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di Michele Paris
Il 21 settembre 1976 l’automobile su cui viaggiavano l’ex ministro del governo Allende, Orlando Letelier, la sua segretaria, Ronni Moffitt, e il marito Michael, saltò in aria all’altezza dello Sheridan Circle a Washington, a meno di due chilometri dalla Casa Bianca. L’esplosione, che provocò la morte dei primi due, rappresentò forse il più eclatante atto di terrorismo internazionale eseguito in territorio statunitense fino a quel momento. I responsabili dell’attentato si erano mossi nell’ambito delle operazioni clandestine della famigerata Operazione Condor, implementata con la supervisione del governo americano.
A quasi trentaquattro anni di distanza, una serie di documenti declassificati dagli Archivi della Sicurezza Nazionale, confermano come le mani del premio Nobel per la Pace Henry Kissinger, allora Segretario di Stato nell’amministrazione Ford, siano macchiate del sangue di Letelier e della 25enne attivista del New Jersey.
Nominato ambasciatore negli USA da Salvador Allende nel 1971, Orlando Letelier ricoprì successivamente incarichi importanti nel governo riformista cileno. Ministro degli Esteri, degli Interni e della Difesa, Letelier fu uno dei primi esponenti di spicco dell’amministrazione Allende ad essere arrestato dopo il colpo di stato militare del 13 settembre 1973 guidato dal generale Augusto Pinochet. Incarcerato e più volte torturato, nel settembre 1974, in seguito alle pressioni diplomatiche della comunità internazionale, venne rilasciato e poté raggiungere dapprima Caracas e poi la capitale americana.
Qui iniziò ad insegnare presso l’American University e a lavorare per l’Institute for Policy Studies, un istituto di ricerca dedicato agli studi di politica internazionale, dove si stava appunto dirigendo la mattina della sua morte. Nel suo esilio di Washington, Letelier divenne immediatamente la principale voce critica del regime di Pinochet, rivelandone i metodi repressivi e battendosi per un boicottaggio internazionale che riuscì a impedire l’erogazione di prestiti e aiuti militari, provenienti soprattutto dall’Europa. Il 10 settembre 1976, con un decreto governativo, gli venne infine revocata la cittadinanza cilena.
Per l’omicidio di Letelier vennero indagati e poi condannati svariati individui. Il responsabile della preparazione dell’esplosivo fu individuato nell’ex agente della CIA Michael Townley, un espatriato americano alle dipendenze della DINA (Dirección de Inteligencia Nacional), la polizia segreta di Pinochet. Townley venne estradato negli USA nel 1978, con un accordo secondo il quale avrebbe rivelato solo ciò che era rilevante in relazione alla violazione delle leggi americane, omettendo qualsiasi informazione riguardante il coinvolgimento della DINA e del governo cileno, ovvero dei mandanti dell’assassinio di Letelier. Il processo a Townley si concluse con una condanna a dieci anni, ma dopo aver scontato metà della pena venne rilasciato e messo sotto la protezione del governo americano, che lo inserì in un programma federale di protezione testimoni.
Gli esecutori materiale dell’omicidio provenivano dagli ambienti anti-castristi operativi sul suolo statunitense con l’appoggio della CIA. Al progetto dell’operazione contribuì in maniera determinante l’organizzazione CORU, fondata da Luis Posada Carriles. Carriles era (ed è tutt’ora) anch’egli al soldo dell’intelligence a stelle e strisce e implicato in numerose azioni terroristiche, tra cui l’esplosione in volo di un aereo civile della Cubana de Aviaciòn sui cieli delle Barbados, che causò la morte di 76 persone. Posada Carriles è responsabile, oltre a numerosi atti di terrorismo contro personale cubano in ogni dove del continente americano, anche dell’organizzazione di una serie di attentati a L’Avana nel 1997. In uno di questi, una bomba collocata nella hall dell’hotel Copacabana, uccise il cittadino italiano Fabio Di Celmo e altre undici persone risultarono ferite.
A dare l’ordine dell’uccisione di Letelier furono invece i vertici del regime cileno, nelle persone del capo della DINA, generale Manuel Contreras, e dello stesso Pinochet. Secondo quanto confessato da Contreras ad un giudice in Cile nel 2005, l’assassinio di Washington venne portato a termine grazie al supporto della CIA, degli esuli cubani e di membri del servizio segreto venezuelano (DISIP). Lo stesso vice-direttore della CIA dell’epoca, Vernon Walters, avrebbe informato direttamente Pinochet della pericolosità di Letelier, impegnato a Washington nella formazione di un governo cileno in esilio.
Il governo americano aveva d’altra parte rivolto la propria attenzione al Cile da tempo. Lo stesso Kissinger considerava l’instaurazione di un governo socialista in questo paese un pericoloso esempio per il resto del continente e non solo. Sotto la sua supervisione, immediatamente dopo le elezioni del 1970, la CIA aveva manovrato senza successo negli ambienti militari cileni per impedire l’insediamento di Allende alla presidenza. Nei tre anni successivi, tuttavia, Kissinger fece di tutto per indebolire il nuovo governo con l’obiettivo di rimuovere il legittimo presidente dal potere, manovrando gli ambienti interni al Dipartimento di Stato americano che si opponevano ad un intervento diretto degli Stati Uniti negli affari cileni.
del resto, l’8 settembre 1974, il New York Times rivelava che, secondo una testimonianza resa il 22 aprile dello stesso anno da William Colby, direttore della Cia, di fronte alla Sottocommissione dei servizi armati sull’intelligence della Camera dei rappresentanti, l’amministrazione Nixon avrebbe stanziato oltre otto milioni di dollari per le attività della Cia contro il regime del presidente Salvador Allende. Le operazioni di intervento, secondo Colby, erano state approvate in blocco dalla Commissione dei quaranta, un quadro di comando di alto livello addetto all’approvazione dei piani di sicurezza guidati da Henry Kissinger, segretario di Stato degli Stati Uniti, e furono considerate come prova schiacciante delle tecniche di sovvertimento di altri governi attraverso lo stanziamento di fondi.
Per Kissinger, in sostanza, la “questione era troppo importante per essere lasciata al giudizio degli elettori cileni”. Allo stesso tempo giudicava impensabile che la sua amministrazione restasse a guardare “un paese diventare comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo”. Rimanere indifferenti agli eventi politici in corso a Santiago sarebbe stato interpretato nel resto dell’America Latina come un segnale di debolezza che avrebbe potuto scatenare una reazione a catena insostenibile per gli interessi americani. Gli sforzi di Kissinger culminarono così nel golpe contro Allende e proseguirono nei mesi e negli anni successivi quando venne il momento di reprimere il dissenso contro il nuovo regime sia in patria che all’estero.
Ai documenti già resi noti da qualche anno, nei quali veniva rivelato come Pinochet avesse manifestato a Kissinger le sue preoccupazioni per le attività di Letelier negli Stati Uniti, ottenendo tutta la “comprensione” del governo americano, le carte desecretate pochi giorni fa mettono in luce piuttosto il ruolo dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Nixon nell’avallare l’Operazione Condor. Il 3 agosto 1976, alcuni funzionari del Dipartimento di Stato indirizzarono a Kissinger una nota nella quale veniva criticato il programma di assassini predisposto dai governi sudamericani con il beneplacito di Washington. L’appoggio americano a queste operazioni rappresentava, infatti, un grave motivo di imbarazzo di fronte alla comunità internazionale.
Il 30 agosto, la sezione del Dipartimento di Stato che si occupava dell’American Latina redasse così un documento ufficiale da inoltrare a sei governi, con particolare enfasi per Uruguay, Argentina e Cile. Nel documento li si ammoniva circa la prosecuzione della campagna di omicidi diretta contro gli oppositori dei loro regimi all’estero, in quanto avrebbe creato “seri problemi di ordine morale e politico”. Mentre è risaputo da tempo che tale comunicazione non venne mai recapitata ai destinatari, le nuove carte pubblicate indicano proprio in Henry Kissinger il responsabile della soppressione del documento.
E’ ormai acclarato, infatti, che il 16 settembre 1976, cinque giorni prima dell’omicidio di Letelier, da Lusaka, in Zambia, dove si trovava in quel momento, Kissinger recapitò un messaggio al suo assistente per gli affari inter-americani, Harry Shlaudeman. Riferendosi appunto alla nota del dipartimento di Stato del 30 agosto precedente, circa l’Operazione Condor, il Segretario di Stato negò la sua approvazione all’invio di essa a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, lasciando di fatto via libera al proseguimento di assassini e repressioni nell’intero continente.
Quattro giorni più tardi, lo stesso Shlaudeman, dal Costa Rica, confermò la decisione in un telegramma al suo vice a Washington, William Luers, informandolo di “dare istruzioni agli ambasciatori americani in America Latina di non intraprendere nessuna ulteriore azione, dal momento che non sussistono indicazioni che nelle prossime settimane verrà riattivato il piano Condor”. Precisamente il giorno successivo, in una strada trafficata della capitale americana, Orlando Letelier e Ronni Moffitt persero la vita.
L’omicidio di Letelier a Washington aveva seguito una già lunga striscia di attacchi terroristici a scopo repressivo messi in atto dai regimi di destra che presero il potere in Sudamerica tra il 1964 e il 1976 con l’appoggio degli Stati Uniti. Con l’Operazione Condor, le dittature militari di questi paesi adottarono un programma di sterminio indirizzato sia verso la resistenza alla dittatura nei singoli paesi sudamericani, sia verso quegli oppositori che avevano trovato rifugio all’estero e da dove proseguivano nel loro attivismo politico.
Prima di Letelier, altre due personalità di spicco della politica cilena in esilio erano state bersaglio dell’Operazione Condor. Nel settembre 1974 a Buenos Aires a saltare in aria fu il generale Carlos Prats, ex ministro della Difesa di Allende, mentre l’anno successivo l’ex vice-presidente cileno Bernardo Leighton scampò ad un attentato a Roma. Secondo stime parziali, complessivamente l’Operazione Condor fece tra i cinquanta e i sessantamila morti.
Nonostante le rivelazioni delle responsabilità dirette del governo americano, alla pratica dell’assassinio al di fuori del diritto internazionale di oppositori veri o presunti, gli USA continuano ampiamente a farvi ricorso anche dopo oltre tre decenni. Alla categoria dei “sovversivi” di sinistra si è sostituita ora quella dei “nemici combattenti”, bersagli indiscriminati della guerra totale al terrorismo lanciata da George W. Bush e fatta propria senza scrupoli - e senza significativi risultati, almeno per ora - dall’amministrazione Obama.
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di Alessandro Iacuelli
La Corea del Nord ha chiesto il riconoscimento ufficiale di "potenza nucleare", dopo anni di trattative e tira e molla, soprattutto con gli Stati Uniti ed il Giappone, da sempre contrari allo sviluppo atomico del regime corano. Il governo di Pyongyang ha dichiarato, attraverso l'agenzia di stampa di Stato, che costruirà tutti gli armamenti atomici che ritiene necessari. Il ministero degli Esteri ha anche detto, attraverso un memorandum reso pubblico, che il Paese si unirà agli sforzi internazionali sulla non proliferazione "solo se sarà trattato alla pari dalle altre potenze nucleari", ribadendo inoltre la richiesta di un trattato di pace permanente con gli Stati Uniti che rimpiazzi l'armistizio che mise fine alla guerra di Corea del 1950-1953.
Da Washington è stata subito respinta l'idea di un trattato di pace, se Pyongyang rifiuta di mettere fine al suo programma nucleare. In pratica, secondo l'agenzia Kcna, voce del governo di Pyongyang, "la Corea del Nord produrrà tanto nucleare quando riterrà necessario, ma non parteciperà alla corsa agli armamenti nucleari né ne produrrà più di quelli che sente necessari".
Certo, suona decisamente contraddittorio il voler produrre armamenti nucleari e contemporaneamente non voler partecipare alla corsa agli armamenti. Così come, sul piano internazionale, ma anche su quello del buon senso, ci si chiede cosa potrebbe significare quel "non ne produrrà più di quelli che sente necessari". Necessari per cosa? La Corea del Nord, oltre ad una mancata piena ripresa dei rapporti diplomatici con la vicina Corea del Sud, non è minacciata militarmente da nessuno ed è sotto l'ala protettiva del potente vicino cinese. Lo si è visto in sede di Consiglio di Sicurezza dell'ONU, dove da anni la Cina pone il veto ogni volta che si parla di sanzioni verso il regime coreano.
Di sicuro non vanno d'accordo con USA e Giappone, ma allora perché produrre armamenti nucleari? La cosa preoccupa fortemente il vicino Paese del Sol Levante, soprattutto dopo i recenti test missilistici coreani, che hanno dimostrato come i vettori di Pyongyang hanno gittata sufficiente per colpire proprio il Giappone.
Secondo alcuni esperti americani, il Paese asiatico dispone di circa 50 kg di plutonio, quantità sufficiente a realizzare da sei a otto armi nucleari. Pyongyang, che secondo alcune indiscrezioni di stampa starebbe preparando un terzo test nucleare a maggio o a giugno, ha boicottato i colloqui per il disarmo nucleare con cinque potenze regionali (tra cui gli Stati Uniti) per oltre un anno, ponendo condizioni sul suo ritorno al tavolo tra cui la fine delle sanzioni ONU imposte dopo i suoi test nucleari dello scorso maggio. Naturalmente questo terzo test complicherebbe una vicenda diplomatica già tesa, e contribuirebbe ad un ulteriore isolamento del Paese sul piano internazionale.
La chiave di lettura, probabilmente, è proprio in questo: nell'isolamento. La richiesta di essere riconosciuta come potenza nucleare, il voler essere trattati alla pari delle altre potenze nucleari, è forse il segnale chiaro che l'isolamento e le sanzioni ONU iniziano a pesare sulla testa del regime. Il Paese vuole "contare di più" sul piano internazionale. Ma non è un Paese con risorse e commerci tali da guadagnarsi l’attenzione, né trattasi di un Paese democratico sotto il profilo dei diritti umani. Non lo sono nemmeno Cina e Russia, certo. Ma con una seria differenza: la Russia può contare grazie alle sue risorse sul piano energetico, la Cina invece ha dalla sua il sistema industriale in crescita spaventosa e l'invasione commerciale dei mercati di tutto il mondo. Alla Corea del Nord cosa resta? Una manciata di bombe atomiche le torna quindi utile.
Questa presa di posizione internazionale della Corea infatti arriva proprio all'indomani del Vertice sulla Sicurezza Nucleare che ha riunito i rappresentanti di 47 paesi a Washington il 12 e 13 aprile, dove è stato affrontato il tema della potenziale minaccia rappresentata dal "terrorismo nucleare". Dal canto suo, il presidente Obama, che ha fatto della sicurezza nucleare uno dei suoi cavalli di battaglia, ha affermato che non useranno, né minacceranno di usare, armi nucleari contro i paesi che aderiscono al Trattato di Non Proliferazione. Trattato mai firmato dalla Corea del Nord che, assieme all'Iran, è stata esplicitamente esclusa dagli Stati Uniti dal recente vertice. Con la differenza che a tutt'oggi non vi sono prove che dimostrino che Teheran stia perseguendo un programma nucleare di tipo militare, mentre Pyongyang è ufficialmente in possesso di armi nucleari.
Convocando un vertice sulla sicurezza nucleare senza invitare la Corea del Nord e l'Iran, cioé un Paese in possesso di armi atomiche e un Paese firmatario del Trattato di non proliferazione che sta sviluppando un proprio programma nucleare, si sceglie di non dialogare con due Stati con i quali sarebbe essenziale discutere i temi della sicurezza nucleare mondiale. Obama, secondo soprattutto gli analisti arabi, ha dato un pessimo esempio di una politica di "doppio standard" nei confronti degli altri Paesi, un esempio di politica dei "due pesi e due misure".
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di Giuseppe Zaccagni
L'Iran annuncia che "nei prossimi giorni" discuterà con i Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu (invece che con gli Stati del gruppo 5+1) la proposta di scambiare il proprio uranio scarsamente arricchito con uranio al 20%. Intanto la Francia respinge preventivamente ogni nuova proposta di Teheran. Risponde il ministro degli Esteri di Teheran, Manucher Mottaki: "Nei prossimi giorni condurremo discussioni dirette con i 14 membri del Consiglio di sicurezza e indirette con il quindicesimo membro, gli Stati Uniti, sullo scambio di combustibile". L'Iran, quindi, sul suo nucleare tratta, ma non molla. E rilancia all'Occidente una proposta tesa alla costituzione di un organo internazionale indipendente e la relativa sospensione dall'Aiea di chi minaccia di usare l'atomica.
E' questa la sintesi del vertice di Teheran che ha visto riuniti nei giorni scorsi i ministri degli Esteri di otto paesi - tra in quali Iraq, Siria e Libano - e i viceministri di altri 14, tra i quali la Russia, oltre a esperti nucleari di una sessantina di nazioni. Anche la Cina, tra l'altro, era presente al vertice pur se con un rappresentante di secondo piano.
Nel corso dell'incontro si è parlato molto del Trattato di non proliferazione (Tnp), del disarmo delle potenze nucleari e del pericolo rappresentato dall'arsenale atomico israeliano. E in tal senso i partecipanti alla conferenza hanno messo in guardia contro qualsiasi attacco contro i siti nucleari iraniani, lanciando un appello ad Israele affinchè aderisca al Tnp.
E' chiaro, comunque, che l'iniziativa è stata anche una risposta al vertice sulla sicurezza nucleare andato in scena a Washington il 12 e 13 aprile scorsi e che è stato utilizzato dal presidente Obama per fare pressioni sui leader mondiali al fine di affrettare l'approvazione di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica di Ahmadinejad. Ma alle iniziative del leader della Casa Bianca ha subito risposto la Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, che con un messaggio ufficiale ha ribadito che "il solo criminale nucleare del mondo e cioè gli Usa afferma falsamente di essere impegnato a combattere la proliferazione di armi nucleari, ma non ha intrapreso nè intraprenderà mai alcuna serie azione in questo senso". Tesi e temi scottanti che spingono verso i fronti della nuova guerra fredda.
Dal canto suo il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha proposto, oltre a una "revisione equa" del Tnp, la creazione di "un organo internazionale indipendente sotto l'egida dell'Onu" che disponga di "pieni poteri per pianificare e supervisionare il disarmo e la non proliferazione nucleare". Inoltre, ha chiesto che "tutti gli Stati che sono dotati dell'arma nucleare, che l'hanno utilizzata o che hanno minacciato di utilizzarla" siano "sospesi dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea)". Un chiaro riferimento alla nuova dottrina in materia di nucleare approvata recentemente da Obama, che non esclude l'uso da parte degli Usa di armi atomiche contro l'Iran (e la Corea del Nord).
Nel vertice di Teheran - e sempre nel quadro di un pericoloso precipitare degli eventi - si è insistito soprattutto sulla piena attuazione del Trattato di non proliferazione che, ha spiegato il ministro degli Esteri iraniano, Manucher Mottaki, "fu costituito sulla base di tre principi fondamentali: il disarmo nucleare, la non-proliferazione delle armi nucleari e l'uso pacifico dell'energia nucleare". Tuttavia - ha sottolineato Mottaki - alcuni stati nucleari "non hanno onorato" gli impegni in materia di non proliferazione, poichè "hanno fornito assistenza a Stati non del Tnp in particolare Israele a acquisire armi nucleari o sviluppare ulteriormente tali ordigni disumani".
Dello stesso avviso anche Kazem Jalali, portavoce della Commissione parlamentare per la Sicurezza Nazionale e Politica Estera, secondo cui alla prossima Conferenza di revisione del Tnp, in programma a maggio a New York, saranno presenti due fronti: "Il primo, guidato dagli Stati Uniti, mira a limitare il numero dei Paesi che intendono accedere alla tecnologia nucleare per usi pacifici, mentre il secondo fronte è costituito da Paesi non nucleari, che chiedono il disarmo in tutto il mondo".
Si è, di nuovo, al punto di partenza in un crescendo di tensioni. Perchè alla minaccia di nuove sanzioni Teheran risponde dando il via libera a dieci nuovi "siti" dove verranno realizzati impianti per l'arricchimento dell'uranio. E si sa che, attualmente, la Repubblica Islamica arricchisce il suo uranio presso l'impianto di Natanz senza rispettare gli "avvertimenti" del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. E allora: nubi nere sul futuro? Forse c'è anche qualche timida schiarita. Perchè il ministro degli Esteri iraniano Mottaki ha dichiarato di voler discutere con tutti i membri del Consiglio eccetto che con gli Usa. Da Washington per ora, non ci sono risposte. I tempi si allungano e la tensione resta alta.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Poco prima di Pasqua, il ministero dell'Economia tedesco ha pubblicato il rapporto annuale 2008 sulle esportazioni di materiale bellico della Germania. Una comunicazione poco vistosa, diffusa quasi in sordina proprio mentre il Bundestag, il Parlamento tedesco, era in ferie e, soprattutto, fatta in grande ritardo. Il comunicato descrive in maniera particolareggiata le autorizzazioni e le licenze concesse dal Governo Merkel per l'export delle armi da guerra e degli armamenti nell'ormai lontano 2008: nonostante il ritardo, non ha mancato di destare l'attenzione dell'ala più critica dell'opinione pubblica tedesca. La relazione ufficiale è stata diffusa in questi giorni dal BITS, il Centro Informazioni per la Sicurezza Transatlantica di Berlino. A Otfried Nassauer, direttore del Centro, il compito di commentarne il contenuto nell'edizione odierna del quotidiano berlinese Tagesspiegel.
Nel 2008 il Governo tedesco ha autorizzato l'esportazione di materiale bellico per un totale di 5,8 miliardi di Euro, superando il valore dell'anno precedente di oltre 2 miliardi di Euro. I dati parlano chiaro: per quel che riguarda l'export di armamenti, tra cui radar e satelliti, camion, trasporto truppe e logistica a terra, la Germania ha aumentato il suo volume d'affari virtuale del 57,6 per cento nel giro di un anno. Secondo quanto riporta il quotidiano berlinese Tagesspiegel, si tratterebbe della cifra più alta raggiunta negli ultimi 13 anni. Forse, aggiunge Nassauer, addirittura dell'intera storia della Repubblica federale.
I dati contenuti nel comunicato ufficiale permettono anche un'analisi più approfondita del fenomeno. Le autorizzazioni per l'esportazione di materiale bellico sono aumentate soprattutto per quel che riguarda le armi da guerra leggere nel senso più banale e crudele del termine, quell armi che possono essere trasportate facilmente da una persona singola o da un gruppo di persone, come mitra, lanciagranate, munizioni o mine antiuomo.
Dai 464 milioni di Euro previsti nel 2007, la Germania è passata ad autorizzare un'esportazione di 2,62 miliardi nel 2008. Altro particolare interessante, dal comunicato emerge che il 95 percento delle autorizzazioni sono state concesse a stati "terzi", non appartenenti né alla Nato né alla Comunità Europea.
Ciò che non viene affrontato in maniera chiara, invece, è il volume effettivo degli affari conclusi dallo Stato tedesco nell'ambito dell'export dell'equipaggiamento bellico in generale. E cioè quante sono le transazioni concretamente portate a termine indipendentemente dal valore delle autorizzazioni concesse dal Governo. Da questo punto di vista, secondo Nassauer, le informazioni vengono fatte passare con il contagocce e arrivano, spesso, troppo tardi. Come a voler evitare un confronto diretto con l'opinione pubblica.
Nel rapporto 2008, l'unico dato reso noto a questo riguardo è il valore delle armi da guerra, quelle finalizzate all'uccisione, effettivamente vendute dalla Germania. Secondo quanto riporta Nassauer, nel 2008 l'esportazione concreta di queste ultime - indipendentemente dalle licenze concesse - è diminuita leggermente, da 1,5 a 1,4 miliardi di Euro. Ma Nassauer non si lascia illudere: "Molte delle autorizzazioni alla vendita rlasciate dal Governo tedesco nel 2008 sono state probabilmente utilizzate per operazioni vere e proprie conclusesi soltanto nel 2009", sottolinea il direttore del BITS. Con ogni probabilità, stando ai ritmi attuali, per conoscere i dati relativi all'anno 2009 si dovrà aspettare il 2011.
Tra le esportazioni autorizzate nel 2008, tra l'altro, vengono segnalate anche alcune vendite "problematiche". Come le licenze per gli export verso l'Arabia Saudita, con cui sono state concesse autorizzazioni per un valore complessivo di 55 milioni di Euro, per la maggior parte investiti nell'acquisto di fucili d'assalto Heckler & Koch G36. Il Pakistan, invece, ha ottenuto permessi per una somma complessiva di 93 milioni di Euro, mentre alla Thailandia è stato venduto un simulatore di sommergibile: a quanto sembra, quest'ultima starebbe pianificando la costruzione di una flotta di sommergibili.
E sono proprio i sommergibili e i carri armati a essere tra i beni prodotti dall'industria bellica tedesca che riscuotono maggiore successo all'estero. A marzo, il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) ha pubblicato la classifica dei Paesi considerati i maggiori esposrtatori di materiale bellico del 2009: dopo gli Stati Uniti e la Russia, la Germania si ritrova al terzo posto. Un podio di scarso onore.
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di Eugenio Roscini Vitali
Aprendo il fuoco contro un aereo che sorvolava i cieli della città yemenita di Sa’ada, i ribelli sciiti Houthi hanno rotto la tregua sottoscritta con il governo centrale lo scorso 12 febbraio. L’episodio è certamente una delle più gravi violazioni fino ad oggi registrate e mina un cessate il fuoco che avrebbe dovuto porre definitivamente fine alla guerra civile nel nord. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Reuters, il velivolo su cui viaggiavano alcuni funzionari governativi e militari non sarebbe stato colpito.
Questo episodio rappresenta comunque un segnale evidente di come la pace concordata a febbraio non accontenti nessuno: non soddisfa i ribelli sciiti che, appoggiati da Teheran, puntano a ristabilire nel nord l’imamato zaydita rovesciato il 27 settembre 1962 dal golpe organizzato da un gruppo di nazionalisti legati al presidente della RAU, Gamal Abdel Nasser. E non soddisfa il governo, già alle prese con un’immagine minata dall’instabilità del aree controllate dalle cellule terroristiche legate ad al-Qaeda.
Tanto meno soddisfa l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, preoccupati per l’unità stessa del Paese e per l’esistenza di un movimento secessionista che nel sud controlla l’antica città portuale di Aden, la capitale commerciale dello Yemen che si affaccia su un tratto di mare dove passa gran parte del greggio diretto verso occidente. Ma soprattutto non soddisfa le vittime di questo conflitto, centinaia di migliaia di profughi che da anni fuggono alla ricerca un posto sicuro nei pochi ed affollati campi profughi messi a disposizione dalle organizzazioni umanitarie internazionali.
Aderendo alla tregua del 12 febbraio scorso, il governo del presidente Ali Abdullah Salehe e i ribelli Houthi guidati da Abdel-Malek al-Houthi avevano messo fine alla sesta fase di una guerra iniziata nel giugno 2004 con l’insurrezione del Sa’ada, la regione nord occidentale al confine con le province arabe di Asir, Jazan e Najran. In sei anni, il conflitto, che in questa occasione ha visto il coinvolgimento diretto delle truppe e dell’aviazione Saudita, ha causato la morte di circa 8.000 persone tra civili e soldati ed ha costretto alla fuga più di 250.000 civili; una guerra interrotta da sei tregue più o meno traballanti e caratterizzata dalla cronica assenza di volontà nel voler rendere giustizia alla vittime e far luce sulle numerose violazioni contro le leggi di guerra perpetrate da entrambe le parti.
L’ultima fase di questa guerra a “puntate” (la precedente si era conclusa nel luglio 2008) è iniziata l’11 agosto 2009 con l’operazione “Terra bruciata”, un massiccio attacco portato contro le postazione della guerriglia Houthi dalle truppe del Generale Ahmed al-Ashwal, Capo di Stato maggiore dell’esercito yemenita. Con un centinaio di morti ed un numero imprecisato di feriti, i colpi dell’artiglieria e le bombe sganciate dai Mig-29 Fulcrum hanno messo subito a dura prova la popolazione shiita: decine di villaggi distrutti e migliaia di persone costrette a fuggire verso i campi profughi di Mandaba, nel distretto di Baqim, o verso quelli più a sud di Al-Muzruq, Al-Matama, Khaiwan, Hajja Haradh, Al-Mandhaba, o verso le tendopoli sorte ad Al-Boqe’e, alle porte di Sa’ada.
Una situazione allarmante che si è aggravata a novembre, quando l’Arabia Saudita ha annunciato il blocco di parte della costa yemenita ed è poi entrata in guerra dando aperto sostegno all’operazione intrapresa dal governo yemenita: con l’intento di creare una “buffer zone” di 10 chilometri, i Tornado IDS della Royal Saudi Air Force hanno attaccato le zona di confine ed hanno colpito i distretti di Saqayn, Majz, Haydan, Sahar, Razih, Shada, Ghamr, Al-Dhahir e Harf Sufyan.
Nel dicembre scorso l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), precisava che pur non essendo possibile verificare il numero esatto delle vittime degli ultimi mesi, dal 2004 i civili che avevano perso la vita a causa del conflitto erano circa 1.750, gli sfollati 175.000 e almeno 800.000 le persone coinvolte negli scontri. Due mesi dopo le agenzie internazionali dichiaravano di poter assistere solo una parte dei 265 mila yemeniti che erano riusciti a sfuggire ai bombardamenti e alle angherie della guerriglia, sfollati che per la seconda o terza volta erano partiti alla disperata ricerca della protezione dell’Onu.
A differenza delle altre fasi, questa volta il conflitto ha catalizzato però l’attenzione dei media, soprattutto per l’intervento saudita a sostegno degli interessi Usa nella Penisola Araba e per l’appoggio iraniano ai ribelli Houthi. E’ stato così possibile amplificare le numerose denuncie delle organizzazioni umanitarie e delle stesse Nazioni Unite e venire a conoscenza della difficoltà in cui si trovava un popolo già provato dalle difficoltà di una vita estremamente dura. Numerosi i casi di violazione delle leggi di guerra, atti denunciati in un report pubblicato da Human Rigth Watch, dove si parla dei gravissimi danni causati dai bombardamenti compiuti in aree densamente abitate e dalle operazioni militari eseguite senza che la popolazione civile avesse avuto modo di evacuare le zone interessate.
Nel rapporto vengono anche elencate le numerose violenze consumate dai ribelli che, oltre ad aver impedito il ricovero dei feriti, avrebbero compiuto esecuzioni sommarie ed arruolato ragazzi non ancora diciottenni. Tutte azioni per le quali i guerriglieri Houthi erano già stati accusati e che lo stesso Abdel-Malek al-Houthi aveva negato con una lettera inviata il 22 giugno 2009 a Human Rights Watch.
Dalla metà di febbraio le Nazioni Unite riescono ad aiutare il 17% dei profughi, 45.000 civili ospitati in sette grandi tendopoli e nove insediamenti minori. I rimanenti 218.000 esuli sarebbero invece abbandonati a se stessi, ammassati all’aperto o in sistemazioni di fortuna costruite nei pressi dei centri d’accoglienza dove, a causa dell’ostruzionismo delle autorità e della limitata rete messa in piedi dall’organizzazione internazionale, non riceverebbero un’assistenza adeguata. Ci sono poi i civili che, a causa dei bombardamenti e delle recenti operazioni militari, sono stati costretti ad attraversare il confine settentrionale e che ora vengono scortati dalle forze di sicurezza saudite fino alla frontiera ed “invitati”, in violazione alle leggi internazionali, a rientrare nel loro Paese. Uno scenario drammatico, aggravato dalla presenza di migliaia di somali ed eritrei fuggiti dal Corno d’Africa e da un costante stato di tensione che potrebbe alimentare nuovi focolai di violenza e portare far crescere il numero di vittime indirette a diverse decine di migliaia.