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di Carlo Benedetti
Mosca. In Russia è di nuovo “dissenso” e tornano anche quei metodi di lotta e di repressione che erano tipici dei tribunali sovietici e degli organi della “sicurezza”. E per chi non è d’accordo con il Cremlino si aprono ancora una volta le porte dei manicomi. Il “caso“ di questi giorni è esemplare e porta un nome: Julia Privedennaja, 35 anni, ingegnere. Vive a Mosca e la sua vicenda personale va raccontata dall’inizio per comprendere alcuni aspetti della società russa di oggi. Non si può fingere di essere equidistanti o di tenere gli occhi chiusi mentre si assiste al ritorno sulla scena di una psichiatria punitiva, di conseguenza il cronista va sul posto. Incontra Julia e i suoi amici ed assiste, in piazza, anche ad alcuni meeting di protesta in una Mosca battuta dal freddo polare.
Ecco la storia. Julia ha riunito un gruppo di entusiasti che si dedicano alla propaganda di ideali umanistici. Nello stesso tempo, con tutti loro, s’impegna a realizzare, nella profonda campagna russa, una fattoria. E nasce, parallelamente, un’attività estremamente significativa, che tocca anche il campo dell’etica e dello sviluppo di ideali che - secondo le idee di Julia - dovrebbero contribuire a rafforzare l’unità e l’idea russa. Quindi una normale azione di impegno sociale e culturale, una vera e propria organizzazione di volontariato come occasione per entrare in contatto con la cultura e la popolazione.
Julia e il suo collettivo danno vita ad un modello comunitario di vita e lavoro, in reazione a culture diverse. I campi di questo volontariato sono di varia natura. Da una parte vi è una attività, spesso manuale, all'interno della comunità; dall'altra c’è la formazione di una cultura imperniata sui valori della solidarietà, della non violenza, della convivenza pacifica. Tutto in un quadro che punta ad affermare la responsabilità storica dell’intellighentsija.
Punti e temi di riferimento del movimento avviato da Julia sono tanti e di diverso orientamento. Si va dalla gestione delle fattorie agricole allo studio dell’esperanto, dall’esame delle opere di Pitagora all’impegno sociale per lo sviluppo della Russia... Ma c’è anche una decisa presenza nella realtà dei diritti umani. Julia e i suoi compagni scendono in campo per combattere i soprusi che - a loro parere – si verificano in questa fase post-sovietica. Dimenticano però che ci sono - anche oggi - alcuni “santuari” che non vanno violati.
Ed è questa “attività” socio-culturale che pone il movimento in dissenso con il Cremlino di oggi. Il gruppo di Julia va ad invadere terreni minati. Ad esempio il ruolo dei servizi di sicurezza, le malefatte del vecchio Kgb, i connubi tra il Cremlino e le oligarchie, nomi e cognomi che tornano alla luce. Il punto è proprio questo. Julia viene arrestata e messa in carcere (prima in quello di Lyuberetskiy e poi in quello di Kolomna) per le sue idee. L’accusano di dare vita a formazioni militari.
Ed ora con un nuovo processo il rischio è quello di venire condannata perchè psichicamente malata. C’è una manovra in atto per rinchiuderla in un manicomio. E’ una vecchia pratica del sistema sovietico che così cercava di combattere il dissenso. Torna alla ribalta quel triste ospedale “Serbskij” dove ai tempi dell’Urss venivano effettuate le “indagini” per stabilire chi fosse psichicamente malato. E si sapeva che, una volta entrato in quel girone, la decisione era stata già presa.
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di Giuseppe Zaccagni
La Cina è divenuta il primo Paese esportatore del mondo e la terza economia del pianeta; il livello del suo export ha raggiunto i 1.070 miliardi di dollari. E così un miliardo e 340 milioni di persone vivono, lavorano, producono, consumano, sognano, soffrono, mettono al mondo figli in un Paese che, mese dopo mese, guadagna nuovi e significativi record. Ad esempio quello relativo al fatto che nel 2009 il suo mercato automobilistico ha superato quello americano, guadagnandosi con 13 milioni di vetture vendute, un nuovo primato.
Altro grande risultato della Cina d’oggi riguarda la costruzione di un aeroporto in una zona considerata la più alta del mondo, a 4.500 metri. I lavori per le piste e la stazione comincer?nno l’anno prossimo nella Regione Autonoma del Tibet, 230 chilometri a Nord di Lasha, la capitale. Con costi anch’essi da record: 180 milioni di euro. Nell’elenco dei successi c’è poi quello che annuncia la Cina come secondo mercato mondiale dei diamanti, con la borsa di Shanghai cresciuta del 16,4 per cento, raggiungendo gli oltre 1,5 miliardi di dollari, dietro solo agli Stati Uniti. Secondo le più accreditate fonti ecomiche, tutto questo è il risultato della crescita del Paese (nel 2009 all'8,7 per cento), mentre il resto del mondo si dibatteva nella recessione.
Di conseguenza lo sviluppo stabile dell'economia e la domanda di gioielli è continuata a crescere, in special modo per i diamanti. Tanto da poter affermare che l’anno da poco concluso - lo scrive l’agenzia Xinhua - ha portato la Cina a superare il Giappone divenendo il secondo mercato di consumatori del mondo per diamanti dietro agli Stati Uniti. Intanto, sempre sul fronte dell’economia nazionale, c’è da rilevare che la Cina ha diffuso i dati sul Pil che, nel 2009, ha toccato i 4.910 miliardi di dollari, mentre quello di Tokyo, secondo proiezioni, dovrebbero arrivare a 5.100 miliardi di dollari.
Quanto alla situazione strategico-militare, Pechino mette in mostra alcuni successi. Si fa forte dei passi avanti nel campo dei sistemi di difesa antimissile. Nelle settimane scorse, infatti, ha effettuato un test significativo, in risposta agli Usa che hanno dato via libera alla vendita a Taiwan di missili Patriot, capaci di respingere attacchi aerei e missilistici. «Il test - ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri cinese Jiang Yu - è di natura difensiva ed in linea con la politica di difesa non aggressiva della Cina». E in un breve dispaccio dell’agenzia ufficiale, si sostiene che il missile antimissile «non ha lasciato detriti» nello spazio e «non ha messo in pericolo nessun velivolo spaziale in orbita». Ma tutto questo sta anche a significare che la Cina punta sempre a mostrare i muscoli anche nei confronti di Taiwan, isola di fatto indipendente dal 1949, che la dirigenza di Pechino ritiene parte del suo territorio nazionale. Intanto gli osservatori diplomatici di Mosca, riferendosi anche alle posizioni di esperti taiwanesi e occidentali, ritengono che Pechino ha oltre mille missili puntati sull’isola.
Ma, a parte queste impennate di forte militarismo, c’è un bilancio positivo per l’economia generale del paese e per una serie di progressi sociali. Si consolida la ripresa, seppure con qualche segnale di surriscaldamento dell’economia. Il colosso asiatico - lo afferma il South China Morning Post - ha chiuso il 2009 con una crescita del prodotto interno lordo dell’ 8,7%, e ormai il sorpasso sul rivale giapponese appare a un passo e con esso la palma di seconda economia planetaria dopo gli Stati Uniti d’America. La crescita del Gdp nel 2009 vale 4.700 miliardi di dollari, pari a quello del Giappone per l’anno precedente. Il primato cinese sarà registrato ufficialmente quando, il mese prossimo, Tokyo certificherà la sua crescita per il 2009, probabilmente inferiore del 6% rispetto al 2008.
La ripresa - lo evidenzia il Time Asia - é soprattutto merito delle misure anticrisi del governo, che alla fine del 2008 ha varato un pacchetto di provvedimenti a sostegno dell’economia del valore di quasi 600 miliardi di dollari. L’obiettivo è raggiungere e superare il colosso nipponico. Un aspetto, questo, che non figura direttamente nell’agenda del governo, ma che ha tuttavia un forte valore simbolico dati i rapporti storici tra le due nazioni estremo orientali e la diretta competizione sui mercati, sia come esportatori, sia come acquirenti di materie prime.
Sulla base di queste informazioni e note analitiche, Altrenotizie ha girato a vari politologi occidentali e russi la domanda di ordine sociologico che più circola negli ambienti degli ossevatori: “Cosa è avvenuto in Cina – nella realtà nazionale e nella situazione economica - nel giro degli ultimi anni?”. Le risposte sono di vario tipo, ma sempre concentrate sulle ripercussioni morali e sociali. Com'era prevedibile – si sostiene – c’è stato e c’è un ritorno all'economia capitalistica che ha determinato, in seno alla società cinese, degli spostamenti interiori, dei rivolgimenti spirituali, che vanno in senso opposto a quelli che il comunismo avrebbe voluto operare.
La società cinese, quindi, imborghesisce? La risposta è che si era mirato a stabilire l'eguaglianza dei compensi, dei guadagni, del tenore di vita fra tutte le classi sociali. Ma ora le disuguaglianze ricompaiono e si accentuano. Nelle campagne rispuntano i grossi proprietari e le distanze, fra costoro e i contadini poveri, si allargano man mano. Molti fra questi ultimi, privi di bestie da lavoro, di strumenti, di macchine agricole, danno in affitto il loro boccone di terra, paghi di ricevere una piccolissima parte del raccolto, e si collocano come salariati nelle campagne o nelle città, con compensi miserabili e con orari di lavoro esasperanti. D'altra parte, ogni contadino che riesce ad estendere la sua proprietà, ha bisogno di mano d'opera salariata, e così il salariato agricolo da fenomeno temporaneo ritorna a figurare come una istituzione stabile della società.
Lo stesso accade nelle città. Lo sottolinea il China Daily (un quotidiano in lingua inglese che esce a Pechino) il quale precisa che nella capitale molti commercianti arricchiti sfoggiano il loro lusso e che, con i commercianti, ricompaiono gli intermediari, i sensali, che accumulano fortune che ora più che mai sembrano scandalose. Ci sono, quindi, di nuovo, operai poveri e contadini ricchi, operai qualificati e operai non qualificati, artigiani, commercianti grossi e piccoli, alti e bassi funzionari dello Stato e del Partito, professori, liberi professionisti, tecnici specializzati: tutti si distinguono fra loro in ragione del danaro che guadagnano e della vita che conducono.
E così non solo cambia l'aspetto esteriore della società, cambia anche il suo spirito. Con le discriminazioni, economiche e sociali, che non sono soltanto un fatto; sono un nuovo criterio politico. Sembra proprio che i capi del governo abbiano abbandonato l'ideale dell'eguaglianza, materiale e morale, fra i cittadini: quella eguaglianza nel cui nome erano partiti in guerra contro la vecchia società. E ai tecnici, che lo Stato chiama a dirigere le sue imprese, si concedono stipendi parecchie volte superiori al salario medio degli operai manuali, si assegnano alloggi più o meno lussuosi e si pongono a loro disposizione auto di servizio. Si richiede, intanto, che gli operai obbediscano ai direttori, agli ingegneri, che nelle fabbriche la gerarchia venga assolutamente rispettata e che la disciplina sia ferreamente osservata.
Restano sulla scena del Paese, accanto ai grandi ed innegabili successi, ampie zone d’ombra. Con 150 milioni di cinesi che si trovano sotto la soglia di povertà. E per chi può, ora il governo ha deciso di riaprire i bordelli. Mao nel 1949 li aveva chiusi ed oggi i comunisti li riaprono. Sorgono come funghi a Dongguan, nel cuore industriale del Paese. Qui sono già all’opera 300mila prostitute controllate e certificate. Si muovono in una rete di bar, saune, centri di massaggi e discoteche. E il partito e le strutture amministrative garantiscono, con 300 ispettori, l’ordine e la sanità. Le prostitute, al momento, sono oltre 300mila e il settore impiega stabilmente 800mila addetti. Ma per Pechino non si tratta di “prostituzione” bensì di "sostegno umano". Prezzi modici, dicono gli occidentali che hanno visitato Dongguan: due ore standard, con "doppio amplesso su letto ad acqua", costano tra i 15 e gli 80 euro. Il capitalismo ci vede bene anche con gli occhi a mandorla.
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di Emanuela Pessina
Berlino. La Germania posticipa la dismissione dei suoi reattori nucleari ed è già polemica: più che una mossa per il bene comune dei cittadini, infatti, il “ritorno” all’energia nucleare annunciato dal Governo tedesco sembra portare vantaggi unicamente alla lobby dei grossi produttori energetici. E dall’opposizione infieriscono le accuse di clientelismo verso una coalizione nero-gialla già in profonda crisi esistenziale e alla ricerca di una sua identità interna.
Durante un incontro con i dirigenti dei maggiori produttori energetici in Germania, quali E.ON, RWE, Vattenfall, EnBW, la coalizione liberal-democratica ha deciso di prolungare la produzione di energia nucleare dei reattori tedeschi. Secondo l’accordo preso, i 17 reattori rimarranno per ora in esercizio, compresi quelli di Neckarwestheim und Biblis A, vecchissime centrali che avrebbero dovuto essere chiuse proprio in questi mesi.
Le disposizioni definitive saranno tuttavia prese solo a ottobre, quando la coalizione di Angela Merkel (CDU) e Guido Westerwelle (FDP) procederà alla stesura di un piano esaustivo in considerazione di tutta la produzione energetica della Germania.
Seppur “temporanea”, la svolta non è piaciuta all’opposizione, che non ha mancato di accusare il Governo di favoreggiamento della lobby dei produttori di energia. Secondo quanto riporta il quotidiano web Spiegelonline, è grande l’indignazione del presidente socialdemocratico Sigmar Gabriel (SPD), per cui il ritorno al nucleare costituisce “uno sporco affare” e “una pericolosa politica lobbistica”, che mette “l’interesse dei grossi produttori di energia al di sopra della sicurezza dei cittadini stessi”.
“I reattori continuano a funzionare, le lobby dell’energia nucleare intascano miliardi e al Governo va qualche briciola di questo guadagno, probabilmente qualche centinaio di milioni”, ha affermato Gabriel. Da non dimenticare che Sigmar Gabriel è stato ministro dell’Ambiente durante il primo governo Merkel e, secondo quanto riporta lo Spiegelonline, già nel 2006 aveva bocciato una richiesta di prolungamento di attività per alcuni reattori della RWE und EnBW.
Bisogna ammettere che la posta in gioco, per i produttori di energia, è davvero alta. Sempre secondo lo Spiegelonline, un prolungamento di 25 anni dell’attività dei reattori nucleari porterebbe a E.ON, RWE, Vattenfall e EnBW un’entrata di 233 miliardi di Euro. Il calcolo è stato fatto dalla Landesbank Baden-Württemberg (LBBW) in conformità a un prezzo dell’energia di 80 euro ogni megawatt orario.
L’affare, tuttavia, è goloso anche per il Governo tedesco: il ministro dell’Economia Rainer Bruederle (FDP) pianifica di incassare almeno la metà del guadagno dai produttori di energia. In realtà, per Bruederle questo denaro costituirà una specie di “capitale politico” da investire nelle energie rinnovabili, che dovrebbero, in un futuro prossimo, andare a sostituire completamente l’energia nucleare.
Secondo il Governo, infatti, il prolungamento dell’attività nucleare costituisce una soluzione transitoria che fa da “ponte” verso la completa attuazione delle fonti energetiche rinnovabili, quali quelle eolica e solare. Ma l’opposizione non accetta neppure questa spiegazione: la produzione di energia nucleare a tempo indeterminato metterebbe a repentaglio anche gli investimenti nel campo delle energie rinnovabili. Poiché nessun privato investirà miliardi nelle costose energie ecocompatibili se ci sarà il rischio di non riuscire a vendere il prodotto in un ambiente saturo di energia nucleare.
Le accuse dell’opposizione, in realtà, vanno a infierire su una coalizione nero- gialla che sta ancora costruendo la propria identità e che sembra mancare di unità di veduta. Il presidente dei liberali Guido Westerwelle ha spesso invitato la CDU a trovare il coraggio di rinnovarsi “spiritualmente e politicamente”. Questo significa dimenticare il precedente Governo di grande coalizione con i socialdemocratici di Frank-Walter Steinmeier (SPD), fatto di compromessi, e riconoscersi nel nuovo ruolo di forza di centro-destra.
In gioco c’è la credibilità del Governo stesso: la coalizione nero-gialla deve prendere decisioni coerenti con la sua linea di pensiero liberal-democratica. A volte, tuttavia, questa linea sembra tralasciare il bene comune per inseguire gli interessi di “qualcuno”, come accusano SPD e Die Linke. Che, proprio, non si vogliono rassegnare ad associare il termine liberal-democrazia a clientelismo.
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di Carlo Benedetti
Mosca. La Nato salda un conto rimasto - a suo parere - da troppo in sospeso. E così, grazie al duo Putin-Medvedev, ottiene la grande rivincita: il Cremlino consentirà alle truppe dell’Alleanza atlantica di sfilare in parata nella piazza Rossa il 9 maggio quando la Russia celebrerà la festa della Vittoria sulle forze nazifasciste della II guerra mondiale. L’annuncio della prossima presenza dei militari Nato a Mosca, accanto al Cremlino, con una spettacolare messinscena, arriva in Russia in un momento particolare, precisamente mentre si annuncia che i dirigenti dell’Alleanza atlantica vorrebbero coinvolgere soldati musulmani nelle operazioni in Afghanistan.
Il Segretario Generale della Nato, Anders Fog Rasmussen, ha infatti proposto ad una serie di paesi musulmani (e quindi a tutte le nazioni dell’ex-Urss che si trovano nell’area asiatica influenzata dai musulmani) di esaminare la possibilità di inviare loro truppe in Afghanistan. Alcuni governi lo ritengono possibile in futuro, ma per il momento non hanno adottato decisioni in questo senso. Il generale (che è stato primo ministro della Danimarca) ritiene che il coinvolgimento dei paesi musulmani nella lotta contro i talebani potrebbe favorire la conclusione vittoriosa della guerra, dimostrando allo stesso tempo che viene condotta non per motivi religiosi, ma contro il terrorismo e l’estremismo.
Sulla scia di queste dichiarazioni i politologi russi fanno notare che il segretario fenerale della Nato sta tentando di rianimare l’idea che la guerra in Afghanistan, sulla base di capriole e salti arditi, potrebbe assumere una maggiore legittimità se non sarà considerata come lotta tra gli infedeli e i musulmani. Certamente - si nota a Mosca - non è il caso di attendersi un grande risultato militare con l’inserimento dei paesi musulmani nell’operazione dell’Alleanza. Tuttavia, a quanto pare, Bruxelles conta di ricavarne dei vantaggi supplementari nell’ambito della sua campagna per il supporto propagandistico nel mondo islamico.
L’esperto orientalista russo, Andrej Volodin, fa notare in proposito che le guerre in Afghanistan non vengono vinte. E lo dimostra - rileva - l’esperienza che si ricava da almeno tre guerre anglo-afgane, dalla presenza delle truppe sovietiche sul territorio dell’Afghanistan, nonché dall’esperienza delle forze degli USA e degli altri paesi dell’Alleanza presenti in quel paese dal 2001. In questo senso le speranze nel coinvolgimento dei paesi musulmani appaiono - secondo Mosca - almeno illusorie. Paragonabili ad un nuovo trucco illusionistico.
Ma nella capitale russa si registrano anche altre preoccupazioni che nascono sulla base delle affermazioni di Rasmussen. E’ lui - scrivono i media locali - che dimostra ancora una volta che le forze degli Usa e dell’Alleanza nel suo insieme non intendono lasciare l’Afghanistan. E, nello stesso tempo, la loro presenza non può che mantenere l’apparente calma a Kabul e in alcune altre città del Paese. L’impressione generale è che la dichiarazione dell’esponente atlantico rappresenti un altro tentativo di trovare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui si sono arenate le forze dell’Alleanza in Afghanistan.
Ed ecco che - in contrapposizione a queste considerazioni di carattere geopolitico che si registrano a Mosca - piomba la notizia di un Cremlino pronto ad applaudire le truppe Nato in parata a Mosca. Si dice che la Vittoria del 1945 fu anche frutto della collaborazione militare delle potenze che si opponevano al nazismo. Tutto vero. Ma allora non esisteva la guerra fredda, non esisteva la Nato. Oggi la situazione è ben diversa. E non è un caso se a Mosca sono in molti a pensare che questa mossa del duo Putin-Medvedev altro non sia che il primo passo per far entrare definitivamente la Nato entro i confini della Russia. Mandando al macero quelle dichiarazioni e commenti relativi al pericolo dell’espansione dell’alleanza all’Est. E c’è di più. Molte forze in Russia avanzano ora questa domanda. Perchè non far sfilare le truppe della Russia con in testa le bandiere rosse dell’Urss nelle piazze delle capitali europee della Nato?
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di Michele Paris
Il tradizionale appuntamento del discorso sullo Stato dell’Unione negli USA è giunto quest’anno nel momento più difficile del primo mandato di Obama. Con una disoccupazione superiore ai livelli di dodici mesi fa, una situazione economica tuttora precaria, molti nodi dell’ambizioso programma presidenziale non ancora sciolti e un indice di popolarità in caduta libera, l’inquilino della Casa Bianca ha cercato di barcamenarsi tra molte contraddizioni, cercando inutilmente di resuscitare quell’entusiasmo che lo aveva proiettato verso il trionfo nella campagna elettorale del 2008.
Di fronte ai membri dei due rami del Congresso americano, riuniti giudiziosamente alla Camera dei Rappresentanti, Obama ha invocato una più robusta azione legislativa, facendo appello ai democratici, così come all’opposizione repubblicana. Riconoscendo di sfuggita qualche errore commesso dalla sua amministrazione, il presidente, nel corso dell’intero discorso alla nazione, ha provato a ripristinare un’immagine di uomo del cambiamento, irrimediabilmente compromessa da un anno d’iniziative quasi sempre indirizzate alla difesa del privilegio di pochi.
Un esercizio di retorica, quello di Obama, che ha svelato chiaramente l’impossibilità da parte sua - e della sua maggioranza - di delineare e tanto meno perseguire un coerente progetto di riforma in grado di trasformare il sistema economico, politico e sociale americano. Pur promettendo che nell’anno appena iniziato l’obiettivo principale dell’azione governativa dovrà essere la riduzione del numero dei disoccupati - oltre 15 milioni secondo le imprecise stime ufficiali; quasi 4 milioni in più rispetto al gennaio 2009 - già si profilano le prime manovre per il contenimento del deficit pubblico, che verranno esposte a breve alla presentazione del budget per il prossimo anno.
Proprio la necessità di porre un freno alla crescita di una parte della spesa pubblica è la lezione nefasta ricavata dagli strateghi democratici dall’umiliante sconfitta incassata qualche giorno fa in Massachusetts nella speciale elezione per il seggio al Senato che fu di Ted Kennedy. Assecondando il lamento dei repubblicani che quotidianamente mettono in guardia da un’opinione pubblica preoccupata da un deficit enorme e dalla presunta prevaricazione delle prerogative del governo federale, Obama sembra intenzionato così a correre ai ripari, prefigurando una serie di nuovi tagli. Una mossa che si rivelerebbe non solo politicamente fallimentare, ma anche economicamente disastrosa con un’economia ancora lontana da una piena ripresa e gravata da una disoccupazione di massa.
Il cinismo di un presidente che nel suo discorso a camere unificate ha più volte fatto appello al “popolo americano” è apparso evidente quando ha proposto alcune limitate misure di sollievo alla classe media che ben difficilmente saranno approvate dal Congresso. A dicembre, infatti, la camera aveva approvato d’urgenza un modesto pacchetto da 154 miliardi di dollari con una serie di misure per combattere la disoccupazione, fatte di tagli alle tasse per le piccole imprese e incentivi al credito. La nuova legge tuttavia è da allora insabbiata al Senato, che sembra stia valutando un diverso provvedimento dalla portata addirittura dimezzata.
A fronte della totale inazione sul fronte della creazione di posti di lavoro e, al contrario, della generosa erogazione di denaro pubblico alle banche travolte dalla crisi finanziaria di fine 2008, sono in arrivo, appunto, nuove misure per contenere la spesa sociale. A fare le spese del piano propagandistico di Obama per stabilizzare il deficit saranno ovviamente ancora una volta i redditi più bassi che potrebbero subire le conseguenze del congelamento della spesa per i prossimi tre anni nell’ambito della Sanità, dello Sviluppo Urbano, dei Trasporti, dell’Agricoltura e dell’Energia.
Tagli che ammonteranno complessivamente ad appena un sesto dell’intero budget federale (250 miliardi di dollari) e che, invece, non toccheranno minimamente l’emorragia di denaro destinato alla sicurezza nazionale e alle operazioni militari d’oltreoceano (700 miliardi). Se implementate, le proposte della Casa Bianca finiranno per ridurre all’osso i livelli della spesa sociale, secondo alcune valutazioni destinata nel 2015 a raggiungere i livelli più bassi da cinquant’anni a questa parte.
L’irruzione del problema (reale) della disoccupazione nel dibattito politico americano e di quello (falso) del deficit ha di conseguenza fatto scivolare in secondo piano l’obiettivo principale del presidente democratico solo fino a poche settimane fa: la riforma sanitaria. Anche in questo caso, il desiderio della maggioranza degli americani di vedere realizzata una riforma più incisiva rispetto a quelle uscite dai voti sui due progetti differenti di Camera e Senato sembrerebbe essersi tramutata in un risentimento nei confronti di una fantomatica occupazione dell’intero sistema sanitario da parte del governo. Da qui, la richiesta da più parti di rallentare i tempi e ridimensionare un piano già mitigato dall’influenza dei grandi interessi privati.
L’ascendente sull’amministrazione Obama dei poteri forti è d’altra parte un altro dei motivi della profonda disaffezione degli elettori che avevano premiato i democratici nel novembre 2008. I continui rimproveri rivolti anche durante il discorso sullo Stato dell’Unione all’irresponsabilità dei banchieri di Wall Street non possono che suonare vuoti dopo un anno di profitti record grazie al denaro dei contribuenti e considerando l’affollamento in questa amministrazione di personaggi usciti precisamente dalle fila di quelle istituzioni finanziarie responsabili del crollo dell’economia americana.
Se, a detta di Obama, ad un anno dal suo insediamento il “peggio sembra essere passato”, il futuro immediato per un’amministrazione già gravemente screditata agli occhi dei lavoratori americani e della classe media si presenta tutt’altro che promettente. Se i repubblicani non se la passano meglio in termini di popolarità, il sentimento di ostilità diffuso nei confronti del partito che detiene le leve del potere minaccia una nuova pesante punizione alle urne per i democratici il prossimo autunno.
Con la conseguenza di riconsegnare un più ampio margine di manovra al Congresso ad un’opposizione sempre più pericolosamente spostata a destra. In un sistema profondamente deteriorato e nel quale sono le élite economico-finanziarie e le loro lobbies a dettare i contenuti dell’agenda politica sia ai repubblicani che ai democratici, la soluzione alla crisi irreversibile della rappresentanza democratica non può allora che risiedere al di fuori del bipartitismo che domina il panorama politico americano. Una prospettiva, con ogni probabilità, ancora lontana, ma le cui basi potrebbero essere gettate proprio dalla corruzione di un sistema ormai incapace di rispondere ai bisogni dei cittadini comuni.