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di Carlo Benedetti
MOSCA. C'è una Russia che vive nel terrore e sempre in attesa di nuove e terribili azioni criminali. Il "nemico" - annunciano radio e tv - non è più alle porte, ma è entrato in casa. Intanto i due massimi esponenti del Paese - Medvedev e Putin - corrono nella basilica del Santo Salvatore a pregare e a baciare il Patriarca ortodosso. E così la Pasqua, che per tre delle maggiori religioni del paese - ortodossa, cattolica ed ebraica - ha coinciso proprio nello stesso giorno, é divenuta il momento centrale di una mobilitazione religiosa senza precedenti. Ma sono i mezzi della polizia e dell'esercito che dominano rumorosamente la scena. Si cercano terroristi in ogni luogo e si fa il conto delle bombe e dei kamikaze.
Intanto a Mosca - dove la violenza del terrorismo ha lasciato vittime e distruzioni - le linee della metropolitana (300 km. con 180 stazioni) vengono pattugliate dalle forze speciali della sicurezza. Ci sono ancora feriti gravi negli ospedali della città, mentre vengono alla luce nuovi dettagli delle operazioni della lotta antirussa. Ed ora si conoscono anche le generalità di chi ha firmato gli attentati. Si cercano responsabilità individuali e collettive.
Lo scenario attuale - che il Cremlino insiste nel definire come caratterizzato da "attacchi terroristici" - è quello di una vera guerra, con atti di sabotaggio entro e fuori dei confini nazionali. Perché, come non mai, sono in moto forze che vengono dalla Cecenia e, soprattutto, dal Daghestan e dalla Inguscetia. Un incendio, quindi, a tutto campo, sul quale soffia ora il vento provocato dalle nuove esplosioni nella regione caucasica: a Karabulak, all'ingresso dell’edificio del Dipartimento distrettuale degli affari interni un kamikaze si è fatto saltare in aria. Sul campo è restato anche un poliziotto e altri tre sono rimasti feriti. Un gesto non isolato, perché poco dopo si è verificata un’altra esplosione: ferito un funzionario della Procura della Repubblica locale. Si è in presenza di un cortocircuito di passato e presente. E per l'intelligence russa il problema caucasico diviene così il punto cardine di tutta la politica "interna" del Cremlino.
Alla Cecenia - già ampiamente nota per le sue posizioni antirusse - si aggiungono ora con forza il Daghestan, le forze del wahhabismo e l'Inguscetia. Si muovono, in questo contesto, popoli diversi (àvari, darghini, lezghini, rutùli, kumyki) che gettano sul tavolo della geopolitica le loro secolari richieste nei confronti del potere russo centrale. Di conseguenza le tensioni interne si sviluppano lungo determinate linee: dalla politica alle tendenze nazionaliste, dalle situazioni etniche a quelle religiose. Si tratta di "problemi" epocali, che pongono in forse le linee dello sviluppo nazionale con Mosca che sta cercando di risolvere alla meglio l'intera questione caucasica. Ma è una battaglia persa in partenza.
Nel 2003, Vladimir Putin sorprese gli osservatori internazionali annunciando che il suo Paese aveva l'intenzione di chiedere l'adesione all'Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci). La proposta stupì ancora di più se si pensa che l'Ori, forum politico creato nel 1969 e composto da 57 stati a maggioranza musulmana, aveva tra i suoi scopi quello di far crescere la solidarietà islamica tra i suoi membri. La scelta di Putin - ci si chiese allora - aveva come obiettivo quello di porre l'intera Russia sul piano di un Paese musulmano? Un modo per superare gli ostacoli dando pari dignità a tutte le minoranze religiose?
Ma, sempre nel 2003, si scoprì che il problema russo non era (e non è) quello dell'islamizzazione del Paese. Si è scoperto, a poco a poco, che con la fine dell'Unione Sovietica si è consumata anche la fine di quella "formazione" rappresentata da quattro secoli di storia dell'impero multinazionale russo. E il tutto, osservato da questa prospettiva, ha dimostrato che la fine dell'Urss è stata parte del processo universale di dissoluzione degli imperi multietnici e della loro frammentazione in stati nazionali. Un processo che era già avvenuto, in Europa, con l’implosione degli imperi ottomano e asburgico dopo il primo conflitto mondiale e, fuori d'Europa, con la decolonizzazione seguita alla seconda guerra mondiale.
Lo scenario è andato modificandosi in seguito agli attentanti del settembre 2001 negli Usa. Quando Putin scelse di seguire la politica americana, assumendo il "terrorismo internazionale" come nemico pubblico numero uno. In realtà l'uomo del Cremlino voleva salire sul carro degli Usa per presentare i ceceni come terroristi e non come partigiani di una battaglia per l'indipendenza e la sovranità. E, proprio grazie a questa mossa strategica, Putin riuscì a ricollocare la Russia in una posizione centrale all'interno del sistema internazionale. Una posizione che sembrava perduta con la fine della guerra fredda e che la dirigenza russa ha cercato di recuperare per garantirsi un appoggio internazionale quanto a lotta al terrorismo.
Ma la domanda che, di conseguenza, viene avanti a Mosca proprio in questo periodo è questa: gli attentati di matrice caucasica sono solo atti di terrorismo o sono anche tesi a rivendicare l'autonomia delle regioni? E sarà forse a questo interrogativo che dovrà cercare risposte politiche e diplomatiche il nuovo governatore del Caucaso. Perché di fronte alla sostanziale inutilità delle azioni repressive del passato si è anche imboccata una via alternativa. Il 19 gennaio scorso, infatti, Medvedev ha istituito il Distretto Federale del Caucaso del Nord, che include le repubbliche di Dagestan, Inguscetia, Kalabardino-Balkaria, Circassia, Ossezia del Nord e Cecenia, oltre alla provincia di Stavropol.
Alla guida di questo super-governatorato il Presidente russo ha nominato Alexander Khloponin, quarantenne ex governatore della provincia di Krasnoyarsk, nella Siberia centrale. Sembra che l'obiettivo di Medvedev e Khloponin sia collegare l’azione sul territorio con lo sviluppo dell’occupazione, del benessere sociale, delle infrastrutture di cui le popolazioni del Caucaso russo sono drammaticamente carenti. Khloponin è un “outsider”, senza legami nel Caucaso, perciò è considerato imparziale, quindi temuto, anche per la sua reputazione personale. Ex oligarca rampante ai tempi di Eltsin, Khloponin diventa quindi un geniale governatore che trasforma la Siberia centrale, grande dieci volte l’Inghilterra, nel motore economico della Russia putiniana. Benessere e sicurezza fondata sulla legge e i diritti: questa è la missione di cui si dice protagonista Khloponin per pacificare il Caucaso.
E sembra questa anche la strategia di Medvedev, che considera il Caucaso come la principale emergenza nazionale. Ma questa prospettiva istituzionale è l’antitesi della “kadirovizzazione” voluta da Putin che aveva concesso carta bianca al presidente ceceno Ramzan Kadyrov per contenere la crisi all’interno del Caucaso. Alla fine la violenza ha generato soltanto altra violenza. Prima della riconciliazione e della ricostruzione la vera sfida di Khloponin è interrompere questo meccanismo mortale.
Intanto Medvedev, per salvare il salvabile, indica (e in questo è vero allievo di Putin al quale concede l'onore delle armi...) una serie di punti fondamentali nella lotta al terrorismo nel Caucaso. Annuncia: "Il rafforzamento delle forze dell’ordine, della polizia e del Fsb, nonché della magistratura", sostiene che "bisogna sferrare mortali colpi di pugnale ai terroristi, distruggere loro e i loro covi; aiutare coloro che decidono di rompere con i banditi; sviluppare l’economia, l’istruzione e la cultura; rafforzare la componente morale e spirituale”. E conclude la sua dichiarazione di guerra sostenendo che tutti devono comprendere una cosa ben precisa e cioè che "nel Caucaso, vivono nostri concittadini, cittadini della Russia. Non si tratta di una provincia straniera, anche questo è il nostro Paese". Questo vuol dire, semplicemente, che tutte le aspirazioni all'indipendenza soono respinte al mittente. Mosca non tratta. Proprio per questo dovrà (purtroppo) imparare a convivere con quello che chiama "terrorismo".
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di Marco Montemurro
Nelle Filippine sono ormai prossime le elezioni generali del 10 maggio, data nella quale il paese è chiamato alle urne per scegliere il presidente, il governo e le varie amministrazioni locali. Gli elettori dovranno nominare il successore di Gloria Arroyo che, giunta al termine del suo secondo mandato, dovrà inevitabilmente lasciare il suo incarico. Molti candidati si contendono la presidenza, ma il confronto principale sarà tra il senatore Benigno “Noynoy” Aquino e Manuel “Manny” Villar, un imprenditore che, secondo la rivista Forbes, è classificato tra le dieci persone più ricche delle Filippine.
Aquino appartiene a una celebre famiglia, simbolo della democrazia del paese: il padre, suo omonimo, fu assassinato nel ’83 perché avverso al governo autoritario di Marcos, e la madre, Corazon Aquino, fu presidente dal ’86 al ’92, ossia durante gli anni di transizione dopo la dittatura. Il prestigio di Villar, al contrario, non deriva dalle sue origini, bensì dal suo operato, ed è proprio questo aspetto che lo rende il candidato più controverso del panorama politico filippino.
Manny Villar ha incentrato la campagna elettorale proprio sulle sue umili origini, mostrandosi così all’opposto di Aquino, e ha scelto lo slogan “sipag at tiyaga”, che in lingua tagalog significa diligenza e perseveranza. Tale espressione intende spiegare che, con il lavoro duro e la determinazione, si possono realizzare tutte le aspirazioni e, per ribadire questo concetto, Villar racconta sempre la sua storia personale. Ricorda che è nato a Tondo, un quartiere povero di Manila, secondo di nove figli, cosicché, per sostenere i fratelli, da ragazzo dovette aiutare la madre a vendere il pesce al mercato.
Quando era giovane le risorse economiche dei genitori erano scarse ma, grazie alla sua determinazione, afferma che riuscì a lavorare e a terminare gli studi universitari. In seguito, all’età di ventisei anni, utilizzò i risparmi per acquistare due furgoni, con i quali s’introdusse nel settore dell’edilizia. Costituì poi una ditta che, sostiene Villar, con il trascorrere del tempo, mattone dopo mattone, è cresciuta fino a diventare l’attuale Vista Land, ossia la più grande compagnia di costruzioni delle Filippine. Tali successi, raccontati come se fossero solamente il frutto di sacrifici e di onesto lavoro, hanno contribuito alla costruzione di un mito attorno alla sua personalità.
Manny Villar da mesi sta investendo molto in comunicazione e propaganda, per far conoscere la sua biografia, peraltro controversa. In televisione sono frequenti i suoi messaggi elettorali che, accompagnati da una melodia come fossero spot pubblicitari, mostrano il candidato alla presidenza sorridente tra la povera gente, nei mercati e nei quartieri disagiati dove, abbracciato ai bambini, si presenta come “uno di noi”. Benché possegga capitali miliardari e sia classificato tra i più ricchi del paese, intende mostrarsi come una persona umile che, grazie a “sipag at tiyaga”, ossia lavoro e determinazione, è riuscito ad emanciparsi. Così, in nome di questi valori, i suoi sostenitori lo accolgono, considerandolo un esempio di vita. Il comitato elettorale di Villar ha perfino creato in internet un social network, chiamato “akala mo”, nel quale gli utenti possono condividere i propri “akala”, cioè le aspirazioni personali.
Sul sito si possono leggere storie di ragazzi che, nonostante svolgano umili attività, sognano il benessere. C’è chi lavora al mercato della frutta, chi vende cibo per strada e chi lavora il legno, vite diverse, ma tutte accomunate dal desiderio di gestire un negozio o un ristorante, cioè diventare imprenditori, come il beneamato candidato. Anche se non posseggono alcun capitale economico, sognano di avviare una propria attività commerciale. Villar rappresenta per loro colui che è riuscito a emanciparsi dalla povertà e, per tale ragione, molti credono che da presidente aiuterà tutti coloro che hanno ambizioni. É una sorta di sogno americano, esportato però in uno dei paesi più poveri del mondo, come le Filippine.
Contribuisce ad accrescere il fascino di Villar anche Manny Pacquiao, il pugile campione mondiale dei pesi leggeri che, per merito della sua fama, quest’anno aspira a un posto al Congresso tra le fila del partito Nazionalista, la stessa forza politica di Villar. Lo sportivo è un idolo di tutti ed è l’orgoglio dell’intero paese perché, grazie ai suoi combattimenti, la bandiera filippina viene innalzata sul podio durante le competizioni internazionali. Villar, utilizzando il carisma di Pacquiao, si è garantito la simpatia di molte persone e, per di più, il successo del pugile è riconducibile al suo slogan che invita alla perseveranza, perché anche lui ha dovuto affrontare situazioni difficili.
Manny Pacquiao, benché sia cresciuto in un quartiere disagiato, con la forza della tenacia è riuscito ad affermarsi, diventando ricco e famoso. L’ideale politico di Villar si concilia dunque con il mondo dello spettacolo e dello sport, vale a dire, tutti possono raggiungere il successo grazie all’impegno e al talento. Tra i sostenitori del partito Nazionalista inoltre vi sono anche personaggi famosi del mondo della televisione, come la candidata alla vicepresidenza Loren Legarda, giornalista conduttrice della Abs-Cbn, e il presentatore Boy Abunda, un altro volto molto noto tra il pubblico.
Nelle Filippine la campagna elettorale è incentrata, non tanto sui programmi politici, bensì sugli ideali; vince colui che sa interpretare meglio i valori e i desideri diffusi nella società. Sia Noynoy Aquino sia Manny Villar, infatti, simboleggiano due cause ben distinte. Il primo è associato ai diritti democratici, che furono difesi dal padre e dalla madre, il secondo invece rappresenta l’imprenditore di successo dalle umili origini, un esempio per tutti coloro che sognano il benessere. Chiunque sia il vincitore, il 10 maggio comprenderemo meglio quali sono le aspirazioni che i filippini nutrono per il futuro.
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di Eugenio Roscini Vitali
Nella zona di el Makombo, regione nord orientale della Repubblica Democratica del Congo, i ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore (Lord's Resistance Army - LRA) avrebbero commesso l’ennesima mattanza, uccidendo 321 civili e portando a termine il rapimento di almeno 250 congolesi, 80 dei quali bambini. A dirlo è Human Right Watch (HRW), che in un report pubblicato alla fine di marzo, parla di quattro giorni di violenza verificatisi tra il 14 e il 17 dicembre dello scorso anno, una follia omicida di cui non si era avuta ancora notizia. La strage, una delle più sanguinose tra quelle commesse dall’LRA nei suoi 23 anni di storia, dimostra come le popolazioni che abitano la vasta regione di confine a cavallo tra l’Uganda e la Repubblica Democratica del Congo vivano ancora sotto la costante minaccia di una delle più sanguinarie organizzazione paramilitari dei nostri tempi.
Questo nonostante le dichiarazioni delle autorità di Kampala che negli ultimi tre anni hanno più volte annunciato la sconfitta politica e militare di Joseph Kony, leader ed ideologo di un movimento noto soprattutto per l’efferata violenza con la quale, da quasi un quarto di secolo, porta avanti una delle più brutali guerre civili che l’Africa abbia fino ad ora conosciuto, un conflitto impastato di misticismo e fondamentalismo cristiano che ha già causato migliaia di vittime.
Intitolato “Trail of Death: LRA Atrocities in Northeastern Congo”, il report pubblicato da HRW è senza dubbio il primo documento che descrive in modo dettagliato le atrocità perpetrate dall’LRA tra il 2009 e i primi mesi del 2010; 67 pagine nelle quali vengono raccontati i fatti accaduti in almeno dieci villaggi della provincia nord orientale di Haut-Uélé, con atti di violenza di ogni genere, omicidi, torture, sevizie, stupri e rapimenti.
Tra le 321 vittime si conterebbero numerosi adulti di sesso maschile, legati e poi trucidati a colpi di machete o a bastonate, 13 donne e 23 bambini, il più giovane dei quali, di appena tre anni, sarebbe stato dato alle fiamme. Massacrati anche coloro che hanno tentato la fuga e chi, fatto prigioniero, avrebbero rallentato la ritirata dei guerriglieri. Le testimonianze raccolte da HRW parlano di brutalità indescrivibili e di corpi ritrovati lungo la strada che dalle zone interne del Makombo porta alla piccola città di Tapili, circa 100 chilometri più a sud. Tra i casi documentati nel report si parla anche di bambini costretti ad uccidere altri bambini, gruppi di adolescenti ai quali è stato ordinato di circondare i coetanei che si rifiutavano di obbedire per poi colpirli a bastonate fino ad ucciderli.
Nella regione interessata dalle violenze la missione di pace delle Nazioni Unite (MONUC) opera attualmente con un contingente di circa mille unità, un numero evidentemente insufficiente per un’area geografica così vasta ed impervia, dove le frontiere praticamente non esistono e dove i gruppi ribelli e le bande di predoni passano con facilità da uno Stato all’altro e viceversa: dall’Uganda alla Repubblica Centrafricana, dal Sudan meridionale alle province nord orientali dell’ex Zaire. Un report pubblicato alla fine dello scorso anno dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHCHR) precisava che nell’arco dei primi dieci mesi del 2009 l’LRA aveva ucciso quasi mille persone, rapito 1.400 civili, tra cui 600 bambini e 400 donne, e causato la fuga dai propri villaggi di almeno 230 mila congolesi.
Numeri che confermano i dati raccolti dall’Ufficio dell'Onu per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), che per lo stesso periodo parla di 849 civili uccisi e di 1.486 rapimenti, e dal Fondo delle Nazioni Unite per le Popolazioni (UNFPA), che nella parte orientale del Paese conta circa 8.000 casi di donne rapite, sequestri portati a termine soprattutto dagli uomini di Kony e dalle milizie Hutu delle Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda (FDLR), che dal 1994 operano a fasi alterne nelle province del Kivu-Nord e Kivu-Sud.
Recentemente, l’OCHA aveva lanciato un allarme sulle razzie perpetrate dall’LRA e su una nuova escalation di violenze che nel distretto di Haut-Uélé potrebbe presto arrivare a coinvolgere i centomila ospiti dei campi profughi gestiti dalle organizzazioni umanitari internazionali. Un allarme che tra la popolazione desta grande preoccupazione, soprattutto ora che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, anziché rinforzare il contingente militare di pace, sembra voglia dare credito alle richieste di Kinshasa che da tempo preme affinché la MONUC abbandoni il Paese entro l’estate 2011.
E che all’Uganda e al Sudan meridionale l’LRA ormai preferisca le province congolesi, in particolar modo le foreste del Garamba National Park, è ormai un fatto assodato: il 27 gennaio scorso, poche settimane dopo il massacro di Makombo, l’Esercito di Resistenza del Signore è arrivato ad operare nelle aree prossime ai grossi centri urbani che sorgono lungo il fiume Uélé; due ragazzi sono stati rapiti nei pressi di Niangara e durante la notte è stato attaccato un piccolo villaggio che sorge a pochi chilometri da Dungu, città famosa per i due grandi campi profughi sorti negli anni Novanta per ospitare i civili fuggiti dalla Seconda guerra civile sudanese.
Perpetrata da due diversi gruppi, guidati secondo Human Rights Watch dal Tenete Colonnello Binansio Okumu (conoscito anche come Binany) e dal Comandante Obol, la strage di Makombo è solo uno dei capitoli della sanguinosa storia scritta dall’LRA. L’ultimo grande massacro risaliva al dicembre 2008: 865 civili trucidati nei villaggi a ridosso del confine con il Sudan in risposta all’operazione militare (Operation Lightning Thunder) lanciata in territorio congolese dalle truppe ugandesi e dall’intelligence americana.
Nel dicembre dello scorso anno i guerriglieri di Kony erano tornati ad attaccare il distretto di Haut-Uélé, un assalto contro i villaggi di Bangadi e Ngilima che verrà ricordato per le orribili mutilazioni inferte ai prigionieri, straziati dalle sevizie e dall’amputazione delle labbra e di un orecchio affinché diventassero testimonianza vivente della presenza dell’LRA nella regione. Si calcola che a partire dal 1986 i guerriglieri guidati da Joseph Kony abbiano rapito circa 25.000 bambini, trasformati poi in piccoli soldati o schiavi sessuali dei capi ribelli, ed abbia causato la morte di quasi 100 mila persone.
L'80% delle forze dell'LRA è costituito proprio da questi bambini, usati come scudi umani per la localizzazione di mine antiuomo o mandati in prima linea a combattere o addirittura costretti ad uccidere i coetanei che si rifiutano di eseguire gli ordini; le ragazzine diventano invece schiave o “mogli” dei comandanti, vittime di ogni tipo di abuso e spesso madri a soli tredici anni.
Per più della metà di essi non si hanno più notizie, mentre i pochi fortunati che riescono a scappare devono affrontare i traumi psicologi causati dagli orrori di un’esperienza allucinante e un reinserimento sociale spesso difficile. Il 6 ottobre 2005 la Corte Penale Internazionale ha emesso cinque mandati di cattura contro altrettanti membri dell’LRA: i capi di accusa sono 33, dodici dei quali per crimini che comprendono l’assassinio, la riduzione in schiavitù, lo schiavismo sessuale e lo stupro. Altri ventuno, rubricati tra i crimini di guerra, comprendono l’omicidio, i maltrattamenti, il saccheggio, l’induzione allo stupro, il rapimento e lo sfruttamento di bambini.
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di Giuseppe Zaccagni
Alle lacrime per i massacri di Katyn del 1940 si aggiunge ora la tragedia del Tu154 number one della presidenza di Varsavia che precipita - proprio nel giorno del ricordo della strage - nella terra di Smolensk, già bagnata dal sangue di quegli 11mila ufficiali polacchi uccisi dalla polizia segreta sovietica Nkvd. A bordo del "Tupolev" c'era l'intera delegazione ufficiale che doveva prendere parte alle cerimonie di Katyn.
Perché in questo disastro, che per la Polonia non ha precedenti, muoiono il Presidente Lech Kaczynski (e sua moglie Maria), il Governatore della Banca centrale, Slawomir Skrzypek, il Capo di Stato Maggiore, Franciszek Gagor, il capo dell'Istituto per la memoria nazionale, Janusz Kurtyka, il capo dell'Ufficio per la sicurezza nazionale Aleksandr Szczyglo, il capo della cancelleria presidenziale Wladyslaw Stasiak, il Segretario di Stato alla presidenza, Pawel Wypych e il Sottosegretario Mariusz Handzlik. Tra le 95 vittime anche numerosi deputati del partito del presidente - Pis (Diritto e Giustizia, conservatore) - e varie personalità storiche, come l'ultimo presidente del governo polacco in esilio a Londra, Ryszard Kaczorowski. E' un’ecatombe: scompare gran parte della attuale classe dirigente polacca.
Mosca organizza intanto una commissione d’inchiesta guidata dal premier Putin. E si sa già che la zona di Smolensk - al momento del disastro - era avvolta da una fitta coltre di nebbia e che dalla torre di controllo erano partiti segnali di allarme proponendo ai piloti del TU154 di modificare la rotta andando ad atterrare a Minsk. Ma questo non è avvenuto.
Intanto il governo di Varsavia rende noto che dopo la morte del presidente verranno indette elezioni anticipate e che per il momento a svolgere le funzioni presidenziali sarà Bronislaw Komorowski, attuale portavoce della Camera Bassa del Parlamento.
E di conseguenza la Polonia si troverà a voltare pagina.
La tragedia attuale, come detto, si è svolta sullo scenario dei giorni scorsi quando Mosca e Varsavia avevano ritrovato significativi punti di contatto. Perchè, proprio sulla questione delle "Fosse di Katyn", la Russia - con una dura requisitoria geopolitica - aveva riconosciuto le sue colpe sulla strage operata nel 1940 dall'Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Un crimine che Mosca aveva attribuito per decenni ai nazisti e che ora è tornato alla luce con tutta la realtà dei documenti e delle testimonianze. Con la Storia che si è ripresa la sua verità.
A siglare lo storico momento di riconciliazione è stato Putin il quale cercando una via d'uscita diplomatica e coesistenziale ha incontrato, appunto nei giorni scorsi, il collega polacco Donald Tusk. In quell’occasione sono stati rievocati i terribili momenti di quei "fatti di Katyn". E cioé il massacro avvenuto in quella foresta durante la II Guerra mondiale, con l'esecuzione di massa, da parte dei sovietici, di soldati polacchi detenuti del campo di prigionia di Kozielsk vicino al villaggio di Gnezdovo, a breve distanza da Smolensk.
Era l'anno 1940 quando le truppe sovietiche arrestarono 18.000 ufficiali dell'esercito, 230.000 soldati e 12.000 ufficiali di polizia. Tutti i graduati vennero portati in campi di concentramento su espresso ordine di Stalin: 11.000 di loro vennero uccisi con un colpo alla nuca e seppelliti in fosse comuni nella foresta vicino a Katyn. I tedeschi scoprirono le fosse nell'aprile del 1943, ma i russi "risposero" accusando proprio i tedeschi. Per poi far scendere una cortina di silenzio su tutta la vicenda, sfumando a poco a poco le testimonianze storiche.
Solo nel 1990 Mosca ammise la sua responsabilità. Ed ora Putin a Katyn non ha nascosto gli orrori commessi dal regime staliniano ai danni dei polacchi, ma nello stesso tempo ha proposto a modello l'attuale collaborazione Russia–Germania che, pur conservando la memoria del passato, sa guardare in avanti. Un'occasione storica, quindi, un’azione di grande diplomazia per stabilire un clima di distensione nel mondo slavo.
Proprio nei giorni scorsi Putin ha dichiarato alla stampa polacca che è un dovere morale comune chinare la testa davanti ai caduti, davanti al coraggio e alla tenacia dei soldati di paesi diversi, che hanno combattuto e distrutto il nazismo. Poi, con una rivisitazione storica di significativo livello, ha parlato di pagine tragiche relative a storie comuni, ma ha anche avvertito che è quanto mai dannoso e irresponsabile speculare sulla memoria, sezionare la storia per cercarvi motivi per reciproche accuse e pretese. E ha denunciato colpe di politici e storici che hanno cercato di riscrivere la storia in funzione delle necessità dell'immediata congiuntura politica.
Quando sono stati posti sull'altare degli eroi i collaboratori dei nazisti e sono stati posti sullo stesso piano vittime e carnefici, liberatori e occupanti. L'affondo di Putin ha poi toccato Stalin, accusato di aver cancellato - grazie alla sua censura - nomi e fatti che non andavano a genio al Cremlino. Putin ha anche affrontato la questione della "amoralità" del patto Molotov-Ribbentrop, ricordando però che proprio un anno prima Francia ed Inghilterra avevano sottoscritto a Monaco quel noto accordo con Hitler che aveva distrutto ogni speranza di formare un fronte comune di lotta contro il fascismo.
Ora la tragedia delle ultime ore riporta di grande attualità tutto il complesso stato delle relazioni tra Mosca e Varsavia. Ma é chiaro che da oggi i due paesi saranno più vicini, uniti in un lutto comune.
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di Michele Paris
Da qualche settimana a questa parte, un’accesa disputa sta mettendo a dura prova i già logori rapporti tra il presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, e gli Stati Uniti. Quel poco di credibilità rimasta agli occhi delle potenze occupanti dopo le elezioni presidenziali dello scorso agosto caratterizzate da brogli diffusi, Karzai sembra averla persa rapidamente nell’ultimo periodo. Una inaspettata resistenza alle richieste occidentali e lo scontro prolungato sul controllo del processo elettorale, in vista del voto per il rinnovo del Parlamento afgano, stanno producendo un durissimo scontro con Washington, dove sembra si stia cominciando a pensare ad un futuro senza il presidente, ormai ex fantoccio della Casa Bianca.
Ad accendere gli animi tra Kabul e Washington, a febbraio, era stata la firma da parte di Karzai di un decreto che gli attribuiva maggiori poteri sulla commissione elettorale incaricata di valutare eventuali irregolarità nel voto. Una commissione che dopo le presidenziali dello scorso anno aveva annullato quasi un milione di schede a lui favorevoli in seguito a svariati reclami per presunte irregolarità. Con la nuova legge, il presidente afgano intendeva assicurarsi la facoltà di nominare tutti e cinque i membri della commissione. Una mossa che avrebbe privato l’ONU della possibilità di esercitare un qualsiasi controllo sulla correttezza delle procedure di voto.
In risposta all’iniziativa di Karzai, la Casa Bianca a marzo aveva allora cancellato bruscamente una visita a Washington del presidente afgano, il quale a sua volta aveva reagito invitando a Kabul il leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad, protagonista di un discorso dagli accesi toni anti-americani. Ad allentare momentaneamente le tensioni era giunta infine una visita a sorpresa di Obama nella capitale afgana. Oltre alla ormai consueta richiesta di adoperarsi maggiormente per combattere la corruzione dilagante nel suo gabinetto, il presidente americano era riuscito ad ammorbidire in parte la posizione di Karzai sulla questione della commissione elettorale.
Quest’ultimo, ha così acconsentito a scegliere solo tre dei cinque membri, riservandosi il diritto di nominare gli altri due dietro segnalazione dei delegati delle Nazioni Unite nel paese. La disputa si è successivamente trasferita sul terreno interno, dal momento che la Camera bassa del Parlamento afgano ha unanimemente bocciato il decreto di Karzai. Con la Camera alta che si è però rifiutata di esprimersi, e la Commissione Elettorale Indipendente espressasi a favore, il colpo di mano del presidente sembra destinato comunque ad andare a buon fine.
Che i dissapori con gli USA non siano però limitati a questioni elettorali lo confermano le più recenti uscite di Karzai nei confronti della potenza occupante che lo aveva issato ai vertici del nuovo stato afgano dopo la deposizione del regime talebano. Secondo alcune ricostruzioni, Karzai avrebbe espresso in privato tutte le sue riserve nei confronti degli americani, accusandoli di puntare esclusivamente al dominio del paese e dell’intera regione centro-asiatica. A suo dire, sarebbe proprio Washington ad ostacolare gli sforzi fatti dal suo governo per stipulare accordi di pace con i talebani più disponibili al dialogo. Una strategia mirata a perpetuare il caos in Afghanistan, così da giustificare una permanenza prolungata delle truppe NATO nel paese.
Come non bastasse, Karzai ha lanciato pubblicamente altre pesanti critiche all’Occidente che hanno provocato la durissima reazione della Casa Bianca. Il presidente afgano ha accusato gli USA e l’ONU di voler istituire un governo-fantoccio e per raggiungere tale scopo avrebbero orchestrato diffuse irregolarità nel voto dello scorso agosto, così da impedirgli di conquistare un secondo mandato.
L’ira di Karzai si è concentrata in particolare sull’ex vice capo missione dell’ONU in Afghanistan, il diplomatico americano Peter W. Galbraith, e l’ex generale francese Philippe Morillon, numero uno della missione dell’UE incaricata di supervisionare le operazioni di voto. Se i soldati alleati nel paese, ha aggiunto Karzai, continueranno ad essere percepiti puramente come mercenari al servizio degli interessi delle potenze occidentali, allora il popolo afgano non potrà che considerarli come invasori, trasformando inevitabilmente gli insorti talebani in un “movimento nazionale di resistenza”.
Una prospettiva quest’ultima che appare peraltro già molto vicina alla realtà sul campo, come testimoniano ormai svariati resoconti anche della stampa “mainstream” d’oltreoceano. È stato lo stesso New York Times, ad esempio, qualche giorno fa a rivelare il reale rapporto di forze nel distretto di Marja, nella provincia meridionale di Helmand, obiettivo della più recente offensiva delle forze ISAF. Nonostante i proclami, le forze occidentali qui controllerebbero quasi esclusivamente le proprie basi, mentre i Talebani avrebbero in mano tutte le aree circostanti, mettendo in atto ritorsioni nei confronti di quanti hanno collaborato con gli occupanti stranieri e costringendo alla chiusura molti progetti di ricostruzione frettolosamente avviati.
L’inquietudine mostrata da Karzai e le conseguenti reazioni di Washington rivelano in definitiva la vera natura del conflitto scaturito come risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Una guerra mirata ad istallare un governo docile agli interessi americani, indirizzati principalmente al controllo di una regione dalle sconfinate riserve energetiche, minacciate dall’instabilità dei movimenti integralisti islamici e dalla concorrenza di Russia e Cina.
Le accuse lanciate dal presidente afgano ai padroni di Washington riflettono, da un lato, la crescente ostilità della popolazione locale nei confronti di un’occupazione quasi decennale che ha causato migliaia di vittime civili e, dall’altro, rivelano le angosce di un Karzai sempre più isolato a livello internazionale e smanioso di riconquistare una qualche credibilità sul fronte domestico, cercando di resistere alle pressioni esercitate dall’Occidente.
Per l’amministrazione Obama, in ogni caso, il rapporto con Karzai rappresenta un vero e proprio dilemma. Con un secondo mandato da presidente che scadrà tra più di quattro anni, prenderne le distanze in maniera netta significherebbe minare il sostegno alla strategia americana che prevede entro l’estate l’invio in Afghanistan di altri 30 mila soldati. La minaccia di ritirare il contingente alleato per spingere Karzai a più miti propositi, poi, non appare percorribile, poiché la difesa degli interessi americani in Asia centrale deve passare necessariamente attraverso un’occupazione militare dell’Afghanistan.
In una situazione che sembra senza uscita, da qualche ambiente diplomatico inizia allora a trapelare l’ipotesi di una possibile spallata nei confronti del governo di Karzai, con ogni probabilità da mettersi in atto ad opera di quell’Alleanza del Nord che nel 2001 giocò un ruolo chiave nella cacciata dei talebani. Il tutto con la tacita approvazione di Washington, nel solco di una pratica americana ampiamente consolidata nel tempo.