di Luca Mazzucato

NEW YORK. Noam Chomsky, 81 anni, professore di linguistica al MIT di Boston, è filosofo di fama mondiale. Secondo il governo israeliano, evidentemente, ferisce più la penna della spada: il linguista è una minaccia immediata per la sicurezza dello Stato ebraico e va deportato. Nonostante sia egli stesso ebreo e abbia visitato spesso Israele in passato. “Accadeva soltanto in Unione Sovietica”, il commento del professore.

Nell'intervista rilasciata ad Al Jazeera, Chomsky racconta che “dopo aver atteso per molte ore in una stanza al check point l'interrogatorio, mi hanno comunicato che l'ingresso mio e di mia figlia in Israele  era negato.” Il suo arrivo al checkpoint di Allenby Bridge era ben noto alle autorità, tanto che il giovane soldato di guardia l’ha accolto con un inchino e gli ha confessato di aver letto tutti i suoi scritti. Subito dopo però, Chomsky viene portato nella stanza degli interrogatori, dove risponde per ore alle domande dell'ufficiale israeliano, che riceveva istruzioni per l'interrogatorio in tempo reale, in costante contatto telefonico con il Ministero dell'Interno, come spiega lo stesso Chomsky.

“Ero atteso all'Università di Bir Zeit a Ramallah per una serie di lezioni sugli argomenti di cui mi occupo in questi ultimi tempi: l'America e la sua politica estera.” Chomsky osserva che l'unico motivo dato dall'ufficiale per il suo respingimento è che “Israele non ama quello che lei dice.” Le molteplici accezioni della parola “Israele” in questa frase si prestano ad un'interessante analisi linguistica: il popolo ebraico, di cui fa parte lo stesso Chomsky? Il governo Netanyahu? La comunità ultra-ortodossa, cui appartiene il Ministro dell'Interno? L'esercito, la polizia?

Il professore ha una sua spiegazione per il respingimento e non è quella politica. “Sembrava che fossero particolarmente seccati dal fatto che avessi accettato l'invito a fare lezione a Ramallah,” osserva sornione, “ma non avessi in programma di proseguire per Tel Aviv, dove peraltro sono stato già molte volte in passato.” Nonostante l'incidente diplomatico, che ha avuto enorme rilievo sulla stampa israeliana ma poche menzioni su quella americana, Chomsky si dice contrario al boicottaggio delle università israeliane: “Ero contrario anche al boicottaggio del Sudafrica. Se dobbiamo boicottare, perché non gli Stati Uniti, i cui crimini sono ben più gravi? Sostengo senz'altro il boicottaggio delle aziende americane che collaborano con l'occupazione. Ma se dobbiamo boicottare l'Università di Tel Aviv, perché non anche il MIT?”

Per capire a che punto l'attuale classe dirigente israeliana sia in caduta libera a destra, basta leggere le edificanti dichiarazioni rilasciate dai vari politici di turno, una vera e propria gara di celodurismo. Il clima generale è ben riassunto nel commento di Otniel Schneller, membro del partito Kadima, che dovrebbe rappresentare i centristi moderati. Secondo Schneller, “è un bene che Israele non ammetta uno dei suoi accusatori sul suo territorio. Raccomando a Chomsky di provare uno dei tunnel che collegano Gaza all'Egitto”. C'è da tirare un sospiro di sollievo: almeno non l'hanno torturato.

di Michele Paris

Uno dei paesi che continua a sopportare gli effetti più pesanti della crisi economica esplosa nell’autunno del 2008, è senza dubbio la Lettonia. Una delle tre ormai ex “Tigri del Baltico”, questa piccola repubblica con poco più di due milioni di abitanti, a vent’anni dalla riconquistata indipendenza dall’Unione Sovietica, rappresenta alla perfezione il fallimento della promessa di benessere e sviluppo del libero mercato. Sotto il dettato dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale - vale a dire dei rappresentanti della speculazione finanziaria internazionale, in larga parte responsabile del crollo stesso dell’economia - la Lettonia si trova ora costretta a implementare devastanti misure di austerity che potrebbero costituire un modello per i paesi più indebitati dell’area Euro.

Gravemente colpita dalla fuga dei capitali dai paesi più a rischio tra il 2008 e il 2009, la Lettonia ha visto contrarsi la propria economia del 18% lo scorso anno, mentre secondo alcune stime un altro 4% dovrebbe perdere alla fine del 2010. A partire dal 2008, le retribuzioni del settore pubblico sono scese di un quarto. Del 30% è stato invece il crollo degli stipendi nel settore privato. Il tasso ufficiale di disoccupazione si aggira attorno al 23%, ovviamente il più elevato di tutta l’UE. Di conseguenza, le vendite al dettaglio nel paese sono calate di oltre il 30% tra il 2008 e il 2009.

Per far fronte alla situazione, il governo conservatore del partito della Nuova Era ha adottato una serie di provvedimenti pressoché senza precedenti, puntualmente prescritti da Bruxelles e Washington. Il bilancio del 2009 e 2010 ha così decretato un taglio alla spesa pubblica pari al 9% del PIL. Sotto la guida dello zelante ministro delle Finanze, l’ex presidente della Banca Centrale lettone ed ex Primo Ministro Einars Repse, il più recente attacco ha toccato anche le pensioni dei dipendenti pubblici, per le quali era stata proposta una riduzione del 30% prima del provvidenziale intervento della Corte Costituzionale.

In cambio di questi interventi, che hanno avuto ripercussioni pesantissime su gran parte della popolazione, l’Unione Europea, il FMI e la Banca Mondiale hanno garantito un prestito da 7,5 miliardi di dollari, una somma enorme viste le dimensioni del paese. In seguito alla rigorosa politica di austerity, il deficit lettone è sceso dal 12% del PIL all’8%, non abbastanza tuttavia per i guardiani del rigore, i quali chiedono ora a Riga di scende sotto al 3% con nuovi attacchi a stipendi, pensioni e programmi sociali.

Nel gennaio del 2009, quando cioè il prestito venne annunciato ufficialmente, la Lettonia si trovava di fatto impossibilitata a raccogliere denaro dalle istituzioni finanziarie che chiedevano interessi usurai anche superiori al 30%. In ogni caso, una buona fetta del supporto economico proveniente dagli organismi internazionali è finito o finirà proprio per ricapitalizzare il settore bancario lettone, dominato da istituti scandinavi (svedesi in primis).

Alla rabbia manifestata dalla popolazione, il gabinetto del premier Valdis Dombrovskis ha dapprima risposto con le forze dell’ordine per poi sventolare la minaccia dei vertici EU e del FMI. In caso di esitazioni, cioè, il prestito al paese sarebbe stato revocato. Il governo di Riga, comunque, non ha mai manifestato alcuna esitazione a far scontare il prezzo della crisi ai lavoratori lettoni. Né i ripetuti rimpasti di governo succedutisi negli ultimi due anni hanno prodotto cambi di rotta di qualsiasi tipo.

Così, di fronte allo scempio di quel che restava dei programmi sociali istituiti nei primi anni dell’era post-sovietica, l’élite finanziaria internazionale ha applaudito al coraggio della Lettonia, tanto che l’agenzia di rating Standard & Poor’s, lo scorso febbraio ha leggermente migliorato la propria valutazione del debito del paese, portandolo da BB- a BB.

Se le devastazioni sociali alle quali è sottoposto il popolo lettone sono salutate dalla finanza internazionale come un modello per la Grecia (e presto probabilmente anche per altri paesi europei dalla scarsa disciplina fiscale) fino alla vigilia della crisi questo paese, assieme ai vicini baltici, rappresentava piuttosto un modello di prosperità generato dall’espansione del libero mercato verso l’Europa orientale, con il beneplacito di Bruxelles.

Tra il 2006 e il 2007 l’economia della Lettonia era infatti cresciuta al ritmo del 10% annuo, in gran parte alimentata però - qui come altrove - da una enorme bolla speculativa nel settore immobiliare. Un modello di crescita, inoltre, perversamente basato sul contenimento dei redditi e della spesa sociale, il cui tracollo ha determinato un nuovo drammatico inasprimento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione.

Pur senza far parte dell’area Euro, la Lettonia aveva poi ancorato la propria moneta a quella unica europea. Una rinuncia alla sovranità monetaria che il governo di Dombrovskis, sotto le pressioni internazionali, ha deciso di non abbandonare nemmeno dopo la catastrofe finanziaria, privandosi così della possibilità di svalutare il lat per stimolare la crescita economica.

Ciò, assieme al perseguimento di rigorose politiche di bilanciamento del budget in un periodo di crisi, in Lettonia come in altri paesi in affanno, non potrà che peggiorare la situazione, ritardando la ripresa. Con effetti che si faranno sentire anche sui paesi relativamente più “sani”.

di Eugenio Roscini Vitali

Gerusalemme potrebbe autorizzare un blitz per liberare Gilad Shalit, il soldato delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) catturato il 25 giugno 2006 da un commando palestinese a Kerem Shalom, kibbutz  non lontano dall’omonimo varco al confine con l’Egitto e la Striscia di Gaza. Sembra infatti che, per paura di un’imminente azione di forza, i carcerieri costringerebbero il soldato israeliano a cambiare rifugio anche due volte alla settimana e, per eliminare ogni forma di collaborazione con il nemico ed evitare possibili fughe di notizie sui nascondigli usati, le forze di sicurezza palestinesi avrebbero dato il via ad una massiccia ondata di arresti.

La notizia, pubblicata da un portale d’informazione internet con base a Gaza, rilancia quanto rivelato da una fonte interna alle brigate Ezzedine al-Qassam, il gruppo radicale ufficialmente conosciuto come braccio armato di Hamas. In passato era stato lo stesso movimento di resistenza islamico a denunciare la presenza di numerose spie israeliane tra la popolazione palestinese della Striscia di Gaza e i molteplici tentativi, tutti sventati, con i quali gli uomini dello Shin Bet avrebbero cercato di chiudere la questione Shalit.

Le trattative per il rilascio del caporale israeliano sono praticamente ad un punto morto e neanche la mediazione russa sembra aver ammorbidito la posizione palestinese. Durante la visita in Siria dell’11 maggio scorso, il presidente russo Medvedev, aveva chiesto al leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, l’immediato rilascio del soldato israeliano. Ma secondo il portavoce del Cremlino, Natalya Timakova, il movimento islamico non è disposto a fare alcuna concessione senza aver prima raggiunto un accordo “onorevole” sullo scambio di prigionieri con Israele.

A margine dell’incontro di Damasco, Izzat al-Rishq, esponete in esilio del comitato politico di Hamas, ha accusato Benjamin Netanyahu di voler far fallire l’accordo sullo scambio dei prigionieri e ha etichettato la posizione israeliana come un evidente tentativo di voler chiudere la crisi con un accordo “vuoto”. Dopo mesi di trattative, lo scorso novembre l’Egitto e la Germania avevano mediato un’intesa di massima, che prevedeva la liberazione di Gilad Shalit in cambio di più di mille detenuti palestinesi; ma una serie di dettagli relativi al numero e alla natura delle persone da liberare e la mancanza del nome di alcune figure di spicco nella lista dei prigionieri, ha fatto naufragare il tentativo.

Dal caso del sergente Nachson Wachsman, catturato da Hamas il 4 ottobre 1994, Gilad Shalit è il primo soldato israeliano caduto nelle mani dei palestinesi. Shalit è stato rapito all’alba del 25 giugno 2006 da un commando di guerriglieri palestinesi, penetrato in territorio israeliano attraversato un tunnel scavato tra i sobborghi di Rafah e la zona di Kerem Shalom, kibbutz  a poche centinaia di metri dall’omonimo valico di passaggio che collega la Striscia di Gaza, Israele e l’Egitto. Come ritorsione all’attacco (nel quale persero la vita due soldati israeliani ed altri quattro rimasero feriti) e allo scopo di rintracciare e liberare il prigioniero, il 28 giugno 2006 Gerusalemme diede il via all’Operazione Piogge Estive, un’azione militare che nell’arco di cinque mesi causerò la morte di 402 palestinesi, 117 dei quali civili, e circa mille feriti.

Hamas ha poi diffuso notizie su Shalit durante la breve guerra civile del 2007 con Fatah e nel 2008, quando ha chiesto di riaprire le trattative ponendo come condizione per il rilascio del soldato israeliano il pagamento di un riscatto miliardario o il rilascio di 250 prigionieri. Allora fu lo Stato ebraico a tentennare e questo creò la forte reazioni della famiglia del soldato e di una buona parte della stampa israeliana. Il 2 ottobre 2009 i palestinesi hanno diffuso un video nel quale Gilad Shalit è riapparso dopo 1195 giorni di prigionia in buone condizioni e con in mano un giornale datato 14 settembre 2009; il 25 aprile 2010 Hamas ha avvertito con una videocassetta shock che il caporale israeliano non tornerà libero fin quando non verranno accettate le condizioni palestinesi.

In Israele l’opinione pubblica spinge per la liberazione di Shalit, ma Netanyahu non ha mai nascosto le sue preoccupazioni per la liberazione di personaggi di rilievo della resistenza isalmica, attivisti che potrebbero andare ad incrementare le fila dei gruppi più violenti. All’interno dell’esecutivo c’è poi chi si oppone a qualsiasi trattativa e questo mette in seria difficoltà un governo nel quale la presenza dei partiti sionisti radicali è decisiva.

Rispondendo alla linea emersa dal meeting di Ankara, nel quale Russia e Turchia hanno convenuto che il movimento di resistenza islamico non può essere escluso dal processo di pace mediorientale, il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha dichiarato che l’azione portata avanti da Hamas è equiparabile a quella del terrorismo ceceno e che il suo leader, Khaled Meshal, è paragonabile a Shamil Basayev: “I Paesi sviluppati non possono separare il terrorismo buono da quello cattivo sulla base della sua collocazione geografica”.

E per confermare la sua posizione, Lieberman ha ricordato che nella sua storia il gruppo integralista ha ucciso migliaia di innocenti, molti dei quali ebrei provenienti dai Paesi dall’ex Unione Sovietica: “Lo Stato ebraico supporta incondizionatamente la Russia nella lotta contro il terrorismo ceceno e per questo ci aspettiamo che Mosca faccia lo stesso con Israele nella lotta contro Hamas”.

 

di Marco Montemurro

La Thailandia continua a vivere ore tragiche. Negli ultimi giorni la repressione intrapresa dall’esercito ha provocato la morte di ben 37 presone tra le fila delle camicie rosse. Dopo mesi di crescente tensione, il conflitto si è trasformato in quel che molti temevano, ovvero in un bagno di sangue. E’ un dramma che sicuramente sarà ricordato a lungo.

Per evitare che il numero delle vittime continui a salire, nella notte di lunedì uno dei leaders dei manifestanti, Nattawut Saikua, ha proposto una tregua a Korbsak Sabhavasu, segretario generale del primo ministro Abhisit. Il quotidiano thailandese The Nation ha riferito infatti che, se l’esercito cessasse immediatamente gli attacchi, le camicie rosse sarebbero disposte ad abbandonare le barricate da loro erette nelle strade cittadine.

Dal 3 aprile, infatti, i sostenitori del Fronte Unito per la Democrazia sono accampati in un distretto centrale di Bangkok, un’area turistica e commerciale, che è presidiata giorno e notte da migliaia di persone decise a lottare fino a quando non sarà raggiunto il loro obiettivo, vale a dire l’immediato scioglimento del governo ed elezioni anticipate.

Finora né il governo né i manifestanti si sono mostrati seriamente intenzionati ad avviare trattative, tuttavia adesso, considerata la recente tragedia, evitare che gli scontri diventino sempre più cruenti si presenta come una priorità. Forse sarà ripreso quel dialogo che era stato intrapreso all’inizio del mese, quando una soluzione politica sembrava comparire all’orizzonte. La sera del 3 maggio, infatti, il primo ministro Abhisit Vejjajiva aveva dichiarato in televisione di essere disposto a sciogliere il governo a fine settembre, affinché si potessero svolgere nuove elezioni il 14 novembre.

La proposta inizialmente era parsa realizzabile dato che, già il giorno successivo, era stata accolta da Veera Musikapong, uno dei leaders delle camicie rosse. I problemi però non si sono fatti attendere. Subito dopo l’offerta, il governo ha aggiunto come condizione preliminare lo smantellamento delle barricate: "Se non torneranno a casa, non sono intenzionato a dissolvere il Parlamento”, così si è espresso Abhisit durante un’intervista concessa il 5 maggio al canale ASTV.

La frase da molti è stata recepita come una provocazione e, in effetti, Weng Tojirakarn, un’altro leader delle proteste, diffidando del governo, ha continuato ad incitare le camicie rosse sull’importanza di mantenere alto il livello di guardia. Di conseguenza l’ala più radicale del movimento, cominciando a dubitare del piano in atto, ha voluto porre anch’essa una loro condizione.

E’ stato richiesto pertanto al governo di imputare il segretario del Democrat Party, Suthep Thaugsuban, per la sua responsabilità nell’uccisione di 25 manifestanti, tragico evento accaduto il 10 aprile. "Non abbiamo intenzione di andare via fino a quando il governo non ammette la sua responsabilità negli scontri”, così si è espresso Panna Saengkumboon, un esponente delle camicie rosse, come la televisione Al Jazeera ha riferito il 12 maggio.

La situazione così, in breve tempo, è tornata nello stesso stato di paralisi iniziale; pericolosa premessa, poiché ha aperto la strada ai tragici scontri avvenuti recentemente. Concedendo sole poche ore di preavviso, il 12 maggio l’esercito ha imposto un minaccioso ultimatum, rifiutato del tutto dalle camicie rosse, ossia lo sgombero del distretto occupato entro la mezzanotte.

Il giorno successivo allora i militari, ormai autorizzati ad intervenire con le armi, hanno iniziato prima ad isolare l’area interrompendo le strade, i trasporti e le forniture di cibo, acqua ed elettricità e poi, al calar del sole, hanno attuato la loro strategia repressiva. Nella notte sono rimasti uccisi 10 manifestanti, un cecchino ha colpito a morte Khattiya Sawasdipol, uno dei capi, e gli scontri sono proseguiti per tutto il fine settimana.

Le camicie rosse hanno resistito sulle loro barricate e, pertanto, il bilancio delle vittime è stato drammatico. In pochi giorni sono stati uccise 37 persone e ferite un centinaio, tra cui anche quattro giornalisti, due tailandesi, un francese dell’emittente televisiva France 24 e il fotoreporter italiano Flavio Signore.

Nonostante l’esercito agisca con violenza, molti manifestanti continuano ad affermare di non essere intimoriti; anzi, sostengono di voler combattere fino alla morte, decisi nel difendere le loro ragioni. Considerata tale situazione, probabilmente Nattawut Saikua, portavoce dei manifestanti, ha richiesto un cessate il fuoco proprio per impedire un ulteriore spargimento di sangue, sempre da scongiurare.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Almeno un merito va riconosciuto al premier israeliano Netanyahu: la chiarezza. Mentre si parla di riapertura dei canali negoziali con i palestinesi, Bibi ha subito messo le mani avanti: “Continueremo a costruire a Gerusalemme,” con riferimento alle recenti polemiche sugli insediamenti ebraici nella parte araba della città. Tutto questo accade durante le celebrazioni per il Jerusalem Day, che commemora l'occupazione di Gerusalemme e la sua annessione unilaterale ad Israele nel lontano 1967.

“Non rifaremo mai di Gerusalemme una città divisa, disunita e isolata,” continua il premier durante il recente dibattito alla Knesset, ribadendo che la priorità abitativa assoluta del Paese va allo sviluppo di zone residenziali a Gerusalemme. Il ministro dell'interno Aharonovitch si spinge oltre e precisa che la priorità è la costruzione di nuove colonie per soli ebrei nella parte orientale della città.

Negli ultimi mesi si è aperta una crepa nelle relazioni diplomatiche tra Israele e Stati Uniti a causa del netto contrasto tra i due governi sull'espansione delle colonie ebraiche nei Territori Occupati, in particolare a Gerusalemme Est. L'annuncio di un piano di demolizioni di case nei quartieri arabi della città, per rimpiazzare case palestinesi con nuovi insediamenti di coloni ebrei, aveva sollevato un coro di condanna unanime in tutto il mondo, portando alla sospensione degli ordini di demolizione. Il ministro Aharonovitch ha spiegato mercoledì che “le demolizioni sono state posticipate per non rovinare gli sforzi dell'inviato americano George Mitchell tesi a riprendere i negoziati di pace. Ma,” prosegue il ministro, “se c'è stato un blocco delle demolizioni, ora quel blocco finisce.” E avanti con le ruspe!

Come al solito, il monito del Segretario di Stato Clinton è arrivato a stretto giro di boa: “Chiediamo che entrambe le parti evitino azioni provocatorie a Gerusalemme,” ribadendo che lo status della città verrà deciso con quei negoziati bilaterali ormai attesi da quarantatré anni. Il gruppo pacifista Peace Now, che monitora la crescita illegale delle colonie, ha rivelato che è già cominciata la costruzione del più grande insediamento ebraico a Gerusalemme Est (annunciata e poi smentita con grande imbarazzo durante l'ultima visita di Joe Biden in Israele): 104 nuove case per creare la colonia di Ma'aleh David.

Nell'era dei premier Barak, Sharon e Olmert, la politica israeliana si è basata sul sottile doppiogioco della road map e dei colloqui di pace (vedi Annapolis), con il totale appoggio dell'Amministrazione Bush, che otteneva qualche foto di gruppo alla Casa Bianca e l'occasione per millantare storici accordi. All'estero, il governo israeliano ostentava una faccia da colomba sotto i razzi Qassam, mentre in Palestina finanziava a pioggia l'espansione delle colonie illegali.

Con l'avvento del governo di estrema destra Netanyahu-Barak-Lieberman, c'è stato un significativo cambiamento di strategia. L'establishment israeliano ha riveduto la propria posizione rispetto agli Stati Uniti, con la verosimile conclusione che il finanziamento miliardario del Congresso americano allo Stato ebraico (circa tre miliardi di dollari all'anno a fondo perduto) non sarà mai messo in discussione e dunque la politica della doppia faccia non ha motivo d'essere. 

Le intenzioni israeliane riguardo ai Territori Occupati sono dunque sotto gli occhi del mondo intero, senza censura. Appoggio incondizionato ai coloni in West Bank e ai loro piani di espansione; demolizione di quartieri palestinesi di Gerusalemme, che verranno sostituiti da quartieri per soli ebrei, abitati in maggioranza da religiosi ultra-ortodossi; completa rimozione della catastrofe umanitaria a Gaza, sotto assedio israeliano ormai da quattro anni.

Se all'inizio Netanyahu si trovava in imbarazzo a sventolare i suoi piani radicali di fronte al governo americano, ora ha calato la maschera tanto da non rispondere nemmeno ai “severi moniti” di Hillary Clinton. Il Ministro della Difesa Ehud Barak è riuscito, per vanità personale, a cancellare dalla scena lo storico Labour Party, e con esso qualsiasi traccia di sinistra vagamente sensibile alle questioni palestinesi. L'unica opposizione rimasta nel paese è quella dell'ex-agente del Mossad, Tzipi Livni, alla guida di Kadima, il partito fondato da Sharon e Olmert. Si può star certi che non sentiremo parlare di trattati di pace per un bel po'.


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