di Michele Paris

I messaggi apparentemente contraddittori provenienti da Teheran negli ultimi giorni, riguardo il proprio programma nucleare, hanno contribuito all’ennesimo inasprimento dei toni in Occidente nei confronti della Repubblica Islamica. L’annuncio del presidente Ahmadinejad dell’inizio delle operazioni per arricchire l’uranio iraniano fino ad un livello del 20% per scopi medici, ha fornito l’occasione alla Casa Bianca e al Pentagono di lanciare un nuovo appello per l’adozione in tempi rapidi di pesanti sanzioni economiche. Un’iniziativa che ha trovato immediato accoglimento tra gli alleati di Washington - tra cui l’Italia, dopo l’assalto-farsa alla nostra ambasciata a Teheran - e la Russia, ma che continua ad incontrare la ferma resistenza di Pechino.

Lo scorso autunno, l’Iran e i paesi del cosiddetto P5+1 (i membri del Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania), con la benedizione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), avevano siglato un fragile accordo per l’invio dell’uranio di Teheran all’estero (in Francia o in Russia) per essere arricchito fino al livello utile per alimentare un reattore da impiegare appunto a scopi scientifici. L’amministrazione Obama aveva fissato la fine del 2009 come scadenza ultima per l’accettazione dei termini dell’intesa da parte iraniana.

Condizionato dalle vicende interne, il governo di Ahmadinejad da allora ha inviato segnali contrastanti, mentre le aperture indirizzate all’Occidente sono quasi sempre rimaste inascoltate. Gli USA hanno tuttavia rimandato la proposta di adottare nuove sanzioni, attendendo il mese di febbraio, all’inizio del quale la presidenza del Consiglio di Sicurezza dell’ONU è passata dalla Cina alla Francia. Da Parigi, infatti, è arrivata la pronta risposta al richiamo americano per bocca dei ministri della Difesa, Hervé Morin, e degli Esteri, Bernard Kouchner, ma anche dello stesso Presidente, Nicolas Sarkozy. L’impazienza mostrata poi dal numero uno della Difesa americana, Robert Gates, coincide col desiderio di adottare misure concrete prima del trasferimento della presidenza dalla Francia al Gabon il prossimo mese di marzo.

Le minacce occidentali sono state puntualmente amplificate dalla gran parte dei media americani, israeliani ed europei, ben disposti ad accusare l’Iran di voler precipitare gli eventi e di muoversi in maniera irreversibile verso la realizzazione di armi nucleari. Accuse che i vertici della Repubblica Islamica ha sempre smentito, appellandosi al diritto di sviluppare il nucleare per scopi pacifici in quanto firmataria del Trattato di Non Proliferazione (NPT). Le attuali riserve di uranio di Teheran sono arricchite fino a circa il 4%, mentre il livello di arricchimento per l’impiego in armi nucleari deve essere pari almeno al 90%.

Mentre gli Stati Uniti hanno ufficialmente appoggiato l’accordo promosso dalla IAIEA, il loro atteggiamento nei confronti di Teheran ha finito per rendere la prospettiva di un fallimento sempre più concreta. Quando Ahmadinejad, pur rimanendo disponibile all’invio dell’uranio all’estero, si è visto costretto a cambiare i termini del trattato stipulato a Vienna in seguito alle critiche ricevute da più parti, in un paese attraversato da divisioni e fermenti a partire dalle discusse elezioni della scorsa estate, Washington non ha voluto sentire ragioni. In questo modo, l’accettazione integrale dell’accordo sottoscritto con il gruppo P5+1 avrebbe esposto Ahmadinejad a nuove critiche sul fronte interno. Da qui la decisione obbligata di procedere con l’arricchimento dell’uranio in territorio iraniano.

Mentre la diplomazia statunitense sembra aver convinto la Russia ad appoggiare ulteriori sanzioni, la Cina, che possiede ugualmente il potere di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, continua al contrario a sostenere la necessità di trovare una soluzione diplomatica alla vicenda. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha infatti faticato a convincere il suo collega cinese, Yang Jiechi, qualche giorno fa a Londra del fatto che un Iran nucleare porrebbe una gravissima minaccia all’intera regione mediorientale.

Che un Iran dotato di ordigni nucleari, se anche questo fosse l’obiettivo del programma di Teheran, possa rappresentare un fattore destabilizzante, appare d’altra parte discutibile, se non nella misura in cui potrebbe provocare un’azione militare da parte di Israele per colpire le sue installazioni nucleari. Né a Pechino, in ogni caso, sembrano disposti a gettare alle ortiche relazioni commerciali che con l’Iran superano ormai i 35 miliardi di dollari. Da qualche tempo, la Cina ha scalzato l’Unione Europea come principale partner commerciale della Repubblica Islamica, la quale fornisce a Pechino l’11% del suo fabbisogno energetico. I suoi investimenti in Iran, poi, risultano di gran lunga superiori a quelli della Russia, soprattutto nel settore del gas e del petrolio.

Se la riluttanza della Cina risponde ai propri interessi, lo stesso può dirsi degli Stati Uniti. Le sanzioni proposte da Washington - che non ha praticamente alcun investimento o scambio commerciale con l’Iran - finiscono in definitiva per penalizzare proprio i suoi rivali asiatici ed europei, spesso anche alleati, che già fanno affari con Teheran. Con l’obiettivo ultimo del cambio di regime in Iran per giungere ad un governo plasmabile secondo i propri interessi e le proprie ambizioni di controllo in una regione ricca di risorse energetiche, come quella mediorientale e dell’Asia centrale.

La natura delle sanzioni proposte dagli USA, infatti, rivela un obiettivo chiaramente politico. Oltre al divieto di vendere petrolio raffinato all’Iran - il quale importa circa il 40% del carburante che consuma - vi sarebbero anche misure indirizzate a colpire i vastissimi interessi economici dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, i quali rappresentano una delle colonne portanti del regime di Teheran.

Sulla questione del nucleare iraniano, dunque, l’amministrazione Obama non si trova più soltanto a doversi muovere - come ha messo in evidenza un recente editoriale del Wall Street Journal - tra un possibile avvicinamento (sia pure di facciata) al regime iraniano, la minaccia di sanzioni a quello stesso regime e l’appoggio alle opposizioni che lo combattono; ma anche a fronteggiare un nuovo fronte nella crescente rivalità con la Cina. Il tutto con l’ombra di un possibile conflitto militare, sullo sfondo, sostenuto soprattutto da Israele, che avrebbe conseguenze devastanti per l’intera regione.

di Luca Mazzucato

New York. Chiudete i vostri conti correnti nei grandi gruppi bancari e spostate i vostri soldi nelle banche del vostro paesino. Questo è il nuovo spettro che si aggira per gli Stati Uniti, terrorizzando gli amministratori delegati delle banche “troppo grandi per fallire,” che ancora festeggiano la crisi a colpi di bonus miliardari. La campagna Move your Money! è stata lanciata a Capodanno su un blog americano e in pochi giorni ha già persuaso la Casa Bianca.

Lo stile è quello del classico boicottaggio, in salsa americana: usare l'unico strumento rimasto a disposizione dei cittadini, la scelta mirata del prodotto, per farsi giustizia da soli. Mentre fino a qualche anno fa il mito di Wall Street era intoccabile (complice la New Economy e i suoi soldi facili), l'immaginario collettivo è profondamente cambiato. Milioni di persone hanno perso il lavoro e i risparmi di una vita, guardando impotenti il governo attingere a piene mani dalle loro tasche per sistemare i bilanci di Wall Street. La frustrazione del ceto medio di fronte al salvataggio delle grandi banche ha oltrepassato i limiti di guardia e si è concretizzata in vari movimenti. All'estrema destra, con il movimento conservatore del Tea Party, mentre a sinistra ha dato vita alla campagna “Spostate i vostri soldi!”

Il ragionamento sottostante è molto semplice. Le grandi banche non scuciono un dollaro in prestiti per le aziende. Si tengono ben stretti i soldi nei loro forzieri, nonostante lo scopo ufficiale del piano di salvataggio finanziario del 2008 fosse precisamente quello di fornire liquidità alle banche, che avrebbero poi riaperto i rubinetti dei prestiti. Siccome il governo non fa nulla per cambiare la situazione (la riforma della finanza è lungi dall'essere approvata), i cittadini devono dare una lezione alle grandi banche. E ritirare i soldi da quei conti correnti, per darli alle piccole banche che invece fanno ancora il loro mestiere: prestare denaro alle aziende.

Le statistiche ufficiali della Federal Deposit Insurance Corporation mostrano come le piccole banche, cioè quelle con meno di un miliardo di dollari di capitale, possiedano solo un decimo degli assetti bancari statunitensi, ma contribuiscano per più di un terzo al totale dei prestiti elargiti. Più di metà di questi prestiti vanno a beneficiare le piccole imprese. Le grandi banche invece rappresentano quasi i due terzi degli assetti bancari, ma contribuiscono solo ad un terzo dei prestiti, di cui la vasta parte va in operazioni finanziarie. Mentre le grandi banche prendono i soldi dei contribuenti per continuare a speculare come se niente fosse successo, l'intera economia è sostenuta dalle banche locali, che non hanno in genere usufruito dei soldi dello Stato e molte delle quali sono in grosse difficoltà.

L'idea è stata lanciata da Arianna Huffington, l'editrice del celebre blog HuffingtonPost.com, come buon proposito di Capodanno per il 2010. Ma in pochi giorni è nata una campagna virale che ha coinvolto associazioni di consumatori, media e deputati, creando un nuovo movimento nazionale. Le sei grandi banche nel mirino dei consumatori sono JP Morgan/Chase, City, Wells Fargo, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman Sachs. I promotori dell'iniziativa hanno messo a disposizione un motore di ricerca che, in base al codice di avviamento postale dell'utente, fornisce la lista di tutte le piccole banche della zona (dette community banks) oppure delle banche di credito cooperativo, con tanto di rating ufficiale e informazioni sulla trasparenza. Tra queste è facile sceglierne una cui affidare i propri risparmi. Nella prima settimana della campagna, le rischieste di apertura di conti correnti nelle piccole banche sono triplicate.

Ai cinefili non sarà sfuggito che il concetto alla base di Move your Money! é mutuato dal celebre film di Frank Capra La vita è meravigliosa, ambientato durante la Grande Depressione. Il protagonista George Bailey, interpretato da James Stuart, è un banchiere locale che cerca di aiutare i concittadini di una piccola città di provincia a sfuggire dalle grinfie del rapace emissario di Wall Street. Il regista Eugene Jarecki, ha girato uno splendido videoclip per lanciare l'iniziativa, una breve rivisitazione in chiave moderna del classico film degli anni quaranta.

In poche settimane, la campagna ha avuto un enorme successo. L'HuffingtonPost ha messo in rete la lista (pubblica) di deputati e senatori e delle banche di cui sono clienti. Oltre la metà di loro si serve delle sei grandi banche ma, sotto la pressione degli elettori, i deputati stanno aderendo alla campagna. Il New Mexico del governatore Bill Richardson è il primo Stato a discutere la propria adesione, forte di un miliardo e quattrocentomila dollari di depositi, mentre il sindaco Bloomberg sta studiando come trasferire le finanze cittadine di New York City nei forzieri delle banche locali.

Ma il vero scoop è stato l'adesione della stessa Casa Bianca. Durante il suo recente discorso sullo stato dell'Unione, il presidente Obama ha annunciato l'intenzione di trasferire trenta miliardi di dollari dal famigerato TARP, l'odiato fondo di salvataggio per le banche, alle community banks, come stimolo alla ripresa dei prestiti. Sperando che questa mossa basti a placare gli animi dei suoi sostenitori democratici, esasperati dall'atteggiamento condiscendente del governo nei confronti dei Paperoni che guidano le grandi banche e che hanno trascinato nella recessione gli Stati Uniti e l'intero pianeta, a colpi di bonus stellari.

di Carlo Benedetti

Mosca. Cancellata la “rivoluzione arancione” finanziata da Soros, dagli americani e dalla Georgia. Sistemato nelle cantine della storia locale il vecchio presidente Viktor Juscenko. Messa in soffitta, pur se con un onorevole finish, l’ambiziosa biondina - potente e nevrastenica - Julia Timoshenko. Ed ora, avendo raggiunto un risicato 50%, arriva alla guida dell’Ucraina l’ingegnere ed economista Viktor Janukovic, classe 1950, leader del “Partito delle regioni”, personaggio sacerdotale, intollerante e bigotto.

E’ una svolta che sembra destinata a bloccare quel funzionamento anarchico del potere centrale colpevole di aver portato il paese nel baratro di un profondo e generale dissesto. Comicia, quindi, la nuova rivoluzione ucraina che dovrebbe - secondo gli impegni di Janukovic - creare prospettive di cambiamento nel quadro di una riappacificazione generale tesa a rompere con le isterie del passato.

Sul tavolo della nuova presidenza ucraina restano intanto irrisolti grossi problemi di ordine strategico: tutti segnati da forti legami tra potere politico e interessi economici. C’è, ad esempio, il dossier relativo alla prosecuzione del processo di integrazione nella Ue e al tema - contestato ampiamente - della eventuale adesione alla Nato o al trattato per la sicurezza collettiva (la Nato dell'est). E soprattutto c’è la questione del rapporto con il Cremlino.

Tenendo conto che Janukovic ha puntato molte carte sul tema della autonomia nazionale e sullo spirito innovativo della politica del suo partito che guarda alle regioni ucraine più che alle aree oltre i confini. E comunque sia: buone relazioni con Putin e Medvedev, con la Polonia, con l’Ue e con gli Usa... Ma Janukovic, nello stesso tempo, non può dimenticare il contenzioso aperto tra Kiev e la Crimea, quella regione popolata quasi esclusivamente da russi e tartari, che non faceva parte originariamente dell’Ucraina, ma che le fu trasferita da Krusciov nel 1954. E’ in questa zona che sono più forti le spinte verso una autonomia generale da Kiev. Il nuovo presidente è obbligato, di conseguenza, a rispettare volontà popolari che gli ricordano la lunga storia di riforme mancate.

Ed ora su tutta la vicenda di queste presidenziali si impegnano, con le analisi più varie, politologi e diplomatici non solo dell’Ucraina, ma anche della Russia che risulta essere, tutto sommato, la nazione di riferimento. E qui il mondo degli specialisti si riferisce soprattutto a dati e risultati del recentissimo passato. Si avanzano così acuni paralleli tra l’Ucraina di oggi - nata con il collasso del 1991 – e la vecchia gestione socio-politica ed economica del periodo dell’Urss. E si ricorda che il processo di restaurazione del capitalismo a Kiev ha seguìto il medesimo percorso della Russia. E precisamente quello di un capitalismo selvaggio che ha provocato un disastro sociale.

Basti pensare che la media di variazione del Pil dal 1990 al 2000 è stata dell’ 8,2 per anno: oltre i due terzi dell’economia ucraina quale era alla fine dell’epoca “sovietica” sono stati distrutti nel processo di restaurazione del capitalismo. Solo dopo questo immane disastro (superiore a quello dell’economia russa che si è all’incirca dimezzata) è iniziata una ripresa economica sostenuta, che però ha recuperato solo circa un 30 % del Pil perduto.

I giudizi, in merito, sono pesanti. E Mosca - dalla sua radio ufficiale - parla non a caso di un “nuovo vicino di casa” dove “la faciloneria e leggerezza, la mancanza di una logica chiara di sviluppo economico, sociale, culturale e politico hanno portato il Paese praticamente ad un disastro, innanzitutto economico”. Per Mosca uno dei problemi più consistenti per la nuova amministrazione consisterà nel fatto di riuscire a controllare quella continua crisi economica aggravata da un debito immenso verso gli istituti finanziari internazionali. Attualmente è questo il principale problema economico nazionale di tipo sistemico dalla cui soluzione dipende, in misura decisiva, il destino politico di Kiev.

Un altro problema non meno importante - secondo gli analisti russi - deriva dalle divergenze economiche tra le regioni. Le quali - innanzitutto quelle orientali - registrano praticamente tutto il potenziale industriale e d’esportazione del Paese. E chiedono di potersi tenere una quota maggiore, rispetto a quella attuale, di detrazioni d’imposta. Il che consentirebbe loro di migliorare in modo sostanziale, attraverso la modernizzazione dell’infrastruttura e dell’economia sociale, la situazione sul mercato del lavoro; di introdurre nuove tecnologie con un basso consumo energetico eccezionalmente necessarie per l’Ucraina d’oggi, di creare le condizioni per il passaggio graduale all’economia ad alto contenuto scientifico.

La federalizzazione delle relazioni secondo il modello tedesco o quello canadese dovrà essere, quindi, un primo passo sulla via dell’acquisizione di una maggiore autonomia da parte delle regioni, innanzitutto nell’attività economica connessa con l'estero. Se questo esperimento darà dei consistenti risultati positivi, come deducibilmente prevedibile da tutti i calcoli economici effettuati, si potrà porre il problema in materia di modifica dell’assetto statale con l’abbandono dell’arcaico modello unitario.

Un altro problema riguarda la definizione costituzionale dei poteri del Presidente e del Primo Ministro. Essendo una Repubblica di tipo parlamentare - in cui i poteri principali del Primo Ministro sono comparabili ai poteri del Cancelliere della Germania e del Primo Ministro del Canada - l’Ucraina d’oggi, in sostanza, è contemporaneamente anche una repubblica di tipo presidenziale dove il meccanismo di elezione e i poteri del leader del Paese imitano il modello presidenziale francese. Questa evidente contraddizione mette obiettivamente un freno allo sviluppo e non favorisce il potenziamento dell’unità del Paese.

Il nuovo leader ucraino dovrà ora trovare il coraggio politico per offrire alla società un nuovo modello di ordinamento statale che corrisponda in misura più completa ed adeguata all’attuale modello di Stato di tipo parlamentare, o per porre, attraverso i meccanismi costituzionali di referendum, il problema del passaggio ad una repubblica di tipo presidenziale. Il nuovo leader ucraino dovrà poi garantire la formazione di una Corte Costituzionale efficace ed autorevole poiché in una repubblica di tipo parlamentare solo questo organo è munito di tutti i poteri per la soluzione dei conflitti e collisioni tra i rami del Potere.

Il Presidente dovrà anche attivizzare nella società e nello Stato la ricerca di un’idea nazionale unificatrice. Perchè i risultati del governo del regime di Juscenko hanno dimostrato, in modo eloquente, che il riferimento e la rivalutazione dei fascisti, hanno riportato il paese nel baratro delle divisioni. Detto questo gli analisti di Kiev prevedono che con Janukovic sarà riveduta la politica dell’Ucraina nei confronti della Russia e degli altri paesi della CSI.

L’Ucraina riprenderà a partecipare ai programmi economici e sociali della comunità e, a certe condizioni, potrà avviare il processo di adesione all’Unione doganale con Russia, Bielorussia, Kasachstan. È probabile anche l’attivizzazione dei contatti politici e tecnico-miliari nell’ambito dell’OTSC (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva) di cui l’Ucraina attualmente non fa parte. È prevedibile anche che con l’avvento al potere del nuovo Presidente dovranno ridursi fortemente i contatti nell’ambito del cosiddetto GUAM e di altre associazioni ed unioni interstatali la partecipazione alle quali non contribuisce affatto allo sviluppo dei buoni rapporti con la Russia. Ed è  evidente che con l’avvento del nuovo Presidente sarà definitivamente abbandonata l’idea dell’ingresso nella Nato.

Inoltre, è poco probabile che, in considerazione delle reali possibilità dell’economia ucraina d’oggi e delle sue relazioni con l’economia russa, il nuovo leader, ad onta del buon senso, vorrà dichiarare un’adesione a ritmi accelerati su larga scala agli istituti Ue che tutt’oggi non sono in grado di “smaltire” la Grecia - paese tutt’altro che secondario in Europa. Infine c’è da rilevare che Mosca – con il “nuovo” di questa presidenza ucraina - auspica che nei giorni dei festeggiamenti della Vittoria contro il nazifascismo non si dovranno vedere nelle strade di Kiev e Dnepropetrovsk, Harkov e Sebastopoli, Vinnitsa e Leopoli comizi e cortei degli ex seguaci dei nazisti, boia e seviziatori dei campi di concentramento nazisti. Come avvenne negli anni scorsi. “Abbiamo atteso per lunghi anni una nuova stagione per l’Ucraina” - ricorda ora la radio del Cremlino - e questa stagione è arrivata”.

di Emanuela Pessina

Berlino. Un informatore misterioso ha messo a disposizione del Governo tedesco i nomi di 1500 grandi evasori fiscali: i dati, in realtà molto confidenziali, sono stati rubati agli istituti bancari svizzeri presso cui i “poveretti” in questione avrebbero depositato grosse quantità di denaro non dichiarato. Per questi nomi, l’informatore Mister X chiede 2,5 milioni di Euro e il Governo tedesco si è dichiarato disposto a pagarli. Contro l’evasione fiscale, l’imparziale Germania sembra veramente pronta a tutto: anche a mettere a repentaglio i rapporti con l’ex paradiso fiscale della vicina Svizzera.

L’informatore misterioso del Fiskus federale ha già dimostrato al governo di Angela Merkel di possedere materiale di straordinario interesse: a prova dell’attendibilità delle notizie in suo possesso, Mister X ha già svelato cinque dei nomi contenuti nel cd. Secondo quanto riporta il quotidiano berlinese Tagesspiegel, un’ispezione successiva ha rivelato, per ognuno dei nomi svelati, un debito fiscale di circa un milione di euro.

ll Ministro federale delle Finanze Wolfgang Schaeuble, da parte sua, ha autorizzato l'acquisto del discusso cd, spiegando che “non c’è alternativa”. Un caso simile, infatti, è già avvenuto nel 2008, quando le autorità tedesche si sono procurate, attraverso un’azione di “spionaggio fiscale”, un dvd con i dati di un migliaio di evasori tedeschi che avevano i loro conti nel piccolo Principato del Liechtenstein. Nei 200 processi che hanno seguito lo scandalo, ha ricordato Schaeuble, nessuna corte ha rifiutato di utilizzare i dati “spiati” come prova, legalizzandone così la portata.

La questione, tuttavia, non è piaciuta per niente alla Svizzera, che si è detta indignata e delusa dalla scelta del Governo tedesco. Le banche e i politici della Confederazione hanno accusato Berlino di macchiarsi di ricettazione e hanno rifiutato di offrire il loro appoggio ufficiale: appropriarsi di dati rubati è reato, indipendentemente dal fine e dall’uso che se ne voglia fare, e - in questo caso - viola la privacy dei clienti delle elitarie banche svizzere. “Nessuno Stato di diritto può intraprendere la strada della ricettazione”, ha detto a questo proposito il presidente del Partito liberale radicale svizzero (FDP) e consigliere nazionale Fulvio Pelli al maggiore quotidiano svizzero Blick, sottolineando la propria disapprovazione.

Come avverrà concretamente la compravendita dei dati trafugati non è ancora chiaro. Si sa che i dati sono stati offerti a un finanziere di Wuppertal (Ovest della Germania), altrettanto misterioso, e che il “riscatto” di 2,5 milioni di euro verrà pagato dal Governo federale insieme alle singole Land federali cui appartengono gli evasori. Uno Stato democratico, tuttavia, non si può permettere di oltrepassare neppure di un passo l’ambiguo confine tra legale e illegale: e l’acquisto di dati ottenuti illegalmente, benché riguardanti evasori fiscali, può risultare abbastanza controverso.

Anche se, in realtà, la proposta indecente del misterioso informatore non dovrebbe risultare così problematica: teoricamente, infatti, non ci sono più paradisi fiscali, e la Svizzera, in particolare, ha regolarizzato la sua posizione di recente.Nella primavera scorsa, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) aveva inserito la Svizzera nella "lista grigia" dei paradisi fiscali, provocando l’indignazione del presidente della Confederazione e ministro delle FinanzeHans-Rudolf Merz.

La situazione si è risolta a settembre, quando Berna ha firmato la dodicesima convenzione con un Paese (il Quatar) garantendo a quest’ultimo la cooperazione in materia fiscale.In questo modo, la Svizzera ha rispettato le esigenze del G20 e si è garantita l’irreprensibilità dal punto di vista fiscale. La Confederazione e la Germania, tra l’altro, sono attualmente in trattativa per un accordo bilaterale sulla doppia imposizione e, quindi, per una collaborazione fiscale.

Se è rimasto qualche scheletro nell’armadio, è ora tutto da vedere. Secondo il quotidiano Sueddeutsche Zeitung,  la banca interessata è la Credit Suisse (CS), che però, da parte sua, smentisce categoricamente ogni fuga di notizie riservate. Certo è che i telefoni dei consulenti delle banche svizzere suonano in questi giorni all’impazzata: i grossi clienti tedeschi si preoccupano. E, intanto, il ministro Schaeuble, con un sorriso perverso, invita i presunti evasori ad autodenunciarsi. Meglio pagare in ritardo che pagare in ritardo con multa, avverte il Ministro. La guerra dei nervi è cominciata.

 


 

di Elena Ferrara

Dagli Usa la Casa Bianca annuncia che il presidente Barack Obama incontrerà il 16 febbraio, negli Usa, il Dalai Lama: e subito - e non è che l’inizio - esplode la tensione tra Washington e Pechino. Hu Jintao lancia un monito: “Il nostro governo è risolutamente contrario a qualsiasi contatto tra il presidente degli Stati Uniti e il Dalai Lama con qualsiasi pretesto e in qualsiasi forma". E mentre i canali diplomatici entrano in fibrillazione, il  portavoce del ministero degli Esteri cinese, Ma Zhaoxu - dalle colonne del China daily - ricorda che nell'incontro con Obama del novembre scorso Hu aveva ribadito "la rigida posizione della Cina contraria a qualsiasi incontro di esponenti e funzionari del Governo" con il leader tibetano.

"Esortiamo ora gli Stati Uniti - sottolinea il portavoce cinese - a comprendere in pieno la gravità della questione tibetana e ad affrontare in modo prudente e appropriato ciò che ne consegue, evitando di arrecare ulteriori danni alle relazioni sino-americane". Il riferimento è all'annunciata vendita di armamenti statunitensi a Taiwan e alla polemica su Google e la censura su Internet che ha già portato Washington e Pechino ai ferri corti.

La situazione generale dei rapporti - come scrive il Time Asia - resta quindi bloccata. E a dare man forte al presidente cinese arrivano anche i massimi organismi del partito comunista. Prese di posizione e “minacce” che assumono il carattere di una vera campagna antiamericana. Zhu Weiqun, responsabile del partito per le etnie e gli affari religiosi ribadisce, in una conferenza stampa, che il governo del paese si opporrà con forza a un eventuale incontro tra Obama e il Dalai Lama e sostiene che "i rapporti tra il Governo centrale e il Dalai Lama sono una questione interna alla Cina. Ci opponiamo - dichiara - a qualsiasi tentativo di una forza straniera di interferire con le questioni interne cinesi usando come pretesto" il leader tibetano.

Dall’America così risponde il portavoce della Casa Bianca: "Il Dalai Lama è un leader culturale e religioso rispettato in tutto il mondo e il presidente Obama si incontrerà con lui in questa veste e dev'essere chiaro che noi, pur considerando il Tibet parte della Cina, abbiamo serie preoccupazioni nel campo dei diritti umani sul trattamento riservato ai tibetani. Sollecitiamo, di conseguenza, il Governo cinese a proteggere le tradizioni religiose e culturali del Tibet. Riteniamo le nostre relazioni con la Cina abbastanza mature per cercare di lavorare insieme sulle questioni di interesse comune, come il clima, l'economia globale, la non-proliferazione, affrontando nello stesso tempo in modo franco i problemi dove non siamo d'accordo".

Parole e dichiarazioni a parte, il fatto è che ormai  tutte le carte sono sul tavolo e i due giocatori non si risparmiano colpi. Sul tavolo delle contestazioni c’è ora anche l’inequità degli scambi con Pechino e la svalutazione artificiale della moneta cinese. “L’atteggiamento che dobbiamo adottare verso la Cina è di cercare di essere più decisi sul rispetto delle regole già esistenti”, dichiara il presidente ai deputati democratici a Washington. Obama - fa notare - ha aggiunto che gli squilibri nei tassi di cambio della valuta cinese “gonfiano in modo artificiale il prezzo dei nostri prodotti e abbassano in modo artificiale quello dei loro prodotti”. Ed è questa tutta benzina sul fuoco delle polemiche.

Intanto si accentuano i dissidi sugli scambi e sulle relazioni militari. Pechino risponde così alla decisione di Washington di vendere armamenti a Taiwan (per 6,4 miliardi di dollari) imponendo sanzioni alle aziende americane che riforniranno di armi l'isola. La decisione viene illustrata dal  portavoce del ministero della Difesa di Pechino, Huang Xueping, il quale sottolinea che i passi di Washington, "oltre a violare i tre comunicati congiunti tra Cina e Stati Uniti, in particolare quello del 17 agosto del 1982 con cui Washington si impegnava a ridurre gradualmente la sua vendita di armi a Taiwan, sono in contrasto anche con i principi della dichiarazione congiunta" emessa durante la visita in Cina del presidente americano Barack Obama nel novembre scorso.

"La decisione degli Stati Uniti - attacca il portavoce - mette seriamente a rischio la sicurezza nazionale cinese e danneggia gli interessi vitali della Cina. Il piano americano creerà seri problemi alle relazioni tra i due Paesi e tra le loro Forze armate e danneggerà la situazione generale della cooperazione tra Stati Uniti e Cina, la pace e la stabilità negli Stretti di Taiwan". Pechino, quindi, ribadendo la gravità della situazione non manca di far rilevare l’entità degli “aiuti” americani a Taiwan. E rende noto che sulla base delle indicazioni date dalla Defense security cooperation agency del Pentagono - il pacchetto riguarda la vendita di 60 elicotteri Black Hawk UH-60 (del valore di 3,1 miliardi di dollari), di 114 missili intercettatori Patriot a capacità avanzata PAC-3 (2,81 miliardi), equipaggiamento per le comunicazioni dei cacciabombardieri F-16 di Tapei (340 milioni), due cacciamine classe Osprey (105 milioni) e 12 missili antinave Harpoon (37 milioni). E così anche il viaggio del Dalai Lama diviene merce di scambio sul piano delle relazioni intergovernative tra Pechino E Washington.


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