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di Carlo Benedetti
Mosca. In Ucraina il 7 febbraio si va al ballottagio per eleggere il nuovo presidente: si dovrà scegliere tra Viktor Janukovic (che nel primo turno del 18 gennaio ha toccato il 35% dei voti) e Julija Timoshenko (che si è attestata sul 25%). La situazione non è facile per nessuno dei due. Il pericolo maggiore è che si resti racchiusi nel ghetto di un passato segnato da quella “rivoluzione arancione” sponsorizzata dagli americani e da un personaggio come il megaspeculatore George Soros, che cerca di imporre le sue scelte - finanziarie ed ideologiche - sui territori dell’ex Unione Sovietica alimentando soprattutto uno scontro tra Kiev e Mosca.
Le due figure in ballo in questo ballottaggio, comunque, non vanno considerate come comparse nelle mani di burattinai che risiedono a Mosca o negli Usa. Janukovic ha un suo volto ben preciso. Si presenta come uomo forte, scattante e aggressivo. Vuole mantenere il Paese nel campo della completa autonomia - politica, economica e militare - senza nessuna concessione a quell’antirussismo che in Ucraina ha preso il posto dell’antisovietismo. E per portare avanti questa linea spinge l’acceleratore verso il futuro, senza però tagliare i ponti con la vecchia e forte struttura “sovietica” dell’intero Paese. E così le sue riserve si trovano in quelle fortezze operaie che confinano con la Russia.
Sul fronte opposto c’è la signora Timoshenko, una nazionalista “antirussa” quanto ad ideologia, ma “occidentalista” per quanto concerne l’economia. E’ impegnata nel mondo degli affari del gas e, quindi, legata a quelle oligarchie che, rivendicando il pieno controllo delle industrie, vorrebbero gestire le relazioni con l’ovest operando per costituire un loro vero e proprio governo parallelo capace di realizzare mostruose speculazioni.
Ed ecco che mentre a Kiev, nei corridoi del potere, si sente il rullo compressore d’un passato che non si da per vinto, avanzano le quotazioni di una terza forza che è però fuori dalle urne del prossimo ballottaggio. Ci riferiamo a Serghej Tighipko, che esprime interessi economici e sociali nonchè correnti di opinione. Si presenta sulla scena con un forte potere personale, ma con marcati tratti dispotici sino ad essere soprannominato un “Putin ucraino” carico di ambizioni. Saranno ora gli elettori a stabilire da che parte dovrà rivolgersi l’ago della bilancia politica.
Sin qui l’avventura ucraina, segnata da opzioni eminentemente politiche che, nell’area geografica del post-sovietismo, vengono interpretate e guardate con occhi particolari. Perchè è la prima volta che dal crollo dell’Urss, in un paese coinvolto nella dissoluzione del sistema, nascono vere alternative politiche. Nessuna processione degli sconfitti, nessuna sfida all’ultimo sangue. Anzi: c’è stata e c’è una corsa verso il consolidamento di progetti riformisti e verso la creazione di una “società civile”. Perchè nell’Ucraina di oggi, ad esempio, i partiti esistono e si fanno sentire. Muovono le piazze e si caratterizzano con precisi interventi a livello parlamentare. Editano giornali ed intervengono regolarmente nelle tribune televisive.
Non c’è - tanto per dirla tutta - quel peso del potere centrale che si sente a Mosca, dove il Cremlino dei due (Putin e Medvedev) detta l’ordine del giorno proibendo le diverse manifestazioni e le varie pulsioni. In Ucraina, tutto sommato, le travolgenti manifestazioni della “rivoluzione arancione” e gli scontri tra l’ala orientale e quella occidentale (Kharkov e Lvov tanto per fare i nomi delle città simbolo) non hanno bloccato il processo pluralista. E la situazione di questo momento sta a dimostrare che si è raggiunto un punto di non ritorno. Spetterà ora al nuovo voto stabilire i passi futuri del Paese.
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di Michele Paris
La gara di solidarietà scatenatasi tra le potenze mondiali all’indomani del rovinoso terremoto del 12 gennaio scorso ad Haiti, a stento nasconde una feroce competizione con in palio il controllo di un’area della terra ricca di risorse energetiche e minerarie. Lo spiegamento di 20 mila soldati americani e il controllo esercitato dagli USA sulle operazioni di soccorso, non è che la logica conseguenza dell’abituale interventismo di Washington nei confronti del paese più povero di tutta l’America Latina e prefigura un’occupazione che potrebbe presto procedere di pari passo con lo sfruttamento del petrolio caraibico.
L’anno successivo alla deposizione del presidente haitiano democraticamente eletto, Jean-Bertrand Aristide, orchestrata dall’amministrazione Bush nel 2004, l’Istituto di Geofisica dell’Università del Texas diede il via ad un ambizioso progetto per giungere ad una mappatura geologica del bacino caraibico. Da ultimarsi entro il 2011, la ricerca ha beneficiato dei generosi finanziamenti di alcune delle maggiori multinazionali petrolifere, tra cui Chevron, ExxonMobil e Shell. L’obiettivo principale dello studio non è altro che quello di stabilire una connessione tra la conformazione geologica dei Caraibi e la possibile presenza di idrocarburi in quantità consistenti.
Come descrive esaustivamente il giornalista e ricercatore tedesco-americano F. William Engdahl sul sito globalresearch.ca, il progetto dei geologi americani si baserebbe su una teoria che identifica le aree terrestri sismicamente più attive come quelle potenzialmente più ricche di petrolio e gas naturale. Ciò deriverebbe dall’intersezione delle placche tettoniche terrestri, il cui movimento è appunto all’origine dei terremoti. Le aree dove convergono diverse placche potrebbero essere caratterizzate, infatti, da movimenti verso la superficie di grandi quantità di petrolio o gas provenienti dal mantello terrestre.
Tale teoria - detta dell’origine abiotica del petrolio - è ancora poco diffusa nella comunità scientifica e sostiene che gli idrocarburi si formino in seguito a processi non biologici che avvengono proprio in profondità nel mantello terrestre. Il petrolio, perciò, non sarebbe un combustibile fossile prodotto da materia organica rimasta sepolta in assenza di ossigeno per milioni di anni (teoria biogenica). Di conseguenza, esso non sarebbe più da considerare una risorsa limitata, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero sul piano geopolitico e dei rapporti tra le potenze mondiali e i paesi produttori.
Haiti, e l’intera isola di Hispaniola che condivide con la Repubblica Dominicana, si trova precisamente all’incrocio delle placche tettoniche nordamericana, sudamericana e caraibica. Una zona dalla conformazione simile ad altre estremamente ricche di riserve petrolifere, come quella che in Medio Oriente va dal Mar Rosso al Golfo di Aden, oppure al largo delle coste della California. Tutto ciò, assieme a resoconti diffusi negli ultimi tre decenni dagli organi di stampa e dai vertici politici haitiani circa la presenza sull’isola di giacimenti inesplorati, sta contribuendo ad inasprire le rivalità tra i tre paesi che più si sono dati da fare nelle operazioni di soccorso: USA, Francia e Canada.
Poco meno di due anni fa, un giornalista haitiano aveva fatto riferimento in un suo articolo ad una importante nota informativa diramata nell’estate del 1979 da un funzionario governativo. In questo documento si citava il sondaggio di cinque pozzi di grandi dimensioni, da cui erano stati estratti dei campioni. Questi ultimi erano poi stati inviati presso un laboratorio di Monaco di Baviera che aveva confermato la presenza di tracce di petrolio. Nello stesso anno era stato inoltre condotto uno studio geologico in alcune aree dell’isola che aveva individuato undici pozzi ritenuti adatti ad un’esplorazione immediata.
Nonostante i risultati promettenti, i potenziali giacimenti di Haiti rimasero inesplorati e non attirarono l’attenzione delle compagnie petrolifere. Le speculazioni sarebbero riprese a circolare all’alba del nuovo secolo. Nel marzo del 2004, a pochi mesi dall’inizio del progetto dell’Università del Texas e subito dopo la rimozione di Aristide, in un altro giornale locale lo scrittore haitiano Georges Michel ricordava come al di sotto delle acque al largo di Hispaniola fossero presenti riserve di idrocarburi ancora intatte e come ciò fosse noto da quasi un secolo.
Recentemente poi, il Direttore del Dipartimento minerario del paese, Dieseul Anglade, ha segnalato la necessità di ampliare ed approfondire le ricerche che confermino la presenza di giacimenti petroliferi. Anglade ha rivelato alla stampa che le 11 perforazioni realizzate dalle compagnie straniere hanno permesso di scoprire “indizi importanti di depositi consistenti di idrocarburi”. Le perforazioni sono state effettuate da tre compagnie europee nelle zone di Plaine du cul-de-Sac, Artibonite, Plateau Central e nel golfo di Gonave. Diversi ricercatori francesi si sono detti certi dell’esistenza zinco e uranio 238 e 235, gli stessi che utilizzano i reattori nucleari per generare energia.
L’interesse crescente per il petrolio di Haiti fu ribadito successivamente in una intervista dell’estate del 2008 al direttore del Dipartimento dell’Energia, il quale rivelava la richiesta pervenuta al governo di concessioni per condurre esplorazioni sotterranee alla ricerca di petrolio da parte di quattro compagnie estere. A confermare gli appetiti nei confronti dei Haiti, soprattutto dopo il terremoto, c’è anche una dichiarazione rilasciata dal responsabile delle esplorazioni per la compagnia texana Zion Oil & Gas Inc., Stephen Pierce, a Bloomberg News lo scorso 26 gennaio, nella quale viene ipotizzato come il sisma avrebbe provocato la risalita del petrolio verso la superficie.
Quella che, secondo l’ex numero uno dell’ente per le raffinazioni dominicano (REFIDOMSA), equivale a una “cospirazione illegale per impossessarsi delle risorse del popolo di Haiti” appare dunque iniziata. La priorità di Haiti e delle ricchezze del sottosuolo caraibico per Washington, nonostante gli impegni già gravosi in altre aree del globo, è testimoniata non solo dall’invio di un foltissimo contingente militare, ma anche dall’impegno assunto in prima persona dagli ex presidenti Bill Clinton e George W. Bush.
Proprio il predecessore di Obama alla Casa Bianca aveva appoggiato la cacciata di un presidente, Aristide, appunto, che aveva tra l’altro prospettato chiaramente un piano d’investimenti in ambito petrolifero basato su capitali pubblici e privati, i cui proventi sarebbero andati in buona parte a beneficio dell’economia dell’isola. Dall’esilio di Aristide, Haiti è diventata invece un paese praticamente occupato, patrocinato dal cosiddetto inviato speciale dell’ONU Bill Clinton, assoggettato ai dettami del Fondo Monetario Internazionale e ora in fase di spartizione tra gli interessi americani, francesi e canadesi.
Il controllo di Haiti è diventato, d’altra parte, sempre più importante per gli Stati Uniti dopo la recente scoperta di un giacimento di petrolio molto consistente al largo di Cuba e alla luce dei progressi fatti segnare in America Latina da Russia e Cina. L’Avana ha infatti siglato un accordo di sfruttamento del nuovo pozzo sotterraneo con la spagnola Repsol, mentre nel corso di un viaggio in Sudamerica nel 2008, Medvedev si era assicurato la possibilità di accedere al nickel e al petrolio cubani. Allo stesso modo, nel novembre dello stesso anno, per la prima volta la Cina aveva annunciato ufficialmente la propria politica nei confronti dell’America Latina e dei paesi caraibici, gettando le basi per futuri accordi bilaterali e cooperazioni economiche.
Dietro la facciata umanitaria dell’intervento americano ad Haiti, insomma, sembra nascondersi ancora una volta il tentativo da parte di Washington di riaffermare il primato dei propri interessi strategici ed economici in un’area del pianeta in grande fermento. Non proprio un "nuovo corso".
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di Eugenio Roscini Vitali
Mentre Washington vende 6,4 miliardi di dollari di armi a Taipei e il direttore della CIA, Leon Panetta, vola in Medio Oriente per portare a termine una doppia missione “segreta” in Egitto e Israele ed organizzare un eventuale intervento militare americano nello Yemen, Mosca e Tripoli si preparano a trattare un affare da due miliardi di dollari. Si tratta di una vendita di armamenti che equivale, in pratica, a 10 dei 25 anni di risarcimento che l’Italia deve alla Libia, almeno secondo quanto stabilito dall'accordo di “Amicizia, partenariato e cooperazione” sottoscritto il 30 agosto 2008 a Bengasi da Berlusconi e Gheddafi.
La notizia, diffusa dal sito israeliano Debka, parla dell’acquisto di quanto di meglio possa offrire oggi l’industria bellica russa nel campo della difesa aerea: i sistemi missilistici terra aria di ultima generazione S-300 PMU-2 Favorit (SA-20B), sono gli stessi che il Cremlino deve consegnare all’Iran e che sono al centro di una difficile contesa diplomatica con Washington e Gerusalemme. Il contratto, stipulato nei giorni scorsi a Mosca durante un incontro tra il premier Vladimir Putin e il Generale Abu Bakr Younis Jaber, rappresentate libico del Comitato provvisorio per la Difesa, prevede la consegna entro la fine del 2010 di otto batterie missilistiche S-300 PMU-2 Favorit, 15 caccia multiruolo Sukhoi Su-35, 8 caccia bombardieri Sukhoi Su-30 MK2, 50 carri armati T-90 e l’aggiornamento dei 145 T-72 libici ancora in servizio.
La Libia sta uscendo da un lungo periodo d’isolamento e da anni di sanzioni che non sembrano però aver indebolito la sua economia e il suo desiderio di tornare a giocare un ruolo importante, non solo in Africa, ma anche nei rapporti tra Medio Oriente ed Occidente. Con Gheddafi al potere da quarant’anni, il rischio politico è praticamente inesistente; nell’ultimo quinquennio il Paese ha rafforzato i rapporti politici ed economici sia con i con gli Stati Uniti che con i principali paesi europei, in primis l’Italia, che dal 2008 è nuovamente il principale partner dello sviluppo infrastrutturale, sociale e culturale della Jiamahiria Libica.
Un processo di apertura internazionale che, anziché portare alla luce le numerose violazioni contro i diritti umani (denunciate tra l’altro dalle più rappresentative organizzazioni umanitarie) ha raccolto i vantaggi dovuti dall’abolizione delle sanzioni sul settore petrolifero. Nell’arco di pochi anni l’esportazione di greggio e gas naturale ha conosciuto una rapida espansione: basti pensare che nel 2000 il suo contributo alla formazione del PIL rappresentava il 39% contro il 68% del 2007, anno nel quale ha costituito il 98% delle esportazioni e il 90% delle entrate governative.
Sviluppato tra il 1995 e il 1997dalla Almaz Central Design Bureau, industria della difesa che ha disegnato gran parte dei missili russi, l’S-300 PMU-2 è stato concepito per competere con sistemi anti-balistici quali l’S300V (SA-12 Gladiator/Giant), costruito dall’Antey, altra importante industria bellica russa, e il Patriot PAC-2/3, prodotto dall’americana Raytheon. Il sistema modulare Favorit comprende una posto comando 83M6E2, che include un centro di comando e controllo 54K6E2 e un radar 64H62E di sorveglianza e ricerca; un radar 30H6E2 di illuminazione dell’obbiettivo e controllo di fuoco, un sistema di allarme e di acquisizione primaria 96L6E, un gruppo antenna 40B6M e fino a dodici lanciatori 5P85SE. Come sistema d’arma usa i missili 46N6E2, nei quali è stato integrato un algoritmo aggiornato della traiettoria incrementale di volo e d’impatto terminale ed è stata potenziata la capacità di contro-contromisure elettroniche (ECCM). Il sistema, che può gestire simultaneamente fino ad un massimo di 100 tracce, acquisisce obbiettivi in un range di 300 chilometri. Per gli aerei la distanza di ingaggio è di 200-300 chilometri, per i missili 5-40 chilometri; la quota va dai 30 ai 90 mila piedi.
Per Teheran procede ad una immediata attuazione degli accordi presi con la Federazione Russa nel marzo 2009, ed ottenere quindi gli S-300 PMU-2, rimane comunque un obbiettivo possibile: il passepartout si chiama Damasco, che con il Cremlino ha un contratto aperto per l’acquisizione di un numero non ben definito di batterie S-300. Il successivo trasferimento in Iran diventa quindi un dettaglio trascurabile, soprattutto perché a pagare il conto è sempre e comunque la Repubblica Islamica.
Nonostante le pressioni occidentali, la Russia non sembra comunque intenzionata ad interrompere la collaborazione militare con il Paese sciita. A dirlo è Anatoly Isaikin, direttore generale della Rosoboron export, società commerciale di proprietà dello Stato che fornisce armamenti a 70 Paesi, tra cui India, Algeria, Cina, Venezuela, Malaysia, Siria ed ora anche Libia.
In un’intervista pubblicata dall’agenzia di stampa ITAR-TASS, Isaikin ha dichiarato che la compagnia non vede alcun problema nella fornitura dei sistemi missilistici S-300: “Sono armi di difesa, non di attacco. Vorrei trasmettere questo pensiero agli organismi ufficiali, facendo per esempio ricorso alle ripetute dichiarazioni fatte dal Servizio Federale russo per la Cooperazione tecnica e militare e dal ministro degli Esteri, Sergei Lavrov”. Dichiarazioni che dimostrano quanto Mosca non abbia alcuna intenzione di recedere da un contratto del valore di svariate centinaia di milioni di dollari, ufficialmente sospeso solo a causa di sanzioni internazionali che possono comunque essere aggirate.
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di Carlo Benedetti
Mosca. A Kazan, capitale dell’Islam russo, soffia il vento di una perestrojka che dovrebbe riguardare il futuro e il rinnovamento. In questa grande repubblica dei Tartari, entità musulmana, autonoma all’interno della federazione russa, è in atto, infatti, un cambiamento di direzione che, pur se presentato come un normale avvicendamento, è un momento di svolta da non sottovalutare. Le notizie in merito si riferiscono al fatto che il presidente attuale, Mintimer Sharipovich Shaimiev (classe 1937), proprio alla scadenza del suo quarto mandato e dopo 14 anni di gestione personale, presenta a Medvedev le sue dimissioni. Le motiva insistendo sulla necessità di un cambiamento generazionale, nel quadro più vasto del rinnovamento della struttura politico-amministrativa della Russia. E a Medvedev, nel contempo, suggerisce il nome del suo successore (eventuale, al momento): l’economista Rustam Minnichanov, classe 1975, attuale primo ministro.
Sin qui l’ufficialità che in superficie annuncia, senza traumi, l’avvio di una nuova partita per il governo della cosa pubblica. Ma non va dimenticato che in tutti questi anni Shamiev - guidando una repubblica profondamente segnata dall’Islam - è stato il faro di un mondo mussulmano, moderato e filorusso. E mai da Kazan sono venute aperte azioni di ripensamento in chiave anti-Cremlino. Quindi un Tatarstan più che normalizzato, pur se culturalmente coinvolto nel grande discorso dell’Islam. Shamiev è stato, in tal senso, agli occhi dei più, il garante della normalità e del “confine” con la Russia, creando un'atmosfera di fiducia etnoconfessionale nota come "modello Tatarstan".
Ora lascia l’incarico e presenta il suo uomo, che sicuramente riceverà l’investitura ufficiale. Restano però varie incognite che vanno messe nel conto del futuro di questa “Repubblica” che ha uno status religioso particolare. A Mosca, il politologo Stanislav Belkovskij fa notare che le dimissioni di Shaimiev non sono da sottovalutare e da ritenere come un normale avvicendamento. Perchè se in superficie tutto sembra regolare, tra le quinte del potere emergono anche altre situazioni e conseguenti valutazioni. Ad esempio si fa notare che il vecchio presidente non ha mai condiviso le scelte di Medvedev sul terreno regionale e, prima di tutto, sull’unificazione delle leggi regionali e sull’abolizione della carica presidenziale per le repubbliche autonome.
Il Cremlino, infatti, ha sempre basato e basa la sua autorità sul fatto che la sovranità della Russia non è divisibile: è uguale in tutto il territorio nazionale e che nel paese il presidente, di conseguenza, è uno solo. Secondo alcuni politologi, quindi, le dimissioni attuali potrebbero avere un retroscena non solo istituzionale, ma anche politico e si spiegherebbero con la lotta ai vertici del partito di maggioranza “Russia Unita”. In questo contesto un altro politologo, Gleb Pavlovskij, avanza questa ipotesi: ”Shaimiev criticava il partito del quale era uno dei massimi dirigenti esclusivamente in relazione alla formazione della politica regionale”.
Ma non va sottovalutato il fattore economico. Poichè in questi ultimi anni il Tatarstan - con la sua specificità di carattere religioso all'interno della più vasta e forte cultura russa - è divenuto un paese ad alto sviluppo, segnato da un accelerato processo di privatizzazione. E Shaimiev è stato l’artefice delle concessioni ad azionisti privati d’importantissimi settori industriali: dalle raffinerie alle aziende chimiche.
E qui sorgono precise domande. Perchè – ci si chiede a Mosca – questo presidente tanto attivo e forte ha deciso (non richiesto) di lasciare il timone di comando? Le risposte sono diverse, incrociate e contraddittorie. Lo ha fatto, ad esempio, sentendo alle spalle il vento dei cambiamenti generali collegati al duopolio Medvedev-Putin? E in questo contesto ha gettato la spugna, scavando però la sua trincea e candidando alla presidenza un uomo della vecchia cordata, quindi, manovrabile sotto tutti i punti di vista? Ma potrebbe proprio essere il nuovo arrivato a modificare, col tempo, le linee portanti del Tatarstan, nel senso di un svolta in favore dell’Islam tradizionale.
L’incognita riguarda così l’atteggiamento futuro che avrà il mondo religioso musulmano: quello entro i confini del Tatarstan e quello più lontano dell’Asia ex sovietica. Un mondo, in pratica, tra due fuochi. E si sa che i musulmani (anche quelli che operano sotto la direzione di Kazan) sono entrati in una nuova fase di presenza e organizzazione in Europa. Dovunque si sono avviate dinamiche per ottenere una rappresentanza nazionale e, di conseguenza, l'istituzionalizzazione dell'Islam. Nel Tatarstan tutto questo significa un’azione di partecipazione sociale e politica a vari livelli con rivendicazioni d’indipendenza finanziaria e politica. Ma con l’arrivo del nuovo presidente si potrebbe anche registrare un cambiamento epocale di rotta.
Il Tatarstan, che sino ad oggi si è aperto in un certo senso ai valori occidentali, sentendosi parte diretta dell'Europa, potrebbe accentuare il suo essere islamico per avere la possibilità di aumentare – con la riforma dell'Islam come risposta alla disgregazione della comunità tradizionale - il suo prestigio nel mondo asiatico dell’ex Urss. E Kazan diverrebbe un nuovo faro per quei mussulmani che, oltre i confini della Russia, operano nei lidi asiatici un tempo dominio sovietico.
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di Michele Paris
Le storiche elezioni politiche dello scorso mese di agosto, che hanno portato al governo per la prima volta in Giappone l’opposizione di centro-sinistra, hanno causato qualche grattacapo a Washington. Come si temeva negli USA, il nuovo Primo Ministro, Yukio Hatoyama, è stato chiamato infatti da subito a mantenere l’impegno assunto in campagna elettorale per rinegoziare un accordo stipulato dal precedente governo sul trasferimento di una controversa base militare situata sull’isola di Okinawa.
Nel 2006, il governo liberal-democratico di Tokyo e quello statunitense, si accordarono sullo spostamento della base dei Marines di Futenma dall’affollato centro urbano della città di Ginowan ad una località marina incontaminata sulla stessa isola, occupata dagli americani nella primavera del 1945. Il cambiamento di sede previsto entro il 2014 è stato però rimesso in discussione dopo il terremoto politico che ha portato al potere la coalizione guidata dal Partito Democratico nipponico.
Il Premier Hatoyama e, più ancora, alcune voci all’interno del suo gabinetto, hanno insistito per un trasferimento della base al di fuori dell’isola di Okinawa se non, addirittura, fuori dal Giappone. Pressato da Washington per mantenere gli impegni assunti in precedenza dal suo paese, Hatoyama ha lanciato segnali contraddittori, spostando alla fine la scadenza della decisione finale al prossimo mese di maggio, alla vigilia cioè dell’appuntamento elettorale per il rinnovo della Camera alta del Parlamento giapponese.
L’indecisione di Tokyo non sembra tuttavia aver contribuito ad una risoluzione pacifica della questione. Se da una parte i tentennamenti di Hatoyama hanno fatto infuriare i vertici della Difesa negli Stati Uniti, che vedono la base di Okinawa come uno dei punti chiave per le forze armate dislocate in estremo Oriente, dall’altra la società civile e i partiti di sinistra hanno alzato la voce per manifestare la loro opposizione all’accordo del 2006.
La protesta si è così allargata al resto del Giappone. Tanto che, nel fine settimana appena trascorso, migliaia di manifestanti hanno sfilato per le strade di Tokyo contestando la presenza militare americana a Okinawa. Per rendere più difficile la decisione di Hatoyama, alla manifestazione ha partecipato anche la leader dell’alleato Partito Socialdemocratico, nonché Ministro degli Affari Sociali, Mizuko Fukushima, la quale ha apertamente chiesto la chiusura definitiva della base e l’allontanamento dei militari americani dal paese.
In Giappone sono presenti attualmente 47 mila soldati americani, di cui più della metà di stanza sull’isola di Okinawa. Con circa 4 mila marines ospitati, la base di Futenma è diventata un simbolo dell’inquinamento, del rumore e della pericolosità della presenza americana sull’isola. Tra i numerosi episodi che negli anni hanno suscitato lo sdegno degli abitanti, vanno ricordati almeno lo stupro di una dodicenne nel 1995 da parte di tre Marines e lo schianto di un elicottero sugli edifici di un’università locale nel 2004.
A complicare la vicenda é arrivata settimana scorsa l’elezione del nuovo sindaco di Nago, la città di 60 mila abitanti che detiene la giurisdizione sul lembo di terra che dovrebbe accogliere la base USA. Il primo cittadino uscito vincente dal confronto elettorale, Susumu Inamine, aveva infatti condotto una campagna elettorale, centrata sulla promessa di opporsi allo spostamento della base di Futenma. Il suo avversario, il sindaco uscente Yoshikazu Shimabukuro, era al contrario un fervente sostenitore del progetto, il quale a suo parere avrebbe portato nella città nuovi investimenti e posti di lavoro.
Attorno al nuovo sindaco si è così costruita un’agguerrita coalizione composta da studenti, sindacalisti, ambientalisti, membri locali del Partito Democratico e degli altri partiti alleati di governo, così come del Partito Comunista giapponese, che promette di far sentire la propria voce a Tokyo nei prossimi mesi. La costruzione delle nuove strutture comporterebbe poi la devastazione di un territorio suggestivo, habitat naturale, a detta degli ambientalisti locali, di un raro mammifero acquatico simile al lamantino e a rischio di estinzione.
Intanto, in concomitanza con le proteste nella capitale, è giunto in Giappone l’assistente al Segretario di Stato americano per l’Asia orientale, Kurt Campbell, con il compito di far segnare qualche progresso sulla sorte della base militare in questione. La vicenda della base s’inserisce in un accordo ben più ampio da 26 miliardi di dollari e che prevede anche il trasferimento di 8 mila Marines da Okinawa a Guam - isola del Pacifico occidentale amministrata da Washington - e il contestuale trasferimento di alcune parti di Okinawa occupate dai militari alle popolazioni locali.
Secondo quando affermato lo scorso autunno durante una visita in Giappone dal Segretario alla Difesa americano, Robert Gates, la mancata intesa sullo spostamento della base a Nago corrisponderebbe al collasso dell’intero accordo tra i due paesi. Per gli Stati Uniti, d’altra parte, non esiste alternativa ai patti fissati nel 2006 e Hatoyama dovrebbe perciò prenderne atto al più presto, per non danneggiare ulteriormente i rapporti diplomatici tra i due alleati.
Essendo una questione legata alla sicurezza nazionale, ha affermato da parte sua il comandante dei Marines nel Pacifico, generale Keith Stalder, la decisione finale non dovrebbe essere lasciata a quegli stessi cittadini dell’isola che pure si vedono costretti a subire da decenni le conseguenze della presenza militare americana. In effetti, l’ultima parola sul futuro della base di Futenma spetterà al governatore di Okinawa e al governo di Tokyo, i quali difficilmente però potranno non tenere conto dell’opinione così chiaramente manifestata dalla maggioranza dei cittadini giapponesi.