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di Michele Paris
Quasi in contemporanea con il rilascio a Washington delle prime licenze di matrimonio a coppie dello stesso sesso che intendono sposarsi nella capitale statunitense, la principale città messicana si è proiettata all’avanguardia nella lotta per i diritti degli omosessuali in America Latina. In un paese profondamente cattolico e guidato da un governo centrale conservatore, l’amministrazione del distretto federale della capitale, Città del Messico, a partire da giovedì 4 marzo ha iniziato infatti ad applicare una nuova legge che legalizza i matrimoni e le adozioni per le coppie gay.
La costituzione del Messico garantisce ampi poteri ai singoli stati - e, appunto, al distretto federale della capitale - per legiferare autonomamente su molte questioni. Sfruttando tale facoltà, l’Assemblea Legislativa della metropoli centro-americana, controllata dal Partito della Rivoluzione Democratica (PRD) di centro-sinistra, lo scorso dicembre aveva approvato a larga maggioranza la nuova legge che permette i matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Di fronte alle proteste impotenti degli esponenti del partito del presidente Felipe Calderón (Partito d’Azione Nazionale, PAN), il sindaco Marcelo Ebrard ha così ratificato un provvedimento che ha trasformato la sua città nella prima giurisdizione dell’America Latina a consentire per legge i matrimoni gay. Nonostante la portata territorialmente limitata, la legge rappresenta una grande vittoria non solo simbolica per quanti si battono per i diritti civili, dal momento che, oltre ad essere la capitale federale, Città del Messico ospita quasi il dieci per cento della popolazione totale del paese.
Che questa città di dieci milioni di abitanti sia diventata il simbolo di una battaglia culturale in corso più o meno silenziosamente in tutto il continente non è un caso. Già nel 2007, infatti, il distretto federale della capitale aveva introdotto il riconoscimento delle unioni civili omosessuali. Allo stesso modo, recentemente sono state approvate leggi che hanno legalizzato il cosiddetto divorzio “no-fault” (senza colpa né motivazioni), l’aborto durante i primi tre mesi di gravidanza e la possibilità per i malati terminali di rifiutare le cure mediche.
Tutti successi importanti per il partito di opposizione che nelle elezioni del 2006 aveva sfiorato la presidenza con il suo leader, Manuel López Obrador, ma che sono giunti solo dopo una lunga battaglia contro il tradizionalismo cattolico che domina in gran parte del paese al di fuori della capitale. “È un attacco alla famiglia”, ha tuonato infatti il cardinale di Città Messico, Norberto Rivera, aggiungendo che questa misura “perversa” infliggerà pesanti danni psicologici a “bambini innocenti”. “La Costituzione della repubblica parla esplicitamente di matrimonio tra un uomo e una donna” gli ha fatto eco il devotissimo presidente Calderón.
Prima di ottenere il via libera definitivo, la legge sui matrimoni gay aveva dovuto passare attraverso una sentenza della Corte Suprema messicana. Alcuni governatori appartenenti al PAN si erano infatti appellati al tribunale costituzionale, sostenendo che il provvedimento adottato dalla capitale avrebbe costretto i loro stati a riconoscere i matrimoni gay. Ai primi di febbraio, tuttavia, la Corte ha respinto il ricorso, in quanto un governatore non possiede l’autorità per appellarsi contro le leggi emanate da un altro stato o dal distretto federale. Pendente di fronte alla Corte Suprema rimane ora un’istanza simile, presentata dal Ministro della Giustizia messicano.
Secondo i sostenitori del provvedimento, in ogni caso, le reazioni negative sono state limitate in gran parte all’ambiente politico e alle gerarchie ecclesiastiche. Nessuna protesta significativa pare essere giunta finora dai cittadini. Nonostante a Città del Messico ci sia la possibilità di ricorrere a unioni civili tra persone dello stesso sesso da quasi tre anni, solo il matrimonio può garantire alcuni diritti fondamentali, come quelli legati alla proprietà e alla custodia del partner.
Il timore maggiore, ora, è che l’introduzione della nuova legge nella capitale possa produrre una reazione contraria nel resto del paese. Come fanno notare alcuni attivisti per i diritti civili, infatti, quando il distretto federale di Città del Messico legalizzò l’aborto, qualche stato modificò la propria costituzione, stabilendo l’inizio della vita al momento del concepimento. Analogamente, alcuni governatori del PAN hanno già promesso iniziative simili, volte a limitare gli effetti della legge sui matrimoni gay nei territori da loro amministrati.
L’opinione pubblica nella capitale, d’altra parte, non sembra essersi particolarmente risentita. Se anche il partito del presidente Calderón ha stimato che la metà degli abitanti di Città del Messico sia contraria ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, e quasi i tre quarti alle adozioni, altri sondaggi indipendenti presentano uno scenario differente. Secondo l’autorevole quotidiano El Universal, ad esempio, il 50% dei residenti della metropoli messicana sarebbe a favore dei matrimoni, contro un 38% di contrari. La percentuale di favorevoli risulta poi notevolmente superiore tra gli abitanti di età compresa tra i 18 e i 39 anni.
Se Città del Messico è dunque il primo luogo, e finora l’unico, in tutta l’America Latina ad essersi spinto così avanti nell’ambito dei diritti degli omosessuali, qualche segnale altrove nel continente era già emerso negli ultimi mesi. Il 23 febbraio scorso, un giudice di Buenos Aires nel corso di un’udienza ha invitato una coppia gay a fissare liberamente la data del matrimonio, nonostante la legge argentina non lo preveda. A fine dicembre, invece, due uomini che si erano visti rifiutare la licenza di matrimonio sempre a Buenos Aires hanno potuto celebrare le nozze nella Terra del Fuoco, diventando di fatto la prima coppia gay in l’America Latina a potersi sposare legalmente.
Discorso differente per le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Oltre a Città del Messico, questa forma di unione, che esclude comunque una serie di diritti civili, è attualmente riconosciuta anche in Argentina, Brasile, Colombia, Ecuador e Uruguay.
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di Fabrizio Casari
Dopo due mandati presidenziali di Bush, che avevano in qualche modo messo in secondo piano il continente latinoamericano nelle strategie imperiali, l’Amministrazione Obama ha deciso di voltare pagina. Dieci anni continuamente segnati dalle vittorie della sinistra nella maggior parte del continente e da una crescente integrazione tra le economie dei paesi a sud del Rio Bravo, hanno infatti ricapultato l’attenzione degli Usa verso l’America latina. La visita di Hillary Clinton è un segnale di attenzione importante e dai significati chiari. La missione del Segretario di Stato, ormai vera e propria voce sostitutiva di Obama in politica estera, nasce proprio dall’intenzione di ribilanciare, in ogni modo, le condizioni sfavorevoli nelle quali gli Stati Uniti si trovano nel subcontinente.
Cercare d’invertire la rotta politica del continente non sarà però semplice. Se l’obiettivo appare evidente - riproporre la centralità della Casa Bianca nella governance latinoamericana - i mezzi a disposizione non sono molti. Sul come fare, poi, le idee in proposito sono le solite: ridare fiato alle elites locali fedeli a Washington, riaprire l’antico e consumato refrain di bastone e carota per nemici ed amici, tentare di dividere il fronte progressista tra “moderati” e “radicali”.
Naviga controcorrente la signora Clinton; arriva nel continente proprio pochi giorni dopo il battesimo di una nuova comunità latinoamericana (che non prevede la presenza statunitense) destinata all’incremento significativo dell’integrazione regionale economica e finanziaria. Progetto che, inevitabilmente, se vedesse un suo sviluppo positivo e duraturo, comporterebbe una maggiore unità politica centro-sudamericana ed una maggiore evidenziazione degli Stati Uniti quale elemento esterno alle dinamiche economiche e sociali latinoamericane. Per non dire di quelle politiche: il Washington consensus è già defunto da un pezzo, almeno da quanto lo è l’ALCA, che la signora Clinton conosce bene in quanto l’ideatore fu proprio suo marito.
Del resto la signora Clinton non arriva con il migliore dei biglietti da visita. Il suo ruolo di sostegno ai golpisti honduregni è stato evidente; a poco sono servite le lievi parole di condanna, pronunciate peraltro fuori tempo massimo. Sotto il tallone golpista sono rimasti schiacciati le buone intenzioni del Vertice di Trinidad e Tobago, nel quale Obama si presentò, appena eletto, a proporre una svolta positiva nelle relazioni tra Usa e America latina. E mentre sono rimaste parole le aperture su Cuba, sono diventati fatti (tragici) le promesse di reintervenite nell’area: IV Flotta a spasso nei Caraibi, minacce al Venezuela e golpe in Honduras.
E che in politica estera sia la Clinton a decidere - e non Obama - la linea della Casa Bianca, se ne possono trarre illuminanti indicazione anche dalle posizioni assunte sullo scenario mediorientale e nei confronti dell’Iran. Infatti, a seguito del discorso del Cairo, nel giugno 2009, dove Obama annunciò l’intenzione di avviare nuove relazioni con l’Iran, Hillary Clinton si affrettò a correggere il tiro con nuovi accordi con Israele e nuove minacce a Teheran. Obama, impegnato a fronteggiare la crisi economica e le pressioni del Congresso (e della maggioranza conservatrice del suo stesso partito) sulle politiche sociali, ha evidentemente delegato alla Clinton - rappresentante delle elites bianche che formano il complesso militar-industriale statunitense - la politica estera e la conquista di nuovi mercati, dove scaricare costi ed eccedenze ed estrarre materie prime e profitti. Insomma, le politiche imperiali, il vero core business dell’azienda Usa.
E’ in questa chiave che la signora dei poteri forti si presenta in America latina. Esplorare la possibilità di riconquistare egemonia nella regione. Rafforzare i legami bilaterali con Messico, Perù, Colombia e Cile, che insieme a Panama e Honduras sono i paesi del continente che dalla Casa Bianca prendono indicazioni e ordinativi; nello stesso tempo, tentare di sganciare il Brasile dal Venezuela, dall’Ecuador e dalla Bolivia, paesi sui quali il Segretario di Stato Usa cercherà di aumentare la pressione. Rispetto solo ad un anno fa, Cile, Panama e Honduras hanno cambiato campo e l’Argentina progressista non dorme sonni tranquilli. Gli Stati Uniti si riaffacciano sul continente. Servirà un’ancora maggiore coesione politica del fronte democratico latinoamericano per riaffermare le giuste distanze.
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di Carlo Benedetti
Mosca. Passata l’euforia per l’elezione di Obama alla presidenza americana, le diplomazie dell’Est cominciano a fare i conti con la nuova strategia militare della Casa Bianca. E, in primo luogo, sul tavolo del Cremlino si evidenzia il “dossier” relativo alla decisione statunitense sul dispiegamento di elementi dello scudo antimissile nell’Europa orientale; precisamente sul territorio della Polonia, ad una distanza di circa 100 kilometri dal confine con la regione russa di Kaliningrad, nella città di Morag, affacciata sul Mar Baltico.
Gli Usa puntano a realizzare in questa zona una base strategica (con una batteria di missili “Patriot” e con 100 soldati addetti al loro puntamento) per controllare lo spazio aereo sopra l’enclave russa e annunciano di voler dislocare postazioni antimissile anche in Romania e in Bulgaria. Per Mosca tutto questo sta a significare che, nella regione dell’Europa centrale, si sta creando una situazione di crisi. Sempre più aggravata dalle notizie diffuse negli ambienti miltari, secondo le quali il trattato tra Washington e Varsavia servirà a favorire “manovre congiunte” con successivi insediamenti di basi dotate di missili balistici. Sarà questo un passo decisivo per la penetrazione militare dell’Ovest all’Est, dopo la fine del Patto di Varsavia avvenuta nel 1991. Si amplia così quella strategia che il Pentagono definisce come una “nuova architettura antimissile”.
Gli strateghi americani difendono la scelta del Pentagono sostenendo che i militari Usa si dedicheranno esclusivamente ad aiutare le forze armate polacche a sviluppare le proprie capacità di difesa aerea e missilistica. Ma da Mosca si fa subito notare che se i precedenti piani per installare in Polonia missili di media gittata (basati a terra) erano giustificati da una presunta minaccia missilistica da parte dell’Iran, ora è chiaro che i Patriot potranno essere diretti solamente contro la Russia. L’appuntamento per questa escalation è alle porte. Perchè a partire dalla prima settimana di Aprile il Pentagono avvierà il suo piano, dislocando una batteria missilistica terra-aria Patriot, attualmente in dotazione al personale dell’US Army di stanza nella base tedesca di Kaiserslautern. Si tratterà in particolare di otto lanciatori per missili MIM-104 e della relativa stazione di comando e controllo gestita dal 5° Battaglione del 7° Artiglieria difesa aerea dell’US Army.
Ma non c’è solo la Polonia nei piani americani. Perchè anche la Romania si appresta ad “ospitare” i missili balistici ‘Interceptor’ a medio raggio, che faranno parte del nuovo ’scudo antimissili’ voluto dagli Stati Uniti. Lo ha annunciato il presidente rumeno Traian Basescu, precisando che ”la Romania è stata ufficialmente invitata dal presidente Usa, Barack Obama, a prender parte al sistema di difesa missilistico”. Stessa situazione anche per Sofia. E così i due paesi potranno contare su finanziamenti statunitensi di 100 milioni di dollari ed una presenza di 4100 militari delle forze d’oltreoceano.
Tutto questo avviene mentre l’Alleanza atlantica sta finanziando anche la ristrutturazione e il potenziamento di sette basi aeree e delle due maggiori stazioni navali polacche nel mar Baltico, quelle di Gdynia e Swinoujscie. A Bydgoszcz (Pomerania) è inoltre operativo dall’aprile 2005 uno dei due principali centri di addestramento in Europa dei reparti entrati a far parte della Forza di reazione rapida della NATO (l’altro è quello di Stavanger, in Norvegia). Mosca - a quanto risulta - non assiste passivamente e ha già annunciato le prime contromosse: verranno rafforzate subito le componenti navali di stanza nelle basi aeronavali di Kaliningrad e Kronstadt e, sempre a Kaliningrad, verrà trasferita a breve una batteria di missili tattici “Iskander” (SS-26). E così il Baltico torna ad essere uno dei mari più militarizzati e nuclearizzati del pianeta.
Mentre si dispiega questo nuovo piano di guerra fredda, c’è la notizia di un vertice internazionale sulla sicurezza nucleare che si dovrebbe tenere a Washington il 12 e 13 aprile. "Lo scopo di questo vertice - ha detto in proposito un portavoce statunitense - è quello di discutere le misure che possono essere prese a titolo collettivo per garantire la sicurezza dei materiali nucleari vulnerabili e per prevenire atti di terrorismo nucleare".
L'iniziativa del vertice nucleare era stato annunciata a suo tempo dal presidente Obama in uno storico discorso l'anno scorso a Praga. "Vogliamo la pace senza armi nucleari” affermò in quell’occasione il capo della Casa Bianca. “Nel mondo c'è ancora il pericolo atomico". Obama spiegò che servivano "nuove relazioni con la Russia per prospettive comuni. Una di queste è il futuro delle armi nucleari nel ventunesimo secolo. L'esistenza di migliaia di armi nucleari è l'eredità più pericolosa della guerra fredda. Intere generazioni hanno vissuto con la consapevolezza che il mondo potesse essere distrutto in pochi istanti. Città come Praga avrebbero potuto cessare di esistere in un attimo. La guerra fredda è finita, ma le armi ci sono ancora. Il rischio di attacchi nucleari, anzi, è aumentato: più Paesi si sono dotati di armi atomiche, c'è il mercato nero, i terroristi sono orientati a comprare e rubare armi nucleari. Ci sono ancora nazioni e popoli che violano leggi contro la proliferazione e si potrebbe arrivare al punto in cui non ci si potrà più difendere da loro".
Per questo, secondo il Presidente statunitense, "dobbiamo agire, per vivere liberi dalla paura nel ventunesimo secolo. Gli Stati Uniti sanno di avere una responsabilità nel guidare questo processo. Lo faremo e chiederemo agli altri di fare altrettanto. Guideremo il mondo verso una pace senza armi nucleari. Fino a che queste armi ci saranno, gli Stati Uniti manterranno un proprio arsenale necessario per garantire la difesa di tutti gli alleati. Ma con la Russia – concluse - negozieremo un nuovo trattato di riduzione degli armamenti strategici".
A questa situazione conflittuale fanno ora riferimento i politologi e i diplomatici dell’Istituto moscovita impegnato nello studio delle relazioni con gli Usa. Dice in proposito Viktor Kremenuk, che dell’Istituto è vice direttore: “La Russia non accetterà mai una situazione in cui la NATO, alle spalle del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, possa arrogarsi il diritto di decidere dove usare la forza militare e dove no. L’unica struttura autorizzata dal diritto internazionale a prendere decisioni in questo senso è il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Se la NATO vuole adoperarsi per arrogarsi un simile diritto, ci sarà sempre una fonte di problemi. La Russia provvederà ad usare la forza per difendere i suoi interessi e gli interessi dei suoi alleati, contro l’eventuale azione miliare da parte dell’Alleanza. Il che implica uno stato di tensione permanente tra Russia e NATO. Si deve sapere che Mosca è in grado di opporre una degna resistenza a qualsiasi tentativo di minacciarla con l’uso della forza. Anzi, la Russia ha avvertito che in questo caso è pronta ad usare l’arma nucleare. Perciò la nuova dottrina della NATO non mira affatto alla ricerca di soluzioni pacifiche dei conflitti, al contrario ha un carattere esplicitamente provocatorio”. Parole dure che, in questo momento, non sembrerebbero lasciare spazio a compromessi diplomatici.
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di Michele Paris
A poco più di un mese dal terzo anniversario della sparatoria nel campus universitario della Virginia Tech, che causò la morte di 32 persone, il Parlamento locale dell’omonimo stato americano ha approvato due nuove leggi che liberalizzano ulteriormente la vendita e il possesso di armi da fuoco. La Virginia è in realtà solo uno dei tanti stati dell’Unione ad aver preso provvedimenti favorevoli ai proprietari di armi negli ultimi mesi. Una tendenza dettata dall’ingiustificato timore di un giro di vite sulla regolamentazione delle armi che l’amministrazione Obama aveva promesso in campagna elettorale. Mentre i commercianti fanno affari d’oro, un’imminente sentenza della Corte Suprema potrebbe ancora di più fare la felicità dei fautori del Secondo Emendamento, nonostante la striscia di sangue negli USA continui ad allungarsi.
Tra le proposte del presidente Obama che più avevano suscitato le attese delle organizzazioni che si battono per restringere la circolazione di armi da fuoco nel paese, ve n’erano due che apparivano ad un passo dall’essere adottate una volta conquistata una larga maggioranza democratica al Congresso. La prima prevedeva la fine di una particolare concessione accordata ai commercianti del settore, i quali nel corso di fiere e speciali manifestazioni possono vendere armi a chiunque senza richiedere un controllo sulla fedina penale dell’acquirente. La seconda, invece, prometteva la reintroduzione del bando federale sulle cosiddette “armi d’assalto”, introdotto nel 1994 e scaduto dieci anni più tardi.
Non solo le paure di quanti già s’immaginavano privati delle loro armi sono apparse infondate, ma al contrario nuove leggi a loro favore sono state firmate dal tanto temuto Obama. Come, solo per citare le più recenti, quelle che permettono di portare armi - purché nascoste - all’interno dei parchi nazionali e a bordo dei treni. Per la potente lobby delle armi, guidata dalla NRA (National Rifle Association), però, l’inclinazione del presidente non sarebbe sufficientemente benevola nei confronti del Secondo Emendamento, dal momento che questi provvedimenti sono stati approvati dalla Casa Bianca solo perché inseriti in altre leggi più importanti e di natura completamente differente.
Per questo motivo, i difensori del diritto a portare armi liberamente, da mesi si adoperano in numerosi stati affinché vengano approvate leggi a livello locale per prevenire eventuali regolamentazioni imposte da Washington. Così, ad esempio, in Virginia proprio la scorsa settimana è stata garantita la possibilità di portare armi da fuoco all’interno di bar, ristoranti e discoteche che servono alcolici, mentre è stato soppresso un divieto che resisteva da 17 anni e che impediva l’acquisto di più di un’arma al mese. Il primo provvedimento, in particolare, era già stato licenziato dal Congresso locale qualche anno fa, ma si era scontrato con il veto dell’allora governatore democratico, Tim Kaine. La recente elezione del repubblicano Robert McDonnell ha invece dato il via libera alla discussa norma.
Lo scorso fine settimana, piccoli gruppi di possessori d’armi della California si sono organizzati per mettere in scena una protesta contro le presunte violazioni dei propri diritti, portando le loro armi in fondine bene in vista all’interno di locali pubblici. Molti stati si sono già dati da fare concretamente o lo stanno per fare a breve. In Arizona e Wyoming - due stati dell’Ovest, dove la questione del diritto a portare armi è fortemente sentita - sono in discussione una serie di leggi volte ad allargare le maglie delle regolamentazioni, tra cui una che consentirebbe ai possessori di portare con sé le proprie armi nascoste senza richiedere un permesso specifico alle autorità.
Montana e Tennessee, addirittura, per la prima volta negli Stati Uniti, nel 2009 hanno ratificato disposizioni che esentano i due stati dall’applicazione di leggi federali in materia di regolamentazione di armi e munizioni. Ancora, nell’Indiana, da gennaio di quest’anno le aziende private non saranno più in grado di impedire ai loro dipendenti di tenere armi da fuoco nelle loro automobili parcheggiate o in transito sui terreni di proprietà delle stesse compagnie.
Dalla Casa Bianca, intanto, alle critiche per il mancato rispetto delle promesse elettorali si risponde con le cifre. Secondo un portavoce del presidente, il numero degli episodi di criminalità nel 2009 sarebbe al livello più basso dagli anni Sessanta. Il presidente, poi, viene dipinto ora come un fervente sostenitore dell’interpretazione in senso individuale del diritto di portare armi stabilito dal Secondo Emendamento della Costituzione americana. Un voltafaccia puramente opportunistico, com’è evidente, dettato principalmente dalla necessità di non alienarsi i compagni di partito più moderati, ma anche l’opposizione repubblicana, in vista del passaggio di altre leggi di maggiore peso che figurano in cima all’agenda presidenziale.
Tra i piccoli successi di quanti chiedono maggiori restrizioni, vanno segnalate quanto meno le bocciature - sia pure tra molte resistenze - in una ventina di stati di altrettante proposte che intendevano permettere agli studenti di portare armi nascoste nei campus universitari. In New Jersey, inoltre, il Parlamento statale ha fissato il limite di vendita ad una sola arma da fuoco al mese. La tendenza generale, tuttavia, appare decisamente di segno opposto e ad essa potrebbe dare un’ulteriore spinta il prossimo pronunciamento della Corte Suprema nel caso “McDonald contro Chicago”, in discussione di fronte al tribunale costituzionale americano a partire da questa settimana.
Il caso in questione è la diretta conseguenza della storica sentenza emanata nel 2008 (“District of Columbia contro Heller”), nella quale si sanciva l’incostituzionalità di alcune norme restrittive fissate dal distretto federale di Washington. I nove membri della Corte saranno chiamati ora a stabilire se l’applicazione del Secondo Emendamento - interpretato due anni fa in senso individualistico - va estesa anche a livello statale e non può, di conseguenza, essere limitata all’enclave federale della capitale. Una nuova sentenza favorevole alla lobby delle armi rappresenterebbe un colpo mortale per le regolamentazioni al possesso e alla vendita che i consigli comunali di molte città americane hanno adottato negli ultimi decenni.
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di Michele Paris
Lo scorso 24 febbraio, poco dopo mezzogiorno, nella città di San Pedro Sula, bussano alla porta di Claudia Larissa Brizuela, che stava festeggiando i suoi 36 anni. Aperta la porta di casa, riceve tre pallottole alla testa, morendo sul colpo. Claudia era militante nel sindacato del Comune dove lavorava e figlia di Pedro Brizuela, noto dirigente locale del Fronte Nazionale di Resistenza Popolare (FNRP). Questo nuovo omicidio terroristico è accaduto alla vigilia di una grande mobilitazione organizzata dal FNRP nella capitale, Tegucigalpa, in rifiuto alla Commissione della Verità, considerata come la via d’uscita verso l'impunità per tutti i criminali coinvolti nel colpo di Stato e nella selvaggia repressione che è seguita. Claudia è la terza vittima mortale in questo primo mese di governo di Porfirio Lobo. Sono già stati assassinati in circostanze abbastanza simili Vanessa Zepeda e Julio Funes.
Come si vede, la repressione non é cessata con la chiusura delle urne e l'elezione del nuovo "presidente": a otto mesi di distanza dal colpo di stato in Honduras che spodestò il presidente legittimo, Manuel Zelaya, gli effetti della crisi istituzionale nel paese continuano a farsi sentire. Mentre la recente amnistia approvata dal parlamento ha garantito l’impunità ai responsabili del golpe e ha messo al riparo lo stesso Zelaya da futuri processi politici, due pubblici ministeri honduregni hanno annunciato altrettante azioni legali distinte. La prima per cercare di incriminare lo stesso ex presidente per aver distratto fondi pubblici e l’altra i vertici militari autori del colpo di stato della scorsa estate. Il tutto mentre nel paese proseguono le proteste e la repressione del nuovo governo.
Insieme ad Andrés Thomas Conteris, giornalista e attivista per i diritti civili in America Latina, nonché fondatore del network radio-televisivo indipendente Democracy Now! in lingua spagnola, abbiamo ripercorso i fatti legati al colpo di stato nel poverissimo stato centroamericano dello scorso 29 giungo. Conteris, da tempo impegnato in vari progetti di sviluppo sociale n Honduras, è rimasto nell’ambasciata brasiliana di Tegucigalpa con il presidente deposto Manuel Zelaya, dopo che quest’ultimo era riuscito a rientrare di nascosto nel paese alla fine di settembre. Dalla sua testimonianza emerge chiaramente come la repressione contro il movimento di resistenza, messa in atto dal regime golpista, continui indisturbata anche dopo l’elezione del nuovo presidente, il conservatore Porfirio Lobo, nonostante gli Stati Uniti abbiano più volte proclamato che la crisi nel paese sia ormai in fase di pacifico superamento.
Innanzitutto, per quanto tempo sei rimasto confinato nell’ambasciata brasiliana di Tegucigalpa con il presidente Zelaya e i suoi più stretti collaboratori?
Ho vissuto all’interno dell’ambasciata brasiliana per tutto il periodo in cui è rimasto Manuel Zelaya, cioè per 129 giorni: dal 21 settembre 2009 al 27 gennaio 2010.
Torniamo ai giorni del golpe. Quali sono stati i veri motivi che il 28 giugno 2009 hanno portato alla rimozione di Zelaya dopo che si era rifiutato di cancellare una consultazione popolare non vincolante su possibili riforme costituzionali ?
Credo che una delle ragioni principali che hanno causato il colpo di stato in Honduras sia stata la precedente decisione di Zelaya di aumentare del 60% il livello del salario minimo nel paese. Questo provvedimento ha spinto i grandi interessi economici, che si sono sentiti penalizzati, a coalizzarsi con le élites politiche e militari per organizzare il golpe.
Alla luce degli stretti rapporti tra gli Stati Uniti e l’esercito honduregno, è possibile che Washington fosse all’oscuro delle manovre golpiste a Tegucigalpa? A tuo parere, gli USA hanno avuto o no un ruolo concreto nell’organizzazione del golpe stesso?
La partecipazione di Washington al golpe è altamente probabile. L’aereo che il 28 giugno ha trasportato Zelaya in Costa Rica (dopo che era stato prelevato dal palazzo presidenziali nel corso della notte) ha fatto un atterraggio alla base di Soto Cano, che si trova a circa 50 miglia dalla capitale dell’Honduras, prima di giungere alla sua destinazione finale. La “Joint Task Force Bravo” del Comando Meridionale Americano ha il suo quartier generale proprio in questa base. La motivazione ufficiale per lo scalo è che era necessario un rifornimento; una spiegazione che però non ha alcun senso, dal momento che la distanza tra Honduras e Costa Rica è molto breve.
Dopo la rimozione di Zelaya, gli USA hanno condannato ufficialmente il golpe. Tuttavia, Washington si è rifiutata di troncare i rapporti con il governo de facto di Micheletti e di cancellare tutti gli aiuti finanziari. Qual è il motivo di questo comportamento della Casa Bianca?
Anche se gli Stati Uniti hanno ufficialmente espresso la loro condanna, da un punto di vista legale non hanno definito l’azione un “colpo di stato militare”, un provvedimento che avrebbe automaticamente tagliato tutti gli aiuti al regime golpista. In realtà, gli esperti del Dipartimento di Stato avevano raccomandato l’adozione della definizione di “colpo di stato militare”, ma il Segretario Hillary Clinton si rifiutò di seguire questa indicazione.
Subito dopo il golpe, è stata lanciata una mediazione tra Micheletti e Zelaya, patrocinata da Washington e condotta dall'allora presidente del Costa Rica Oscar Arias. Questi colloqui sono falliti, così come non è andato a buon fine, successivamente, anche un altro negoziato che la diplomazia americana aveva gestito direttamente e che aveva portato ad un accordo momentaneo alla fine di ottobre. Quali sono stati i motivi di questi fallimenti?
La mediazione promossa da Arias, in realtà, fin dall’inizio non era stata accettata dal governo golpista, perché prevedeva chiaramente un percorso che avrebbe reinsediato al potere il presidente eletto, Manuel Zelaya. L’accordo firmato il 30 ottobre, invece, crollò in seguito ad un vero e proprio sabotaggio degli Stati Uniti, quando dichiararono che avrebbero riconosciuto le elezioni presidenziali del 29 novembre anche nel caso di un mancato reinsediamento di Zelaya. Questo è stato precisamente il messaggio lanciato da Thomas Shannon (all’epoca Assistente Segretario di Stato per l’Emisfero Occidentale, ora ambasciatore in Brasile) subito dopo la firma dell’accordo. Una posizione che ha rinvigorito il regime golpista, convincendolo a portare avanti le elezioni presidenziali prima che il congresso honduregno votasse per il ritorno di Zelaya al potere.
In una situazione di continuo stallo nelle trattative, il 21 settembre Manuel Zelaya riesce a tornare in Honduras, trovando rifugio all’interno dell’ambasciata del Brasile. Molti resoconti sono stati fatti sulle condizioni in cui il presidente e il suo entourage sono stati costretti a vivere sotto assedio della polizia e dell’esercito. Secondo la tua esperienza diretta, com’era la vita quotidiana nell’ambasciata brasiliana di Tegicigalpa? È vero che ci sono state minacce di morte al presidente Zelaya e che è stata messa in atto una sorta di guerra psicologica?
La vita all’interno dell’ambasciata direi che è stata piuttosto animata, nonostante le ovvie limitazioni. All’inizio ci sono stati vari attacchi con gas lacrimogeni e con strumenti LRAD (Long Range Acoustic Device, dispositivi che emettono suoni ad altissimo volume). Inizialmente, poi, erano impediti i rifornimenti di cibo e acqua, mentre successivamente sono stati ristabiliti. L’energia elettrica veniva interrotta di quando in quando e le comunicazioni elettroniche erano costantemente disturbate. Tattiche da guerra psicologica ed altre azioni ostili sono continuate per l’intero periodo, così come le minacce dirette da parte dell’esercito e della polizia honduregna.
Le elezioni presidenziali del 29 novembre si sono svolte in maniera libera e democratica, come hanno sostenuto gli USA? E la percentuale dei votanti è risultata in linea con le consultazioni precedenti o gli elettori honduregni sono rimati a casa, ascoltando l’invito al boicottaggio lanciato da Zelaya?
Assolutamente no. L’elezione del 29 novembre non si è svolta in un clima democratico. Il boicottaggio proclamato dalla resistenza nonviolenta al golpe è stato in larga parte ascoltato. C’è stata un’altissima percentuale di astensionismo, perciò il numero totale dei votanti alla fine è risultato molto inferiore rispetto ad altre elezioni in Honduras.
La vittoria di Porfirio Lobo nelle elezioni presidenziali ha segnato il ritorno al potere in Honduras delle élite più agiate del paese. Nonostante ciò, ci sono prospettive per una pacifica soluzione della crisi, come ha promesso il neo-presidente Lobo dopo aver ricevuto i poteri da Micheletti lo scorso mese di gennaio?
Fino ad ora non c’è stata alcuna soluzione pacifica, dal momento che le violazioni dei diritti umani in Honduras proseguono. Il colpo di stato del 28 giugno 2009 è stata un’azione incostituzionale e illegale; le violazioni dei diritti umani che ne sono seguite – arresti di massa, percosse, stupri, rapimenti e omicidi – rappresentano crimini contro l’umanità. Praticamente ogni articolo della Convenzione delle Americhe sui Diritti Umani è stato violato, a partire dalla rottura dell’ordine costituzionale. I crimini commessi, e la stessa azione criminale del colpo di stato, non sono stati sottoposti ad alcuna indagine e gli autori continuano a sfuggire alla giustizia. Le elezioni presidenziali del 29 novembre sono state organizzate da un regime golpista illegittimo che ha represso violentemente le proteste dei cittadini e il dissenso della società civile, rendendo impossibile un clima democratico. Le elezioni, inoltre, non sono state riconosciute dalla maggior parte degli honduregni né, almeno inizialmente, da quasi tutta la comunità internazionale.
Dopo il voto é cambiato qualcosa circa la repressione?
Dopo l’insediamento del governo de facto di Pepe Lobo le violazioni dei diritti umani sono continuate senza sosta, coinvolgendo l’esercito, la polizia e, sempre di più, organizzazioni paramilitari inquadrate in vere e proprie squadre della morte. Gli obiettivi della repressione sono sindacalisti, giornalisti, indigeni Garifuna, le comunità di “campesinos” ed altri esponenti della società civile che si è opposta al golpe. Solo nelle prime due settimane di febbraio ci sono stati almeno sei omicidi documentati, rapimenti e altre repressioni extra-giudiziarie ai danni di membri della resistenza. L’istituzione della cosiddetta Commissione per la Verità il 25 febbraio, promossa dagli stessi responsabili del golpe, non è che una farsa. Non ci potrà essere verità e riconciliazione nel paese senza la fine delle impunità e il ristabilimento della sovranità democratica che appartiene al popolo honduregno.
Con la deposizione e ora l’esilio in Repubblica Domenicana di Zelaya e il ritiro dei candidati che lo sostenevano dalle elezioni dello scorso novembre, esiste la possibilità che nel prossimo futuro la causa dell’eguaglianza e della giustizia sociale in Honduras sia portata avanti in qualche modo?
Manuel Zelaya continuerà a battersi per l’eguaglianza e la giustizia sociale assieme alla resistenza nonviolenta in Honduras. Nonostante il golpe, continuano gli sforzi per giungere ad una Assemblea Costituente che riscriva una Costituzione che finalmente risponda ai bisogni del popolo e non solo di quelli delle élites.
Oltre alla Commissione per la Verità di cui hai parlato in precedenza, cosa ne pensi dell’amnistia proposta dal presidente Lobo?
L’amnistia, in realtà, è già stata approvata e rappresenta una garanzia di impunità per i crimini commessi dal regime di Micheletti e per quelli di cui si è già reso responsabile l’attuale governo.
Il segretario generale dell’OSA [Organizzazione degli Stati Americani], José Miguel Insulza, ha detto che farà di tutto per riammettere l’Honduras nell’organizzazione. Credi che questo messaggio, assieme al voltafaccia americano riguardo al golpe, può favorire altri colpi di stato in altri paesi dell’America Latina (in particolare in Nicaragua, dove le destre erano estremamente entusiaste di Micheletti, o in Venezuela) perché gli eventuali autori potranno contare sull’impunità garantita per i loro atti ?
È evidente che le destre in tutta l’America Latina siano uscite rinforzate dal colpo di stato in Honduras e dal fatto che il presidente legittimo non è stato reinsediato. Il ruolo dell’OSA inizialmente era sembrato utile alla causa della resistenza anti-golpista, ma in seguito l’organizzazione non ha saputo tenere fede ai propri impegni, lanciando un pericoloso messaggio per il futuro delle democrazie di tutto il continente.