di Carlo Benedetti

MOSCA. Mentre dalla Casa Bianca si registra l'assordante silenzio ufficiale di Obama, sicuramente preoccupato per l'intervento dei russi nella vita economica (e politica) del continente sudamericano, il Cremlino incassa i successi della "Operazione Venezuela" avviata e portata a termine  nei giorni scorsi dal premier Vladimir Putin con la piena collaborazione del leader venezuelano Hugo Chavez.

In termini concreti tutto questo per Caracas e Mosca significa una lunga lista di accordi di cooperazione: 31 in tutto, fra il settore industriale, l’agricoltura, l’energia, la sicurezza e la difesa. Ma l’intesa più importante riguarda la creazione di una nuova compagnia mista petrolifera: il 60% nelle mani del Venezuela (della statale Pdvsa) e il 40% di proprietà russa.

Mosca parteciperà con un mega-consorzio formato da Gazprom, Lukoil, Surgutneftgaz, Rosneft e Tnk-Bp. Il Venezuela, per rendere più interessanti gli accordi futuri, ha offerto il Blocco Junin 6, un giacimento del bacino dell’Orinoco che prevede una produzione di 450.000 barili giornalieri di greggio nell’arco di cinque anni. Per esplorare la zona ed estrarre il petrolio serviranno enormi investimenti: circa 20 miliardi di dollari. Ma Putin non si è lasciato impressionare e ha già consegnato i primi 600 milioni di dollari per Pdvsa.

La posta in gioco, per Mosca, assume infatti una valenza epocale. Perché per i due paesi l'oro  nero non basta più. E così si parla di un piano avveniristico di sviluppo dell'industria nucleare con fini pacifici. Di fatto una vera "bomba atomica" per l'economia dell'era post-petrolifera. Hugo Chavez - parlando con Putin nell'arco di 12 ore che hanno sconvolto il sudamerica - ha puntato tutto su questo aspetto energetico teso a sviluppare nel suo paese una centrale nucleare di altissimo livello. Ma le prospettive sono ancora più ambiziose. Perché il presidente venezuelano ha accennato anche all’ipotesi di una collaborazione con Mosca nel campo dell’industria spaziale.

C'è di più. Chavez e Putin - che hanno potuto contare a Caracas anche sulla presenza del loro omologo boliviano, Evo Morales, intervenuto appositamente per intavolare anch’egli proficue relazioni con Mosca - non si sono fatti sfuggire l'occasione ed  hanno proceduto a grandi passi verso la firma di accordi in campo finanziario, nell’agricoltura, nell’industria aerospaziale e nell’energia. Affrontando, in questo contesto, il tema della realizzazione della banca binazionale tra Russia e Venezuela. L’occasione del vertice a tre è stata sfruttata (anche in chiave prettamente propagandistica e promozionale) per la consegna degli ultimi 4 elicotteri Mi-17, dei 38 venduti da Mosca a Caracas nel 2006. E nel “pacchetto-Difesa” c'è anche un accordo per 92 tank russi T-72 e lanciamissili Smerch ed è questa solo la punta di un complesso iceberg di relazioni.

Ed ora nella prospettiva di politica estera del Cremlino c'è anche una nuova appendice. Perché oltre al Venezuela entra in campo la Bolivia, dal momento che Evo Morales ha sottoscritto con Mosca mutui accordi in materia di energia, finanza e difesa. Ha probabilmente discusso di un prestito russo di 100 milioni di dollari destinato alle forze armate boliviane e gettato le basi per una missione tecnica del Gazprom in Bolivia, al fine esplorarne le riserve di gas e petrolio.

Intanto Washington continua a seguire con un certo silenzio. Obama non vuole rompere con la Russia di Putin e Medvedev, ma nello stesso tempo alza alcuni paletti. Lo rivela il quotidiano brasiliano O Estado de São Paulo, che rivela l'avvio di contatti “di alto livello” tra il governo di Brasilia e quello di Washington diretti alla firma di un negoziato per la creazione di una base militare congiunta a Rio de Janeiro. La base sarà parte di un triangolo tra Stati Uniti, Portogallo e Brasile, coprirà la zona dell’Atlantico del sud e servirà, ufficialmente, per la cooperazione multinazionale “contro il traffico di droga e il terrorismo”.

Il canovaccio è sempre lo stesso: la lotta al narcotraffico usata come paravento per coprire le mosse strategiche statunitensi mirate al controllo dell’America Latina. E così anche Obama si allinea alle tradizionali politiche della Cia e del Pentagono. Tattica "sottile" per il momento. Ed è chiaro che Obama non sarà disposto a rivedere la linea tradizionale del suo paese che ha sempre considerato il sudamerica come un cortile di casa. La preoccupazione futura per Washington consiste appunto nel fatto che, dopo l’alleanza strategica con Teheran, Chavez sta rafforzando i legami con Mosca. E si sa che i rapporti internazionali del governo venezuelano spaziano dall’Iran alla Russia, dalla Bielorussia al Vietnam, passando per la Cina: lo dimostrano i frequenti viaggi del presidente in varie capitali praticamente lontane dalla politica americana. E si sa - ad esempio - che Chavez ha sempre difeso il “diritto” di Teheran di sviluppare la sua energia nucleare, convinto che gli scopi del governo di Mahmoud Ahmadinejad siano solo pacifici.

Le intense relazioni politiche ed economiche fra i due Paesi sono state consolidate in decine di accordi. Teheran e Caracas collaborano ormai nei settori più differenti, dal campo finanziario all’industria. Compagnie miste venezuelano-iraniane fabbricano mattoni, producono latte e lanciano sul mercato auto e biciclette. I due paesi - membri Opec - cooperano anche nel settore energetico petrolifero. Da qualche anno Caracas-Teheran è diventata anche una rotta aerea (con scalo a Damasco): ulteriore prova del grande interesse reciproco.

Un’amicizia che ha acceso i campanelli d’allarme in Israele. Secondo un rapporto segreto del ministero degli Esteri di Tel Aviv, il Venezuela e la Bolivia potrebbero vendere uranio a Teheran per il suo programma nucleare: i due Paesi sudamericani hanno smentito. Nel frattempo l’avvicinamento della Russia al Venezuela ha spinto alcuni analisti a parlare di nuovi venti di Guerra fredda. D’altra parte, lo stazionamento della IV Flotta Usa al largo del mar dei Caraibi e gli accordi militari con Bogotà in chiara funzione di minaccia al Venezuela (sette basi militari Usa in territorio colombiano di cui ubicazione, numero di addetti, equipaggiamenti e finalità sono coperti dal segreto di Stato) hanno già alterato in profondità gli equilibri militari del continente e suscitato le ferme proteste di Brasilia e Buenos Aires, oltre che di Caracas e La Paz.

Su tutta questa vicenda di politica diplomatica e di realpolitik - che va dall'economia all'industria militare - Chavez interviene con una affermazione perentoria: "Non stiamo costruendo - dice - nessuna alleanza contro gli Stati Uniti". Ma l'orizzonte che si delinea è quello di una "guerra silenziosa", che potrebbe portare a quegli sbocchi tradizionali che gli Usa hanno sperimentato più volte.

 

di Michele Paris

Nelle primarie repubblicane del Maryland per un seggio alla Camera dei Rappresentanti americana, il prossimo 14 settembre, potrebbe trovare spazio un candidato del tutto particolare. Il suo nome è Murray Hill e pur vantando alcune qualità indiscusse, almeno a detta dei responsabili della sua campagna elettorale, prima di vedere stampato il proprio nome sulle schede elettorali dovrà superare più di un ostacolo di natura legale. Questo perché il candidato alle primarie non è una persona, ma un’azienda. La Murray Hill Inc. - questo il suo nome completo - è una piccola compagnia di pubbliche relazioni che potrebbe approfittare di una recente fondamentale sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti per correre direttamente per il Congresso.

La provocazione della compagnia fondata nel 2005 a Silver Spring, nel Maryland, fa riferimento alla discussa sentenza “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale”, con la quale il tribunale costituzionale americano lo scorso mese di gennaio ha cancellato i limiti di spesa consentiti per le corporation a beneficio o contro un qualsiasi candidato in una qualsiasi elezione. La libertà di espressione garantita dal Primo Emendamento della Costituzione è stata in questo modo estesa anche alle corporation, equiparandole di fatto alle persone fisiche sul piano dei diritti politici. Da qui la decisione da parte della Murray Hill di portare la tesi dei giudici della Corte Suprema alle sue estreme conseguenze: partecipare ad una competizione per una carica elettiva.

La compagnia del Maryland ha da tempo creato un sito web che promuove la propria candidatura (http://murrayhillweb.com/new_day/index.html), mentre la relativa pagina di Facebook conta a tutt’oggi più di dieci mila fans. Uno video su YouTube fa il verso agli spot elettorali dei politici americani, spiegando le ragioni della necessità di ricorrere ad una rappresentanza diretta al Congresso per le aziende private. La voce narrante lamenta che “per quanto le corporation abbiano contribuito a fare eleggere i politici”, non esiste la certezza assoluta che questi ultimi si occupino dei loro interessi.

Nel comunicato stampa che aveva accompagnato l’annuncio di voler prendere parte alle primarie, il responsabile della campagna elettorale della compagnia di PR aveva inoltre sostenuto che “finora, le corporation dovevano fare affidamento su contributi elettorali per promuovere i propri interessi a Washington”. Ora, invece, grazie ad una “illuminata sentenza della Corte Suprema, sarà possibile fare a meno degli intermediari e correre direttamente per una carica politica”. La Murray Hill, inoltre, appare con ogni probabilità come il primo candidato della storia americana a fare una campagna elettorale che colloca l’interesse dei cittadini non più al primo posto, ma “al secondo o addirittura al terzo”.

Pur definendosi un’azienda “progressista” - dal sito ufficiale si evince che molti dei sui clienti risultano essere sindacati e associazioni ambientaliste - la Murray Hill intende partecipare alle primarie repubblicane per l’ottavo distretto del Maryland, attualmente occupato alla Camera dal democratico Chris Van Hollen. Il Partito Repubblicano, infatti, sembra essere decisamente più “ricettivo all’idea che cittadini e corporation siano equiparati sul piano della libertà di espressione”. Per il deputato in carica Van Hollen, questa competizione per il suo seggio al Congresso è benvenuta, dal momento che per prima è stata “la maggioranza della Corte Suprema a prendersi gioco delle nostre leggi sui finanziamenti elettorali”.

Il percorso che attende la Murray Hill, tuttavia, appare tutto in salita. Tanto per cominciare, per potersi presentare alle primarie repubblicane nel Maryland è necessario essere registrati come elettori del Partito Repubblicano. La richiesta di registrazione della compagnia è stata però rifiutata con la motivazione che una corporation che si autodefinisce “persona fisica” non possiede i requisiti necessari per mandare la pratica a buon fine. In attesa dell’appello che è già stato presentato lo scorso 24 marzo, l’alternativa da perseguire potrebbe essere quella di correre direttamente nelle elezioni vere e proprie di novembre come candidato indipendente, status per il quale non è necessaria alcuna registrazione ma solo 4.500 firme da raccogliere nel distretto di competenza.

Anche in questo caso, però, persiste almeno un altro ostacolo di natura costituzionale. I candidati per il Congresso, cioè, devono avere almeno 25 anni, mentre la “data di nascita” dell’azienda-candidato risale a solo cinque anni fa. La Costituzione peraltro non stabilisce esplicitamente che i membri della Camera dei Rappresentanti debbano essere persone fisiche. Da qui una possibile scappatoia: i requisiti richiesti per entrare al Congresso non si applicherebbero ad una azienda. In attesa di nuovi sviluppi, gli azionisti della Murray Hill hanno nominato il presidente della compagnia, Eric Hensal, come “persona fisica” incaricata di sbrigare le pratiche elettorali e di presentarsi ai dibattiti in vece del candidato.

Intanto, la promessa di contribuire a creare il “migliore sistema democratico che il denaro possa acquistare” ha già fatto presa. La compagnia di IT Computer Umbrella di Sterling, in Virginia, ha annunciato di voler presentare la propria candidatura per il Congresso nel decimo distretto elettorale di questo stato. Per le aziende che intendono seguire le sue orme, la Murray Hill pare abbia addirittura predisposto un kit elettorale che comprende comunicati stampa e argomenti di discussione preconfezionati, nonché del materiale propagandistico da distribuire ai volontari.

Al di là della provocazione e delle scarse possibilità di mandare in porto una candidatura di questo genere, l’iniziativa della compagnia di PR del Maryland - come ha evidenziato anche l’Economist nell’occuparsi della vicenda - solleva in maniera del tutto singolare il problema del ruolo ricoperto dai grandi interessi economici nella politica (americana e non solo) e del futuro stesso della democrazia. Una situazione tutt’altro che rassicurante dopo che la stessa Corte Suprema degli Stati Uniti ha ratificato solennemente un’espansione senza precedenti dell’influenza delle grandi corporation private su un sistema che dovrebbe rappresentare un modello per tutto l’Occidente democratico.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Per la Russia e per l'intero Caucaso non è più una guerra "cecena" limitata alla lotta indipendentista di Grozny. Dopo i due sanguinosi attentati alla metropolitana moscovita si è ad una ulteriore e tragica escalation. Perché, con la nuova strage in Daghestan, c'è un salto di qualità che coinvolge regioni di un'area a forte presenza islamica - dalla Cecenia, appunto, all'Inguscetia e sino al Daghestan. Qui gruppi politici e militari che si oppongono alla Russia puntano a costituire una nuova formazione statale: l'Emirato del Caucaso. La storia torna indietro e si torna a parlare - con una riflessione sul passato - di califfi e capi religiosi. E subito spunta un nuovo capo carismatico con il quale la Russia di Putin e Medvedev dovrà fare i conti trattando o combattendo.

L'uomo era in sonno da tempo. Si chiama Doku Umarov, 46 anni, e si proclama "Emiro del Caucaso". Ai suo ordini c'è un vero e proprio esercito di kamikaze ed estremisti di ogni genere. Islamici fondamentalisti che fanno capo a vari paesi, anche fuori della Russia. L'obiettivo di questo nuovo nemico del Cremlino consiste nell'esportare la guerra e la guerriglia nel cuore della Russia ed ovunque si manifesti la repressione delle forze agli ordini del Cremlino.

E così gli uomini dell'intelligence tornano a rileggere quelle pagine della biografia di questo "Emiro" che erano state tenute nascoste agli occhi dell'opinione pubblica. Si scopre ora che Doku Umarov combatteva a Grozny e dintorni sin dalla “prima” guerra russo-cecena della metà anni Novanta. E si ricorda che si era sempre vantato di aver progressivamente destabilizzato l'area Nord-caucasica, con il Daghestan e l'Inguscezia, creando nuovi epicentri di violenza. La sua posizione era rimasta poi fortemente indebolita in seguito alla relativa pacificazione della Cecenia dovuta al pugno duro del presidente quisling Ramzan Kadyrov, messo in sella a Grozny da Vladimir Putin.

La storia di Doku Umarov - che oggi a Mosca definiscono come il Bin Laden del Caucaso - si riallaccia alle vicende del noto Shamil Basayev. E fu appunto accanto al leggendario guerrigliero che il nuovo Emiro combattè prima nel nome dell'indipendenza cecena e poi della fede islamica. Ed è sempre sulla scia dell'alleanza con Basayev che nel 2006 venne nominato presidente della Repubblica di Ichkeria (la Cecenia degli indipendentisti). Ma, nel giro di un anno, arrivò alla rottura con la leadership separatista, proprio perchè passato a propagandare il concetto di Emirato caucasico, con una Cecenia destinata a divenire solo una provincia, alla pari con le altre repubbliche del Caucaso russo.

Così nell'ottobre 2007 si consuma la separazione politica e il parlamento ceceno secessionista, in esilio, revoca la presidenza ad Umarov, che da allora costruisce le sue alleanza tra le file dell'estremismo più radicale. Suoi compagni di lotta diventano ad esempio Anzor Estemirov (considerato il responsabile di un attacco del 2005 con oltre 100 morti nel Caucaso settentrionale) e Said Buryatski, un altro capo della guerriglia islamista ritenuto tra l'altro l'autore dell'attentato al treno Nevski Express lo scorso novembre (28 morti). Entrambi sono stati di recente uccisi e gli attentati di questi giorni sarebbero, appunto, la vendetta di Umarov per la loro morte.

Ed ora eccolo sulla scena russa e mondiale questo "Emiro" che parla a suon di bombe, di attentati  e raffiche di kalascnikov. Rivendica con orgoglio i crimini dei giorni scorsi. Dice: "Come tutti sapete il 29 marzo a Mosca sono state condotte due operazioni speciali per distruggere gli infedeli e inviare un ringraziamento al Fsb (il Servizio di sicurezza federale russo, nato dal vecchio Kgb). Tutte queste operazioni sono state condotte dietro mio comando e non saranno le ultime". Umarov definisce poi gli attentati una vendetta per le stragi e le violenze dell'esercito russo in Cecenia e Inguscezia, in particolare quelle compiute l'11 febbraio scorso nel villaggio ceceno di  Arshty. Dove, secondo Umarov, le forze speciali russe avrebbero deliberatamente giustiziato dei civili inermi.

Poi, dalla terminologia prettamente militare, l'Emiro passa alle rivendicazioni di ordine politico e territoriale. Parla di un Caucaso da riunire sotto un emirato generale con la creazione di uno "Stato indipendente" basato sulla "legge islamica". E in questo contesto alza anche il tiro sulla propaganda mediatica. Dice che i russi "non vedranno più la guerra comodamente seduti davanti al televisore, senza reagire agli eccessi criminali delle forze armate inviate nel Caucaso da Putin".

E mentre la Russia aumenta i contingenti militari nel Caucaso e le truppe speciali pattugliamo Mosca Doku Umarov annuncia di avere dalla sua parte validi collaboratori che vanno a sostituire quei "comandanti leggendari" come Anzor Estemirov e Said Buryatski. Ed è nel loro nome che l'Emiro di oggi combatte la nuova guerra. Per ora - nel cuore di una capitale russa sconvolta dalle tragedie dei giorni scorsi e dominata da profondi e preoccupanti gridi di allarme - il "Bin Laden" russo domina i programmi televisivi. Eccolo sullo schermo ripreso con tuta mimetica e un volto sepolto da una folta barba. Si parla anche della sua famiglia: sei figli e due fratelli uccisi dalle truppe russe.

Ma dallo schermo tv arrivano anche le notizie del Cremlino. Con il presidente Medvedev che convoca il Consiglio di sicurezza per affrontare la problematica del terrorismo. Medvedev esordisce dicendo che gli atti terroristici di Mosca e di Kisljar sono anelli della stessa catena e aspetti di un unico fenomeno contro cui la lotta non conoscerà tregua. Alla riunione del vertice russo ci sono anche il premier Putin, i presidenti dei due rami del parlamento, il segretario del Consiglio di sicurezza Patruscev, il direttore del Servizio Federale di sicurezza, i ministri degli Interni e della Difesa, il responsabile della Protezione civile.

Medvedev dice che i terroristi puntano a destabilizzare la situazione e a minare la società civile. In questo contesto chiede  di analizzare la pratica giudiziaria e gli articoli del codice penale riguardanti il terrorismo e di potenziare le misure di prevenzione. Dovrà essere migliorata - dice - l’attività di difesa delle infrastrutture, prima di tutto dei trasporti e dei luoghi di grande assembramento popolare. A questo proposito annuncia di aver firmato un apposito decreto. Ma poi aggiunge che il terrorismo non potrà essere estirpato soltanto con i mezzi tecnici. Prima di tutto - sostiene - sarà necessario garantire alle popolazioni del Caucaso migliori condizioni di vita.

Il problema comunque (è questa la sintesi del vertice del Cremlino) consiste nel fatto che bisogna sempre ricordare che oggi non si lotta contro una religione o una cultura, o una nazionalità. Si lotta e si deve lottare. appunto, per migliorare le condizioni di vita dei caucasici.

 

di Michele Paris

Due giorni dopo la pubblicazione del consueto rapporto annuale sulla condizione dei diritti umani nel mondo, da parte del Dipartimento di Stato americano, alla metà di marzo il governo cinese ha risposto con un proprio studio sullo stesso argomento, relativo però agli Stati Uniti. Il “Human Rights Record of the United States in 2009” dell’Ufficio Informazioni presso il Consiglio di Stato cinese, fornisce uno sguardo decisamente alternativo, e scrupolosamente documentato, sulla situazione domestica della prima potenza planetaria e sugli effetti della sua politica estera. Quello che ne emerge è un quadro a tratti agghiacciante di un paese ed una società in profonda crisi, la cui propaganda ufficiale vorrebbe rappresentare invece come un modello di democrazia per l’intero pianeta.

Il dipartimento cinese responsabile della stesura del rapporto fa giustamente notare come Washington utilizzi, “anno dopo anno, il proprio studio per lanciare accuse ad altri paesi, trattando la questione dei diritti umani come uno strumento politico per interferire negli affari interni di governi sovrani, screditandone l’immagine e promuovendo così i propri interessi strategici”. Un atteggiamento strumentale, insomma, che rivela il “doppio standard” adottato dagli USA sul delicatissimo tema dei diritti umani.

Il rapporto sugli Stati Uniti, che ovviamente non può occultare le responsabilità della Cina (tra l’altro indicata proprio ieri da Amnesty International come il paese che nel 2009 ha eseguito il maggior numero di condanne a morte nel pianeta ) si compone di 14 pagine di dati provenienti interamente da fonti governative e dai media americani. La rappresentazione dello stato di salute della democrazia statunitense è analizzato attraverso una suddivisione in sei sezioni: vita, proprietà e sicurezza personale; diritti civili e politici; diritti economici, sociali e culturali; discriminazione razziale; diritti di donne e bambini; violazione dei diritti umani di altre nazioni.

Per cominciare, i crimini violenti negli USA risultano estremamente diffusi, così come è molto dura la conseguente repressione delle forze di polizia. Ogni anno sono circa 30 mila le vittime accertate di episodi di violenza con armi da fuoco, impiegate nel 67% degli omicidi totali (14.180 nel 2008, di cui la gran parte avvenuti nei quartieri più poveri delle città americane) e nel 43,5% delle rapine. Sempre nel 2008, sono stati quasi cinque milioni i crimini violenti denunciati nel paese e 16,3 milioni quelli contro la proprietà. Gli americani sotto la custodia del sistema detentivo sono poi 7,3 milioni, vale a dire il numero più elevato rispetto a qualsiasi altro paese. Nelle carceri americane, solo lo scorso anno sono stati documentati 60 mila episodi di violenza sessuale ai danni di detenuti.

L’alto tasso di violenza nel paese è dovuto anche al fatto che negli Stati Uniti circola in assoluto il maggior numero di armi da fuoco. Secondo i dati governativi, sarebbero 250 milioni le armi possedute dai cittadini, a fronte di una popolazione di poco più di 300 milioni di abitanti. Più di 9 miliardi sono invece le munizioni acquistate nel 2008. Sempre più colpiti da fatti di sangue legati all’uso di armi sono i campus universitari e le scuole in genere. Nella sola capitale, tra il 2007 e il 2008 la polizia ha effettuato 900 interventi per incidenti violenti avvenuti nelle strutture del sistema scolastico pubblico.

Pesanti sono anche le carenze nell’ambito dei diritti civili e democratici. Lo dimostra, tra l’altro, il pervasivo sistema di sorveglianza attivato dagli organi governativi dediti alla sicurezza nazionale grazie al Patriot Act, approvato nel 2001 dopo gli attacchi dell’11 settembre. Conversazioni telefoniche, e-mail, traffico internet, dati medici, personali e finanziari possono essere controllati a discrezione delle agenzie di intelligence, così come il semplice sospetto di favoreggiamento verso una qualche presunta rete terroristica consente la detenzione e la deportazione di cittadini stranieri. Singolarmente, fa notare il rapporto cinese, quelle stesse violazioni di altri paesi che gli USA definiscono abusi dei diritti umani, all’interno dei loro confini, e quando operate dal loro governo, vengono indicate come necessarie misure per il controllo del crimine e per la lotta al terrorismo.

Non particolarmente approfondita, anche se sufficiente a dare un quadro generico della situazione, è l’analisi della crisi sociale ed economica che affligge ampi strati della popolazione americana. Disoccupazione a livelli record (16 milioni i senza lavoro), povertà diffusa (40 milioni vivono al di sotto della soglia ufficiale di povertà), fame, milioni di senza tetto e di cittadini sprovvisti di qualsiasi copertura sanitaria (oltre 46 milioni in attesa della riforma di Obama) disegnano la dura realtà della prima potenza economica mondiale. Secondo i dati del Dipartimento dell’Agricoltura, sono 49 milioni gli americani che non sono in grado di permettersi il cibo necessario per un’adeguata alimentazione.

Altri numeri contribuiscono a rendere più cupo il quadro. Nel 2008 la contea di Los Angeles ha dovuto provvedere alla cremazione di 712 salme a spese dei contribuenti perché i familiari non potevano permettersi il costo di un funerale. Nel 2007 sono state quasi sei mila le morti sul lavoro (quasi 17 al giorno), per le quali tra l’altro non è stata emessa una sola condanna per i datori di lavoro. 2.266 sono stati i veterani deceduti nel 2008 per mancanza di assistenza sanitaria, un numero che supera di ben 14 volte il bilancio totale dei soldati americani caduti in Afghanistan in quello stesso anno.

Ugualmente diffuse, nonostante l’elezione del primo presidente di colore, sono le discriminazioni ai danni delle minoranze etniche (neri, ispanici e nativi americani), evidenziate da più di 32 mila episodi avvenuti sui luoghi di lavoro. Ovviamente in aumento sono anche le discriminazioni nei confronti dei musulmani, mentre ogni anno vengono detenuti 300 mila immigrati “illegali”. Nello stato della California, secondo i dati per il 2008, un imputato di colore ha avuto quasi venti volte in più di probabilità di ricevere un ergastolo rispetto ad uno bianco. I bersagli delle armi in dotazione della polizia di New York, invece, risultano per il 75% persone di colore, per il 22% ispanici e solo per il 3% bianchi. Le disparità riguardano anche le donne, le quali negli USA guadagnano in media il 33% in meno rispetto ai colleghi maschi e per il 70% dispongono di una inadeguata (o nessuna) assicurazione sanitaria, oppure sono gravate da pesanti debiti causati da spese mediche.

Un paese afflitto da un tale livello di indigenza si accolla circa il 42% delle spese militari complessive del pianeta (607 miliardi di dollari). Allo stesso tempo, gli Stati Uniti sono anche il primo esportatore di armi (37,8 miliardi di vendite nel 2008, pari al 50% in più dell’anno precedente). Altre critiche riguardano inoltre le torture ai prigionieri praticate regolarmente a Guantánamo e nelle carceri speciali istituite in Afghanistan e Iraq, ma anche il continuo embargo imposto a Cuba nonostante l’opposizione quasi unanime dell’Assemblea Generale dell’ONU, il sistema di intercettazione delle comunicazioni su scala planetaria operato dalla NSA (ECHELON) e il controllo monopolistico esercitato su Internet.

Per chiudere, spicca l’abituale disprezzo americano degli accordi internazionali, in particolare di quelli che hanno a che fare con i diritti umani e civili. Il rapporto cinese sottolinea quattro importanti trattati promossi dall’ONU e non ancora ratificati da Washington: quelli relativi ai diritti economici, sociali e culturali, delle donne, delle persone disabili e delle popolazioni indigene.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Il Premier turco Ecep Tayyp Erdogan ha proposto l'istituzione di scuole superiori e università in lingua turca su suolo tedesco, ma Angela Merkel, in visita ufficiale ad Ankara proprio in questi giorni, ha respinto categoricamente l'idea. Per la Cancelliera, il rischio è quello di rendere ancora più difficile il processo di integrazione dei turchi in Germania. Un rifiuto, tuttavia, che sembra allontanare ulteriormente la penisola anatolica dal Vecchio Continente, e si va a inserire in una situazione già di per se' molto incerta.

A determinare l’atteggiamento intransigente di Angela Merkel è anche il recente convegno organizzato da Erdogan con i parlamentari stranieri di origine turca, ai quali il primo ministro ha suggerito di non esagerare con l’integrazione e di tutelare gli interessi di Ankara nei Paesi dove vivono. Un convegno che ha ricevuto forti critiche in Germania, dove vivono quasi tre milioni e mezzo di turchi. La Germania ha però scuole tedesche in Turchia.

La questione delle scuole in lingua turca, infatti, non è che un piccolo assaggio dei nodi che la Cancelliera e il premier turco si troveranno ad affrontare. Il piatto forte è l'entrata della Turchia in Europa, una questione tanto delicata quanto attuale. Candidata ufficialmente alla EU dal 1999, la Turchia coltiva da parecchio tempo l'ambizione di diventare Paese "europeo" a tutti gli effetti. Anche gli Stati Uniti, già dai tempi dell'amministrazione di George W. Bush Jr., vedono di buon occhio questo passaggio  e non mancano di fare pressione in questo senso: vicina all'Iraq e agli stati arabi, una Turchia comunitaria garantirebbe un ottimo margine di terra franca per gli interessi degli Stati Uniti in Medio Oriente.

Per l'Europa, tuttavia, la questione turca risulta ancora controversa. A gennaio, in occasione della sua visita ufficiale a Istanbul, il vice cancelliere tedesco, Guido Westerwelle, aveva promesso negoziati bilaterali "fair", dimostrandosi favorevole ad una Turchia tutta europea. Un volume d'affari di oltre 25 miliardi di Euro, così come la presenza di oltre quattromila aziende tedesche su suolo turco, basterebbero, per il vicecancelliere liberale, a dimostrare la stabilità dei rapporti tra i due Paesi e l'ammissibilità del Paese anatolico alla EU. Il partito di Angela Merkel non è della stessa opinione: sì alla Turchia in Europa, ma solo quando adempirà effettivamente ai criteri di ammissione. Per i democratici tedeschi, l'attuale crisi greca non lascia spazio a eventuali errori e insegna una prudenza pignola e intransigente.

Ma la quérelle anatolica va oltre il semplice ambito economico. Un elemento importante di differenziazione tra Berlino e Ankara rimane la posizione della Turchia nei confronti del programma atomico dell'Iran per l'arricchimento dell'uranio: tutto l'Occidente grida alle sanzioni, ma la Turchia - come Russia e Cina - si dimostra apertamente contraria. E, ancora, la questione degli armeni: Erdogan continua a negare il genocidio degli armeni da parte dell'impero Ottomano a inizio secolo.

A questo proposito, il Premier ha rinnovanto la minaccia per i 10mila armeni che vivono illegalmente in Turchia: "Fino a oggi non abbiamo preso in considerazione l'espulsione, ma se la diaspora continua a fare pressione, potremmoo arrivarci". Il suo negazionismo è considerato reato dalla maggior parte degli Stati occidentali. Angela Merkel non mancherà di riflettere anche questi temi, decisamente scottanti.

Dulcis in fundo, la percentuale dei musulmani in Turchia supera il 95 percento della popolazione totale: prima di accettarla nel suo circolo elitario, il Vecchio Continente non può fare a meno di guardarsi allo specchio e chiedersi se è pronto a un tale passo. L’Europa è davvero disposta a metterci in discussione fino a questo punto? Il dato tedesco indicherebbe la cosa come possibile: tre milioni di turchi presenti in Germania, da generazioni, ormai, convivono con i tedeschi. Magari in maniera non sempre idilliaca ma, sicuramente, costruttiva. E nonostante i 25 miliardi di euro che, ogni anno, vengono investiti negli scambi tra Germania e Turchia.


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