di Michele Paris

Il 22 gennaio 2009, due giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, in un gesto di rottura altamente simbolico, l’allora neo-presidente degli Stati Uniti Barack Obama firmò un ordine esecutivo per disporre la chiusura del carcere di massima sicurezza di Guantánamo. Alla fine del 2009, di fronte a mille difficoltà e resistenze, la scadenza per lo sgombero del famigerato campo di detenzione venne però rimandata di qualche mese.

Oggi, invece, sono in molti a credere che Obama abbia quasi del tutto abbandonato gli sforzi per cancellare uno dei simboli principali degli eccessi della lotta al terrorismo e che la prigione continuerà a restare operativa anche dopo la fine del suo primo mandato presidenziale nel gennaio del 2013.

Sopraffatta dalla complessità del compito affidatale, la speciale commissione incaricata di valutare la posizione dei detenuti a Guantánamo, e di procedere verso la chiusura del carcere, nel luglio dello scorso anno ottenne dalla Casa Bianca un prolungamento di sei mesi per portare a temine il proprio lavoro. Già allora iniziava però a diffondersi una certa sfiducia circa la possibilità di rispettare la scadenza iniziale fissata da Obama. Alla fine, nel mese di dicembre, arrivò l’ammissione ufficiale che la promessa di chiudere Guantánamo entro gennaio 2010 non sarebbe stata mantenuta.

Allo stesso tempo, sembrava che qualcosa stava cominciando a muoversi per trovare una soluzione alternativa alla struttura costruita sull’isola di Cuba. Il Dipartimento della Difesa ottenne infatti il mandato di acquistare una prigione statale dall’amministrazione carceraria dell’Illinois per la somma di 350 milioni dollari. Nella cittadina di Thomson, a poco meno di 250 chilometri a ovest di Chicago, era stato individuato un carcere di massima sicurezza in disuso che sembrava adatto a ricevere i detenuti più “complicati” ospitati a Guantánamo.

Se le autorità locali apparivano ben disposte verso un’iniziativa che avrebbe portato centinaia di nuovi posti di lavoro in un momento di grave crisi economica, decisamente meno disponibili si sono dimostrati al contrario i membri del Congresso di entrambi gli schieramenti. Che le intenzioni di Obama non fossero ben accolte alla Camera dei Rappresentanti e al Senato, lo si era peraltro capito già lo scorso anno, quando i due rami del parlamento negarono il trasferimento dei detenuti di Guantánamo sul territorio americano se non per apparire nelle aule dei tribunali nel corso di processi a loro carico.

Ancora più chiaro il dissenso dei parlamentari USA si è manifestato poi qualche settimana fa, quando le commissioni preposte di Camera e Senato hanno bloccato all’unanimità lo stanziamento dei fondi per i lavori di adeguamento del carcere in Illinois. Come se non bastasse, sono stati congelati anche i trasferimenti dei detenuti verso alcuni paesi “a rischio”, come Afghanistan, Arabia Saudita, Pakistan, Somalia e Yemen, dai quali provengono oltre il 70 per cento dei 181 attuali ospiti di Guantánamo.

Per la Casa Bianca la responsabilità di questa inerzia va assegnata proprio al Congresso e alla sua pressoché totale indisponibilità a cercare una soluzione che preveda la chiusura del carcere. Secondo altri, tra cui lo stesso presidente della commissione per il controllo delle Forze Armate del Senato, il democratico del Michigan Carl Levin, l’amministrazione Obama non si starebbe impegnando abbastanza per far valere tutta la propria influenza di fronte ai parlamentari recalcitranti.

Le vicende legate al fallito attentato ad un volo partito da Amsterdam e diretto a Detroit il 25 dicembre scorso e quello ugualmente non riuscito a Times Square, a New York, a maggio, hanno poi contribuito a creare un ambiente ostile alla chiusura di Guantánamo e alla liberazione di alcuni detenuti. La percezione di una costante minaccia terroristica è tornata così a diffondersi negli USA, tanto che i sondaggi che davano una leggera maggioranza degli americani favorevoli allo smantellamento del carcere nel gennaio 2009, oggi indicano che un 60 per cento lo vorrebbe ancora operativo.

Una delle categorie di detenuti a Guantánamo che crea i maggiori problemi alla Casa Bianca è rappresentata dai 58 cittadini yemeniti ai quali è stato dato l’OK per la liberazione, ma che non possono essere trasferiti nel loro paese d’origine perché, appunto, valutato troppo instabile. Nello Yemen, secondo il governo americano, questi detenuti potrebbero finire nuovamente ad ingrossare le fila dei gruppi affiliati ad Al-Qaeda che si dice siano presenti sul territorio.

In alternativa, l’amministrazione Obama aveva chiesto all’Arabia Saudita di inserire alcuni yemeniti nel suo programma di riabilitazione per jihadisti. La risposta è stata però negativa, come ha confermato qualche giorno fa lo steso sovrano saudita al presidente americano durante una visita ufficiale a Washington.

Ancora più scottante è la sorte di una cinquantina di presunti terroristi valutati come elementi pericolosi che con ogni probabilità continueranno ad essere detenuti a Guantánamo o altrove pur senza sufficienti prove a loro carico e quindi senza processo. La loro posizione rivela chiaramente la natura illusoria della promessa di Obama d’invertire la rotta rispetto agli abusi del suo predecessore.

Se anche Guantánamo dovesse chiudere nel prossimo futuro, le forzature legali che prevedono la reclusione senza prove e praticamente senza diritti per i detenuti continuerebbero infatti immutate. Semplicemente, nei piani della Casa Bianca, le detenzioni arbitrarie verrebbero spostate da una base navale a Cuba ad un carcere del Midwest in territorio americano.

In attesa di un accordo sulla chiusura, e di una cornice legale che permetta di tenere in carcere indefinitamente i sospettati di terrorismo senza istruire alcun processo, è probabile che nei prossimi mesi giungeranno nuove iniziative che cercheranno di convincere l’opinione pubblica dei cambiamenti in atto per dare un volto umano a Guantánamo. La parziale limitazione fissata da Obama ai brutali metodi di tortura avallati da Bush e Cheney, assieme alla limitata revisione delle procedure che regolano l’attività delle commissioni militari per dare qualche diritto in più agli imputati, rientrano precisamente in questo scenario.

Nonostante i tentativi, tuttavia, la vera fine di tutto ciò che ha rappresentato e continua a rappresentare il carcere di Guantánamo avverrà solo quando la pienezza dei diritti legali sarà ristabilita per tutti i detenuti, siano essi americani o europei, afgani o pakistani, sauditi, somali o yemeniti.

di Emanuela Pessina

BERLINO. E' stato più complicato del previsto, ma alla fine il risultato é arrivato. La Germania ha un nuovo Presidente della Repubblica: si chiama Christian Wulff, ha 51 anni e vanta una lunga carriera politica tra le fila della CDU. Candidato alla presidenza dalla Coalizione di Angela Merkel (CDU) e Guido Westerwelle (FDP), Wulff è stato eletto al terzo turno di votazioni con una maggioranza assoluta di soli tre voti.

E' una vittoria incredibilmente faticosa, che rappresenta uno schiaffo morale alla Cancelliera e alla sua Coalizione. In effetti, la difficoltà che ha incontrato l’elezione di Wulff va a infierire su una situazione, quella del Governo federale tedesco, già delicata: la Coalizione nero-gialla si difende con tutti i mezzi, ma la stampa non perdona. La crisi esistenziale della Cancelliera sembra appesantirsi sempre più.

In realtà, tutto lascia intuire per l’ex-primo ministro della Bassa Sassonia Christian Wulff una presidenza dignitosa e sicura: avvocato di professione, Wulff è iscritto al partito dei Cristianodemocratici dal 1975 ed è un grande esperto di res politica. Chi ha fatto una pessima figura è la Coalizione nero-gialla: CDU e FDP hanno trasmesso l’immagine di un governo debole, diviso e insoddisfatto. Pur avendo la maggioranza assoluta nella Bundesversammlung, l’organo incaricato dell’elezione del Presidente federale, i cristianodemocratici e i liberali hanno raggiunto la maggioranza dei voti solo al terzo scrutinio.

I numeri parlano chiaro: 44 membri del Governo non hanno dato l’appoggio al proprio candidato Wulff nel primo turno e, nonostante gli appelli dei maggiori rappresentanti di partito, 20 lo hanno rifiutato anche nel secondo. Un vero e proprio ammutinamento nella già di per sé sbieca nave della Coalizione.

Prima del terzo scrutinio, a dimostrazione della situazione di emergenza e di preoccupazione, sono intervenuti Horst Seehofer, il presidente della CSU, la consorella bavarese dei cristianodemocratici, e il ministro dell’Assia Roland Koch (CDU). Il primo ha ricordato ai suoi colleghi la grande “responsabilità storica” del momento, mentre Koch ha invitato palesemente la Coalizione al buonsenso, ammettendo forse la crisi esistenziale in seno al proprio Governo. “Suicidarsi per la paura di morire non è un’alternativa”, ha detto Koch, riferendosi all’insoddisfazione che i membri della Coalizione stessa hanno voluto esprimere nei confronti del lavoro del Governo Merkel con il loro voto.

Perché la fatica con cui Wulff è stato eletto, in realtà, è il chiaro segnale della crescente disapprovazione dei membri del Governo tedesco nei confronti della Cancelliera. Il quotidiano di sinistra Tageszeitung individua maliziosamente nelle “decisioni solitarie” di Angela Merkel la causa della sua impopolarità, dall’approvazione del pacchetto europeo di aiuti salva-euro alle proposte zigzaganti per il mercato finanziario. Tra le fila della Coalizione, qualcuno è talmente deluso da mettere in gioco la sopravvivenza del Governo stesso. Secondo la stampa tedesca, Angela Merkel è stata colpita: le sono sfuggite le redini del suo Governo e ora deve presiedere in un’atmosfera di sfiducia manifesta.

La lista dei temi da affrontare, tuttavia, è ancora lunga: oltre alla riforma del sistema sanitario, il Governo tedesco ha in agenda la riapertura delle centrali nucleari e la riforma fiscale. Per quanto riguarda la salute, le proposte sono già state fatte. Secondo il Tagesspiegel, i vertici dei tre partiti di maggioranza si sarebbero accordati per un aumento dei contributi al servizio sanitario di 0.6 punti, che salirebbero a quota 15.5%. Insieme all’aumento dei contributi per la disoccupazione, che dal 2.8% passeranno a 3%, le spese salariali totali torneranno a superare il 40% della busta paga: un effetto che la maggior parte di politici non approvano poiché potrebbe impedire la ripresa economica. Per quanto riguarda la riforma fiscale, invece, il Governo si aggiornerà mercoledì prossimo.

Se la Coalizione riuscirà ad affrontare tutti questi nodi con successo, è ancora da vedere. Per ora la Merkel è alle prese con un altro tipo di successo, quella calcistico della Germania contro l’Argentina a Città del Capo, in Sudafrica. La Cancelliera, infatti, ha voluto partecipare alla partita personalmente e la grande performance della squadra tedesca non può che offrire un’interessante distrazione alla situazione di profonda crisi in cui sembra versare “la ragazza venuta dall’est”.

 

di Michele Paris

La scorsa settimana una oscura manovra all’interno del Partito Laburista australiano (ALP) ha deposto il primo ministro eletto Kevin Rudd, sostituendolo con la sua vice, Julia Gillard. Per la maggior parte dei media internazionali, la vicenda ha rappresentato la logica conseguenza del presunto crollo nei consensi tra l’elettorato dell’ormai ex capo del governo. Dietro all’ascesa al potere della prima donna premier dell’Australia è andato in scena invece un vero e proprio golpe, orchestrato dai vertici dei colossi dell’industria mineraria che vedevano minacciati i loro profitti miliardari.

I problemi per Kevin Rudd erano iniziati alla fine del 2009, in seguito al mancato appoggio parlamentare al suo progetto per una nuova legge sul controllo delle emissioni in atmosfera che era stato al centro della vittoriosa campagna elettorale del 2007. Il passaggio di questa legge era stato reso pressoché impossibile dal cambio della guardia alla guida del Partito Liberale all’opposizione dopo una campagna anti-riforma alimentata dalle stesse aziende estrattive e dai grandi interessi economici australiani.

Qualche mese più tardi, oltre al definitivo ritiro del provvedimento sulle emissioni in atmosfera, alla presentazione del bilancio per il nuovo anno fiscale, Rudd avrebbe fatto poi il decisivo passo falso sulla strada verso la sua rimozione. La proposta di una tassa speciale sui profitti delle compagnie operanti nel settore estrattivo (Resource Super Profits Tax, RSPT), il più importante comparto economico del paese, ha infatti dato vita ad una furiosa campagna di opposizione che ha trovato la propria naturale cassa di risonanza nei media di proprietà di Rupert Murdoch.

Allo stesso tempo, ricalcando una strategia già vista altrove, i giornali conservatori e le élites finanziarie hanno moltiplicato le loro critiche, cominciando a chiedere il ritiro delle misure di stimolo all’economia adottate per fronteggiare la crisi per sostituirle con tagli alla spesa pubblica.

Sui media pro-business si è cominciato anche ad elogiare le credenziali della vice-premier Julia Gillard, già protagonista dell’introduzione di misure volte a comprimere i diritti dei lavoratori nelle relazioni industriali e in grado di fronteggiare l’opposizione degli insegnanti durante un confronto su alcune misure relative al sistema scolastico australiano. Contestualmente, le organizzazioni sindacali allineate con i laburisti e i dirigenti delle fazioni della destra del partito hanno iniziato a preparare il cambio al vertice del Labor.

Da parte sua, Julia Gillard ha fino all’ultimo annunciato di non voler correre per la leadership del partito e per il posto di primo ministro. Finché, un ultimo vertice del Partito Laburista, ha di fatto sfiduciato Kevin Rudd che, posto di fronte al fatto compiuto, ha rinunciato alla propria carica lasciando strada alla sua vice che ha finito per cedere alle pressioni che la volevano alla guida del nuovo governo.

La vera e propria cospirazione dietro alla fine politica di Rudd ha come protagoniste principali le tre più importanti multinazionali australiane che operano nel settore estrattivo. BHP Billiton, Rio Tinto e la compagnia svizzera con forti interessi in Australia, Xstrata; in spregio delle regole democratiche, sono state in prima linea nel mettere in scena una campagna costata oltre 100 milioni di dollari per far cadere un governo legittimamente eletto.

Già osannato dalla stampa e accreditato di consensi da record all’inizio del suo mandato, l’ormai ex primo ministro laburista ha a poco a poco perso la fiducia dei poteri forti del paese e i media hanno iniziato a diffondere sondaggi che davano il suo governo in caduta libera sul fronte del gradimento popolare.

Una volta insediatasi, la nuova premier si è affrettata a rispondere al diktat delle compagnie estrattive che l’hanno proiettata verso la nuova carica. Dopo un parziale rimpasto di governo, Julia Gillard ha annunciato di voler rivedere le condizioni di applicazione della “super tassa” sui profitti delle multinazionali minerarie. Ciò che queste ultime pretendono, in ogni caso, è una consistente riduzione dell’impatto della tassa stessa.

Rivelando minacciosamente il ruolo da esse svolto nel colpo di mano ai danni del governo Rudd, in un’intervista al giornale The Australian (gruppo Murdoch) il presidente di un’altra azienda del settore ha dichiarato: “Sarebbe vergognoso se il risultato finale della negoziazione tra il governo Gillard e l’industria mineraria risultasse simile a quanto era stato stabilito quando Rudd era primo ministro. In tal caso, la sua uscita di scena sarebbe stata inutile”.

La “super tassa” sui profitti, peraltro, non rispondeva se non in minima parte all’obiettivo propagandato da Rudd di ridistribuire una fetta delle ricchezze australiane ai suoi abitanti. I proventi programmati sarebbero andati piuttosto a coprire, tra l’altro, un taglio del 2 per cento del carico fiscale delle corporation e le spese per la creazione d’infrastrutture destinate a migliorare le esportazioni dalle regioni minerarie verso i mercati internazionali. Questi stessi progetti saranno ora nuovamente all’ordine del giorno del governo Gillard, così come il pareggio di bilancio entro il 2013, e a finanziarli sarà una consistente sforbiciata alla spesa pubblica.

All’interno del Partito Laburista australiano, intanto, rimangono profonde divisioni circa la data delle prossime elezioni politiche, che molti tra i protagonisti della deposizione di Rudd vorrebbero già il prossimo mese di agosto. Un’impazienza dettata dal desiderio di evitare un dibattito pubblico prolungato sulla stessa cospirazione ai danni del precedente governo e sulla politica economica di quello appena insediato. La manovra avallata dai laburisti, in ogni caso, ha già prodotto un profondo malcontento tra gli elettori e, al di là della data del voto, nulla potrà evitare al partito di governo una sonora sconfitta nella prossima consultazione elettorale.

di Carlo Musilli

Un rapporto estremamente critico sulla situazione dell’Afghanistan presentato ai ministri della difesa della Nato e all’Isaf (International Security Assistance Force) è cosa ben diversa da una delirante intervista rilasciata a un periodico musicale. E ci aiuta a capire meglio come abbia fatto il generale Stanley McChrystal a trasformarsi da soldato di ferro in semplice civile nel giro di una settimana. Dopo essersi dimesso dal comando delle forze Nato in Afghanistan, il generale ha infatti deciso di lasciare anche l’esercito americano, svestendo la divisa indossata per 34 anni.

Ufficialmente, la caduta di McChrystal è stata attribuita alle dichiarazioni riportate dal magazine Rolling Stone, in cui il generale sparava a zero su governo e amministrazione Obama. Risultava però difficile capire come un uomo del genere, tutt’altro che sprovveduto, avesse potuto farsi raggirare con tanta leggerezza da un pur bravo reporter. Fortunatamente l’Indipendent online ci è venuto in socorso, rivelandoci del rapporto alla Nato e all’Isaf.

Stando alle fonti militari del quotidiano inglese, McChrystal presenta un quadro “devastante” dello scenario afgano. Il generale parla di “una ribellione in forte crescita” e avverte che “non ci saranno progressi per i prossimi sei mesi”. La sicurezza è il punto più critico: a causa della grave mancanza di addestramento, meno di un terzo dell’esercito afgano e solo il 12% della polizia può essere considerato davvero efficiente. Sono pochissime le aree del paese classificate come “sicure” (5 su 116) e ancor meno quelle “sotto il pieno controllo del governo” (5 su 122).

Un governo definito da McChrystal “inefficace e screditato”, incapace di far fronte alle esigenze dei cittadini perché schiacciato sotto il peso di una “corruzione cronica”, un virus che infetta ad ogni livello anche il sistema giudiziario. L’Afghanistan è poi diventato “sempre più dipendente dagli aiuti della comunità internazionale” e quindi non sembra in grado di “creare le condizioni per lo sviluppo”, soprattutto al sud, la zona più povera.

Un resoconto disperante quello del generale, ma più che verosimile. Forse un po’ troppo per non diventare un ostacolo alla politica di Barack Obama, che vorrebbe iniziare il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan nel 2011, in modo da far salire le sue quotazioni per le elezioni presidenziali del 2012. La guerra comincia infatti a costare troppo: in termini economici (siamo arrivati a 7 miliardi di dollari al mese), ma soprattutto in termini umani. Giugno 2010 è stato il mese più nero in 8 anni e mezzo di conflitto, con 88 morti fino ad oggi. Dall’inizio dell’anno le vittime fra i militari (non soltanto americani) sono 62, quasi il doppio rispetto ai 32 nei primi sei mesi del 2009.

È evidente come al Presidente americano convenga tagliare i costi di una guerra che sta dando scarsi risultati e riportare negli Stati Uniti quanti più ragazzi possibile. Ma dovrà essere un ritiro, non una ritirata. O quantomeno non dovrà sembrarlo. E per salvare la faccia domani, quando arriverà il momento di tornare a casa, oggi non conviene essere troppo schietti e dettagliati sulla reale situazione in Afghanistan.

Non conviene che un generale ragioni della permanenza militare americana in termini di anni, quando la Casa Bianca preferisce parlare di mesi. E sicuramente non convengono le dichiarazioni disfattiste, come quella del portavoce della Nato che, commentando il rapporto di McChrystal, ha detto: “Non credo che nessuno possa dire che stiamo vincendo”.

L’intervista del generale a Rolling Stone non è stata quindi un incidente, ma un’opportunità per Obama, perché gli ha consentito di “eliminare l’opposizione ai suoi piani senza dover affrontare alcun dibattito”, come spiega ancora una fonte militare citata dall’Indipendent. Scartando l’ipotesi dell’errore, resta da spiegare perché McChrystal abbia deciso di gridare al mondo quelle frasi al vetriolo contro Obama e i suoi uomini. È vero, ha soffocato da solo la propria voce d’opposizione. Ma chissà che nel 2012 non ritorni, in forma nuova. 
 

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. L’autorità statunitense U.S. Geological Survey ha confermato di recente che il sottosuolo afghano custodisce materie prime per un valore complessivo di 1000 miliardi di dollari. Tra queste ricchezze sono presenti soprattutto rame, litio, ferro, oro, cobalto e terre rare: elementi talmente preziosi per la società contemporanea da trasformare l’Afghanistan in una vera e propria lampada di Aladino per ogni Paese industriale del mondo. Ma le sorprese non sono finite: gli ultimi sviluppi mostrano che in Afghanistan la quantità di petrolio è 18 volte superiore a quanto stimato nel 2001.

Secondo i geologi, l’Afghanistan ha le tutte le carte in regola per diventare “l’Arabia Saudita del litio”: un ruolo no da poco, se si considera che il litio è il materiale utilizzato per le batterie ricaricabili di cellulari, portatili e auto elettriche. Tra le terre rare nascoste nel Paese mediorientale, inoltre, ci sarebbe il gallio, elemento necessario alla produzione delle celle solari negli impianti fotovoltaici. In sostanza, nonostante la sua attuale povertà, l’Afghanistan sembra essere destinato a diventare uno dei più importanti giacimenti del futuro, poiché la quantità di materie prime è tanto elevata da poterlo rendere una delle nazioni esportatrici più potenti.

I depositi sono stati scoperti grazie al materiale cartografico raccolto dagli esperti minerari dell’ex-Unione Sovietica durante l’occupazione dell’Afghanistan degli anni ’80. Dopo il ritiro delle truppe russe, i geologi indigeni hanno conservato il materiale in via del tutto personale e l’hanno depositato negli archivi statali solo nel 2001, dopo la caduta del regime talebano. Secondo le notizie ufficiali, i dati sul sottosuolo afghano sarebbero stati trovati soltanto nel 2004 dagli studiosi nordamericani e divulgati, poi, nel 2007. L’interesse pubblico, tuttavia, sembra essersi rivolto alle ricchezze dell’Afghanistan solo oggi, dopo che il quotidiano statunitense New York Times ha scritto un articolo al riguardo.

Il presidente afghano Hamid Karsai, da parte sua, considera la scoperta una buona notizia: un suo portavoce l’ha definita addirittura “la migliore notizia degli ultimi anni per l’Afghanistan”. Gli esperti, tuttavia, dubitano che lo sfruttamento di queste risorse possa avvenire in maniera liscia, corretta e indolore. La posta in gioco è alta e le esperienze passate e presenti insegnano a diffidare di ogni buon proposito in certe situazioni: è una storia vecchia come il mondo che, purtroppo, non sembra interrompere mai il suo ciclo diabolico.

Per estrarre le materie prime servono investimenti enormi: l’Afghanistan è politicamente instabile e non ha infrastrutture statali qualificate per le operazioni. Inoltre, il rischio corruzione è alto: nel 2009 il Ministro per le risorse minerarie afghano si è dovuto dimettere proprio a causa di una tangente di 30 milioni di dollari ricevuta da un’azienda cinese per l’esclusiva dell’estrazione del rame, privilegio tuttora in vigore.

L’amministrazione statunitense ha già predisposto una commissione di esperti internazionali in attività minerarie per la consulenza del Governo afghano in materia. Che l’intromissione si sviluppi positivamente, purtroppo, è discutibile: gli Stati Uniti, così come i Paesi del mondo tutti, hanno i loro interessi economici da difendere. Inoltre, le esperienze in Congo e Nigeria mostrano come dalle grandi ricchezze del sottosuolo e dall’intervento degli europei non si siano sviluppati che conflitti etnici e grossolana corruzione. Risultato immancabile è l’inasprimento delle disuguaglianze fra i pochi ricchissimi e la massa di poverissimi, tipico quadro delle società africane che - purtroppo - da parecchio tempo non fa più notizia.

Da non dimenticare, in tutto questo, la caratteristica principale per cui è conosciuto l’Afghanistan, e cioè la cosiddetta Enduring Freedom (OEF), la “missione di pace” con cui Nato e Usa vogliono liberare la nazione (e il mondo) dai malefici talebani. La notizia delle ricchezze del sottosuolo afghano ha offerto ai numerosi critici dell’OEF un’ulteriore chance per ribadire le loro accuse di sporco doppio gioco nei confronti delle forze armate che occupano Kabul: le truppe Nato sarebbero in Afghanistan per difendere le materie prime e i loro interessi economici, più che la democrazia e il popolo semplice.

Per i più maliziosi, tuttavia, le prospettive di ricchezza dell’Afghanistan sono servite semplicemente da specchietto per le allodole mediatico. La settimana scorsa, infatti, l’allora comandante generale delle truppe Nato in Afghanistan, Stanley McChrystal, aveva accennato a un’interruzione dell’offensiva nella provincia di Helmand (Sud-Est dell’Afghanistan) e a un rinvio - a chissà quando - dell’avanzata nella provincia di Kandahar (Sud). Affermazioni che, come scrive il quotidiano berlinese Tagesspiegel, suonano come una “dichiarazione di bancarotta”: la notizia ricchezze dell’Afghanistan avrebbe cercato di nascondere prepotentemente l’insicurezza umana di un momento, un’esitazione che gli Stati Uniti non si possono permettere.

Se queste voci siano solo malignità, è tutto da dimostrare. Di certezze, invece, ve sono almeno due: in Afghanistan stazionano attualmente 100mila soldati Nato, di cui 3150 italiani e 4300 tedeschi, e l’onnipotente generale McChrystal è stato “licenziato”. E, mentre i grandi sono impegnati a Toronto per cambiare le regole di gioco dell’economia e i piccoli si commuovono per i mondiali in Sudafrica, in altri angoli di mondo la quotidianità sembra continuare il suo corso, paradossalmente offuscata dai media stessi.

 


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