di Mario Braconi

Sul Washington Post del 19 gennaio il freelance John Salomon e Carrie Johnson pubblicano un pezzo esplosivo: per diversi anni il Federal Bureau of Investigation ha deliberatamente violato le legge al fine di ottenere tabulati di conversazioni telefoniche cui non avrebbe potuto accedere. Il reportage è irrobustito da decine di documenti resi disponibili da una persona non appartenente all'Agenzia, che ne è entrata in possesso nel corso di un'indagine che verteva proprio sul corretto funzionamento delle procedure di autorizzazione o ratifica delle indagini sul traffico telefonico.

Prima dell'11 settembre, l'FBI poteva ottenere dalla società telefoniche i tabulati telefonici di interesse presentando un mandato del Gran Giurì, oppure, nelle indagini per terrorismo, una "lettera di sicurezza nazionale" (National Security Letter, o NSL). Con l'approvazione del Patriot Act (ottobre 2001), ovviamente, le garanzie dei cittadini si sono affievolite: le richieste potevano essere effettuate anche da funzionari di uffici locali e coprire fattispecie più varie; benché ottenere i tabulati fosse diventato più semplice per gli agenti, una richiesta poteva essere presa in considerazione solo dimostrando che essa era imprescindibile per il buon esito di un'inchiesta per terrorismo già aperta.

Ma ai funzionari FBI questo non piaceva, volevano le mani libere: ed è così che qualcuno di loro ha ideato una nuova fattispecie: "La lettera di autorizzazione per circostanze di improrogabile urgenza". Redigendo questo documento, un funzionario può dichiarare l'esistenza di una situazione di emergenza, guadagnandosi così immediato accesso ai tabulati telefonici, salva l'emissione di una NSL di ratifica a cose fatte: una vera e propria foglia di fico, assai utile a coprire migliaia di richieste discutibili, che peraltro continuavano a rimanere prive delle "lettere di sicurezza nazionale" anche dopo l'acquisizione dei tabulati da parte di FBI.

Nella primavera del 2005, l'agente speciale Bassem Youssef, responsabile dell'ufficio Analisi Comunicazioni, cominciò a ricevere contestazioni dalle compagnie telefoniche che lamentavano la mancanza della documentazione di supporto. Youssef, che l'FBI non considerava un impiegato modello (in passato aveva contestato all'Agenzia una mancata promozione legata alle sue origini etniche), cominciò a smuovere le acque per forzare i suoi superiori gerarchici a sanare una situazione che cominciava a diventare imbarazzante.

A fine dicembre del 2004 un avvocato dell'Ufficio Legale FBI, Patrice Kopitansky, gestì una richiesta che proveniva direttamente dall'allora vice Direttore esecutivo Gary Bald. L'unità Analisi Comunicazioni le chiese di predisporre una lettera di sicurezza nazionale per regolarizzare l'operazione; prima di poter procedere, Kopitansky aveva bisogno di sapere a quale indagine per terrorismo si riferisse la richiesta e per quale ragione quei numeri di telefono si fossero resi necessari. Non solo non si riusciva a capire se l'indagine esistesse veramente, ma un impiegato della Analisi Comunicazioni le scrisse candidamente che "la gran parte delle richieste viene dagli alti livelli gerarchici. Non sempre ricevo la documentazione o so a quali fatti quel determinato numero telefonico è legato, il che mi crea dei problemi quando cerco di ottenere una NSL."

Quindi, se ad esempio, un qualche alto papavero FBI avesse voluto controllare il traffico in entrata ed in uscita dal telefonino della sua amante, non avrebbe avuto difficoltà ad ottenere le informazioni che gli interessavano senza nemmeno disturbarsi a regolarizzare una richiesta di informazioni illegale. Dato che ad alcuni mesi dall'inizio della vicenda Kopitansky non ancora era in grado di emettere la NSL, a marzo del 2005 scrisse ai suoi superiori sollevando il problema. Nella mail che il Post pubblica, l'avvocato solleva un problema generale, specificando che, nei casi di richieste di "emergenza", le NSL venivano emesse solo occasionalmente e che spesso quelle che venivano chiamate "emergenze" tali non erano.

Ci sarebbe quasi da essere grati a Youssef e Kopitansky per aver scoperchiato la pentola. Se non fosse che il loro modo di risolvere la questione era a dir poco non cristallino: avevano pensato bene di aprire un certo numero di indagini preliminari (PI) generiche cui le richieste illegali avrebbero potuto essere "agganciate" per salvare le apparenze. Del resto in una delle email acquisite, la Kopitansky si esprime così: "Dobbiamo fare in modo di rispettare la lettera della legge senza per questo mettere a rischio la sicurezza nazionale". Ed effettivamente la soluzione prospettata sembra rispettosa più della forma che della sostanza della legge. Alla fine il Federal Bureau of Investigation seguì una strada diversa: l'emissione di una NSL massiva dotata del magico potere di sanare tutte le precedenti richieste tabulati irregolari.

Nel novembre del 2006, stando alla testimonianza di Kopitansky, Joseph Billy, Vicedirettore dell'Unità Anti-terrorismo FBI, firmò la NSL "tana libera tutti". Non deve essere stato particolarmente fiero della sua decisione, dato che, quando i legali si dimostrarono per così dire non entusiasti dell'iniziativa, egli negò di averla mai firmata. "Non ricordo di aver mai firmato niente di simile. Per quanto ne so le NSL sono emesse caso per caso", così scrisse al capo del legale Valerie Caproni.

Grazie  alle ingegnose architetture poste in essere per eludere la legge, sembra che il Federal Bureau of Investigation abbia raccolto illecitamente più di 2.000 record telefonici, tra cui quelli che si riferiscono a due giornalisti, uno di The New York Times e uno dello stesso Washington Post. Questo accadeva tra il 2002 e il 2006, anno in cui sulla vicenda cominciò ad indagare il Dipartimento di Giustizia.

E' utile, la ricostruzione dei fatti del Post: prima di tutto perché dimostra come negli Stati Uniti sia possibile imbattersi in un esempio di stampa libera in grado di raccontare senza peli sulla lingua tutte le nefandezze di cui si macchia il Potere. E poi perché le email e memo compromettenti di cui viene dato conto disegnano una situazione preoccupante, nella quale la disinvoltura con cui venivano violate le libertà civili degli americani andava di pari passo con l'autoreferenzialità tipica di tutte le burocrazie.

di Carlo Benedetti

Mosca. La distensione tra Est ed Ovest è di nuovo ad un bivio. Perchè se da Mosca parte l’annuncio che i negoziati Start (Strategic arms reduction treaty) con gli Usa sulla riduzione delle armi nucleari strategiche riprenderanno a febbraio, da Washington e da Varsavia arriva la conferma che la Polonia si appresta a dislocare missili americani Patriot nei pressi di Varsavia. In segno di risposta, il Cremlino manda a dire ai polacchi che la marina militare russa rafforzerà la sua flotta nel Baltico con “mezzi di superficie e sottomarini, impegnando nelle operazioni di pattugliamento anche formazioni aeree”. E’, come sempre, la tattica di un passo avanti e due indietro, con i negoziati che si fanno sempre più indecifrabili.

La situazione resta, quindi, complessa, pur se la trattativa “Start” sembra ora avviata sul binario giusto. Entrambe le parti hanno già annunciato di essere vicine al traguardo finale, ma che devono  essere  definiti alcuni  dettagli tecnici. E così l’incontro di febbraio dovrebbe essere quello definitivo portando a termine le linee generali di quel documento siglato il 31 luglio 1991 - cinque mesi prima del crollo dell'Unione sovietica, tra il presidente statunitense, George H. W. Bush, e Michail Gorbaciov - e che ha poi avuto tutta una serie di aggiornamenti. Significativi quelli avvenuti dopo l'elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti quando si incontrarono a Ginevra i responsabili della diplomazia di Washington e di Mosca, Hillary Clinton e Serghiei Lavrov. I due esponenti delle rispettive diplomazie si'impegnarono a un reset nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia e a concludere un nuovo trattato Start entro la fine dell'anno. Ma, malgrado passi in avanti molto importanti che avvicinarono le rispettive posizioni - come ha dichiarato lo stesso leader del Cremlino nelle settimane scorse - Mosca e Washington non sono riuscite a concludere un'intesa entro il dicembre del 2009.

Il processo, comunque, non si è bloccato perchè Russia e Stati Uniti hanno rafforzato i rapporti bilaterali, alla cui base poggiano i principi di fiducia, apertura e di disponibilità per favorire gli interessi reciproci. In questo senso si era espresso il presidente russo, Dmitri Medvedev, in un messaggio di auguri inviato al presidente statunitense: "Spero che nel nuovo anno continueremo il lavoro comune e il dialogo costruttivo a favore di uno sviluppo stabile e positivo dei rapporti bilaterali, del rafforzamento della stabilità strategica nel mondo e della ricerca di risposte ottimali alle sfide globali della nostra epoca".

Ma nonostante l'impegno profuso da Obama e da Medvedev, restano una serie di problemi non solo di natura tecnica ma anche politica. Mosca, infatti, non è pronta a creare uno scudo antimissilistico con gli Stati Uniti sulla base delle proposte americane. E c’è il ministro Lavrov che, in questo contesto, si affretta a dichiarare che "con gli Stati Uniti e con la Nato, in riferimento alla tematica di questo scudo, noi parliamo della necessità di cominciare tutto da zero, proponiamo una analisi comune per stabilire quali sono i rischi e le minacce della proliferazione missilistica e da dove arrivano queste minacce". "Noi non siamo pronti a credere sulla parola a tutto ciò che qualcuno ha già analizzato e inventato - aggiunge il capo della diplomazia del Cremlino -, su come far fronte a queste minacce... Ma quando veniamo invitati alla trattativa ci viene detto: questi sono i sistemi che noi vogliamo sviluppare e voi, intanto, dateci le vostre stazioni radar... Questo non è un approccio reale e noi non siamo pronti ad appoggiarlo...”.

Eppure Obama e Medvedev avevano concordato di compiere un'analisi congiunta dei rischi della proliferazione missilistica. Si era quasi al punto-chiave dell’intera situazione e restava sul tappeto la minaccia della installazione di missili statunitensi Patriot in Polonia. “Certo, è una questione che riguarda i rapporti bilaterali tra Varsavia e Washington – aveva detto in proposito il russo Lavrov - ma la Russia aspetta chiarimenti". E i “chiarimenti” sono arrivati. Ma nel senso che la  Polonia (che è membro della Nato) e gli Stati Uniti hanno firmato un accordo che apre la strada allo spiegamento dei Patriot americani sul territorio polacco.

In proposito c’è da registrare, a Mosca, un autorevole commento del direttore dell’Istituto di Valutazioni Strategiche, Serghej Oznobyscev. ”I missili Patriot - dice - rappresentano complessi missilistici antiaerei di buona qualità che vengono utilizzati dalle forze armate degli USA e dei loro alleati. Sono missili d'intercettazione aerea, quindi non costituiscono una diretta minaccia alla sicurezza della Russia. Ma il loro dispiegamento segna un passo che per le alte sfere politiche polacche rappresenta un simbolo di un nuovo scatenamento della tensione nei rapporti con la Russia. Siamo di fronte ad una  ben determinata sfida nei confronti di Mosca, nonché un segno del fatto che le fobìe antirusse - risalenti ai tempi della guerra fredda nell’Europa Centrale ed Orientale, in particolare, in Polonia - sono  vive come in passato. La cosa più triste in questo senso è che simili passi ci allontanano dallo sviluppo dei contatti politici costruttivi sul continente, dai rapporti reciprocamente vantaggiosi nel campo dell’economia, del commercio, della scienza e della tecnica. Simili passi impediscono il processo di diffusione di un’atmosfera di fiducia e di partenariato nel mondo”.
Un altro aspetto di questa nuova tensione viene evidenziato da Pavel Felghengauer, un autorevole esperto militare che scrive nel quotidiano “Novaja Gaseta”.

“Attualmente – scrive il commentatore che riferisce i punti di vista dei settori militari del Cremlino - la NATO intende elaborare un piano di difesa reale, innanzitutto nei Paesi del Baltico. Fin qui l’ampliamento dell’Alleanza aveva un carattere politico, assai formale. Ora ci saranno dei preparativi militari reali. Anzi la proposta della Russia di dare vita ad una nuova architettura dell’Europa sarà silurata dall’Occidente. Altrimenti si dovrebbe concordare con la Russia il dispiegamento di qualsiasi nuova struttura militare ai confini russi. Cosa che non vogliono i dirigenti della Polonia, Lettonia, Lituania, Estonia. Ecco perché dal punto di vista delle prospettive a lungo termine si delineano i contorni di una nuova contrapposizione tra Occidente e il nostro Paese”. Torna così ad affacciarsi su Mosca la psicosi dell’allarme e dell’assedio. E non è un buon segno.

 

di Carlo Benedetti

Mosca. E’ Serghej Tighipko (classe 1960, nato in Moldavia) la figura chiave del prossimo ballottaggio per la presidenza ucraina fissato per il 7 febbraio. E’ lui che si è attestato al terzo posto - dopo Janukovic e la Timoshenko - rivelando una grande capacità politica e manageriale. Si è quindi messo in lizza in posizione di grande rilievo raggiungendo la pole position nel campo dell’opinione pubblica ucraina. Ed ora si guarda a lui come al possibile futuro Primo Ministro del paese, perchè ha ricevuto proposte in merito dai due candidati che vanno al ballottaggio.

Il personaggio domina i media dell’Ucraina e della Russia e la definizione più diffusa lo etichetta come ago della bilancia. Astro nascente, quindi, ma che si è già affermato mettendo in campo molte delle sue doti. Prima fra tutte quella di essere un oligarca che ha percorso varie tappe di una lunga carriera, segnata da impegni direzionali in vari istituti bancari. Senza disdegnare, ovviamente, cariche politiche e di governo.

Ed ecco che sulla sua figura (un volto telegenico) s’impegnano i maggiori analisti dell’Est post-sovietico. A Mosca, il quotidiano russo Kommersant, lo definisce il “Putin ucraino”; non tanto per le sue posizioni filo russe, quanto per la fermezza, il suo pragmatismo e quello sguardo che sa essere glaciale. Per altri media si sarebbe di fronte ad un uomo che caratterizza le sue uscite pubbliche con un silenzio enigmatico e inquieto.

Intanto Tighipko (che cominciamo a conoscere grazie al bombardamento mediatico delle tv russe) cerca di accreditarsi con l’immagine di un leader imparziale (alle elezioni si è presentato come indipendente pur se ha ricevuto l’appoggio del Partito del Lavoro) che vuol solo gestire la quotidianità disegnando però per l’Ucraina - all’interno di una catastrofe geopolitica - un futuro di grande autonomia economica. E tutti sanno che è già stato all’interno della stanza dei bottoni rivelandosi come un bravo governatore della Banca Centrale e ministro dell’Economia nel ’97-’99.

Ma la stampa russa più accreditata non si sbilancia. Ne ricorda sia gli atteggiamenti filo-occidentali che quelle dichiarazioni tendenti ad annullare l’antagonismo con Mosca considerando questo tipo di politica un danno per l’economia nazionale. Nello stesso tempo molti osservatori sottolineano che nel passato si espresse a favore della privatizzazione delle pipelines ucraine e di una loro gestione congiunta tra Russia ed Europa.

E mentre si alternano giudizi e sottolineature anche lui prende la parola e, in lingua russa, manda a dire che “Onestamente non mi aspetto nulla né dalla Timoshenko né da Janukovic. Non hanno attuato alcuna riforma, non hanno elaborato alcuna strategia di sviluppo. Solo un riassetto del parlamento potrebbe far andare avanti il Paese”.

E alle parole di questa terza figura della scena ucraina (che potrebbe divenire il curatore della crisi fallimentare di Kiev) si aggiungono quelle del politologo russo Aleksandr Zipko il quale - auspicando l’elezione di Janukovic alla presidenza - aggiunge che se Tighipko arriverà alla poltrona di primo ministro vorrà dire che l’Ucraina, avviandosi sulla strada di un costruttivo armistizio, avrà raggiunto un alto grado di equilibrio, uscendo dalla palude della “rivoluzione arancione”.

 

 

di Luca Mazzucato

Il caso del fisico iraniano ucciso in un attentato a Teheran ha tutti i contorni di un intrigo internazionale. Servizi segreti stranieri o omicidio interno, il caso non ha ancora avuto risposte circa esecutori e mandanti. Per capire i risvolti nascosti dell'assassinio e i suoi eventuali legami con la tensione montante nel paese, abbiamo chiesto lumi al suo collega Qasem Exirifard dell'Istituto di Studi in Fisica Teorica e Matematica (IPM) di Teheran.

Come ha conosciuto il Prof. Ali Mohammadi? Pensa che fosse legato al programma nucleare, come suggerito da alcuni giornalisti di Al Jazzeera?

Conosco Massoud dai tempi delle Olimpiadi della Fisica. Era professore ordinario all'Università di Teheran e quando ero studente ci insegnò il corso di elettrodinamica. È stato il primo cittadino iraniano a conseguire il PhD, che ottenne all'Università di Sharif. Non si occupava di fisica nucleare, Massoud era un fisico matematico che negli ultimi anni si era spostato verso la cosmologia e lo studio dell'energia oscura, il meccanismo responsabile dell'espansione accelerata dell'universo. L'ultimo suo seminario al nostro Istituto riguardava quest'ultimo argomento, dunque nulla di più distante dalla fisica nucleare. So che in passato era stato coinvolto in progetti della Difesa e di Sepah Pasdaran, ma sono certo che Ali Mohammadi non solo non era uno scienziato nucleare, ma non possedeva nemmeno le conoscenze per contribuire alle attività del programma nucleare iraniano. Personalmente ritengo che il corrente programma nucleare sia più di natura ingegneristica che scientifica.

Il Prof. Ali Mohammadi aveva legami con Mousavi e i leader del movimento contro il regime?

Non conosceva personalmente Mousavi o Karrubi, ma era un forte sostenitore del primo. I suoi studenti raccontano che noleggiò un minibus il primo lunedì dopo le elezioni, per incoraggiarli a partecipare alle manifestazioni. A chi gli chiedeva se era vero che la polizia aveva licenza di uccidere, lui rispondeva: “Non abbiate paura dei proiettili, se vi colpiscono, solo nel primo secondo sentite dolore.” Nei giorni seguenti organizzava incontri aperti per discutere possibili soluzioni pacifiche dell'attuale conflitto politico.

Chi ha ucciso il Prof. Ali Mohammadi?

Non sappiamo chi la ucciso, ma solo la dinamica dell'assassinio. È stato ammazzato da un bomba direzionale improvvisata. I terroristi stanno usando proprio questa tecnica in Iraq e Afghanistan. Le persone che hanno compiuto l'attentato avevano sicuramente un addestramento speciale e l'accesso a dispositivi avanzati. Riguardo i possibili mandanti, nonostante Ali Mohammadi appoggiasse Mousavi, non credo che siano state le guardie rivoluzionarie ad ucciderlo. Persino alcuni alti ufficiali delle guardie appoggiavano Mousavi. Tutti sanno che i servizi segreti iraniani hanno molti modi di eliminare un avversario politico se vogliono.

Si tratta secondo lei del segnale di un'escalation di violenza per le strade, o piuttosto l'omicidio è un caso isolato? Membri del governo e dell'opposizione accusano apertamente USA e Israele di aver compiuto l'attentato.

Ali Mohammadi era un normale professore universitario, non aveva guardie del corpo né una macchina anti-proiettile. Persino la CIA o il Mossad lo avrebbero potuto eliminare in modo molto più semplice e pulito, non penso che queste agenzie straniere siano coinvolte. I mandati potrebbero avere due obiettivi diversi: minacciare chiunque sia coinvolto in attività della guardia rivoluzionaria e allo stesso tempo aumentare la tensione nel paese, oppure minacciare i professori universitari che hanno appoggiato apertamente Mousavi e Karrubi e criticato la Guida Suprema. Non si è ancora riusciti a far luce sull'accaduto, ma sia il governo che gli oppositori concordano nel ritenere l'assassinio l'opera di un gruppo isolato di estremisti, che potrebbero annidarsi in entrambi i fronti del conflitto. Quel che è certo è che nessuno in Iran potrebbe dar seguito a questo attentato, né apparati governativi né gruppi di manifestanti. Penso che questo attacco non abbia alcuna possibilità di aumentare la tensione nel paese.

 

di Michele Paris

Esattamente in anno fa, nel giorno dell’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, in pochi avrebbero immaginato una trasformazione del clima politico americano in soli dodici mesi. Né, d’altra parte, nessun elettore democratico avrebbe mai pensato alla perdita di un seggio al Senato - che il partito dell’attuale presidente occupava da ben 58 anni consecutivi - in uno degli stati più progressisti di tutto il paese. Eppure, qualche errore di valutazione degli organi locali del Partito Democratico, la rabbia diffusa per la tuttora difficile situazione economica e, soprattutto, una serie di passi falsi dell’amministrazione Obama, hanno finito per consegnare la vittoria ai repubblicani nell’elezione suppletiva in Massachusetts per lo scranno appartenuto al defunto Ted Kennedy, compromettendo seriamente, tra l’altro, il futuro dell’imminente riforma sanitaria.

Per spiegare la gravità della sconfitta, basta ricordare che i democratici occupano attualmente la carica di governatore e vantano un’ampia maggioranza in entrambe le camere del parlamento locale. Allo stesso modo, tutta la rappresentanza del Massachusetts al Congresso di Washington è democratica, mentre l’ultima elezione di un repubblicano al Senato risale al 1972. Nelle ultime tre elezioni presidenziali poi, i candidati democratici hanno ottenuto vittorie con margini superiori al 60%. Gli elettori democratici registrati, infine, risultano il triplo rispetto a quelli repubblicani.

Capitalizzando lo sconforto diffuso verso un’amministrazione ritenuta troppo compiacente nei confronti delle grandi banche di Wall Street e poco interessata ai problemi della classe media, il candidato repubblicano, l’oscuro membro del Senato statale Scott Brown, è riuscito nell’impresa di imporre la sua campagna elettorale basata su una retorica populista che ha fatto breccia soprattutto tra gli elettori indipendenti. Con il 52% dei consensi, Brown ha così inflitto una pesantissima sconfitta al procuratore generale dello stato, Martha Coakley (47%), ritenuta universalmente la favorita solo fino a qualche settimana fa.

Con i sondaggi che negli ultimi giorni cominciavano a segnalare un pericoloso ribaltamento dei valori in campo, i pesi massimi del Partito Democratico - Obama compreso - si erano presentati nello scorso fine settimana al capezzale di una candidata che pure risultava molto popolare nel suo Stato ed aveva manifestato posizioni apprezzabili sui temi economici, della sicurezza nazionale e dei diritti civili. L’ondata di malcontento ha finito però col travolgere le certezze democratiche, mettendo a nudo la crisi crescente del presidente e del suo partito.

La fiducia nell’eredità dei Kennedy e la tradizionale vocazione liberal del Massachusetts avevano d’altronde convinto la candidata democratica a condurre una campagna elettorale sottotono, permettendo così al suo rivale di definire la dinamica dello scontro. Scott Brown ha poi beneficiato del sostegno, non solo economico, degli attivisti conservatori che, già a fine 2009, avevano contribuito alle vittorie repubblicane per il posto di governatore in Virginia e New Jersey.

Se gli errori e qualche gaffe di troppo di Martha Coakley hanno indubbiamente avuto una peso nella disfatta democratica, le responsabilità principali vanno però ricercate a Washington. Già dai primi mesi dello scorso anno, l’amministrazione Obama, infatti, è apparsa fin troppo cauta e disposta al compromesso con i grandi interessi economici e finanziari del paese, dissipando rapidamente quel capitale politico che il primo presidente di colore della storia americana si era conquistato in campagna elettorale con una promettente speranza di cambiamento.

Mentre la maggior parte dei media e dei commentatori statunitensi continua ad attribuire la responsabilità del crollo dei consensi per il presidente e la maggioranza democratica al Congresso ad un programma troppo ambizioso e ad uno sconfinamento delle prerogative del governo federale, la realtà sembra ben diversa. La scarsa decisione dimostrata nell’affrontare i temi della sanità, della riforma finanziaria, della lotta al riscaldamento globale o dell’immigrazione, ha provocato piuttosto lo sconforto di una vasta fetta di quell’elettorato democratico che era risultato decisivo per la vittoria nelle presidenziali del novembre 2008.

Obama, oltretutto, ha consentito da subito ad un’agguerrita e compatta opposizione repubblicana (al Congresso e nella società civile) di definire i contorni del dibattito sulle principali questioni della sua agenda. Un piano di stimolo anti-crisi troppo cauto - ad esempio - si è allora trasformato, nella retorica conservatrice, in una colossale invasione di campo del settore pubblico nell’economia; una riforma sanitaria senza l’ombra di un piano pubblico, e che produrrà nuovi enormi profitti per le assicurazioni private, è stato fatto passare come un progetto destinato a mettere sotto il controllo governativo l’intero settore.

E proprio l’ambiziosa riforma del sistema sanitario americano potrebbe diventare ora la prima vittima dell’imminente perdita dei democratici al Senato della supermaggioranza (60-40) necessaria a prevenire l’ostruzionismo dell’opposizione (filibuster). Dopo l’approvazione delle due Camere del Congresso alla fine dello scorso anno, le due versioni del controverso progetto di legge dovranno ora sfociare in un unico testo, che necessiterà di un nuovo voto sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato, dove i repubblicani avranno però ora la possibilità di bloccarne il passaggio.

Le soluzioni per consentire ai democratici di licenziare comunque una legge definitiva da sottoporre alla firma presidenziale, sono ora essenzialmente tre, tutte complicate da vari fattori. L’espediente più probabile alla vigilia della batosta in Massachusetts sembrava essere un voto della Camera sul testo uscito dal Senato. Ciò consentirebbe un unico voto finale su una versione già esistente da inviare poi a Obama per la promulgazione. In un secondo tempo potrebbero poi essere apportate modifiche nell’ambito della prossima discussione sul bilancio federale. Le resistenze mostrate da molti deputati democratici ad alcuni articoli approvati dal Senato rendono però difficile questa scorciatoia.

Un’altra possibilità sarebbe il ricorso al Senato ad un regolamento che permette di aggirare l’ostacolo della maggioranza qualificata. Eliminando qualche passaggio chiave della riforma, la nuova legge potrebbe essere fatta passare con una maggioranza semplice di 51 senatori. Ciò è possibile facendo appello ad una norma detta “reconciliation”, la quale si applica però alle sole questioni riguardanti il budget del governo. Ricorrere a questa tattica esporrebbe però i democratici al fuoco delle critiche repubblicane.

Da ultimo, i leader di maggioranza potrebbero accelerare il lavoro sulla versione definitiva della riforma forzando i tempi del voto nella camera alta del Congresso prima dell’insediamento del nuovo senatore Scott Brown. Anche in questo caso, tuttavia, si andrebbe incontro ad un mare di contestazioni, per non parlare di possibili azioni legali, sulla legittimità del voto del senatore ad interim del Massachusetts, il kennediano Paul Kirk.

Dopo il voto di martedì, in ogni caso, Obama dovrà affrontare un percorso complicato nel secondo anno del suo mandato. Da un lato, si ritroverà verosimilmente costretto a ridimensionare le sue ambizioni riguardo ai numerosi punti di un programma ancora ampiamente disatteso, per cercare un necessario compromesso con i repubblicani. Dall’altro, invece, sarà chiamato ad un sempre più difficile scatto in avanti per rianimare quella parte di elettori democratici che lo sostennero oltre un anno fa e la cui disillusione potrebbe decretare una nuova pesante sconfitta nelle elezioni di medio termine il prossimo novembre.


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