di mazzetta

Centottantanove paesi hanno siglato una storica intesa nell'ambito del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP). L'intesa, formalizzata in una dichiarazione sostenuta dall'unanimità e presentata all'ONU, impegna i paesi firmatari ad uscire dall'ambiguità che ormai da anni costringeva allo stallo l'intero progetto. Il TNP è un accordo multilaterale, nell'ambito del quale i paesi che non hanno le atomiche s'impegnano a non costruirne e, quelli che ce le hanno, s'impegnano a ridurre le proprie fino a rinunciarvi.

Alla vigilia dell'accordo la Gran Bretagna, a dare peso e solennità all'occasione ha ufficialmente pubblicizzato il numero delle sue testate (160 operative, 225 in totale) e tutti i paesi firmatari in possesso di armamenti nucleari hanno aderito all'unanimità, con la notevole inclusione degli Stati Uniti, a lungo il vero impedimento alla firma di un accordo concepito e in linea di principio accettato, già molti anni addietro.

L'accordo, oltre a rinnovare la dottrina “dei tre pilastri” (Riduzione per chi ha armi atomiche, rinuncia per chi no, assistenza per l'accesso al nucleare “civile”), per la prima volta richiama ed evidenzia in particolare le responsabilità di quattro paesi: Pakistan, India, Corea del Nord e Israele, che non hanno sottoscritto (o l’hanno ricusato come nel caso della Corea del Nord)  il TNP e possiedono armamenti atomici. Per la prima volta il documento chiede espressamente a India, Israele e Pakistan di firmare NTP e CBTC ( per le armi chimiche e biologiche), mentre intima seccamente alla Corea del Nord di liberarsi del suo programma nucleare.

Per l'India il problema sarà risolto con l'adesione già prevista nel quadro dell'accordo per la condivisione di tecnologie nucleari e spaziali con gli Stati Uniti, siglato da Bush, che non possono essere trasferite ai paesi non-firmatari. Per gli altri tre paesi le cose sono molto più difficili, ancora di più con Israele, che non discute neppure di nucleare perché non ammette di avere armi nucleari e pure rifiuta l'adesione al TNP.

Proprio Israele e la sua politica nucleare sono state il motivo dell'ostruzionismo statunitense fin dal lontano 1995, ora abbandonato anche grazie al cambio di passo dell'amministrazione Obama, che ha preso il Nobel per questo e che non poteva certo lasciar scadere il trattato, come lo stesso prevedeva qualora entro quest'anno non si fosse raggiunta un'intesa.

Numerose voci si sono levate dagli Stati Uniti per minimizzare l'evento e addirittura per mettere in dubbio l'impegno, raggiunto sulla base del consenso all'unanimità. Numerose voci ne hanno discusso in Israele, come in India, in diversi paesi d'Europa, in Pakistan, nelle due Coree e nei paesi arabi. La notizia del giorno ovunque, tranne che in Italia dove non ha raccolto alcuna attenzione e negli Stati Uniti, dove se n’é discusso pacatamente e sommessamente.

L'adesione di principio al disarmo nucleare è molto forte a livello retorico nell'amministrazione Obama, ma quando si arriva a fare i conti si scopre che gli Stati Uniti recentemente si sono impegnati ad eliminare soprattutto i missili da rottamare (ce ne sono di 50 anni fa) e comunque per una parte che aveva già il consenso statunitense fin dai tempi di Reagan.

Il nuovo trattato è di enorme importanza, perché oltre a siglare l'impegno ad andare verso l'estinzione degli armamenti atomici, i paesi firmatari si sono impegnati a seguire gli stessi passi anche per le armi batteriologiche e chimiche, che nel complesso sono le famose “armi di distruzione di massa” di tragica e recente memoria. Nel trattato inoltre è prevista anche una conferenza da tenersi nel 2012, nella quale porre le basi per fare di diciannove stati del Medioriente un'unica zona libera da questo genere di armamenti.

È abbastanza chiaro che la novità richiede ad Israele di rinunciare all'ipocrisia del “non conferma e non smentisce” che ha seguito per decenni, ma è altrettanto chiaro che da un punto di vista strettamente strategico non sarebbe un gran danno, tanto più che il famigerato reattore di Dimona è ormai alla fine del suo ciclo vitale. Ufficialmente Israele ha reagito alla notizia prima con semplicità e sobrietà, dicendo che di disarmo se ne potrà parlare dopo che la zona avrà raggiunto la stabilità e accordi di pace, una cautela giustificata dalla complessità del momento tale da essere colta anche da Netanyahu e dai suoi alleati più esagitati.

Che alla fine devono aver prevalso se a 24 ore di distanza Israele ha denunciato la proposta per il Medioriente denuclearizzato come “ipocrita e bagliata” e affermando che non adempirà alle sue richieste e previsioni. Nemmeno altre 24 ore e il Sunday Times ha annunciato che una fonte israeliana afferma che Tel Aviv manderà tre sottomarini dotati di armi atomiche a incrociare davanti alle coste iraniane. In funzione deterrente, ma anche con compiti di spionaggio e infilrazione.

L'idea di un Medioriente de-nuclearizzato è particolarmente attraente per l'Europa, già a tiro di Israele, vicinissima a quel Gheddafi che pare aver rinunciato all'atomica dando a Bush quello che aveva avuto dal Pakistan e ricevendo in cambio una totale riabilitazione. Da noi non si è mai sentito alcun allarme per i missili o le bombe di Gheddafi, che pure pochi anni fa colpì le nostre spiagge, senza che l'Italia tutta insorgesse o si preoccupasse. Legato al possesso delle atomiche da parte d'Israele c'è quello del resto dei paesi arabi, che in mancanza di un impegno al disarmo potrebbero decidere mettersi in pari e di conseguire un deterrente all'arsenale israeliano, a cominciare dall'Egitto.

Nel nostro paese quelli che decidono con cosa spaventarci non amano parlare di nucleare, anche perché abbiamo qualche decina di bombe atomiche americane che per il TNP non potremmo tenerci, e allora tutti i governi hanno sempre volato basso sul tema, figurarsi ora che stanno tentando il gran colpo decidendo proprio la costruzione di centrali nucleari.

L'implementazione dell'accordo ha due difetti agli occhi di Washington, perché il documento non cita l'Iran, rendendo molto più difficili le sanzione annunciate con foga e forse imprudenza dal Segretario di Stato, Hillary Clinton all'indomani dell'accordo Iran-Brasile-Turchia, con il quale l'Iran ha annunciato la sua disponibilità a impiegare uranio arricchito all'estero, una scelta che rende inutile la costruzione di centrifughe utili anche ad arricchire l'uranio per farne bombe.

Secondariamente, ma non ultimo per rilevanza, consegna Israele all'ingrato ruolo di fuorilegge. Una posizione, quella dell'unico paese al mondo che non ha firmato nessuna delle convenzioni sulla limitazione delle armi NBC, dalla quale è abbastanza difficile alzarsi ogni giorno per dirsi minacciati dal programma atomico iraniano. Un paese al quale proprio il Nobel per la Pace, Presidente dell'altro grande accusatore dell'Iran, ha appena finanziato uno scudo antimissile che lo renderà teoricamente intoccabile. Paradossalmente un altro passo verso l'impossibilità per Israele di sostenere il ruolo di paese minacciato.

Anche perché l'Iran per non ha ancora nessuna capacità nucleare militare, essendo ben lontano dal poter arricchire l'uranio come richiesto per l'atomica e ha appena ribadito l'impegno a non non ricercare la bomba, aderendo al nuovo trattato e all'iniziativa di pace collegata. Già era poco credibile che ad accusare l'Iran fosse un paese che non aderisce al trattato (e che ha condiviso tecnologie ed esperimenti nucleari con un paese quale il Sudafrica dell'apartheid) e che negli ultimi anni ha aggredito buona parte dei paesi confinanti dicendo che si trattava di aggressioni “preventive”.

Molte meno preoccupazioni sembrano destare invece, per la comunità internazionale e per gli Stati Uniti, i casi di Pakistan e Corea del Nord., due attori appesi alla benevolenza estera che possono essere ridotti alla ragione con maggiore facilità e probabilità. La Corea del Nord non può nutrire nessuna speranza in un'affermazione militare e, prima o poi, è destinata a ricongiungersi al Sud come (e forse quando) Taiwan si ricongiungerà alla Cina.

Il Pakistan, alleato storico degli Stati Uniti, che vive il suo arsenale come un deterrente nei confronti dell'India, rappresenta incognite maggiori, in particolare se dovesse continuare come in passato a distribuire tecnologie belliche ai soci del suo programma nucleare: Libia, Iran e Arabia Saudita, principale sponsor di quella che fu battezzata l'atomica “islamica”, voluta per fronteggiare quelle di cristiani, ebrei e indù che le avevano già.

Atomiche e religioni: un pessimo miscuglio quello pachistano, che sembra sempre di più nel mirino dell'amministrazione Obama., tanto che proprio la sua elezione ha portato a un netto aumento delle vittime di attentati e confronti armati nel paese, che comunque è sempre più dipendente e legato agli Stati Uniti e agli organismi internazionali.

Provando a volare appena più alti, bisogna riconoscere che le novità sono nel complesso notevoli e da salutare con favore, visto che offrono all'ONU una boccata di prestigio e uno strumento nel quale sono cristallizzati i principi che regoleranno la questione degli armamenti non convenzionali nei decenni a venire. Uno strumento grazie al quale cade finalmente l'ostruzionismo americano a tutela di un doppio standard utile agli alleati.

di Giovanni Gnazzi

Portavano cibo. Medicine, vestiario. Aiuti umanitari. Portavano materiale utile a chi, bloccato nella propria terra, nell’indifferenza dei grandi e nell’impotenza dei piccoli, paga il fatto di essere nato dalla parte sfortunata del mondo: quella palestinese. Portavano una lezione di disobbedienza civile e morale; quella che, giustamente, si chiama solidarietà internazionale. Sì, internazionale, perché da tanti paesi provenivano i missionari laici della solidarietà. Soprattutto, sfidavano il blocco di Gaza, quello per il quale i legittimi proprietari di una terra da sempre loro, ne diventano i prigionieri.

E internazionali erano le acque dove la nave turca è stata assaltata. Circondandola prima e andando all’arrembaggio subito dopo, aprendo il fuoco di fronte alle proteste e alla reazione di chi non era disposto a subìre l’ennesima prepotenza. L'associazione turca IHH (Insani Yardim Vakfi), l'European Campaign to End the Siege on Gaza (ECESG), la Greek Ship to Gaza Campaign, la Swedish Ship to Gaza Campaign e il Free Gaza Movement, con l'appoggio di un coordinamento di ONG di 42 paesi, fra i quali Stati Uniti, Turchia, Grecia, Malesia, Belgio, Svezia, Indonesia e Irlanda erano i passeggeri volontari di un atto d’amore. Armati appunto di cibo, medicine e vestiti, di tutto ciò che serve dove il niente regna sovrano.

Caschi e giubbotti antiproiettili, visori notturni, mitra, gas e pistole erano invece il dispositivo ideologico degli assaltanti. Aiutare i reclusi era un affronto intollerabile, devono aver deciso a Tel Aviv. Che andava lavato col sangue. E col sangue di diciannove civili è stato lavato. Alla strage hanno aggiunto le bugie, perché l’odio, per forte che sia, ha bisogno della propaganda per essere diffuso sotto le mentite spoglie delle politiche di difesa. Hanno raccontato, da Tel Aviv, di resistenza dei passeggeri pacifisti a colpi d’arma da fuoco. Ma le immagini hanno mostrato più di un racconto, meglio di un film, peggio di quanto ci si poteva immaginare.

La reazione internazionale c’è stata; non sono risultate credibili le bugie di Tel Aviv. Abu Mazen ha decretato tre giorni di lutto nei Territori palestinesi. Il governo turco ha protestato duramente, definendo l’assalto israeliano agli inermi come “terrorismo di Stato”. Martedì, si richiesta di Ankara, si riunirà la Nato, “preoccupata”. L'Unione Europea ha sollecitato un'inchiesta accurata sul sanguinoso attacco alla flotta umanitaria e ha esortato Israele a consentire il libero fluire degli aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza.

Gli ambasciatori dell'Unione Europea s’incontreranno a Bruxelles, in via straordinaria, per discutere della crisi. Il ministro degli Esteri francesi, Kouchner, si è detto “profondamente sconvolto” dall'azione israeliana. La Grecia, oltre alla Turchia, ha convocato l'ambasciatore di Israele ad Atene per comunicazioni. Stessa mossa da parte della Spagna, presidente di turno dell'Ue, dell'Italia, della Francia e del Belgio. Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, si è detto “scioccato” per l'attacco di Israele e ha condannato l'episodio. Gli Usa di Obama sono gli unici a misurare termini e a giocare di sponda con Israele, parlando di “circostanze da verificare”.

C’è davvero poco da verificare, se non l’esattezza della contabilità del dolore e del sangue. Dieci, diciannove o ventisei che siano le vittime cambia poco. L’assalto israeliano alla nave pacifista è stato un atto di guerra premeditata contro civili inermi. Non c’era nessun altro messaggio nell’azione se non quello d’installare il terrore in chi vi partecipava; un monito per ora e per il futuro. Gaza è bloccata e tale deve rimanere.

Chi annacqua il dolore in salomoniche distinzioni, chi sparge stupore per la violenza israeliana, vive o finge di vivere sulla luna. Sparare sui civili é consuetudine israeliana. Da sempre - e in particolare in questi ultimi trent’anni - da Sabra e Chatila in poi, passando per l’Intifada, seguendo con le eliminazioni mirate e con le operazioni militari stile “Piombo fuso”, Israele considera la striscia di Gaza (ma più in generale il Medio Oriente) un solo immenso poligono di tiro e i suoi abitanti carne da macello da utilizzare nello scacchiere regionale ed internazionale, per ribadire l’indisponibilità assoluta di Israele a stare dentro le regole del diritto internazionale. Di questo si tratta.

 

 

di Eugenio Roscini Vitali

Giovedì 27 maggio il presidente americano Barak Obama  ha presentato al Congresso e alla nazione il documento riguardante la stragia sulla sicurezza nazionale, un atto che sostanzialmente sancisce una linea di continuità con il suo predecessore, George W. Bush, e ribadisce la volontà americana di «mantenere la superiorità militare che per decenni ha garantito la sicurezza nazionale e sostenuto la sicurezza globale».

Pur avendo identificato nei cosiddetti “terroristi cresciuti in casa” il nuovo nemico interno, l’inquilino della Casa Bianca non ha proposto eccessive novità e si è limitato a cambiamenti puramente linguistici. Nel documento non si parla più di una “guerra contro il terrore”, ma di una guerra contro Al-Qaeda; non ci si appella più al diritto ad agire in modo autonomo ed unilaterale, ma si proclama la necessità di rafforzare la propria legittimità attraverso un ampio sostegno internazionale.

Niente di nuovo dunque e nessun riferimento alla notizia diffusa qualche giorno prima dal New York Times che ha parlato di un ordine militare segreto firmato il 30 settembre scorso dal generale David Howell Petraeus, capo del Comando Centrale USA per il teatro mediorientale (Centcom), un documento in sette pagine con il quale è stato dato il via all’impiego di forze speciali per azioni di guerra non convenzionale e sotto copertura.

La direttiva, approvata dal Comandante in capo, Barak Obama, autorizza il Pentagono a svolgere attività clandestine in Medio Oriente, nel Corno d’Africa e in tutte quelle aree, inclusi i così detti “Stati amici”, dove la reazione alla minaccia è più lenta o meno efficace e dove è necessaria un’azione di forza, anche a rischio di aprire una crisi diplomatica. La disposizione emanata da Petraeus completa il piano iniziato dalla prima amministrazione Bush e rappresenta l’ultima fase di un progetto che prevede la realizzazione di una rete militare capace di colpire e neutralizzare le cellule e i gruppi terroristici legati ad Al Qaeda e coprire i settori geografici dove vengono promosse attività anti occidentali.

Nella sostanza, la dialettica delle amministrazioni che dal dopo guerra ad oggi si sono susseguite alla guida della più grande potenza militare mondiale non è mai cambiata: preparare un’alternativa militare nel caso in cui la diplomazia fallisca. Quello che è cambiato nell’ultimo decennio è un’accentuata applicazione della politica dell’intervento preventivo, la politica della pressione sui gruppi eversivi suggellata da un livello sempre più alto della sicurezza nazionale evocata dalla presidenza Bush. Al ciclo, iniziato alla fine del secolo scorso da "Dick" Cheney e Ronald Rumsfeld, il comandante del Centcom aggiunge però un tassello: il Pentagono potrà pianificare uno sforzo sistematico e di lungo termine in territori ritenuti sensibili senza la regolare supervisione del Congresso e l’approvazione preventiva della Casa Bianca.

La gestione diretta di tutte le fasi delle operazioni segrete anti-terrorismo  riduce sensibilmente la dipendenza del Pentagono dalle agenzie d'intelligence ed invade in particolare il campo della CIA, fatto non del tutto nuovo viste le iniziative che negli ultimi tempi hanno caratterizzato l’azione delle truppe Usa in Medio Oriente, la gestione dei rapporti con i contractors che hanno il compito di dare la caccia ai talebani in Pakistan e in Afghanistan, gli interventi in appoggio alle truppe locali in Yemen e le infiltrazioni e gli attacchi ai rifugi qaedisti in Somalia, come quello avvenuto poche ore dopo  l’emanazione dell’ordine del Generale Petraeus, nel quale è morto Saleh Ali Saleh Nabhan, uno dei terroristi islamici più ricercati dell’Africa orientale.

Nel quadro della nuova lotta globale alla minaccia terroristica rientrano anche le operazioni già avviate, come la crescente implicazione militare americana in Mali, voluta da Bush per cercare di contrastare le attività dei terroristi islamici nello Sahel ed autorizzata da Barack Obama per rafforzare la presenza Usa in Africa. Un intervento nato per difendere la giovane democrazia africana e i suoi giacimenti (oro, uranio, ferro e fosfati) da Al-Qaeda, anche se nulla prova che Al-Qaeda nel Sahara sia davvero Al-Qaeda e non sia piuttosto un’organizzazione nata grazie agli appoggi di qualche servizio segreto “deviato” e alla disponibilità di personaggi quali Amari Saifi El-Para, ex-ufficiale delle forze speciali algerine addestrato (guarda caso) tra il 1994 e il 1997 dai berretti verdi americani a Fort Bragg.

Secondo alcuni funzionari il provvedimento firmato da Petraeus potrebbe aprire la strada ad un possibile attacco all'Iran. Qualora le tensioni sul dossier nucleare dovessero riacutizzarsi la partita si giocherebbe sulla possibilità di evitare che Israele metta in atto un intervento militare preventivo che darebbe vita ad una lunga guerra di posizione. A marzo, subito dopo la visita a Gerusalemme del vice presidente americano Joe Biden, la Casa Bianca ha deciso di rafforzare la sua presenza militare nell’Oceano Indiano, destinando all’arsenale della base aerea situata sull’isola Diego Garcia, arcipelago delle Isole Chago, 1.500 chilometri a sud dello Sri Lanka, 387 sistemi d’arma Joint Direct Attack Munition  (JDAM), i famigerati kit aggiuntivi che installati sulle bombe MK-84/BLU-109 da 2.000 libre (909 chilogrammi) o sulle MK-83/BLU-110 da 1.000 libre trasformano gli ordigni nelle micidiali bombe anti-bunker che potrebbero essere utilizzate per attaccare i siti nucleari e le installazioni della difesa aerea iraniana.

Nonostante l’appoggio della Casa Bianca - nella sola penisola Arabica nel 2010 il Dipartimento della Difesa ha già speso più del doppio dei 150 milioni di dollari destinati all’acquisto di elicotteri ed armamenti per le forze speciali  che operano in appoggio alle forze locali - negli Stati Uniti la disposizione emanata da Petraeus ha comunque sollevato non poche perplessità. Negli ambienti del Pentagono c’è chi teme che nel caso in cui i commandos cadessero nelle mani del nemico potrebbero essere accusati di spionaggio e perdere i diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra.

E a Washington c’è chi teme che l’impiego di militari in azioni di guerra non proprio convenzionionali e sotto copertura, potrebbe compromettere le relazioni con Paesi amici come l'Arabia Saudita e lo Yemen o esacerbare ulteriormente gli animi in nazioni ostili come la Siria e l'Iran, dove operano gruppi che, secondo Teheran, godrebbero del sostegno dell’intelligence americano, come il movimento armato separatista sunnita Jundullah (Soldati di Dio) che per anni ha seminato terrore e violenza nel Balucistan iraniano.

 

di Marco Montemurro

L’Expo di Shanghai, evento che passerà alla storia come la più grande esposizione universale, è pronto a ospitare i rappresentati delle potenze mondiali. È una tappa irrinunciabile per ogni capo di stato che intende recarsi in Cina e, difatti, nell’arco di una sola settimana l’Expo apre le porte a ben due personalità di rilievo. Il 22 maggio Hillary Clinton, Segretario di Stato statunitense, ha visitato l’esposizione di Shanghai e, dopo pochi giorni, è stata la volta della Presidente dell’India, Pratibha Patil.

Stati Uniti e India si mostrano dunque fortemente interessati a coltivare buone relazioni diplomatiche con la Cina, ben consapevoli di quanto sia fondamentale intessere rapporti commerciali con il gigante asiatico. Per i 189 paesi partecipanti, l’Expo è una straordinaria occasione per stringere relazioni economiche e, in tale contesto, la Cina è l’attrice protagonista, da tutti corteggiata per le sue prospettive di crescita.

Fino al 31 ottobre, per sei mesi Shanghai sarà un centro nevralgico del mondo, in cui affluiranno capi di stato, delegazioni d’industriali, politici in missione e turisti curiosi. Una folla eterogenea percorrerà i numerosi padiglioni, strutture progettate appositamente per l’Expo su un’area vasta oltre 5 km quadrati. Ogni paese ha contribuito a costruire un intero edificio, per poi allestirlo in base alle proprie specialità da promuovere, scelte in armonia con il tema centrale dell’esposizione "Better city, Better life", ossia una città migliore per una vita migliore.

La Cina vanta il padiglione più imponente dell’Expo, una grande piramide rovesciata, dipinta con la stessa tonalità di rosso della città imperiale. Le nazioni più influenti del pianeta gestiscono enormi edifici, ricchi di attrazioni ed eventi, dunque, entro tale contesto spettacolare, i rappresentati di Stati Uniti e India hanno ritenuto un dovere visitare i loro rispettivi padiglioni.

Hillary Clinton, in veste di Segretario di Stato, ha attraversato con ammirazione l’Expo e l’area statunitense al suo interno. L’entusiasmo mostrato, però, probabilmente era offuscato dai motivi della sua visita, pieni di preoccupazioni. La Clinton in effetti si è recata in Cina per partecipare, insieme al Segretario del Tesoro statunitense Geithner e al presidente della Federal Reserve Bernanke, al secondo Strategic and Economic Dialogue, svoltosi a Pechino il 24 e 25 maggio esclusivamente tra Stati Uniti e Cina.

Quando tale vertice fu organizzato per la prima volta, nel luglio 2009, i media coniarono il termine G-2, definizione scelta per evidenziare come gli equilibri mondiali siano influenzati da due grandi nazioni, Usa e Cina. Il governo statunitense infatti, per risollevare il paese dalla crisi economica, guarda sempre di più verso una direzione: la Cina. “Le compagnie americane vogliono vendere merci prodotte dai lavoratori americani ai consumatori cinesi, dato che questi ultimi hanno redditi e domande crescenti”, così si è espressa Clinton, come ha riferito l’agenzia Reuters. Geithner, dal canto suo, ha invece cercato di spiegare ai vertici cinesi che la rivalutazione monetaria dello yuan può portare benefici anche alla Cina, e non solo alle esportazioni americane. È arduo, ma il presidente Obama, per creare due milioni di posti di lavoro, vuole raddoppiare le esportazioni degli Stati Uniti in Cina entro cinque anni.

Appena concluso il vertice tra Usa e Cina, denso di ansie, il giorno successivo è giunta a Pechino un’altra ospite importante, la presidente dell’India Pratibha Patil. L’evento è importante poiché da dieci anni un capo di stato indiano non si recava in Cina. Il viaggio celebra i 60 anni di relazioni diplomatiche tra India e Cina e, per ricordare il legame storico tra i due paesi, è stata programmata l’inaugurazione di un tempio buddista a Luoyang, nella provincia dell’Henan, località famosa perché duemila anni fa giunsero i primi monaci, dall’India, per diffondere la religione.

La presidente Patil comunque, oltre agli intenti celebrativi, non nasconde gli interessi economici della sua visita. È giunta accompagnata da una delegazione di industriali poiché, come riferisce il sito internet della presidenza, auspica nuovi accordi commerciali tra India e Cina. L’obiettivo è stipulare nel 2010 scambi bilaterali per un valore di 60 miliardi di dollari. Il secondo gigante asiatico, a differenza degli Stati Uniti, si presenta quindi sicuro di sé, vantando un’economia in crescita e, pertanto, in sintonia con il suo grande vicino cinese.

La tappa a Shanghai, con l’immancabile appuntamento all’Expo, è infine l’evento conclusivo del viaggio di Patil. Il 30 maggio la presidente dell’India visita il suo padiglione nazionale, uno dei più frequentati che, in nome dello slogan “uniti nella diversità”, promuove i molti volti del subcontinente. L’Expo dunque, con la sua serie di ospiti d’onore, realizza l’intento per il quale è stato progettato, ossia mostrare al mondo quanto la Cina sia ormai al centro dell’economia globale.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Il governo pakistano ha proibito ai suoi cittadini l’accesso ad alcuni tra i più visitati social network della rete, tra cui Facebook, YouTube e numerose parti dell’enciclopedia libera Wikipedia. Le ragioni di una mossa così ardita sarebbero, secondo i portavoce ufficiali, da ricercare nei “contenuti blasfemi“ di questi siti che offenderebbero la dignità religiosa dei credenti musulmani e, in particolare, pakistani. Secondo alcune fonti, la censura sarebbe una misura temporanea e sarà ritirata di qui a poco, entro il prossimo giugno.

Qualcun altro, però, teme una censura “a tempo indeterminato” e gli oltre 20 milioni di utenti pakistani, che quotidianamente hanno a che fare con il web 2.0, già cominciano a cercare vie alternative in quel crocevia di network che ormai la rete è diventata.

La questione pakistana è nata a causa di un concorso di disegno virtuale che si è diffuso proprio tramite il social network per eccellenza, Facebook. Una “community” si è presa la briga di invitare tutti i suoi adepti e non a mandare caricature del sommo profeta Maometto: per la pubblicazione di tutti i lavori si era decisa la data del 20 maggio.

Per quanto banale possa sembrare nel mondo occidentale, l’iniziativa porta in sé fin dall’inizio un alto potenziale di provocazione. Poiché la religione musulmana ha sempre vietato, sin dalla notte dei tempi, qualsiasi rappresentazione pittorica del profeta per eccellenza, Maometto. Le leggi islamiche vogliono evitare che le immagini, diventando più importanti di ciò che rappresentano, possano incoraggiare l'idolatria. Risultato? In millenni di storia Maometto non è mai stato rappresentato neppure per essere adorato; ci si può immaginare l’onta che avrebbe creato una serie di caricature nei suoi confronti, autorizzata e in mondovisione.

Tra le altre cose, l’iniziativa ha richiamato un’attenzione inaspettata: poco prima dell’oscuramento, la pagina aveva raccolto oltre 76 mila consensi espressi tramite la ben nota opzione Facebook “mi piace”. Ma la trovata non è sfuggita neppure ai musulmani più timorati: contro le caricature, offesi dal progetto artistico, si sono schierate quasi 90 mila persone, che hanno dato origine a un link anti- caricature. E la disapprovazione non si è fermata nel virtuale: numerosi musulmani hanno protestato anche fisicamente, nelle strade pakistane, contro la discussa pagina.

A questo punto, al governo pakistano non è rimasto che intervenire: l’autorità competente, la Pakistan Telecommunication Authority (PTA), ha ordinato mercoledì al Nayatel, il provider locale, il blocco totale di Facebook e YouTube. L’ordine è stato eseguito subito dal provider e senza discussioni: evidentemente il tono della richiesta da parte della PTA non lasciava dubbi sulla gravità della situazione.

“Tali attacchi maliziosi e offensivi feriscono profondamente i sentimenti dei musulmani nel mondo e non possono essere accettati neppure in nome della libertà di espressione”, ha commentato il portavoce dell’ufficio esteri Pakistano Abdul Basit riguardo la faccenda. Secondo quanto riporta l’agenzia stampa Reuters, Basirt ha sottolineato che la pubblicazione delle caricature avrebbe toccato un tasto troppo delicato per i credenti musulmani per poter passare inosservata. La censura garantirebbe la dignità ai credenti musulmani.

In realtà, un avvenimento simile si è già imposto all’attenzione dei media qualche anno fa e con conseguenze ben più tragiche. Nel 2005, la pubblicazione di una serie di vignette satiriche sul quotidiano danese Jyllands-Posten aveva provocato proteste infuocate nei Paesi islamici: Reuters ricorda che le vittime della violenza di queste manifestazioni sono state 50, delle quali ben 5 nel solo Pakistan.

E intanto gli utenti pakistani si attrezzano. Molti stanno cercando di orientarsi a Twitter e a tutti gli altri social network ancora in circolazione per “mantenere i contatti”, sperando che l’attuale oscuramento duri il meno possibile. L’offesa che le caricature di Maometto avrebbero potuto arrecare è grande, ma neppure il timore di non poter più utilizzare Facebook & Co. è trascurabile. Si calcola che il 20- 25% di tutti gli utenti pakistani utilizzino Internet solo per i servigi di YouTube e Facebook: comunicare con parenti magari lontani e condividere emozioni nella realtà virtuale del web 2.0 è diventata ormai una priorità di tutti, musulmani, cattolici o atei poco importa.

 

 


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