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di Eugenio Roscini Vitali
In tutto il mondo la reazione di condanna al massacro della Mavi Marmara e al sequestro della “Freedom Flotilla” è stato unanime: un uso sproporzionato della forza e un inutile bagno di sangue contro un convoglio civile e 10 mila tonnellate di aiuti umanitari, un atto equiparabile agli attacchi dei pirati somali nel golfo di Aden. Avvenuto sotto gli occhi sbigottiti della comunità internazionale, il blitz delle teste di cuoio della Shayetet 13, l’unità speciale della Marina Militare Israeliana, ha causato nove morti e numerosi feriti, l’arresto di centinaia di attivisti filo-palestinesi, trattenuti senza una particolare accusa per oltre due giorni nella prigione di Beersheba, alle porte del deserto del Neghev ed il sequestro delle sei imbarcazioni partite dal molo turco-cipriota di Famagosta e dirette a Gaza, requisite e dirottate sul porto di Ashdod, a sud di Tel Aviv.
Nonostante l’evidente violazione del diritto internazionale (l’attacco è avvenuto in acque internazionali, a 75 miglia dalla costa israeliana) e la drammaticità dell’evento, la Casa Bianca ha comunque cercato di stemperare la paventata risoluzione di condanna dell’Onu e, dopo dodici ore di schermaglia con la Turchia, ha guidato il Consiglio di Sicurezza verso una posizione meno “aggressiva”, dove non si parla di assalto israeliano alla Mavi Marmara ma più genericamente di “atti” avvenuti a bordo dell’imbarcazione. Una dichiarazione che Israele definisce in ogni caso “un riflesso condizionato basato unicamente su certe immagini televisive e su una certa dose d’ipocrisia, non sulla conoscenza dei fatti”.
Dal punto di vista politico, per lo Stato ebraico l’arrembaggio alla “Freedom Flotilla” rappresenta sicuramente un danno d’immagine potenzialmente catastrofico, un’operazione mediocre nella quale il calcolo del male minore ha offuscato la reale entità della minaccia. Pensando alle due possibili alternative, Gerusalemme avrebbe potuto lasciar forzare il blocco navale o fermare la flotta: nel primo caso avrebbe certamente reso insignificanti le intimidazioni fatte fino ad oggi, dando un segnale di debolezza in una regione dove i deboli hanno quasi sempre la peggio. Bloccare il convoglio avrebbe altresì aperto una crisi diplomatica con la Turchia e con i Paesi Arabi moderati che comunque si sarebbe risolta nell’arco di qualche mese, un po’ come accaduto per il blitz di Dubai, dove un commando di 11 agenti israeliani ha ucciso il dirigente di Hamas, Mahmoud al-Mabhouh, utilizzando passaporti falsi australiani, britannici, irlandesi e tedeschi di persone residenti in Israele.
La terza alternativa, quella del massacro, non era probabilmente contemplata. A nulla vale quindi cercare di giustificare il fallimentare intervento dei reparti speciali con il solo fatto che dietro la flotta partita da Nicosia ci fosse stata la mano dell’IHH, l’organizzazione non governativa turca che ha legami con Hamas e altre sigle della galassia integralista internazionale e che, negli anni Novanta, ha avuto un ruolo chiave nell'ingresso dei Jihadisti in Bosnia.
Le immagini diffuse dai militari israeliani mostrano, infatti, lo sbarco ripreso da un elicottero e la reazione degli attivisti che con spranghe e coltelli e con il lancio di qualche molotov hanno cercato di fermare il commando; manca la reazione degli infiltrati jihadisti con l’uso di armi da fuoco.
In un artico pubblicata sul Washington Post l’ex agente dei servizi segreti israeliani, Victor Ostrovsky, parla di operazione “tanto stupida quanto stupefacente”. L’ex spia, in forza al Mossad dal 1982 al 1990, ritiene Flotilla 13 (traduzione inglese del Shayetet 13) un reparto fantastico, una delle migliori unità israeliane che di norma pianifica tutte le fasi delle operazioni anti-pirateria nelle quali è coinvolta con un precisione quasi maniacale e che riesce a riprendere il controllo delle navi sequestrate nell’arco di pochi minuti.
Dal punto di vista intelligence, Ostrovsky ritiene che il Mossad fosse in possesso di tutte informazioni necessarie a disegnare un profilo dettagliato dei passeggeri e dell’equipaggio che componeva il convoglio, così come era certamente riuscito ad infiltrare suoi agenti a bordo delle navi, in modo da avere un aggiornamento della situazione in tempo reale ed aveva monitorato tutte le fasi dell’imbarco avvenute a Cipro.
E’ difficile quindi pensare che ci potessero essere state lacune nella raccolta delle informazioni, nella preparazione e nell’aggiornamento della missione; il problema sarebbe quindi scaturito da un’errata valutazione della minaccia e da pressioni esterne che avrebbero forzato i tempi e i modi dell’attacco. Pressioni politiche che sarebbero potute arrivare da Gerusalemme: dal premier Netanyahu o dal suo ministro degli esteri, l’ultra conservatore Avigdor Lieberman.
Calarsi sulla coperta di una nave dopo aver attirato l’attenzione delle persone presenti a bordo con il frastuono degli elicotteri e cercare di fermare la flotta in acque internazionali non rappresenta certo la migliore delle soluzioni, sapendo soprattutto che sul ponte i militari avrebbero trovato un nutrito gruppo di persone non affini a questo tipo di situazioni e giornalisti pronti a riprendere e raccontare l’assalto. Un altro sbaglio è stato quello di voler assumere innanzitutto il controllo del ponte di coperta anziché arrembare la poppa e la prua per poi convergere verso il centro.
Errori inspiegabili per lo Shayetet 13, che in alternativa avrebbe potuto tentare la carta della sorpresa e con l’utilizzo dei mini-sommergibili, una volta arrivate in acqua territoriali, fermare le navi danneggiando le eliche di propulsione. Una tattica sicuramente migliore che potrebbe essere utilizzata contro un altro ospite indesiderato, la Rachel Corrie, la nave irlandese pronta a raggiungere Gaza e che sicuramente, a sessantatre anni di distanza, non avrebbe fatto della tragedia della Exodus un simbolo rovesciato.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Il Presidente della Repubblica federale tedesca, Horst Koehler, ha rassegnato ieri le sue dimissioni: dimissioni improvvise, con effetto immediato e non discutibili che hanno lasciato tutti a bocca aperta, politici e cittadini. "Le mie dichiarazioni sulle missioni estere delle forze armate tedesche hanno incontrato critiche tanto violente quanto infondate, che hanno portato a gravi mancanze di rispetto nei confronti della figura istituzionale che rappresento" ha spiegato Koehler, al suo secondo mandato, in una conferenza stampa. Ed è proprio con un colpo di scena che Kohler ha deciso di lasciare il palcoscenico della politica: come a richiamare l'attenzione di tutti per riguadagnare il rispetto perduto.
La questione era nata una settimana fa da alcune osservazioni di Koehler rilasciate in un'intervista radiofonica. Dopo aver sopreso la Germania con una visita inaspettata alle sue truppe in Afganistan, il capo di Stato aveva detto che "nel dubbio e nella necessità una missione militare può servire anche a tutelare gli interessi economici della Germania, tra cui la garanzia della libertà delle vie commerciali". Die Linke e i principali quotidiani non si sono risparmiati le critiche più feroci: attribuita all'Afghanistan, una tale affermazione risulta alquanto maldestra e fuoriluogo, considerati gli sforzi dell'Occidente tutto a presentare i vari interventi in Medio Oriente come missioni di pace. I commenti negativi dell'opposizione sono arrivati a esprimere un'insoddisfazione generale nei confronti della figura di Koehler.
Koehler, da parte sua, ha parlato subito di un grave fraintendimento: le sue parole non si si riferivano all'Afghanistan, ma ad altre missioni estere della Germania, tra cui le operazioni contro i pirati al largo delle coste somale e del Golfo di Aden. "Mi rattrista pensare che si sia potuti arrivare a un fraintendimento tale in una questione così importante e difficile", ha aggiunto l’ormai ex Presidente durante la conferenza stampa di ieri sera. I più maliziosi, tuttavia, pensano che il suo disappunto sia dovuto ad altri motivi e non mancano di sottolineare quanto poco plausibile appaia il motivo della sua ritirata.
Tanto per cominciare, la Coalizione nero-gialla che lo ha riconfermato lo scorso settembre a capo dello Stato ha spezzato poche lance a suo favore. Eppure Koehler è da sempre considerato "l'uomo di Angela Merkel" per l'affinità dimostrata con la Cancelliera durante i suoi mandati. L'unico intervento in suo sostegno è stato quello del ministro della Difesa Theodor zu Guttenberg (CSU), che ha sottolineato come il libro bianco dell'esercito tedesco preveda la difesa degli interessi vitali in momenti di necessità. Inaspettatamente, Angela Merkel non si è espressa: la Cancelliera non considerava suo dovere immischiarsi nelle faccende di un altro organo costituzionale.
E ora, alla Coalizione non restano che gli occhi per piangere. Dopo aver tentato invano di dissuadere Koehler, la Merkel si è detta "assolutamente rattristata" dell'inaspettata decisione, così come il vicecancelliere Guido Westerwelle (FDP): si tratta di una scelta che la Cancelliera si trova comunque costretta ad accettare, ha ammesso. Koehler è stato il consigliere finanziario per eccellenza della Cancelliera: l'ex-direttore del Fondo Monetario Internazionale vanta una conoscenza matura e profonda dell'economia, una dote - soprattutto in questo periodo di crisi - molto preziosa.
Tra l'altro, Koehler è, tra i politici tedeschi, il più amato dagli elettori; la sua perdita va a incidere negativamente su un governo già di per sé abbastanza provato e discusso. Anche dall'opposizione arrivano commenti di ammirazione e rammarico: il presidente socialdemocratico, Sigmar Gabriel (SPD), riconosce di aver stimato, così come tutto il popolo tedesco, l'ex presidente e la sua condotta.
D'altra parte, Horst Koehler ha sempre cercato l'imparzialità in forza della figura istituzionale che ha rappresentato: il suo obiettivo è stato quello di mantenersi al di sopra dei partiti e delle politica stessa, tant'è vero che ha sempre cercato il consenso dei cittadini più di quello dei suoi colleghi. Per qualcuno, la mancanza di sangue freddo di Koehler è da attribuire alla sua poca esperienza politica: nato e formatosi in seno all'economia, Koehler non avrebbe saputo gestire in maniera equilibrata le critiche ricevute.
E ora non resta che indovinare chi sarà il suo successore, che verrà eletto nei prossimi trenta giorni dall'Assemblea Federale, un organo speciale composto dai membri del Bundestag, il Parlamento tedesco, e da un ugual numero di delegati scelti dai parlamenti dei 16 Laender. La questione rimane aperta e ha sollevato in Germania numerosi dubbi e una grande sorpresa: le dimissioni di un capo dello Stato non sono certo una cosa all'ordine del giorno. Come non lo é una voce dal sen fuggita. Da ora, comunque, la Merkel è più debole.
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di mazzetta
Centottantanove paesi hanno siglato una storica intesa nell'ambito del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP). L'intesa, formalizzata in una dichiarazione sostenuta dall'unanimità e presentata all'ONU, impegna i paesi firmatari ad uscire dall'ambiguità che ormai da anni costringeva allo stallo l'intero progetto. Il TNP è un accordo multilaterale, nell'ambito del quale i paesi che non hanno le atomiche s'impegnano a non costruirne e, quelli che ce le hanno, s'impegnano a ridurre le proprie fino a rinunciarvi.
Alla vigilia dell'accordo la Gran Bretagna, a dare peso e solennità all'occasione ha ufficialmente pubblicizzato il numero delle sue testate (160 operative, 225 in totale) e tutti i paesi firmatari in possesso di armamenti nucleari hanno aderito all'unanimità, con la notevole inclusione degli Stati Uniti, a lungo il vero impedimento alla firma di un accordo concepito e in linea di principio accettato, già molti anni addietro.
L'accordo, oltre a rinnovare la dottrina “dei tre pilastri” (Riduzione per chi ha armi atomiche, rinuncia per chi no, assistenza per l'accesso al nucleare “civile”), per la prima volta richiama ed evidenzia in particolare le responsabilità di quattro paesi: Pakistan, India, Corea del Nord e Israele, che non hanno sottoscritto (o l’hanno ricusato come nel caso della Corea del Nord) il TNP e possiedono armamenti atomici. Per la prima volta il documento chiede espressamente a India, Israele e Pakistan di firmare NTP e CBTC ( per le armi chimiche e biologiche), mentre intima seccamente alla Corea del Nord di liberarsi del suo programma nucleare.
Per l'India il problema sarà risolto con l'adesione già prevista nel quadro dell'accordo per la condivisione di tecnologie nucleari e spaziali con gli Stati Uniti, siglato da Bush, che non possono essere trasferite ai paesi non-firmatari. Per gli altri tre paesi le cose sono molto più difficili, ancora di più con Israele, che non discute neppure di nucleare perché non ammette di avere armi nucleari e pure rifiuta l'adesione al TNP.
Proprio Israele e la sua politica nucleare sono state il motivo dell'ostruzionismo statunitense fin dal lontano 1995, ora abbandonato anche grazie al cambio di passo dell'amministrazione Obama, che ha preso il Nobel per questo e che non poteva certo lasciar scadere il trattato, come lo stesso prevedeva qualora entro quest'anno non si fosse raggiunta un'intesa.
Numerose voci si sono levate dagli Stati Uniti per minimizzare l'evento e addirittura per mettere in dubbio l'impegno, raggiunto sulla base del consenso all'unanimità. Numerose voci ne hanno discusso in Israele, come in India, in diversi paesi d'Europa, in Pakistan, nelle due Coree e nei paesi arabi. La notizia del giorno ovunque, tranne che in Italia dove non ha raccolto alcuna attenzione e negli Stati Uniti, dove se n’é discusso pacatamente e sommessamente.
L'adesione di principio al disarmo nucleare è molto forte a livello retorico nell'amministrazione Obama, ma quando si arriva a fare i conti si scopre che gli Stati Uniti recentemente si sono impegnati ad eliminare soprattutto i missili da rottamare (ce ne sono di 50 anni fa) e comunque per una parte che aveva già il consenso statunitense fin dai tempi di Reagan.
Il nuovo trattato è di enorme importanza, perché oltre a siglare l'impegno ad andare verso l'estinzione degli armamenti atomici, i paesi firmatari si sono impegnati a seguire gli stessi passi anche per le armi batteriologiche e chimiche, che nel complesso sono le famose “armi di distruzione di massa” di tragica e recente memoria. Nel trattato inoltre è prevista anche una conferenza da tenersi nel 2012, nella quale porre le basi per fare di diciannove stati del Medioriente un'unica zona libera da questo genere di armamenti.
È abbastanza chiaro che la novità richiede ad Israele di rinunciare all'ipocrisia del “non conferma e non smentisce” che ha seguito per decenni, ma è altrettanto chiaro che da un punto di vista strettamente strategico non sarebbe un gran danno, tanto più che il famigerato reattore di Dimona è ormai alla fine del suo ciclo vitale. Ufficialmente Israele ha reagito alla notizia prima con semplicità e sobrietà, dicendo che di disarmo se ne potrà parlare dopo che la zona avrà raggiunto la stabilità e accordi di pace, una cautela giustificata dalla complessità del momento tale da essere colta anche da Netanyahu e dai suoi alleati più esagitati.
Che alla fine devono aver prevalso se a 24 ore di distanza Israele ha denunciato la proposta per il Medioriente denuclearizzato come “ipocrita e bagliata” e affermando che non adempirà alle sue richieste e previsioni. Nemmeno altre 24 ore e il Sunday Times ha annunciato che una fonte israeliana afferma che Tel Aviv manderà tre sottomarini dotati di armi atomiche a incrociare davanti alle coste iraniane. In funzione deterrente, ma anche con compiti di spionaggio e infilrazione.
L'idea di un Medioriente de-nuclearizzato è particolarmente attraente per l'Europa, già a tiro di Israele, vicinissima a quel Gheddafi che pare aver rinunciato all'atomica dando a Bush quello che aveva avuto dal Pakistan e ricevendo in cambio una totale riabilitazione. Da noi non si è mai sentito alcun allarme per i missili o le bombe di Gheddafi, che pure pochi anni fa colpì le nostre spiagge, senza che l'Italia tutta insorgesse o si preoccupasse. Legato al possesso delle atomiche da parte d'Israele c'è quello del resto dei paesi arabi, che in mancanza di un impegno al disarmo potrebbero decidere mettersi in pari e di conseguire un deterrente all'arsenale israeliano, a cominciare dall'Egitto.
Nel nostro paese quelli che decidono con cosa spaventarci non amano parlare di nucleare, anche perché abbiamo qualche decina di bombe atomiche americane che per il TNP non potremmo tenerci, e allora tutti i governi hanno sempre volato basso sul tema, figurarsi ora che stanno tentando il gran colpo decidendo proprio la costruzione di centrali nucleari.
L'implementazione dell'accordo ha due difetti agli occhi di Washington, perché il documento non cita l'Iran, rendendo molto più difficili le sanzione annunciate con foga e forse imprudenza dal Segretario di Stato, Hillary Clinton all'indomani dell'accordo Iran-Brasile-Turchia, con il quale l'Iran ha annunciato la sua disponibilità a impiegare uranio arricchito all'estero, una scelta che rende inutile la costruzione di centrifughe utili anche ad arricchire l'uranio per farne bombe.
Secondariamente, ma non ultimo per rilevanza, consegna Israele all'ingrato ruolo di fuorilegge. Una posizione, quella dell'unico paese al mondo che non ha firmato nessuna delle convenzioni sulla limitazione delle armi NBC, dalla quale è abbastanza difficile alzarsi ogni giorno per dirsi minacciati dal programma atomico iraniano. Un paese al quale proprio il Nobel per la Pace, Presidente dell'altro grande accusatore dell'Iran, ha appena finanziato uno scudo antimissile che lo renderà teoricamente intoccabile. Paradossalmente un altro passo verso l'impossibilità per Israele di sostenere il ruolo di paese minacciato.
Anche perché l'Iran per non ha ancora nessuna capacità nucleare militare, essendo ben lontano dal poter arricchire l'uranio come richiesto per l'atomica e ha appena ribadito l'impegno a non non ricercare la bomba, aderendo al nuovo trattato e all'iniziativa di pace collegata. Già era poco credibile che ad accusare l'Iran fosse un paese che non aderisce al trattato (e che ha condiviso tecnologie ed esperimenti nucleari con un paese quale il Sudafrica dell'apartheid) e che negli ultimi anni ha aggredito buona parte dei paesi confinanti dicendo che si trattava di aggressioni “preventive”.
Molte meno preoccupazioni sembrano destare invece, per la comunità internazionale e per gli Stati Uniti, i casi di Pakistan e Corea del Nord., due attori appesi alla benevolenza estera che possono essere ridotti alla ragione con maggiore facilità e probabilità. La Corea del Nord non può nutrire nessuna speranza in un'affermazione militare e, prima o poi, è destinata a ricongiungersi al Sud come (e forse quando) Taiwan si ricongiungerà alla Cina.
Il Pakistan, alleato storico degli Stati Uniti, che vive il suo arsenale come un deterrente nei confronti dell'India, rappresenta incognite maggiori, in particolare se dovesse continuare come in passato a distribuire tecnologie belliche ai soci del suo programma nucleare: Libia, Iran e Arabia Saudita, principale sponsor di quella che fu battezzata l'atomica “islamica”, voluta per fronteggiare quelle di cristiani, ebrei e indù che le avevano già.
Atomiche e religioni: un pessimo miscuglio quello pachistano, che sembra sempre di più nel mirino dell'amministrazione Obama., tanto che proprio la sua elezione ha portato a un netto aumento delle vittime di attentati e confronti armati nel paese, che comunque è sempre più dipendente e legato agli Stati Uniti e agli organismi internazionali.
Provando a volare appena più alti, bisogna riconoscere che le novità sono nel complesso notevoli e da salutare con favore, visto che offrono all'ONU una boccata di prestigio e uno strumento nel quale sono cristallizzati i principi che regoleranno la questione degli armamenti non convenzionali nei decenni a venire. Uno strumento grazie al quale cade finalmente l'ostruzionismo americano a tutela di un doppio standard utile agli alleati.
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di Giovanni Gnazzi
Portavano cibo. Medicine, vestiario. Aiuti umanitari. Portavano materiale utile a chi, bloccato nella propria terra, nell’indifferenza dei grandi e nell’impotenza dei piccoli, paga il fatto di essere nato dalla parte sfortunata del mondo: quella palestinese. Portavano una lezione di disobbedienza civile e morale; quella che, giustamente, si chiama solidarietà internazionale. Sì, internazionale, perché da tanti paesi provenivano i missionari laici della solidarietà. Soprattutto, sfidavano il blocco di Gaza, quello per il quale i legittimi proprietari di una terra da sempre loro, ne diventano i prigionieri.
E internazionali erano le acque dove la nave turca è stata assaltata. Circondandola prima e andando all’arrembaggio subito dopo, aprendo il fuoco di fronte alle proteste e alla reazione di chi non era disposto a subìre l’ennesima prepotenza. L'associazione turca IHH (Insani Yardim Vakfi), l'European Campaign to End the Siege on Gaza (ECESG), la Greek Ship to Gaza Campaign, la Swedish Ship to Gaza Campaign e il Free Gaza Movement, con l'appoggio di un coordinamento di ONG di 42 paesi, fra i quali Stati Uniti, Turchia, Grecia, Malesia, Belgio, Svezia, Indonesia e Irlanda erano i passeggeri volontari di un atto d’amore. Armati appunto di cibo, medicine e vestiti, di tutto ciò che serve dove il niente regna sovrano.
Caschi e giubbotti antiproiettili, visori notturni, mitra, gas e pistole erano invece il dispositivo ideologico degli assaltanti. Aiutare i reclusi era un affronto intollerabile, devono aver deciso a Tel Aviv. Che andava lavato col sangue. E col sangue di diciannove civili è stato lavato. Alla strage hanno aggiunto le bugie, perché l’odio, per forte che sia, ha bisogno della propaganda per essere diffuso sotto le mentite spoglie delle politiche di difesa. Hanno raccontato, da Tel Aviv, di resistenza dei passeggeri pacifisti a colpi d’arma da fuoco. Ma le immagini hanno mostrato più di un racconto, meglio di un film, peggio di quanto ci si poteva immaginare.
La reazione internazionale c’è stata; non sono risultate credibili le bugie di Tel Aviv. Abu Mazen ha decretato tre giorni di lutto nei Territori palestinesi. Il governo turco ha protestato duramente, definendo l’assalto israeliano agli inermi come “terrorismo di Stato”. Martedì, si richiesta di Ankara, si riunirà la Nato, “preoccupata”. L'Unione Europea ha sollecitato un'inchiesta accurata sul sanguinoso attacco alla flotta umanitaria e ha esortato Israele a consentire il libero fluire degli aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza.
Gli ambasciatori dell'Unione Europea s’incontreranno a Bruxelles, in via straordinaria, per discutere della crisi. Il ministro degli Esteri francesi, Kouchner, si è detto “profondamente sconvolto” dall'azione israeliana. La Grecia, oltre alla Turchia, ha convocato l'ambasciatore di Israele ad Atene per comunicazioni. Stessa mossa da parte della Spagna, presidente di turno dell'Ue, dell'Italia, della Francia e del Belgio. Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, si è detto “scioccato” per l'attacco di Israele e ha condannato l'episodio. Gli Usa di Obama sono gli unici a misurare termini e a giocare di sponda con Israele, parlando di “circostanze da verificare”.
C’è davvero poco da verificare, se non l’esattezza della contabilità del dolore e del sangue. Dieci, diciannove o ventisei che siano le vittime cambia poco. L’assalto israeliano alla nave pacifista è stato un atto di guerra premeditata contro civili inermi. Non c’era nessun altro messaggio nell’azione se non quello d’installare il terrore in chi vi partecipava; un monito per ora e per il futuro. Gaza è bloccata e tale deve rimanere.
Chi annacqua il dolore in salomoniche distinzioni, chi sparge stupore per la violenza israeliana, vive o finge di vivere sulla luna. Sparare sui civili é consuetudine israeliana. Da sempre - e in particolare in questi ultimi trent’anni - da Sabra e Chatila in poi, passando per l’Intifada, seguendo con le eliminazioni mirate e con le operazioni militari stile “Piombo fuso”, Israele considera la striscia di Gaza (ma più in generale il Medio Oriente) un solo immenso poligono di tiro e i suoi abitanti carne da macello da utilizzare nello scacchiere regionale ed internazionale, per ribadire l’indisponibilità assoluta di Israele a stare dentro le regole del diritto internazionale. Di questo si tratta.
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di Eugenio Roscini Vitali
Giovedì 27 maggio il presidente americano Barak Obama ha presentato al Congresso e alla nazione il documento riguardante la stragia sulla sicurezza nazionale, un atto che sostanzialmente sancisce una linea di continuità con il suo predecessore, George W. Bush, e ribadisce la volontà americana di «mantenere la superiorità militare che per decenni ha garantito la sicurezza nazionale e sostenuto la sicurezza globale».
Pur avendo identificato nei cosiddetti “terroristi cresciuti in casa” il nuovo nemico interno, l’inquilino della Casa Bianca non ha proposto eccessive novità e si è limitato a cambiamenti puramente linguistici. Nel documento non si parla più di una “guerra contro il terrore”, ma di una guerra contro Al-Qaeda; non ci si appella più al diritto ad agire in modo autonomo ed unilaterale, ma si proclama la necessità di rafforzare la propria legittimità attraverso un ampio sostegno internazionale.
Niente di nuovo dunque e nessun riferimento alla notizia diffusa qualche giorno prima dal New York Times che ha parlato di un ordine militare segreto firmato il 30 settembre scorso dal generale David Howell Petraeus, capo del Comando Centrale USA per il teatro mediorientale (Centcom), un documento in sette pagine con il quale è stato dato il via all’impiego di forze speciali per azioni di guerra non convenzionale e sotto copertura.
La direttiva, approvata dal Comandante in capo, Barak Obama, autorizza il Pentagono a svolgere attività clandestine in Medio Oriente, nel Corno d’Africa e in tutte quelle aree, inclusi i così detti “Stati amici”, dove la reazione alla minaccia è più lenta o meno efficace e dove è necessaria un’azione di forza, anche a rischio di aprire una crisi diplomatica. La disposizione emanata da Petraeus completa il piano iniziato dalla prima amministrazione Bush e rappresenta l’ultima fase di un progetto che prevede la realizzazione di una rete militare capace di colpire e neutralizzare le cellule e i gruppi terroristici legati ad Al Qaeda e coprire i settori geografici dove vengono promosse attività anti occidentali.
Nella sostanza, la dialettica delle amministrazioni che dal dopo guerra ad oggi si sono susseguite alla guida della più grande potenza militare mondiale non è mai cambiata: preparare un’alternativa militare nel caso in cui la diplomazia fallisca. Quello che è cambiato nell’ultimo decennio è un’accentuata applicazione della politica dell’intervento preventivo, la politica della pressione sui gruppi eversivi suggellata da un livello sempre più alto della sicurezza nazionale evocata dalla presidenza Bush. Al ciclo, iniziato alla fine del secolo scorso da "Dick" Cheney e Ronald Rumsfeld, il comandante del Centcom aggiunge però un tassello: il Pentagono potrà pianificare uno sforzo sistematico e di lungo termine in territori ritenuti sensibili senza la regolare supervisione del Congresso e l’approvazione preventiva della Casa Bianca.
La gestione diretta di tutte le fasi delle operazioni segrete anti-terrorismo riduce sensibilmente la dipendenza del Pentagono dalle agenzie d'intelligence ed invade in particolare il campo della CIA, fatto non del tutto nuovo viste le iniziative che negli ultimi tempi hanno caratterizzato l’azione delle truppe Usa in Medio Oriente, la gestione dei rapporti con i contractors che hanno il compito di dare la caccia ai talebani in Pakistan e in Afghanistan, gli interventi in appoggio alle truppe locali in Yemen e le infiltrazioni e gli attacchi ai rifugi qaedisti in Somalia, come quello avvenuto poche ore dopo l’emanazione dell’ordine del Generale Petraeus, nel quale è morto Saleh Ali Saleh Nabhan, uno dei terroristi islamici più ricercati dell’Africa orientale.
Nel quadro della nuova lotta globale alla minaccia terroristica rientrano anche le operazioni già avviate, come la crescente implicazione militare americana in Mali, voluta da Bush per cercare di contrastare le attività dei terroristi islamici nello Sahel ed autorizzata da Barack Obama per rafforzare la presenza Usa in Africa. Un intervento nato per difendere la giovane democrazia africana e i suoi giacimenti (oro, uranio, ferro e fosfati) da Al-Qaeda, anche se nulla prova che Al-Qaeda nel Sahara sia davvero Al-Qaeda e non sia piuttosto un’organizzazione nata grazie agli appoggi di qualche servizio segreto “deviato” e alla disponibilità di personaggi quali Amari Saifi El-Para, ex-ufficiale delle forze speciali algerine addestrato (guarda caso) tra il 1994 e il 1997 dai berretti verdi americani a Fort Bragg.
Secondo alcuni funzionari il provvedimento firmato da Petraeus potrebbe aprire la strada ad un possibile attacco all'Iran. Qualora le tensioni sul dossier nucleare dovessero riacutizzarsi la partita si giocherebbe sulla possibilità di evitare che Israele metta in atto un intervento militare preventivo che darebbe vita ad una lunga guerra di posizione. A marzo, subito dopo la visita a Gerusalemme del vice presidente americano Joe Biden, la Casa Bianca ha deciso di rafforzare la sua presenza militare nell’Oceano Indiano, destinando all’arsenale della base aerea situata sull’isola Diego Garcia, arcipelago delle Isole Chago, 1.500 chilometri a sud dello Sri Lanka, 387 sistemi d’arma Joint Direct Attack Munition (JDAM), i famigerati kit aggiuntivi che installati sulle bombe MK-84/BLU-109 da 2.000 libre (909 chilogrammi) o sulle MK-83/BLU-110 da 1.000 libre trasformano gli ordigni nelle micidiali bombe anti-bunker che potrebbero essere utilizzate per attaccare i siti nucleari e le installazioni della difesa aerea iraniana.
Nonostante l’appoggio della Casa Bianca - nella sola penisola Arabica nel 2010 il Dipartimento della Difesa ha già speso più del doppio dei 150 milioni di dollari destinati all’acquisto di elicotteri ed armamenti per le forze speciali che operano in appoggio alle forze locali - negli Stati Uniti la disposizione emanata da Petraeus ha comunque sollevato non poche perplessità. Negli ambienti del Pentagono c’è chi teme che nel caso in cui i commandos cadessero nelle mani del nemico potrebbero essere accusati di spionaggio e perdere i diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra.
E a Washington c’è chi teme che l’impiego di militari in azioni di guerra non proprio convenzionionali e sotto copertura, potrebbe compromettere le relazioni con Paesi amici come l'Arabia Saudita e lo Yemen o esacerbare ulteriormente gli animi in nazioni ostili come la Siria e l'Iran, dove operano gruppi che, secondo Teheran, godrebbero del sostegno dell’intelligence americano, come il movimento armato separatista sunnita Jundullah (Soldati di Dio) che per anni ha seminato terrore e violenza nel Balucistan iraniano.