di Giuseppe Zaccagni

Lunga e tortuosa è la via cinese al benessere. L’economia del colosso non sempre riesce a decollare, perchè si deve tener conto degli errori del passato e, di conseguenza, le strategie attuali segnano spesso il passo. La sfida, comunque, è quella di recuperare terreno nei confronti del mondo più evoluto. Intanto il cambiamento di rotta è evidente e il ricorso a termini quali «cambiamento» e «trasformazione», evidenzia che si punta ad un’inversione radicale nel percorso di sviluppo.

E così nonostante la presentazione dei programmi della nuova strategia economico-politica abbia sedato molti timori, l’attenzione rimane puntata sulle prossime manovre; i mesi a venire saranno decisivi per capire se vi è stata una svolta, un ribaltamento o un cambiamento direzionale nei trend economici, politici e sociali del paese. La partita del secolo, per Pechino, si gioca in questo campo.

Intanto si devono fare i conti con il contenimento dell'inflazione, con gli incentivi alla domanda interna, con la lotta alla corruzione, con l’aumento della spesa pubblica: il tutto con una crescita record pari all'otto per cento del pil. Si tenta, quindi, di liberare le energie del Paese.

C’è però un fatto particolare, di ordine strategico; il cambiamento dello schema di sviluppo economico - rispecchiando le convinzioni e le ambizioni del governo - evidenzia che la rinascita si è compiuta, che il Drago si è svegliato ed è pronto ad assumere le redini dell'economia mondiale. C’è una dichiarazione in merito di Wen Jibao: "Il 2009 - ha spiegato - è stato l'anno più difficile dall'inizio del nuovo secolo, con l'economia che, subendo l'impatto della crisi, è comunque riuscita a mantenere una crescita". L’anno in corso, quindi, si prospetta come un momento decisivo per completare l'undicesimo piano quinquennale e per predisporre delle buone fondamenta per il dodicesimo. Che dovrebbe portare ad un riequilibrio dei dislivelli economici.

E’ vero che si tratta di altisonanti previsioni, che però non debbono far dimenticare - come sottolineano numerosi analisti - che anche il colosso asiatico ha dei punti deboli. Infatti, trent'anni dopo l'avvio delle riforme di Deng Xiaoping (che hanno trasformato la Cina da un'economia rigidamente pianificata in un socialismo di mercato più ricettivo nei confronti delle imprese straniere), il sistema resta tuttora un mondo che, sotto molto aspetti, fa storia a parte esponente pur sempre di una magnifica diversità.

Un esempio di ciò è quello che si riferisce ai primi sei mesi del 2009, quando la Banca centrale concesse 1.100 miliardi di crediti, una straordinaria iniezione di liquidità volta ad accelerare produzione e consumi. Si è poi visto che la risposta positiva c'è stata. Ma subito è venuta in primo piano la domanda: fino a quando durerà una ripresa trainata soltanto dal denaro pubblico? Ci si è così chiesti: può un Paese dove il reddito pro capite (in media seimila dollari l'anno) è meno di un sesto di quello americano e meno di un quinto di quello europeo, assumere la leadership dell'economia?

Si è visto, sempre in questo contesto, che dal punto di vista borsistico, negli ultimi anni, contrattazioni e volumi sono cresciuti a un ritmo esponenziale. Così come il numero delle società quotate - con gli investitori pressoché raddoppiati, fino a superare i cento milioni - contemporaneamente al rafforzamento delle principali piazze sono, come annuncia il quotidiano Xi Min Evening: Shanghai e Shenzhen.

Attualmente, quindi, l’economia e la societa cinese si trovano di fronte - come sostiene il The Observer economica - ad un’ampia gamma di questioni ancora irrisolte. Che sono quelle che possono essere così individuate: speculazioni e corruzione, in parte dovute al fragile contesto legale e istituzionale e che non accennano a diminuire; le alterne vicende del settore petrolifero, che in passato ha goduto di ampi sussidi da parte dello Stato e che, nonostante i diversi propositi, non è riuscito a reincanalare le risorse pubbliche a beneficio delle classi meno abbienti; l’istituzione di un sistema di tipo meritocratico, enfatizzata e più volte promessa non si è mai realizzata ed è stata poi annoverata solo tra gli altri obiettivi fondamentali della «riforma di governo».

Ed ora - come rilevano vari analisti liberi e anticonformisti - c’è sul tappeto la questione relativa al sistema burocratico intrappolato in una ragnatela di relazioni politiche che lasciano proliferare la cattiva amministrazione e impediscono qualsiasi ingerenza e iniezione di nuove risorse umane dall’esterno.

Altro problema sul tappeto è poi quello relativo al dilagare del fenomeno della «fuga dei cervelli». Per non parlare del fatto che si è in presenza di una questione preoccupante: maggiori sono gli anni di scolarizzazione e più elevata è la percentuale di disoccupati. In questo contesto risulta che le pastoie burocratiche, le lungaggini procedurali e la mancanza di motivazione da parte dei pubblici dipendenti sono ancora fenomeni ampiamente diffusi. E ancora: nessun passo in avanti è stato compiuto per accrescere la trasparenza e la responsabilità del governo; non è stato avviato alcun programma di sostegno alle piccole e medie imprese che continuano pertanto  ad operare su un terreno incerto; il contesto infrastrutturale per le attivita imprenditoriali è ancora decisamente carente rispetto non solo a quello dei paesi sviluppati, ma anche a quanto offerto nelle economie emergenti. C’è così una grande mescolanza di interessi ed è una sorta di melting pot economico.

A questa ipertrofia affaristica non è però corrisposto - come fanno notare molti economisti, e non solo occidentali - un consolidamento del sistema dei controlli e della trasparenza. L'estrema volatilità (scrive il China news digest) lo dimostra. Nell'autunno 2007 il listino di Shanghai ha raggiunto il suo massimo storico, guadagnando qualcosa come il seicento per cento, per poi lasciare sul campo in pochi mesi il settanta per cento e quindi riguadagnare il novanta per cento nel giro di soli sette mesi. Stessa cosa nel 2009: alla battuta d'arresto di agosto, che ha ricacciato l'indice indietro di oltre venti punti percentuali, è seguita una graduale ripresa autunnale.

Oltre al piano finanziario c'è poi quello dell'economia reale. La Cina continua a essere una società segnata da profonde differenze di reddito tra la città e la campagna, tra est e ovest, tra fascia costiera e regioni interne. Le statistiche fornite dal Governo mostrano come il processo di modernizzazione, pur salvando dalla miseria quattrocento milioni di persone, abbia creato due Cine. Nel 2009, il reddito annuo pro capite dei residenti nelle città è stato pari a 17.175 yuan (circa 2.500 dollari) contro i 5.153 yuan (750 dollari) dei residenti nelle aree rurali e montagnose.

C'è dunque - come nota il Beijing Daily - una Cina ricca, composta da una classe media emergente, che lavora e ha una vita dignitosa (12.000 dollari l'anno il reddito pro capite), e da una classe di quei cittadini, molto più ricchi, che hanno saputo sfruttare l'onda della modernizzazione. C'è poi però la Cina povera, quella dei contadini e dei pastori che vivono nelle campagne e in montagna con meno di un dollaro al giorno. Il problema è che questa seconda Cina è quella più numerosa, due terzi della popolazione.

Da queste analisi che circolano a Pechino risulta un dato evidente: la crisi globale dimostra che le regole della finanza mondiale non possono essere riscritte senza tenere conto della Cina. Resta da capire dove voglia andare Pechino, verso quale tipo di sviluppo, e se ci voglia andare da sola, accogliendo l'ipotesi di un duopolio con gli Stati Uniti e di un dialogo più aperto con le ex potenze occidentali, o imboccando la strada della fuga solitaria. Il grande gioco continua. La roulette cinese potrebbe riservare nuove sorprese.

di Luca Mazzucato

A due settimane dal terremoto in Cile, abbiamo raccolto la testimonianza di William, un professore americano recentemente trasferitosi a Santiago. Nonostante il terremoto avvertito in città sia stato cento volte più potente di quello dell'Aquila, tutto sembra già essere tornato alla consueta normalità. L'immagine che più di ogni altra rappresenta il paese sudamericano in questo momento è quella del neoeletto Presidente Piñera, che non fa una piega durante la forte scossa di assestamento, proprio durante la sua cerimonia d'insediamento.

Qual è la situazione a Santiago e nel resto del Paese?

Non c'è stato niente di simile alla terribile devastazione di Haiti qui in Cile, nonostante l'energia sprigionata dal terremoto nel centro di Santiago, 8.0 della scala Richter, sia stata trenta volte superiore rispetto a Port-au-Prince. Penso che sia dovuto alla lunga storia di terremoti devastanti che hanno sconvolto il Cile nel passato: qui ci sono più ingegneri sismici e geologi che in qualsiasi altra parte del mondo. Costruttori e architetti devono costruire edifici che resistano ad un terremoto di 9.5 gradi, cioè la magnitudo del più grande terremoto che si ricordi (sempre in Cile, nel 1960). Se l'edificio mostra qualche danno dopo un terremoto meno potente del massimo previsto, il costruttore è obbligato per legge a pagare le spese di riparazione.

La popolazione è soddisfatta della reazione del governo al terremoto?

La popolazione a Santiago sembra contenta della risposta del governo. Ci sono scritte entusiaste “Vai Cile!” e “Tutti per il Cile” sulle fiancate degli autobus e si raccolgono soldi per gli aiuti nei supermercati e dappertutto. Nei primi giorni dopo la scossa, c'è stato qualche problema di approvvigionamento nel supermarket del nostro quartiere: mancava acqua frizzante e c'era poca carne. Forse per via dei problemi logistici o perché stavano dirottando il cibo verso le zone più colpite. Ora è tutto tornato normale, a parte il fatto curioso che non c'è più carta igienica nei negozi...

La situazione è drammatica oppure sta tornando alla normalità?

A Santiago tutto è già tornato alla normalità, come se fossimo in Giappone! Persino nelle parti più povere della città le macerie sono state ripulite e gli edifici sistemati. Nonostante un terremoto dell'ottavo grado, questo posto sembra comunque molto meglio di una periferia americana! Solo piccoli particolari non sono ancora rientrati, per esempio l'acqua calda è tornata nel nostro palazzo soltanto lo scorso giovedì e solo uno dei due ascensori funziona (si può salire in ascensore ma scendere a piedi). All'Università Andres Bello, dove lavoro, stanno facendo piccoli lavori di manutenzione e un muro si è crepato, ma niente di più.

Qualche aneddoto curioso al quale hai assistito in questi giorni?

Mia madre è venuta a trovarmi dalla Florida proprio durante il terremoto: riportarla in aeroporto giovedì scorso (il giorno della forte scossa di assestamento) è stata un'esperienza interessante. Sembrava di essere a un festival musicale: tutti stavano all'aperto, seduti sui bagagli, il bar si era trasferito in una tenda, così tutti potevano comprare da bere anche se il terminal era inagibile. I voli venivano scritti a mano su una lavagna e c'erano gabinetti portatili proprio come ai concerti. Nonostante questa confusione variopinta, la procedura d'imbarco è stata di un'efficienza esemplare: appena arrivati abbiamo chiesto ad un tipo dove fosse la nostra compagnia, un suo collega ha controllato i passaporti e poi ha subito fornito le carte d'imbarco. Forse dovremo tornare a quel tipo di controlli dopotutto! Il direttore del dipartimento tuttavia si è scusato per la confusione che abbiamo visto all'aeroporto: secondo lui è motivi di grande imbarazzo nazionale il fatto che il terminal d'imbarco sia stato danneggiato, perché vuol dire che non è stato costruito a regola d'arte...

di Michele Paris

Nel pressoché totale silenzio dei principali organi di stampa americani, qualche giorno fa la Camera dei Rappresentanti di Washington ha votato su una risoluzione per disporre l’immediato ritiro delle truppe a stelle e strisce dall’Afghanistan e la fine di un conflitto che si trascina da oltre otto anni. Il breve dibattito si è concluso - ovviamente - con un voto contrario bipartisan. Un esito che ha messo in luce il divario abissale creatosi ormai tra una classe politica e un presidente che continuano a sostenere quella che era stata lanciata come una “guerra giusta” contro i presunti responsabili dell’11 settembre ed una popolazione che, al contrario, é sempre più sfiduciata nei confronti di una campagna planetaria contro il terrore che ha mietuto oltre mille vittime solo tra i militari americani.

Nonostante i chiari segnali domestici di contrarierà alla guerra in Afghanistan, sul finire dello scorso anno, la Casa Bianca, su richiesta dei vertici militari, aveva dato il via libera al dispiegamento di altri 30 mila soldati da ultimare entro l’estate del 2010. Così, la progressiva trasformazione di un conflitto appartenente all’Occidente (NATO) in uno sostenuto in grandissima parte dagli USA, è giunta ironicamente proprio in concomitanza con il crescente scontento dei cittadini americani; quanto meno, di una parte dello stesso Partito Democratico.

Per contrastare i malumori largamente diffusi nel paese nell’anno delle delicatissime elezioni di medio termine, Obama e il Pentagono hanno dato il via lo scorso febbraio all’offensiva propagandistica di Marjah (Operazione Moshtarak). Questa località, situata nella provincia meridionale di Helmand, è stata descritta dal comandante delle truppe NATO in Afghanistan, Generale Stanley McChrystal, come un’importante città densamente popolata e come una vera e propria roccaforte talebana.

E’ stata una rappresentazione totalmente fuori dalla realtà, ma prontamente ripresa e diffusa dalla stampa “mainstream”, dettata dalla necessità di diffondere un qualche ottimismo con un’operazione relativamente agevole in un’area tutt’altro che essenziale. Marjah, infatti, appare piuttosto come un distretto rurale nel quale vivono meno di 100 mila abitanti in un’area poco più vasta della città di Washington.

Sull’onda del malcontento di una parte consistente dei propri elettori, una manciata di deputati democratici liberal, guidati dall’ex candidato alla presidenza Dennis J. Kucinich (Ohio), hanno allora spinto con i leader della Camera per portare in aula una risoluzione che chiedeva il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan entro 30 giorni dalla sua approvazione. Per quanto le speranze di vedere approvata una simile misura - fondata sul Wars Power Act del 1973, che consente al presidente l’impiego di militari solo in seguito all’autorizzazione del Congresso - fossero minime anche tra gli stessi promotori, l’auspicio era di avere almeno un dibattito pubblico che facesse finalmente emergere le frustrazioni per una guerra senza prospettive.

Prima della votazione finale, che ha bocciato l’iniziativa con 356 contrari e 65 favorevoli, la discussione coperta da uno sparuto gruppo di giornalisti si è risolta in realtà in brevi dichiarazioni che, in gran parte, hanno completamente ignorato l’opposizione alla guerra della maggioranza degli americani. Se pure non sono mancati interventi incisivi, come quello del deputato democratico della Florida, Alan Grayson, il quale indossando una cravatta con il simbolo della pace ha definito la guerra in Afghanistan una “occupazione” e perciò “incostituzionale”, l’opinione più diffusa tra la maggioranza ha ricalcato la posizione interventista della Casa Bianca. Agli albori della nuova strategia anti-talebana, già trionfale secondo la propaganda ufficiale, sarebbe insomma un errore abbandonare l’Afghanistan.

Con l’opposizione alla risoluzione di Kucinich, già chiaramente espressa alla vigilia dai leader di entrambi gli schieramenti, alla fine 189 democratici hanno votato contro e 60 a favore. Tra i repubblicani, i contrari sono stati 167 e i favorevoli 5, tutti per motivi di bilancio, tra cui un altro ex candidato alla presidenza, il deputato libertario del Texas Ron Paul. Anche in caso di esito positivo, la misura non avrebbe avuto praticamente nessun effetto: il Senato avrebbe dovuto infatti ratificarla e, anche in tal caso, si sarebbe fermata di fronte al sicuro veto presidenziale. In aggiunta, Obama avrebbe in ogni caso avuto la possibilità di mantenere le truppe in Afghanistan fino al 31 dicembre, invocando ragioni di “sicurezza nazionale”.

Secondo quanto annunciato dal presidente lo scorso dicembre, il contingente militare americano dovrebbe teoricamente iniziare il ritiro dal paese pochi mesi dopo tale scadenza, nel luglio del 2011. Previsione ribadita recentemente anche dal Segretario alla Difesa, Robert Gates, ma che appare in realtà solo una vaga promessa per placare l’opposizione della sinistra del Partito Democratico e dell’opinione pubblica. Infatti la smobilitazione, a partire dall’estate del prossimo anno, come è stato più volte sottolineato dal Pentagono e dall’amministrazione Obama, avverrà solo se “esisteranno le condizioni sul campo”. Un’eventualità che appare remota, alla luce dell’andamento del conflitto.

A sottolineare la distanza tra il sentimento del popolo americano e i suoi rappresentanti a Washington, in concomitanza col voto alla Camera, lo stesso Gates si è recato prima a Kabul per incontrare il presidente afgano, Hamid Karzai, e successivamente nelle basi americane situate nelle province di Helmand e Kandahar per discutere della prossima escalation militare. Proprio nella città di Kandahar, realmente un baluardo della resistenza talebana, dovrebbe concentrarsi a breve la nuova offensiva delle forze ISAF in Afghanistan. Un’operazione che nei prossimi mesi testerà l’efficacia della strategia statunitense e, soprattutto, la disponibilità dell’opinione pubblica americana ad accettare un probabile ulteriore massacro per una guerra nella quale non crede più da tempo.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Missione indiana per il premier Putin, impegnato nell’opera di rilancio della politica del Cremlino nei confronti dell’Asia. A Mosca ha lasciato l’altra metà del potere - il presidente Medvedev - alle prese con le questioni interne (elezioni in varie città, proteste di massa a Pensa) e dimostra ancora una volta di essere il gestore delle relazioni internazionali, sorattutto di stampo economico e strategico-militare. Eccolo, quindi, in India (per la quinta volta in un decennio) per siglare un accordo per costruire almeno 16 reattori nucleari in tre impianti e in particolare nelle centrali di Kundankulam nel Tamil Nadu e del West Bengal: tutto nel giro di 10-15 anni.

E così la Russia pressata dall’egemonismo americano e, in parte, dall’insensibilita europea, studia l’ipotesi di allinearsi con l’India anche per difendere i propri interessi nello spazio postsovietico e aumentare, in modo decisivo, la sua capacità competitiva. Si tratta - come scrive il quotidiano moscovita Izvestija - di una nuova tappa di quella proposta di costruire un triangolo geostrategico Cina-India-Russia, che è però diventato un progetto sempre più lontano e ambizioso. Così Mosca sceglie una fase intermedia. E la tappa indiana di Putin rientra, appunto, in questo quadro.

Ora risulta che l’agenda di Delhi comprende anche il partenariato strategico tra i due paesi con priorità alla cooperazione bilaterale nel settore industriale, ingegneria meccanica, telecomunicazioni e altri settori. In totale nella valigia del premier russo entreranno ben 15 accordi del valore di 10 miliardi di dollari. E in particolare una serie di dossier strategici relativi al nucleare civile e al trasferimento di tecnologia militare. Tutto all’insegna di una partnership forte a livello geopolitico.

Il valore della visita è anche di ordine diplomatico. Ci sono infatti colloqui con il primo ministro indiano Manmohan Singh, con la presidente Pratibha Patil e con Sonia Gandhi, presidente del Partito del Congresso Indiano, attualmente al governo. Su tutto, comunque, domina la volontà del Cremlino di superare gli Usa e l’Europa  nell’azione tesa a mettere nelle mani degli indiani una tecnologia militare chegli altri grandi partner di Delhi stanno rifiutando.

Mosca porta in India grosse forniture militari, con caccia a reazione e sottomarini. E’ un giro di affari che ha un valore di 8 miliardi di dollari in un anno, in base al bilancio commerciale bilaterale. Non solo, ma Mosca si offre per  costruire un jet da combattimento di quinta generazione e un aereo da trasporto militare e la produzione di apparecchiature di navigazione satellitare “Glonass” che - come è noto - rivaleggia con il sistema GPS degli Stati Uniti.

Si può quindi dire che tra Mosca e Delhi si va sempre più stringendo un “vincolo di acciaio” che porta, soprattutto, la firma di Putin. Il quale durante i suoi otto anni di presidenza, si è recato in India quattro volte, mentre il premier indiano Manmohan Singh da parte sua è volato a Mosca ben tre volte nel giro di sei mesi. E oggi - con il nuovo faccia a faccia tra Putin, ora premier, e il collega indiano - arrivano anche le firme degli accordi commerciali.

Quello che colpisce gli osservatori occidentali è che una buona fetta di questi scambi riguarda armi (compresi i Mig-29 da combattimento per 1,5 miliardi di dollari) e due reattori nucleari. Non solo, ma c’è anche un accordo per la  ristrutturazione in India della portaerei russa “Ammiraglio Gorskov” per 2,3 miliardi di dollari.

Di conseguenza, è sempre più vicino il rischio che si sconvolgano equilibri delicati esistenti con gli Usa, in particolare. Infatti l’India - che rappresenta la seconda crescita economica più veloce al mondo - nel giro di cinque anni ha speso 50 miliardi di dollari per modernizzare il proprio esercito. E non accenna certo a ridimensionare le proprie ambizioni. Il suo budget destinato alla difesa ammonta a 30 miliardi di dollari, con una crescita del 70 per cento rispetto a soli cinque anni fa.

L’obiettivo non è più solo quello di mostrare i muscoli al nemico di sempre (il Pakistan) ma “contenere” l’altro grande attore emergente, vale a dire la Cina. Ma non basta. L’India sta accelerando anche sul mercato del nucleare. Secondo alcune informazioni  il nucleare fornisce oggi a New Delhi meno del 3% di elettricità. Nel 2050, a pieno regime, la quota dovrebbe arrivare fino al 25%. Ed è proprio il nucleare che incendia gli animi. E’ qui che Putin vuole “insinuarsi”, sfruttando peraltro il lavoro di apripista svolto dagli Stati Uniti. Ma non tutto fila liscio. Perchè malgrado l’ipotesi di una grande alleanza geostrategica tra Russia e India sia piuttosto conosciuta e popolare in determinati ambienti, molti analisti e politici russi, compresi i non filoccidentali la giudicano in modo scettico o critico. E non c’è solo questo.

Perchè l’aumento delle forniture di moderni armamenti russi all’India costituisce un fattore di permanente irritazione per l’Occidente. E Washington, che rifornisce delle proprie armi metà del pianeta, percepisce l’attività russa non come un fatto naturale per il complesso militare-industriale del Cremlino, ma come una azione strategica tesa a soppiantare i fornitori di armi americani e europei ovunque si possa, anche ricorrendo a pressioni politiche.

In pratica la preoccupazione del Pentagono è che si stia evidenziando una linea antiamericana di Mosca volta ad armare i potenziali rivali degli Usa. E in questo Putin potrebbe essere non solo il commerciante di armi, ma anche e soprattutto l’ideologo di una nuova strategia eurasiatica  della Russia.

di Elena Ferrara

I “dalit” agitano l’India. Sono circa 200 milioni e rappresentano il 17% della popolazione. Scendono in piazza, protestano e lanciano la loro sfida pacifica al potere di Delhi. Stanchi di essere discriminati, offesi, umiliati, repressi. Sono i cristiani dell’India - la categoria più in basso nel sistema castale - e vengono sempre più penalizzati per la loro fede religiosa. La situazione è ad un alto livello di conflittualità e si rischiano nuove e forti rivolte di massa.

Esclusi dal mondo del lavoro e dalle attività sociali, i “dalit” registrano ogni giorno il peso delle discriminazioni: i loro bambini, a scuola, devono sedersi in fondo alla classe e sono trattati senza rispetto da insegnanti e compagni. Le loro baracche e abitazioni vengono speso distrutte o bruciate. Sono oggetto di aggressioni, insulti e propaganda razzista. E nonostante la legge punisca le affermazioni razziste, nessun giornale o politico è mai stato condannato per aver seminato odio contro di loro.

Le donne, quando restano sole, sono oggetto di violenze o stupri. La gente non stringe la mano a questa “minoranza” indiana né gli consente di mangiare o di comprare oggetti di uso domestico. Anche nei templi indiani si attua la discriminazione, vietando l'ingresso ai “dalit” e i sacerdoti chiamano la polizia quando li vedono mendicare nei pressi dei luoghi di culto. Il 66% dei “dalit” sono analfabeti. La loro mortalità infantile è la più alta fra tutti i gruppi etnici o sociali dell'India, mentre la speranza di vita media è la più bassa. Quando è concesso loro di lavorare, vengono costretti a condizioni di semi-schiavitù. Le istituzioni non forniscono acqua, servizi igienici, corrente elettrica, assistenza sociale. Questa è la realtà.

Intanto monta la protesta. A Chennai (capoluogo dello Stato del Tamil Nadu) una pacifica marcia a sostegno dei diritti dei “dalit” è degenerata nei giorni scorsi nell'arresto, per alcune ore, di centinaia di cristiani, tra cui tre presuli cattolici. La marcia aveva preso le mosse il 10 febbraio dalla città di Kanyakumari e in varie tappe, lungo un percorso di ben ottocento chilometri, era approdata a Chennai (città culla della cristianità indiana) dove ai manifestanti si erano uniti i membri della comunità locale.

L'iniziativa – che ha visto l'adesione di migliaia di persone – ha avuto come obiettivo quello di  sensibilizzare le autorità statali sulle discriminazioni subite dai cosiddetti "fuori casta". Ma quando il corteo si è snodato per le vie di Chennai, la polizia ha reagito compiendo numerosi fermi. Tra questi, anche vari prelati cattolici. In un comunicato della “Catholic Bishop's Conference of India (Cbci)” si sottolinea che "questo è il modo con il quale il governo del Tamil Nadu e quello centrale rispondono alle legittime e democratiche istanze di pace e di amore della comunità cristiana".

La questione dei “dalit” è ora al centro dell'assemblea della Cbci a Guwahati. La marcia, si sottolinea, era un'iniziativa annunciata da tempo e, proprio per questo, conosciuta da parte delle autorità e le forze dell'ordine. I leader della comunità cristiana hanno aperto un'indagine su quanto avvenuto evidenziando che, nonostante gli arresti, continueranno a sostenere i diritti dei “dalit”. La lotta per l’affermazione dei diritti, comunque, si fa sempre più difficile e complessa. Si registrano ritardi nell'iter di approvazione di un provvedimento legislativo che consenta un uguale trattamento tra i “dalit” delle varie minoranze presenti nel Paese. Ai "fuori casta" cristiani e musulmani, per esempio, è tuttora inibito l'accesso al lavoro e ai servizi di base, concesso invece ai “dalit” indù; oppure i “dalit” che si convertono al cristianesimo o all'islam perdono ogni diritto goduto in precedenza.

In pratica, i “dalit” cristiani e musulmani chiedono al governo centrale di cancellare il terzo paragrafo del “Constitution Scheduled Castes Order” del 1950, che concede lo status e i diritti previsti per i fuori casta solo a indù, buddisti e sikh. Peraltro, la commissione nazionale per le minoranze linguistiche e religiose ha definito la norma discriminatoria e contraria ai dettami della Costituzione. In occasione delle celebrazioni per il 60° anniversario della proclamazione della Repubblica e dell'entrata in vigore della Costituzione, avvenuti il 26 gennaio 1950, il presidente della Cbci, il cardinale arcivescovo di Bombay, Oswald Gracias, aveva affermato: "In India, la Chiesa cattolica è sempre stata al servizio della nazione per realizzare il bene comune. Dopo lo Stato, la Chiesa è la principale istituzione che provvede all'istruzione per formare persone che possano dare un effettivo contributo alla società e al Paese. I cattolici sono promotori del dialogo per costruire ponti di comprensione, fiducia e armonia tra persone di ogni casta, credo politico e religioso e appartenenza etnica".

Intanto, nei giorni scorsi a Sagar, nel Madhya Pradesh, si è svolta un'altra manifestazione di sostegno per i diritti delle donne, alla quale, fra gli altri, ha partecipato un gruppo di religiose. In particolare, la protesta verteva sull'esigenza di migliorare l'accesso al sistema scolastico. Anche se il governo indiano ha espresso un forte impegno verso l'istruzione a favore di tutti, senza distinzioni tra sessi, il Paese risulta ancora tra quelli con l'indice di analfabetizzazione più alto tra le donne.

Per quanto riguarda infine l’aspetto prettamente politico della questione “dalit”, va ricordato che esiste un’organizzazione che fu fondata nel 1970 da Kanshi Ram, il “Messia degli intoccabili”, e cioè la “All India Backward and Minority Employess Federation”, dalla quale è poi scaturito un partito che ha dato ai “dalit” la possibilità di alzare la voce nei confonti di Delhi. Ed è chiaro che oggi, nel momento in cui monta la protesta, l’intera questione della “minoranza” diviene un fatto nazionale destinato, forse, a sconvolgere il sistema castale, scatenando un serrato confronto a livello politico.


 


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