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di Michele Paris
Con il crescere del malcontento tra il popolo americano per i profitti record delle grandi banche di investimento di Wall Street - in larga misura responsabili del tracollo finanziario che ha innescato la crisi economica - è emerso negli ultimi mesi un improbabile lato populista del presidente Obama e degli altri leader del suo partito. Dopo gli attacchi ai potenti manager, che continuano a raccogliere enormi bonus grazie al salvataggio delle proprie compagnie garantito dal denaro pubblico, dalla Casa Bianca e dalla maggioranza al Congresso sono giunte alcune modeste proposte di legge per regolare il sistema finanziario americano. Una svolta che però non è piaciuta ai potenti banchieri, che hanno così deciso di chiudere i rubinetti dei finanziamenti elettorali ai democratici per dirottarli verso i rivali repubblicani.
A rendere pubblico il cambiamento d’umore dell’élite finanziaria d’oltreoceano è uno studio dei flussi dei contributi redatto da un istituto indipendente (Center for Responsive Politics) per il Washington Post. La retorica di Obama, in particolare, avrebbe spinto i generosi colossi di Wall Street a voltare le spalle ai democratici, i quali all’inizio del 2009 incassavano dall’industria finanziaria oltre il doppio rispetto ai repubblicani. Entro la fine dello scorso anno, l’atmosfera era cambiata al punto che questi ultimi si erano assicurati complessivamente la metà del denaro erogato dalle banche commerciali e d’investimento americane. Ancor più significativo è poi il dato dell’ultimo trimestre del 2009, durante il quale candidati e parlamentari repubblicani hanno ricevuto due volte tanto quanto è stato donato ai democratici.
Il trionfo elettorale di Obama del 2008 era arrivato anche sull’onda di una straordinaria capacità di intercettare ingenti contributi in denaro elargiti dalle banche più importanti. Insolitamente, il candidato democratico alla presidenza aveva ottenuto un numero maggiore di donazioni in questo ambito rispetto a quello repubblicano. Obama, infatti, era giunto allo storico election day che l’avrebbe proiettato alla Casa Bianca con 18 milioni di dollari ricevuti dalle banche e dai loro dipendenti, contro 10 milioni di John McCain.
Donatore principe della sua campagna elettorale era stata J. P. Morgan Chase, il cui amministratore delegato e presidente, Jamie Dimon, è un aperto sostenitore del presidente. Nel corso del 2009, ben 500 mila dollari sono stati distribuiti in contributi elettorali da J. P. Morgan, i cui destinatari sono però cambiati con il passare dei mesi. Mentre nel primo trimestre i democratici hanno beneficiato del 76% del totale, negli ultimi tre mesi dell’anno ai repubblicani è andato il 73% dell’intera torta.
Sempre in relazione all’anno scorso, J. P. Morgan ha sborsato 30 mila dollari a favore dei comitati elettorali repubblicani per le votazioni di medio termine del prossimo novembre, mentre quelli democratici sono rimasti all’asciutto. La logica è molto semplice, come ha fatto notare una fonte interna alla compagnia di Wall Street: i vertici della banca non hanno intenzione di sostenere candidai democratici che utilizzerebbero i fondi ricevuti per appoggiare iniziative che potrebbero danneggiare i loro interessi.
Le banche d’investimento e, in maniera ancora più marcata, quelle commerciali, hanno d’altra parte finanziato massicciamente lo schieramento repubblicano negli ultimi decenni. L’entusiasmo per i democratici - i quali si trovano nella difficile situazione di dover teoricamente sostenere anche gli interessi del lavoro organizzato, dal momento che ricevono importanti contributi dai sindacati - sembra essere durato ben poco e, in sostanza, è coinciso con l’irresistibile ascesa di Obama nel 2008 e i suoi primi mesi da presidente.
I repubblicani, da parte loro, dopo avere a lungo criticato i democratici per il loro rapporto simbiotico con l’alta finanza statunitense, non hanno esitato a fare appello alle banche di Wall Street per fare ritorno all’ovile, chiedendo apertamente il loro aiuto per battere una maggioranza congressuale e un presidente che, dal loro punto di vista, non potrà che finire col danneggiare i grandi interessi finanziari.
A ben vedere, tuttavia, i risentimenti delle grandi banche nei confronti dei democratici non sono del tutto giustificati. Se nel paese - e in parte della classe politica - sono palpabili i malumori verso una casta di multimiliardari, che si è arricchita grazie a pratiche rischiose e con il salvagente del denaro federale, le proposte in campo per porre un freno alla deregulation che regna nel settore finanziario non appaiono particolarmente incisive.
Il piano comprensivo di riforma voluto da Obama giace da mesi al Congresso in seguito alla mancanza di un accordo tra maggioranza e opposizione, e tra gli stessi democratici. La creazione di un’agenzia indipendente che protegga i piccoli investitori dagli abusi delle grandi compagnie continua a trovare ostacoli anche a causa dell’intensa attività di lobby delle stesse banche. La stessa tassa annunciata dalla Casa Bianca sulle attività bancarie, se mai vedrà la luce, risulta infine di portata estremamente modesta. Tanto è però bastato ai giganti di Wall Street per restringere i cordoni della borsa a favore del partito di maggioranza.
La tendenza che sta emergendo per quanto riguarda i contributi elettorali pone in ogni caso i democratici in una difficile situazione. Se il legame tra i banchieri e il Partito Repubblicano può fornire uno strumento formidabile per attaccare i rivali di fronte ad un’opinione pubblica sempre più insofferente, allo stesso tempo la mancanza di quel denaro che, fino a pochi mesi fa, giungeva in grande quantità da Wall Street, si farà sentire in una campagna elettorale che promette ancora una volta di essere molto competitiva.
Una pericolosa prospettiva per il prossimo futuro che metterà di nuovo Obama e i democratici nella difficile posizione di bilanciare il populismo e la retorica anti-Wall Street con la necessità di strizzare l’occhio a quella stessa élite finanziaria che continua ad esercitare un peso decisivo sulla politica americana. Un’ambiguità rischiosa che lo stesso presidente si dimostra incapace di sciogliere quando, da un lato, continua a definire “vergognosi” i bonus e i profitti dei banchieri e, dall’altro, esalta ed esprime ammirazione incondizionata per quegli stessi presunti “eroi” del capitalismo finanziario americano.
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di Carlo Benedetti
Mosca. La “Città delle scienze” in Russia è Akademgorodok, nei pressi di Novosibirsk, nel cuore della Siberia. Onore e vanto del periodo sovietico, perché qui erano stati concentrati i migliori istituti scientifici del paese e i più grandi laboratori che si occupavano di nuove tecnologie e di genetica... E c’era poi - sempre negli anni dell’Urss - la “Città segreta” di Dubna, nella regione di Mosca. Qui gli scienziati di tutto il paese vivevano nelle villette messe a disposizione dall’Accademia centrale delle Scienze e progettavano il futuro dell’energia atomica.
Tutto, quindi, sul conto del Cremlino brezneviano. Ma ora, mutati i tempi, il nuovo potere del duo Putin-Medvedev va all’attacco e punta ad affermare l’esistenza di una città che dovrà rappresentare il cuore dello sviluppo di questo secolo. La scelta è stata fatta. Riguarda la siberiana Tomsk che, con i suoi cinquecentomila abitanti, diverrà il centro di una Silicon Valley in versione tutta russa. E secondo i piani del potere centrale moscovita la città dovrà assumere un volto nuovo, moderno, e soprattutto divenire un centro di scambi internazionali sfoggiando, nello stesso tempo, un tono di fresca modernità.
Una svolta epocale, quindi, per un “punto geografico” sino a ieri noto solo per essere immerso in una lontana realtà siberiana toccata, a volte, dai 40 sottozero... Ed ora il Cremlino si ricorda che proprio a Tomsk vivono 83600 studenti, (pari al 17% della popolazione) e che qui è attiva una università di estremo valore che fornisce quadri a tutto il paese quanto ai settori dei sistemi di controllo e della radioelettronica. E c’è di più. Perchè in questa città - ritenuta ingiustamente un centro di periferia - sono più che mai attivi istituti di matematica applicata, di biologia, di biofisica e di fisica nucleare.
Parte così, sulla base di una realtà sottovalutata, un programma di sviluppo che punta alla modernizzazione e allo sviluppo tecnologico dell’economia. L’annuncio viene dal presidente Medvedev il quale firma un “ukase” che lancia, sulla scena locale e mondiale, l’iniziativa del futuro: una Silicon Valley siberiana che – sulla scia di quella californiana - avrà come obiettivo la sperimentazione e la messa in pratica di nuove politiche economiche e di avanzate soluzioni tecnologiche.
Tomsk, quindi, come capitale delle innovazioni che vedrà la completa ristrutturazione di circa 200 imprese locali. In tal senso il Cremlino ha già lanciato una campagna per attirare in Siberia nuovi imprenditori e scienziati di tutto il mondo. E a questo processo di creazione della Silicon Valley locale vengono chiamate banche russe e mondiali perchè concedano crediti a lungo termine e a tassi ben diversi da quelli attuali. Comincia - pur se in ritardo - la fuga in avanti di una Russia che ha ancora molte carte di riserva.
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di Michele Paris
La recente decisione di Washington di installare un proprio ambasciatore in Siria dopo cinque anni di assenza potrebbe apparire, a prima vista, come la logica conseguenza dei progressi nelle relazioni tra i due paesi, iniziati con il cambio della guardia alla Casa Bianca. Le più recenti mosse di riavvicinamento a Damasco, tuttavia, s’inseriscono in una più ampia offensiva americana in Medio Oriente diretta ad isolare l’Iran - di cui la Siria è appunto uno degli alleati più stretti - per preparare l’imposizione di nuove sanzioni, se non, addirittura, un’aggressione militare.
L’amministrazione Bush aveva ritirato il suo ambasciatore a Damasco nel 2005, in segno di protesta nei confronti del regime siriano, ritenuto responsabile dell’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri a Beirut. Già dal giugno dello scorso anno si era iniziato a parlare negli Stati Uniti di un possibile ritorno di un ambasciatore in Siria. Poi, la scorsa settimana, l’annuncio della nomina del diplomatico americano Robert S. Ford.
Attuale vice-capo missione presso l’ambasciata USA di Baghdad, quest’ultimo aveva ricoperto la carica di ambasciatore in Algeria dal 2006 al 2008 e, in precedenza, di vice-capo missione in Bahrain tra il 2001 e il 2004. Ford dovrà essere ora confermato dal Senato di Washington nel suo nuovo incarico, mentre la Siria pare avere già approvato la nomina.
Il pieno ristabilimento delle relazioni con la Siria giunge dopo che negli ultimi mesi si erano tenuti una serie d’incontri diplomatici, al fine di allentare le tensioni. Nel 2009, l’inviato speciale di Obama per la pace in Medio Oriente, George Mitchell, si era recato a Damasco in due occasioni. Colloqui a un livello inferiore si erano poi susseguiti, mentre in concomitanza con la nomina del nuovo ambasciatore nella capitale siriana si è tenuta una importante visita ufficiale del Sottosegretario di Stato William Burns, vale a dire il diplomatico americano più alto in grado a recarsi in questo paese dopo il Segretario di Stato Colin Powell poco meno di sei anni fa.
Accompagnato nella sua missione dal coordinatore del contro-terrorismo per il Dipartimento di Stato, Daniel Benjamin, il vice di Hillary Clinton ha parlato con il presidente Bashar al-Assad, sottolineando la disponibilità di Washington a migliorare le relazioni con la Siria e la volontà di cooperare nello sforzo per giungere ad un accordo di pace tra arabi e israeliani. Nella sua conferenza stampa seguita all’incontro con Assad, però, Burns ha significativamente ricordato anche quanto sia irto di ostacoli il cammino che porta a una riconciliazione tra Stati Uniti e Siria.
Secondo i media occidentali, all’ordine del giorno dei colloqui di Damasco vi era, in primo luogo, la collaborazione per l’ennesimo avvio dei negoziati di pace tra palestinesi e israeliani, ma anche le continue infiltrazioni dal confine siriano di estremisti sunniti ed ex-baathisti di Saddam Hussein che alimentano la violenza settaria in Iraq, nonché il sostegno economico e militare siriano ad Hamas in Palestina e a Hezbollah in Libano, organizzazioni entrambe definite terroristiche da Washington.
Dietro alla facciata della nuova politica di riavvicinamento promossa da Obama fin dai tempi della sua campagna elettorale, per dare maggiore “impeto alla costruzione della pace in Medio Oriente”, si nasconde in realtà, in maniera peraltro non troppo velata, il tentativo di aumentare le pressioni nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare. Le manovre di accerchiamento da parte della diplomazia a stelle e strisce hanno infatti subito un’improvvisa accelerazione proprio nelle ultime settimane.
Da pochi giorni si è concluso il tour dei paesi arabi del Segretario di Stato, Hillary Clinton. Nel corso di un discorso in Qatar, la ex first lady ha lanciato un appello a sostegno delle sanzioni contro l’Iran volute da Washington per frenare la presunta corsa di Teheran verso la produzione di ordigni nucleari. La tappa successiva è stata poi l’Arabia Saudita, dove Hillary si è adoperata per convincere la monarchia assoluta a rassicurare la Cina circa possibili ulteriori forniture di petrolio nel prossimo futuro. La Cina importa gran parte degli idrocarburi necessari al proprio fabbisogno dall’Iran, una linea di fornitura che potrebbe essere tagliata nel caso Pechino finisca per appoggiare le sanzioni proposte dagli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Lo stesso Sottosegretario di Stato Burns, nel corso della sua trasferta mediorientale, si è incontrato in Libano con il presidente Michel Suleiman e il primo ministro Saad Hariri, mentre successivamente si è recato in Azerbaijan e in Turchia, entrambi paesi che mantengono buoni rapporti con l’Iran. Un altro vice della Clinton, James Steinberg, sarà inoltre in Israele questa settimana, così come il capo di Stato Maggiore americano, generale Michael Mullen, volerà in Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi dopo essere già stato ricevuto in Egitto dal presidente Mubarak e dai vertici militari israeliani a Tel Aviv.
L’argomento principale di tutti questi incontri rimane sempre e comunque l’Iran. Così come in funzione anti-iraniana va interpretato anche un altro annuncio che qualche settimana fa aveva alimentato nuove tensioni: la promessa di nuove forniture militari per il rinnovamento del sistema missilistico dei paesi arabi del Golfo Persico alleati degli Stati Uniti (Bahrain, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi). L’isolamento dell’Iran sembra dunque essere l’obiettivo principale della nuova strategia nei confronti della Siria, anche se non è chiaro fino a che punto Assad sarà disponibile ad allentare la sua alleanza con Teheran per migliorare i rapporti con Washington.
Se quest’ultima prospettiva risulterebbe cruciale per le speranze di Damasco di recuperare le alture del Golan, occupate da Israele nel 1967 durante la Guerra dei Sei Giorni, gli ostacoli alla distensione rimangono parecchi. Sulla lista nera dei paesi sponsor del terrorismo fin dal 1979, la Siria continua a soffrire a sua volta per le pesanti sanzioni applicate dagli USA nel 2004 e che vietano la vendita di beni, ad eccezione di cibo e medicinali.
Da parte sua, il presidente Assad ha già espresso scetticismo nei confronti della volontà degli Stati Uniti di accogliere le richieste siriane. Ancora meno propenso si è dimostrato poi nell’assecondare lo sforzo della Casa Bianca per raccogliere consensi nella comunità internazionale al fine di punire l’Iran con nuove sanzioni.
Lo sganciamento della Siria dall’Iran voluto da Washington, in definitiva, non sarà così facilmente raggiungibile. Non solo il sentimento anti-americano nella società siriana continua ad essere molto radicato, ma la posizione di Assad, sia all’interno del paese sia sul piano internazionale, secondo molti osservatori, si è consolidata negli ultimi tempi, garantendogli un peso maggiore nei negoziati.
Gli investimenti nel paese si sono infatti moltiplicati in seguito ad una serie di riforme economiche, i rapporti diplomatici con la Francia ed altri paesi dell’UE sono stati completamente ripristinati e, infine, la stessa influenza sul Libano sembra essere tornata quella di un tempo, dopo che la Rivoluzione dei Cedri nel marzo del 2005 aveva portato al ritiro delle truppe siriane dal paese sul quale esercitava un protettorato di fatto.
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di Eugenio Roscini Vitali
Lo slogan della nuova strategia Usa è “Clear, Hold, Build”: liberare, mantenere, costruire. Ma in Afghanistan il massiccio coinvolgimento delle truppe occidentali e il crescente numero di vittime civili rivelano le difficoltà di un conflitto sempre più complesso e la cui fine appare ogni giorno più lontana. L’ennesima dimostrazione arriva dalla zona di confine tra le province di Uruzgan e Dai Kondi - dove domenica scorsa trentatre civili hanno perso la vita a causa di un missile sparato aereo Nato - e dalle difficoltà incontrate dai militari della coalizione nell’operazione Moshtarak, la campagna militare intrapresa a metà febbraio nella provincia meridionale di Helmand.
Per cercare di domare la resistenza dei circa 800 talebani rimasti a guardia della città di Marjah, principale centro urbano del distretto di Nad Ali dove vivono 120 mila persone abbandonate al loro destino, l’Isaf (International Security Assistance Force) ha infatti schierato 15 mila soldati; militari americani, afgani, britannici e canadesi che hanno operato con il supporto ravvicinato dell’aviazione, di elicotteri da combattimento e di droni equipaggiati per azioni di attacco.
Vero è che dopo una settimana di combattimenti le forze alleate sono riuscite ad assumere il controllo di gran parte della città e questo a permesso il rischieramento di circa 600 poliziotti della Gendarmeria afgana che ora sorvegliano il centro e le vie di accesso al capoluogo, ma l’operazione si sta rivelando più complessa e lunga del previsto e in molte zone della provincia si continua ancora a combattere. Nonostante i talebani abbiano deciso di arretrare, la tensione rimane infatti altissima e, anche se non si può parlare di strage, il numero dei così detti “danni collaterali” continua a crescere.
Proseguite per alcuni giorni, le deflagrazioni delle bombe sganciate dagli aerei ed dagli elicotteri della coalizione si sono sentite fino a Lashkar-gah, a 30 km di distanza, e dall’inizio dell’operazione tra i civili si contano già più di 20 vittime e decine di feriti, incluso l’uomo ucciso da una pattuglia dell’Isaf per non essersi fermato all’alt dei militari che si erano insospettiti per la presenza di una scatola lasciata sul bordo della strada, involucro che al contrario non è risultato essere un ordigno, e il ragazzo di 9 anni ferito gravemente alla testa mentre da dietro la finestra guardava incuriosito i mezzi blindati che passavano davanti casa.
La morte di civili è uno dei temi più delicati nei rapporti tra Kabul e le truppe Isaf e il bombardamento di Uruzgan, nel quale sono stati colpiti tre minibus a bordo dei quali viaggiavano solo donne e bambini, non fa altro che esacerbare l’animo di una popolazione ormai esasperata. Sabato scorso il presidente Hamid Karzai aveva affermato che «le iniziative militari creano ancora troppe vittime civili» e, mostrando la foto di una bambina di 8 anni, aveva esclamato: «Questa è l'unica persona rimasta a raccogliere i cadaveri dei suoi familiari, uccisi da un missile della Nato che giorni fa ha sbagliato il bersaglio». E le stesse frasi sono state ripetute lunedì, dopo che i generali americani si erano scusati dicendo che il convoglio di civili era stato colpito per un errore di mira. Parole che suonano beffarde per chi vive tutti i giorni il dramma della guerra e si vede uccidere la famiglia da chi dovrebbe portare pace e stabilità.
Annunciata come la più grande offensiva militare dai tempi del rovesciamento del regime talebano, l’operazione Moshtarak va considerata come un test fondamentale della nuova strategia Usa, una condotta volta a stanare e cacciare i guerriglieri da quelle roccaforti che fino ad ora sembrano essere inaccessibili. Ma l’assalto a Marjah, che il capo del comando centrale Usa, Generale David Petraeus, considera coma la prima fase di una campagna che durerà tra i 12 e i 18 mesi, viene anche utilizzato dall’amministrazione Obama per guadagnare il consenso dell’opinione pubblica americana verso la decisione della Casa Bianca di aumentare in Afghanistan il livello delle truppe Usa fino a quasi 100 mila unità.
L’obiettivo è dimostrare, prima del 2011, data prevista per il definitivo ritiro, che le forze Isaf sono in grado di riprendere il controllo del territorio, soprattutto nelle provincie più densamente abitate, e che il governo afgano è in condizione di affermare e mantenere la sua autorità: proteggere la popolazione locale ed ottenere il suo sostegno in cambio di infrastrutture e servizi quali strade, acqua potabile, elettricità, sanità, istruzione e giustizia.
Come ogni piano, anche quello militare in Afghanistan ha però i suoi punti deboli. Innanzitutto, come sostiene il Generale Nick Carter, comandante Nato nel sud del Paese, «non è tanto la fase della liberazione che è decisiva. Lo è invece la fase del mantenimento delle posizioni». Le truppe della coalizione possono infatti allentare la morsa talebana nel sud del Paese, dove i ribelli godono comunque del sostegno della comunità pashtun, ma devono continuare a mantenere anche una sostanziale presenza nelle aree dove i fondamentalisti sono ancora temuti. In secondo luogo, le vere roccaforti talebane non si trovano in Afghanistan ma appena al di là del confine pakistano e la perdita di posizioni quali Marjah potrebbe essere considerata una sconfitta accettabile, soprattutto in vista del ritiro americano che dovrebbe avvenire entro la fine del prossimo anno.
C’è poi un problema legato alla capacità delle autorità afgane di far fronte alle profonde divisioni etniche e settarie che dividono i pashtun dai tagiki, così come gli uzbeki dagli hazara e dai turcomanni. E vanno infine prese in considerazione le reali difficoltà incontrate fino ad ora nell’assicurare la presenza sul terreno di funzionari incorruttibili e competenti, strada che fino ad ora si è dimostrata praticamente impercorribile, e nell’organizzare una forza armata addestrata e ben equipaggiata. L’Afghanistan è un paese fondamentalmente povero e il bilancio del governo dipende dagli aiuti stranieri, cosa che di fatto rende difficile organizzare una struttura efficiente ed affidabile: pur essendo particolarmente temuta, la polizia afgana è infatti considerata dai civili come un’organizzazione corrotta e violenta.
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di Michele Paris
A pochi mesi dal ritiro delle proprie truppe, i preparativi per le elezioni parlamentari del prossimo 7 marzo in Iraq continuano ad essere motivo di seria preoccupazione per gli occupanti americani. Dopo le profonde divisioni emerse sul finire dello scorso anno tra le varie forze politiche locali, intorno all’approvazione di una nuova legge elettorale, nuovi e più gravi conflitti stanno caratterizzando la campagna elettorale scattata da pochi giorni. Oggetto dello scontro è la controversa decisione di una commissione parlamentare irachena di escludere dalle liste svariate centinaia di candidati - in gran parte sunniti in corsa contro la coalizione di governo - a causa di presunti legami con il Partito Ba’ath del deposto Saddam Hussein, dichiarato illegale nel 2003.
A inizio gennaio, una sorprendente delibera della Commissione Responsabilità e Giustizia del Parlamento di Baghdad - incaricata di epurare i fedeli del dittatore giustiziato nel dicembre del 2006 e chiunque promuova il movimento baathista - aveva decretato l’estromissione di 515 candidati dalle prossime votazioni per il rinnovo del Parlamento. Nonostante la ratifica della decisione da parte dell’Alta Commissione Elettorale Indipendente, i numerosi ricorsi e le polemiche innescate avevano determinato una sentenza di una Corte d’Appello che il 3 febbraio stabiliva il reintegro di tutti i candidati nelle liste elettorali, rimandano la decisione definitiva sulla legittimità della loro eventuale elezione a dopo il voto.
Quest’ultimo verdetto è stato tuttavia duramente contestato dal Primo Ministro, Nouri Kamal al-Maliki, il quale pare abbia fatto immediatamente pressioni sulle alte sfere dell’apparato giudiziario iracheno, ottenendo pochi giorni fa la conferma dell’esclusione di quasi tutti i candidati in questione. Secondo fonti interne alla Commissione Elettorale, sarebbero stati accolti gli appelli di appena 26 candidati. Una soluzione che, se definitiva, non solo mette in mostra la promiscuità delle istituzioni irachene, ma rischia di delegittimare in anticipo una tornata elettorale considerata in Occidente come un momento cruciale per la riconciliazione interna e il trasferimento della piena sovranità alla politica locale.
Come già anticipato, quasi tutti i candidati colpiti dal bando appartengono alla minoranza sunnita e fanno parte di partiti e aggregazioni che minacciano la coalizione che sostiene l’attuale Primo Ministro sciita (Alleanza Nazionale Irachena). Una situazione che sta impensierendo non poco gli Stati Uniti e i diplomatici occidentali. Il malumore diffuso tra la popolazione sunnita e i loro rappresentanti politici, potrebbe infatti portare ad un boicottaggio delle elezioni simile a quello del 2005, da molti ritenuto la causa principale dell’esplosione della violenza settaria che ha insanguinato l’Iraq nei due anni successivi.
Il provvedimento della Commissione Elettorale irachena colpisce anche esponenti politici di primo piano, come il Ministro della Difesa Abdul-Kader Jassem al-Obeidi e soprattutto Saleh al-Mutlaq, leader del Fronte Iracheno per il Dialogo Nazionale. Coalizione formata da partiti sunniti e secolari, il Fronte sembrava avere ottime possibilità di raccogliere un vasto consenso tra l’elettorato sunnita, spazientito dal Partito Islamico Iracheno che sostiene il governo in carica.
Mutlaq, 61enne uscito dal Partito Ba’ath di Saddam Hussein nel 1977, vanta un ampio seguito nelle province sunnite del paese ed è una figura di un certo rilievo nel panorama politico iracheno, come dimostra la sua partecipazione alla riscrittura della Costituzione dopo l’invasione anglo-americana del 2003. Proprio la sua assenza nelle prossime elezioni - così come quella di un altro leader del Fronte, Dhafir al-Ani - potrebbe materializzare lo spettro che le forze alleate hanno cercato in tutti i modi di allontanare per prevenire nuove tensioni settarie: il senso di espropriazione da parte degli iracheni sunniti del loro diritto ad una piena rappresentanza politica.
Se anche alcuni dei partiti maggiormente colpiti dall’esclusione dei rispettivi candidati al Parlamento hanno annunciato una sospensione temporanea delle loro operazioni di campagna elettorale, a molti osservatori appare improbabile un nuovo boicottaggio sunnita nelle elezioni di marzo. Dopo il voto del gennaio 2005, infatti, la minoranza sunnita venne pressoché totalmente esclusa dal governo del paese, una prospettiva desiderata oggi da pochi all’interno dei partiti di opposizione. Anche senza un vero e proprio boicottaggio, però, l’intera vicenda sta già causando un terremoto politico in Iraq, minando seriamente le speranze americane di stabilizzare il paese in vista del ritiro delle proprie truppe da combattimento entro il settembre di quest’anno e di tutto il personale militare entro la fine del 2011.
A segnalare un inasprimento della situazione interna negli ultimi mesi, oltre a centinaia di arresti di sostenitori dei partiti espressione dell’elettorato sunnita, c’è il ritorno di gravi attentati e sporadici episodi di violenza riconducibili alla competizione politica in corso. Secondo molti in Iraq e in Occidente, d’altra parte, i due principali blocchi sciiti in corsa nelle elezioni starebbero da tempo sfruttando le paure di un possibile ritorno sulla scena dei baathisti a fini propagandistici.
Gli stessi attentati terroristici che recentemente hanno colpito la capitale sono stati attribuiti dal governo ai fedelissimi baathisti di Saddam, la cui attività rappresenterebbe, appunto, una seria minaccia da scongiurare con il voto di marzo. Questo nonostante ci sia quasi totale accordo tra i diplomatici e i vertici militari occidentali circa l’estraneità degli ex baathisti alle operazioni condotte presumibilmente dai gruppi islamici estremisti.
Gli appelli anti-baathisti, che si sono concretizzati nella messa al bando di centinaia di candidati sunniti, oltretutto in seguito a riscontri alquanto discutibili, trovano terreno fertile soprattutto nelle province meridionali a maggioranza sciita del paese. Qui, d'altronde, la brutalità del regime di Saddam Hussein si era fatta sentire in modo particolare, tanto che tra l’elettorato i timori per una rinascita del partito dell’ex dittatore sovrastano di gran lunga qualsiasi sconforto nei confronti del governo per le mancate promesse di sviluppo economico e di lotta ad una corruzione dilagante.
L’ingigantimento del pericolo baathista da parte dei partiti sciiti sembra rispondere insomma alla necessità di fermare il pur incerto superamento della politica settaria responsabile delle violenze che hanno causato migliaia di morti fino a poco più di due anni fa. Una tendenza che si era percepita durante le elezioni provinciali dello scorso anno e che prometteva di punire le coalizioni islamiche sciite, che pure dovrebbero rappresentare la maggioranza della popolazione dell’Iraq.
Il duro colpo assestato alle speranze di pacificazione dalla Commissione Elettorale irachena, con la complicità del governo, mette in luce anche il fallimento della politica di riconciliazione voluta dagli Stati Uniti a quasi sette anni dall’inizio di una guerra ingiustificata. Una politica che ha condotto un Primo Ministro sempre più impopolare a trasformarsi - per cercare di rimanere al potere - da docile esecutore del volere di Washington ad accanito nazionalista anti-americano e che rischia ora di rimettere indietro le lancette dell’orologio ad un recentissimo passato fatto di stragi settarie e bagni di sangue.