di Michele Paris

Come previsto da quasi tutti i sondaggi della vigilia, il voto in Gran Bretagna non ha prodotto un chiaro vincitore. Lo spettro del cosiddetto “hung Parliament” si è così materializzato, con i Conservatori che hanno ottenuto il maggior numero di seggi senza però raggiungere la maggioranza assoluta per formare un governo monocolore. In un clima di profonda disaffezione per la classe politica nazionale, gli elettori britannici hanno inflitto una sonora lezione ai laburisti - anche se la sconfitta è risultata meno pesante delle aspettative - mentre la bolla dei liberaldemocratici si è alla fine sgonfiata, lasciando al loro leader Nick Clegg ridotti spazi di manovra nelle trattative post-elettorali dei prossimi giorni.

Al termine delle operazioni di spoglio nei 649 distretti elettorali per eleggere altrettanti membri della Camera dei Comuni (in un distretto il voto è stato rinviato per il decesso di un candidato), i Tory hanno conquistato 306 seggi (36% del voto popolare), contro i 258 (29%) del Partito Laburista e 57 (23%) dei LibDem. Per il partito del presunto astro nascente della destra britannica, David Cameron, un incremento di 97 seggi rispetto al 2005 non è stato sufficiente a fargli raggiungere la soglia dei 326 per governare in solitudine. Il Labour di Gordon Brown, dato da qualche sondaggio addirittura in terza posizione, ha perso 91 seggi. Cinque invece sono stati quelli persi dai liberaldemocratici.

Una forte migrazione del voto dai laburisti verso i conservatori è stata registrata nei distretti dell’Inghilterra, mentre il partito di governo ha tenuto in Galles e, soprattutto, in Scozia. Nonostante abbiano poi raccolto il numero più basso di consensi dal 1983, i laburisti hanno portato a casa vittorie inaspettate in una cinquantina di distretti dove erano dati nettamente sfavoriti e in molti dei 116 distretti che i Tory avevano individuato come obiettivi principali della loro campagna elettorale.

Senza un chiaro vincitore, in una delle più incerte votazioni degli ultimi tre decenni, i cittadini britannici non hanno così assistito alla consueta immagine del primo ministro designato entrare trionfante al numero 10 di Downing Street il giorno dopo le elezioni. I commenti dei tre leader dei principali partiti hanno rispecchiato l’incertezza dell’esito e la delusione per non aver ottenuto i risultati sperati, sia pure in diversa misura. Da Edimburgo, Gordon Brown si è detto in ogni caso orgoglioso dei tredici anni di governo laburista, confermando di voler giocare un ruolo di primo piano anche nel prossimo governo del paese.

La mancanza di una maggioranza assoluta per i conservatori ha alimentato una debole speranza all’interno del Labour di rimanere al potere malgrado la sconfitta. Lord Mandelson, ministro e stretto alleato di Brown, ha così fatto riferimento alla pratica - la Gran Bretagna non ha una costituzione scritta - che vorrebbe il leader del governo uscente provare per primo a formare un governo se il partito con il maggior numero di seggi non può farlo in autonomia. Per i laburisti il percorso più logico sarebbe un governo di coalizione con i liberaldemocratici. La modesta prestazione di questi ultimi non consentirebbe comunque ai due partiti di raggiungere la soglia dei 326 deputati.

Come se non bastasse, durante la campagna elettorale, Nick Clegg aveva più volte sostenuto che un’eventuale alleanza con i laburisti avrebbe dovuto prevedere il siluramento di Gordon Brown. Un’asse Labour-LibDem dovrebbe tuttavia fare affidamento su altri partiti minori per ottenere la maggioranza in parlamento; in caso contrario potrebbe sorgere un governo di minoranza, costretto a chiedere i voti mancanti volta per volta. Tra le ipotesi percorribili – forse la più probabile - c’è anche quella di un governo di minoranza capeggiato dal numero uno dei conservatori, David Cameron. A conferma di ciò è già partita ieri un’offerta ai liberaldemocratici per un’alleanza di governo.

Le differenze sostanziali che dividono i Tory da quasi tutti gli altri partiti minori (liberaldemocratici compresi) rendono però tutt’altro che semplice questa soluzione. Le sconfitte di due politici alleati dei Tory in Irlanda del Nord - il leader degli Unionisti, Sir Reg Empey, e il primo ministro nordirlandese, Peter Robinson - rischiano poi di complicare ulteriormente i progetti dei conservatori.

Oltre alle divergenze sui temi economici tra Tory e LibDem, lo scoglio principale verso un’alleanza tra Cameron e Clegg è la riforma elettorale, presupposto irrinunciabile per l’ingresso in un governo di coalizione dei liberaldemocratici. La legge britannica prevede un sistema maggioritario a turno unico (“first-past-the-post”) che penalizza fortemente un partito come quello Liberaldemocratico. Se i laburisti hanno più volte aperto spiragli per una riforma in senso proporzionale, i conservatori sono contrari ad una modifica delle regole di voto in questo senso. Al massimo, sembrano disposti a concedere la promessa di un referendum nel prossimo futuro.

Al di là delle trattative per risolvere lo stallo del primo “hung Parliament” dal 1974, le elezioni britanniche hanno fornito sostanzialmente due segnali importanti: la punizione subita dal Partito Laburista e la conferma della crisi della democrazia rappresentativa in Gran Bretagna come altrove. La batosta patita dai laburisti deve far riflettere a fondo sull’evoluzione di un partito che, dopo la svolta del “New Labour” segnata dal successo di Tony Blair nel 1997, di fatto ha rinunciato a rappresentare gli interessi dei lavoratori e della middle class britannica.

In tredici anni di governi di Blair e Gordon Brown il divario tra ricchi e poveri si è allargato molto di più rispetto persino ai due decenni precedenti con gabinetti guidati dai conservatori. Le politiche “business-friendly” che hanno caratterizzato questi anni, assieme al sostegno incondizionato alla guerra in Iraq, hanno prodotto un profondo malessere tra quegli stessi elettori che avevano decretato il trionfo del 1997. Così, il Labour, con il suo progetto politico e sociale, ha finito col diventare pressoché indistinguibile dagli altri principali partiti britannici, tutti con il capitale e i grandi interessi economici al centro della propria azione.

Di conseguenza, il sentimento comune degli elettori britannici, simile a quello di molti altri paesi in occidente, è stata la sfiducia in una classe politica percepita come incapace di far fronte ai problemi reali della gente comune. Di fronte ad una disoccupazione a livelli record e una povertà sempre crescente, la ricetta consueta per tutti è quella dell’austerity. Sotto le pressioni degli organismi internazionali e delle grandi banche, le scelte del prossimo governo britannico - quale che sia il partito o i partiti che lo guideranno - appaiono già scritte.

Di fronte ad un debito colossale, gonfiato soprattutto dal massiccio intervento pubblico per salvare le banche dal baratro dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, i provvedimenti da adottare saranno quelli dettati dai rappresentanti del capitale internazionale. Il voto per i Tory, il Labour o i LibDem, invariabilmente, non è altro che un voto per nuovi tagli ai salari del settore pubblico, alle pensioni, alla sanità, alla scuola, al welfare e ai programmi sociali. Come per la Grecia e la Lettonia, e a breve forse anche per Spagna, Portogallo, Irlanda o Italia, insomma, a pagare il prezzo della crisi saranno sempre gli stessi.

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