire sul mercato, mettendo cioè all'asta i propri titoli del debito pubblico, oltre 19 miliardi di Euro.

Ma, salvataggio o no, la credibilità dell'Euro resta tuttavia debole, i mercati non si fidano troppo. La prima riflessione riguarda infatti proprio la divisa europea: molto semplicemente l'Euro non esiste più. E non soltanto perché continua ad indebolirsi nel confronto con il dollaro, trascinato al ribasso dalla crisi greca che sta minando la credibilità dell'intera Unione Europea: appena due giorni fa veniva scambiato a meno di 1,3 dollari, un vero tracollo. La realtà, piuttosto, è che l’Euro è finito perché non vale più come scudo: non protegge più, cioè, il debito pubblico degli stati membri dell’Unione dalle oscillazioni dei mercati.

Per quasi un decennio i paesi che avevano i loro debiti in Euro hanno beneficiato di un "effetto euro-zona", che ha permesso loro di pagare interessi molto inferiori a quelli che il mercato avrebbe chiesto loro in condizioni normali. Adesso la magia è finita. Appena due giorni fa, l'agenzia di rating Moody's ha dichiarato che presto potrebbe decidere di ridurre il proprio giudizio sul debito del Portogallo: i titoli di Stato di Lisbona hanno raggiunto immediatamente uno spread rispetto ai bund tedeschi di 310 punti percentuali, con un aumento di 50 punti in un giorno. Gli investitori, in pratica, considerano molto più rischioso prestare soldi allo Stato portoghese che a quello tedesco. Quanto alla Spagna, il governo di Madrid sta attraversando in questi mesi un vero psicodramma: il 5 maggio si sono incontrati il premier Josè Zapatero e il capo dell'opposizione Mariano Rajoy per discutere della situazione.

Borsa in picchiata e, soprattutto, come per il Portogallo, record negli spread rispetto ai bund tedeschi: la differenza tra un titolo di Stato spagnolo e uno tedesco a 10 anni è pari al 4,15%. Tutti usano l'Euro, tutti si confrontano con lo stesso tasso di interesse base deciso dalla Banca centrale europea, ma ciascuno trova credito al prezzo di si merita in base alla propria affidabilità come debitore. L'Euro in sostanza non basta più.

Le conseguenze di quanto sopra si osservano oggi in Grecia: c'è un governo che vuole continuare a trovare credito sul mercato, per farlo deve dimostrare di essere virtuoso, cioè di rispettare i parametri decisi da Bruxelles sulla finanza pubblica: i rapporti tra deficit e Pil e tra debito e Pil. Se non è considerato credibile, la bancarotta è dietro l'angolo. Ma per seguire i rigorosi dettami contabili stabiliti dall’Europa, deve tagliare le spese, aumentare le tasse, adottare misure impopolari tanto più dure quanto più seria è la situazione dei suoi conti pubblici. A questo si aggiunge un ulteriore effetto collaterale: se un paese come la Spagna, con i conti in ordine, entra in recessione, avrebbe bisogno di svalutare la propria moneta per far ritrovare competitività alle proprie merci. Ma non può, perché è dentro l'Euro, e così una crisi che si sarebbe potuta risolvere con una leggera svalutazione (come quelle tipiche dell'Italia degli anni ‘80) incancrenisce. E ora la disoccupazione spagnola è al 20%.

Non sarebbe dunque più conveniente uscire dall'Euro? Tornare alla dracma, alla peseta, alla lira e far rifiatare le imprese? Il problema non è da poco e non è facilmente risolvibile: un paese che lascia l'eurozona per problemi di competitività delle proprie merci, dovrà svalutare la sua nuova moneta. Ma i lavoratori, prevedendolo, chiederanno verosimilmente da subito aumenti salariali per conservare il potere d’acquisto. Il risultato sarebbe una maggiore inflazione che neutralizzerebbe ogni vantaggio competitivo dovuto alla svalutazione. In più il paese sarebbe costretto a pagare costi molto più alti per rifinanziare il proprio debito estero e si troverebbe a dover pagare i vecchi debiti contratti in Euro, cioè in una valuta straordinariamente più forte rispetto alla divisa nazionale. A ciò si aggiunga la possibilità assai concreta di attacchi speculativi contro le nuove monete, non più protette dalla credibilità del patto di Maastricht.

Da qui la conclusione dell’inevitabilità del piano draconiano imposto dal governo greco per rientrare nei parametri contabili europei. Urge, tuttavia, un ragionamento sul valore delle nostre democrazie, partendo dall’amara constatazione che a pagare le conseguenze degli errori commessi non sono mai coloro che concretamente hanno commesso il fatto, ma sempre e soltanto chi non ha strumenti per difendersi: i più deboli. L'Unione Europea e l'indecisione della Germania hanno permesso che il governo greco giocasse con il fuoco e ora nel fuoco si trova l'intero paese.

Ormai il costo del salvataggio della Grecia è diventato molto superiore a quello che sarebbe stato se calcolato solo rispetto alle responsabilità degli autoctoni. Ma nessuno pare si sia accorto di queste responsabilità. Da questa crisi inevitabilmente uscirà un quadro assai pericoloso: una conflittualità sociale che assumerà toni sempre crescenti per toccare il suo picco verosimilmente nel prossimo autunno, quando le misure varate ieri dal governo greco produrranno tutte le conseguenze sociali che ora sfuggono in ragione di una fredda analisi basata su numeri, percentuali e statistiche.

La crisi greca impone ai popoli liberi d'Europa di prendere coscienza delle ragioni di un simile disastro, non tanto imputabile a quanti nel settore pubblico hanno negli ultimi anni vissuto al di sopra delle proprie possibilità, quanto piuttosto a coloro, eletti dal popolo - e dunque caricati di responsabilità pubbliche - che hanno truccato spudoratamente i conti del paese. Aspetto decisivo per comprendere a chi imputare le reali colpe di questo dramma: se non è infatti sopportabile l'ingiustizia di dover pagare per gli errori di altri, è ancor più insostenibile mettere sul banco degli imputati e giudicare colpevoli cittadini, studenti, lavoratori e pensionati rei soltanto di essersi fidati dei loro rappresentanti.

Non si può infatti sostenere che i lavoratori del settore pubblico fossero a conoscenza della reale situazione economica e finanziaria del loro paese, perché solo recentemente i conti greci si sono manifestati per ciò che sono. Sarebbe dunque opportuno che il dito venga puntato contro chi ha mentito sulla solidità patrimoniale del paese e nulla ha fatto per risanare i conti pubblici di una nazione già da anni caratterizzata da una corruzione pari all’ 8% del Pil, un’economia sommersa pari al 25% del Pil e da un clientelismo divenuto strutturale e fisiologico. Una situazione che tanto ricorda quella italiana.

C'è chi sostiene che l'ora più buia sia quella appena prima dell'alba. Certo arriverà il momento in cui il sole tornerà a splendere sulla Grecia, ma non adesso: prima di assaporare l'alba, Atene dovrà viaggiare a lungo in una scurissima, ingiusta e violenta notte. E a rischiare di perdere tutto saranno sempre gli ultimi.

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Il 9 maggio, per la Russia e per i sovietici che vinsero la seconda guerra mondiale contro i tedeschi invasori, è Festa della Vittoria. Festa grande e memorabile per il 65mo con parate, sfilate, commemorazioni ed incontri tra i pochi veterani. Ma non mancheranno le polemiche. Perché in tutte le città della Russia quanti rispettano la verità storica hanno imposto che siano tirati fuori dagli archivi manifesti e ritratti di Stalin, l’uomo che ha segnato le tappe della vittoria.

E in questo revival arriva la notizia che già in Ucraina, nella città operaia di Zaporogie, è stato inaugurato un monumento a Stalin; il primo in questi ultimi vent'anni, da quando con la disgregazione dell'Unione Sovietica si è dato il via ad un processo di revisione della storia del paese.  Sono cominciati i “processi” a Stalin e si è cercato di mettere in archivio il suo ruolo nel periodo della seconda guerra mondiale.

Dalla città ucraina giunge così una sorta di monito: Stalin non si tocca. Perché c’è un busto di Stalin (tre metri di altezza) in uniforme, con la Stella di Eroe dell'Urss, scoperto durante una manifestazione organizzata dal Partito Comunista dell'Ucraina alla presenza di oltre centomila persone. Un evento che è stato ampiamente commentato in tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica e che certamente farà discutere in questi giorni di festa.

Intanto Mosca si prepara al grande evento: sulla Piazza Rossa - sede storica delle grandi manifestazioni e parate - si è svolta una prova della Parata della Vittoria. La prima che ha visto sfilare fianco a fianco militari russi e stranieri provenienti dalla Gran Bretagna, Francia, USA, Polonia nonché dai paesi della Csi. Alla sfilata hanno partecipato più di 150 veicoli blindati da combattimento, tra cui gli storici carri armati ?-34. In bella mostra anche nuovissimi modelli di mezzi bellici, veicoli corazzati e complessi missilistici.

Ed ora, mentre si attende il grande evento del 9, arriva su una Russia già ben provata dalle polemiche e dalle revisioni storiche, una nuova doccia fredda sul tema di Stalin. C’è, infatti, il presidente Medvedev che convoca nella sua residenza il direttore del quotidiano Izvestija per parlare dell’era di Stalin, della guerra, dell’Armata Rossa e del ruolo del Generalissimo. Ne esce - in 75 minuti di intervista - un ritratto a tutto campo su questioni che per molti - stalinisti e antistalinisti - sono motivo di scontro proprio in queste ore che dovrebbero essere di Festa e di Vittoria.

Medvedev dice, in primo luogo, che senza l'Armata Rossa, che sconfisse il nazifascismo, oggi l'Europa sarebbe diversa. Il mondo deve però sapere - aggiunge - la verità completa sulla guerra, in quanto oltre ai materiali del Processo di Norimberga, c’è sempre forte la memoria umana. E così, tenendo conto che ogni forma di apologia del nazismo rappresenta un esempio di “maligna perfidia” va anche rilevato - aggiunge il Presidente russo - che “il più importante insegnamento che dobbiamo trarre dalla Seconda Guerra mondiale consiste nella necessità di evidenziare le verità storiche”.

Tutto questo perché è sempre più viva la necessità di contrastare la falsificazione dei fatti storici risalenti a periodi passati. E qui va rilevato - dice ancora Medvedev - che ci sono stati e ci sono tentativi di alcuni politici dell'Europa Orientale di interpretare gli avvenimenti storici seguendo gli specifici interessi del momento. Si è così cercato di riabilitare i criminali nazisti e di mettere anche sullo stesso piano il ruolo svolto dall'Armata Sovietica con quello degli aggressori fascisti.

“In realtà il nostro popolo - sottolinea Medvedev, - non aveva altra scelta: gli abitanti del nostro paese allora potevano solo o morire o diventare schiavi. Una terza variante non esisteva, è un fatto accertato. E inoltre: chi iniziò la guerra? La risposta è del tutto evidente ed è confermata non solo dai documenti del processo di Norimberga, ma dalla memoria popolare. Il tentativo di rimaneggiare i fatti storici, è solo dettato da evidenti e cattive intenzioni”. Per quanto concerne il ruolo dell'Esercito Sovietico, la verità è che le perdite delle truppe tedesche sul Fronte Orientale superavano il 70 % del totale. Nel contempo nessuno vuole idealizzare la parte sostenuta dal nostro paese negli anni postbellici, - sottolinea ancora Medvedev.

“Ma c’è anche da dire che bisogna saper scindere la missione dell'Armata Rossa e dello Stato sovietico durante la guerra da ciò che avvenne poi. E' sempre difficile, ma bisogna scindere l'uno dall'altro. Vorrei sottolineare ancora una volta che se non ci fosse stata l'Armata Rossa, se non ci fosse stato il colossale sacrificio del popolo sovietico posto sull'altare della Guerra, l'Europa oggi sarebbe un'altra. Non ci sarebbe stato l'attuale assetto dell'Europa, moderna, in rigoglio, progredita, ricca, in sviluppo”.

“Ora però - prosegue Medvedev - non si può assolutamente mettere sullo stesso piano il ruolo svolto dal nostro esercito e quello degli aggressori fascisti. In questo senso va detto che oggi i tedeschi si comportano con maggiore dignità di alcuni rappresentanti, per esempio, degli stati baltici dell’ex Urss”. Segue poi l’affondo su Stalin. Medvedev parla di questo “argomento” rilevando che “ci sono alcuni momenti del tutto evidenti: la Grande Guerra Patriottica è stata vinta dal nostro popolo e non da Stalin, e nemmeno dai capi militari malgrado l'importanza della loro missione”.

Vittoria del popolo, quindi, e non del Cremlino di Stalin. E su questo la presidenza russa passa e chiude. Ora sarà la grande piazza della Russia a dare una sua risposta. Si sa già che il Cremlino ha proibito la presenza di ritratti di Stalin o cartelli che ne esaltino il ruolo nelle piazze dove si svolgeranno le manifestazioni ufficiali.  Ampia libertà, invece, nel perimetro delle piazze e delle strade dove si svolgeranno i vari cortei organizzati, appunto, al di fuori dell’ufficialità e del protocollo statale. Intanto Mosca offre un mercato straordinario di cartelli, foto, calendari, giornali, riviste, videocassette, distintivi. Ed è Stalin, ovviamente, che domina.

di Michele Paris

Come previsto da quasi tutti i sondaggi della vigilia, il voto in Gran Bretagna non ha prodotto un chiaro vincitore. Lo spettro del cosiddetto “hung Parliament” si è così materializzato, con i Conservatori che hanno ottenuto il maggior numero di seggi senza però raggiungere la maggioranza assoluta per formare un governo monocolore. In un clima di profonda disaffezione per la classe politica nazionale, gli elettori britannici hanno inflitto una sonora lezione ai laburisti - anche se la sconfitta è risultata meno pesante delle aspettative - mentre la bolla dei liberaldemocratici si è alla fine sgonfiata, lasciando al loro leader Nick Clegg ridotti spazi di manovra nelle trattative post-elettorali dei prossimi giorni.

Al termine delle operazioni di spoglio nei 649 distretti elettorali per eleggere altrettanti membri della Camera dei Comuni (in un distretto il voto è stato rinviato per il decesso di un candidato), i Tory hanno conquistato 306 seggi (36% del voto popolare), contro i 258 (29%) del Partito Laburista e 57 (23%) dei LibDem. Per il partito del presunto astro nascente della destra britannica, David Cameron, un incremento di 97 seggi rispetto al 2005 non è stato sufficiente a fargli raggiungere la soglia dei 326 per governare in solitudine. Il Labour di Gordon Brown, dato da qualche sondaggio addirittura in terza posizione, ha perso 91 seggi. Cinque invece sono stati quelli persi dai liberaldemocratici.

Una forte migrazione del voto dai laburisti verso i conservatori è stata registrata nei distretti dell’Inghilterra, mentre il partito di governo ha tenuto in Galles e, soprattutto, in Scozia. Nonostante abbiano poi raccolto il numero più basso di consensi dal 1983, i laburisti hanno portato a casa vittorie inaspettate in una cinquantina di distretti dove erano dati nettamente sfavoriti e in molti dei 116 distretti che i Tory avevano individuato come obiettivi principali della loro campagna elettorale.

Senza un chiaro vincitore, in una delle più incerte votazioni degli ultimi tre decenni, i cittadini britannici non hanno così assistito alla consueta immagine del primo ministro designato entrare trionfante al numero 10 di Downing Street il giorno dopo le elezioni. I commenti dei tre leader dei principali partiti hanno rispecchiato l’incertezza dell’esito e la delusione per non aver ottenuto i risultati sperati, sia pure in diversa misura. Da Edimburgo, Gordon Brown si è detto in ogni caso orgoglioso dei tredici anni di governo laburista, confermando di voler giocare un ruolo di primo piano anche nel prossimo governo del paese.

La mancanza di una maggioranza assoluta per i conservatori ha alimentato una debole speranza all’interno del Labour di rimanere al potere malgrado la sconfitta. Lord Mandelson, ministro e stretto alleato di Brown, ha così fatto riferimento alla pratica - la Gran Bretagna non ha una costituzione scritta - che vorrebbe il leader del governo uscente provare per primo a formare un governo se il partito con il maggior numero di seggi non può farlo in autonomia. Per i laburisti il percorso più logico sarebbe un governo di coalizione con i liberaldemocratici. La modesta prestazione di questi ultimi non consentirebbe comunque ai due partiti di raggiungere la soglia dei 326 deputati.

Come se non bastasse, durante la campagna elettorale, Nick Clegg aveva più volte sostenuto che un’eventuale alleanza con i laburisti avrebbe dovuto prevedere il siluramento di Gordon Brown. Un’asse Labour-LibDem dovrebbe tuttavia fare affidamento su altri partiti minori per ottenere la maggioranza in parlamento; in caso contrario potrebbe sorgere un governo di minoranza, costretto a chiedere i voti mancanti volta per volta. Tra le ipotesi percorribili – forse la più probabile - c’è anche quella di un governo di minoranza capeggiato dal numero uno dei conservatori, David Cameron. A conferma di ciò è già partita ieri un’offerta ai liberaldemocratici per un’alleanza di governo.

Le differenze sostanziali che dividono i Tory da quasi tutti gli altri partiti minori (liberaldemocratici compresi) rendono però tutt’altro che semplice questa soluzione. Le sconfitte di due politici alleati dei Tory in Irlanda del Nord - il leader degli Unionisti, Sir Reg Empey, e il primo ministro nordirlandese, Peter Robinson - rischiano poi di complicare ulteriormente i progetti dei conservatori.

Oltre alle divergenze sui temi economici tra Tory e LibDem, lo scoglio principale verso un’alleanza tra Cameron e Clegg è la riforma elettorale, presupposto irrinunciabile per l’ingresso in un governo di coalizione dei liberaldemocratici. La legge britannica prevede un sistema maggioritario a turno unico (“first-past-the-post”) che penalizza fortemente un partito come quello Liberaldemocratico. Se i laburisti hanno più volte aperto spiragli per una riforma in senso proporzionale, i conservatori sono contrari ad una modifica delle regole di voto in questo senso. Al massimo, sembrano disposti a concedere la promessa di un referendum nel prossimo futuro.

Al di là delle trattative per risolvere lo stallo del primo “hung Parliament” dal 1974, le elezioni britanniche hanno fornito sostanzialmente due segnali importanti: la punizione subita dal Partito Laburista e la conferma della crisi della democrazia rappresentativa in Gran Bretagna come altrove. La batosta patita dai laburisti deve far riflettere a fondo sull’evoluzione di un partito che, dopo la svolta del “New Labour” segnata dal successo di Tony Blair nel 1997, di fatto ha rinunciato a rappresentare gli interessi dei lavoratori e della middle class britannica.

In tredici anni di governi di Blair e Gordon Brown il divario tra ricchi e poveri si è allargato molto di più rispetto persino ai due decenni precedenti con gabinetti guidati dai conservatori. Le politiche “business-friendly” che hanno caratterizzato questi anni, assieme al sostegno incondizionato alla guerra in Iraq, hanno prodotto un profondo malessere tra quegli stessi elettori che avevano decretato il trionfo del 1997. Così, il Labour, con il suo progetto politico e sociale, ha finito col diventare pressoché indistinguibile dagli altri principali partiti britannici, tutti con il capitale e i grandi interessi economici al centro della propria azione.

Di conseguenza, il sentimento comune degli elettori britannici, simile a quello di molti altri paesi in occidente, è stata la sfiducia in una classe politica percepita come incapace di far fronte ai problemi reali della gente comune. Di fronte ad una disoccupazione a livelli record e una povertà sempre crescente, la ricetta consueta per tutti è quella dell’austerity. Sotto le pressioni degli organismi internazionali e delle grandi banche, le scelte del prossimo governo britannico - quale che sia il partito o i partiti che lo guideranno - appaiono già scritte.

Di fronte ad un debito colossale, gonfiato soprattutto dal massiccio intervento pubblico per salvare le banche dal baratro dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, i provvedimenti da adottare saranno quelli dettati dai rappresentanti del capitale internazionale. Il voto per i Tory, il Labour o i LibDem, invariabilmente, non è altro che un voto per nuovi tagli ai salari del settore pubblico, alle pensioni, alla sanità, alla scuola, al welfare e ai programmi sociali. Come per la Grecia e la Lettonia, e a breve forse anche per Spagna, Portogallo, Irlanda o Italia, insomma, a pagare il prezzo della crisi saranno sempre gli stessi.


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