di Michele Paris

Al termine di una seduta estenuante, durata quasi sedici ore, nella prima mattinata di giovedì il Senato argentino ha dato il via libera definitivo alla legalizzazione dei matrimoni gay. Lo storico provvedimento fa dell’Argentina il primo paese latinoamericano ad introdurre una legislazione così avanzata su scala nazionale e attesta degli enormi progressi fatti dalla lotta per i diritti civili in un paese dove è tuttora molto forte l’influenza della Chiesa Cattolica.

La nuova legge era già stata approvata dalla camera bassa del Parlamento argentino lo scorso mese di maggio e, dal momento che il presidente Cristina Fernández de Kirchner si era già espressa favorevolmente, entrerà in vigore a breve. Con il sostegno opposto di gruppi di manifestanti contro e a favore delle nozze gay che hanno sfidato il freddo dell’inverno australe fuori dal palazzo del congresso, 33 senatori si sono espressi a favore, mentre 27 sono stati i contrari e tre gli astenuti.

Il crescente clima favorevole per le coppie omosessuali in Argentina era stato già confermato negli ultimi mesi, quando una serie di tribunali aveva di fatto riconosciuto la costituzionalità delle nozze gay, concedendo nove licenze per la celebrazione di altrettanti matrimoni, alcuni dei quali però successivamente invalidati. La città di Buenos Aires, inoltre, già prevedeva la possibilità di celebrare unioni civili tra persone dello stesso sesso. La legge appena approvata, tuttavia, oltre ad avere un importante significato simbolico, garantirà, tra l’altro, anche il diritto di adozione e di ereditare i beni del coniuge.

La discussione sui matrimoni gay in vista dell’approvazione definitiva era stata pesantemente condizionata da una campagna di opposizione da parte della Chiesa Cattolica. Quella stessa Chiesa Cattolica che non aveva mostrato altrettanti scrupoli nell’appoggiare i massacri del regime di Videla, alla vigilia del voto al Senato aveva organizzato una marcia di protesta con alcune migliaia di manifestanti per convincere i parlamentari a bloccare la legge. A conferma delle pressioni, molti senatori che si sono espressi contro il provvedimento hanno fatto appello precisamente alla loro fede cattolica nelle rispettive dichiarazioni di voto.

Da parte sua, l’arcivescovo di Buenos Aires, Cardinale Jorge Bergoglio, ha tuonato contro la legislazione con i consueti toni apocalittici. I matrimoni gay, ha sostenuto il rappresentante della Chiesa di Roma, costituiscono un “attacco al piano di Dio” e “una sconfitta per tutti”, dal momento che a suo dire i “bambini hanno il diritto di essere cresciuti ed educati da un padre e da una madre con ruoli ben definiti”.

Impegnata in una visita ufficiale in Cina, la Presidenta ha reagito duramente alle invettive della Chiesa e dei gruppi religiosi, dicendosi preoccupata nell’ascoltare parole come “guerra santa” o “progetto demoniaco” tra i contrari ai matrimoni gay, toni che sembrano rievocare cupamente i “tempi dell’Inquisizione o delle Crociate”. Sempre secondo la Kirchner, “la Chiesa sta invocando una questione morale e religiosa che minaccerebbe l’ordine naturale, quando in realtà quello che stiamo facendo è semplicemente prestare attenzione a ciò che sta già accadendo nella nostra società. Per questo, sarebbe una tremenda distorsione della democrazia se negassimo alle minoranze i loro diritti”.

Nei sondaggi, tra l’altro, la maggioranza della popolazione argentina (quasi il 70%) si è dimostrata favorevole alle nozze tra persone dello stesso sesso, anche se i consensi scendono sensibilmente sulla questione delle adozioni alle coppie gay. Proprio l’aver cavalcato un tema inaspettatamente così popolare in Argentina rappresenterebbe, secondo alcuni esponenti dell’opposizione, una mossa opportunistica da parte di Cristina Kirchner e del marito, l’ex presidente Néstor Kirchner, possibile candidato alle elezioni presidenziali del prossimo anno.

Il capitale politico investito nei matrimoni gay, piuttosto, potrebbe creare una frattura nella base del partito peronista di Néstor e Cristina Kirchner, così come alienare loro una parte dei consensi degli elettori delle province rurali del paese, tradizionalmente più conservatori sulle questioni sociali.

Se come detto, l’Argentina, diventa così il primo paese latinoamericano a legalizzare i matrimoni tra persone dello stesso sesso, qualche mese fa era stata in realtà Città del Messico la prima giurisdizione in assoluto a muoversi in questo senso. A sud degli Stati Uniti, poi, le unioni civili gay sono già garantite, sia pure riconoscendo diritti differenti a seconda dei casi, in Uruguay, Colombia e in alcuni stati del Brasile.

Per quanto riguarda invece i matrimoni gay, essi sono stati legalizzati a tutt’oggi - oltre che in Argentina - in Belgio, Canada, Islanda, Norvegia, Olanda, Portogallo, Spagna, Sudafrica e Svezia; nonché negli Stati Uniti, limitatamente al District of Columbia e agli stati di Connecticut, Iowa, Massachusetts, New Hampshire e Vermont.

di Michele Paris

Alle 18 e 30 di lunedì scorso, un anonimo taxi ha scaricato un ricercatore iraniano di fronte all’ambasciata pakistana a Washington, presso cui si trova la sede diplomatica di Teheran che cura gli interessi della Repubblica Islamica negli Stati Uniti. Scienziato nucleare con un ruolo non del tutto chiaro in patria, il 32enne Shahram Amiri era improvvisamente sparito nella primavera del 2009 durante una “umra” (pellegrinaggio) a Medina, in Arabia Saudita, sollevando immediatamente più di un sospetto circa il coinvolgimento della CIA nella sua scomparsa.

La sparizione di Shahram Amiri dalla sua camera d’albero saudita, il 3 giugno dello scorso anno, aveva aperto un nuovo capitolo nel confronto tra Stati Uniti e Iran. Secondo il governo di Teheran, l’operazione andava attribuita alla principale agenzia d’intelligence a stelle e strisce, orchestrata per mettere le mani su una fonte di informazioni ritenuta preziosa in merito al programma nucleare iraniano. Per Washington, al contrario, Amiri aveva defezionato di sua spontanea volontà e, ugualmente senza pressioni, aveva deciso di raccontare quanto aveva avuto modo di conoscere grazie al suo impiego in Iran.

Subito dopo il probabile rapimento, l’Iran aveva manifestato il proprio disappunto per il comportamento americano, chiedendo addirittura al Segretario Generale delle Nazioni Unite di adoperarsi per la restituzione del ricercatore. Ammettendo un qualche ruolo nei fatti, la CIA da parte sua aveva confermato il trasferimento immediato di Amiri dall’Arabia Saudita agli Stati Uniti. Qui, secondo Teheran, quest’ultimo era stato imprigionato e torturato al fine di estorcergli informazioni segrete.

Comunque si siano svolti i fatti, a un certo punto la CIA ha inserito Amiri in un programma di protezione per fuoriusciti, facendolo risiedere a Tucson, in Arizona. Secondo la ricostruzione americana, nei primi mesi del 2010 la volontà di collaborazione dello scienziato iraniano avrebbe mostrato qualche segno di cedimento, dal momento che iniziavano a farsi strada serie preoccupazioni per possibili ritorsioni da parte delle autorità di Teheran ai danni della moglie e del figlio rimasti in patria.

Ad infittire il mistero creatosi attorno alla sorte dello scienziato, svanito nel nulla sul territorio del principale alleato americano nel mondo arabo, era stata poi la comparsa in rete di una serie di filmati contraddittori. Nel primo, risalente al 5 aprile scorso, un Amiri provato descriveva in lingua persiana le fasi del suo rapimento. L’operazione, a suo dire, era stata organizzata dalla CIA e dai servizi segreti sauditi. Dopo un’iniezione di una sostanza imprecisata somministratagli dai rapitori, Amiri si era addormentato e, al risveglio, si era reso conto di essere in volo verso gli USA.

Solo poche ore dopo il primo video, su YouTube ne sarebbe apparso un secondo, realizzato in maniera decisamente più professionale, tanto da far pensare al contributo della stessa CIA. Scrupolosamente curato nell’aspetto, Amiri parlava all’interno di una stanza ben illuminata, verosimilmente una biblioteca, con un mappamondo e una scacchiera sullo sfondo. In questo filmato negava di essere stato rapito, affermando invece di essere giunto spontaneamente negli Stati Uniti per frequentare un dottorato di ricerca e, una volta ultimato, tornare dalla sua famiglia in Iran.

Rassicurando circa il suo ottimo stato di salute, Amiri definiva come falsi i filmati diffusi in precedenza su di lui e negava di avere alcun interesse nella politica o di possedere esperienza in ambito di armamenti nucleari. Successivamente, venne caricato un terzo e ultimo video il cui contenuto appariva simile a quello del primo.

Se per gli iraniani il primo e il terzo filmato erano la prova del rapimento di Amiri, per l’intelligence americana erano dettati unicamente dai suoi timori per la famiglia, tanto che alla fine sarebbe arrivata appunto la richiesta di tornare in Iran. Giunto all’ambasciata del Pakistan negli USA, Amiri ha dichiarato alla televisione pubblica iraniana di essere stato sottoposto a “enormi pressioni psicologiche sotto la supervisione di agenti armati durante gli ultimi 14 mesi” ed ha aggiunto che il suo “rapimento è stato un atto inammissibile da parte degli americani”.

A negare ogni atto illecito ci ha provato il Segretario di Stato in persona, Hillary Clinton, ribadendo che lo scienziato iraniano era giunto di sua spontanea volontà nel paese e che era libero di andarsene in qualsiasi momento, come poi ha fatto. I media iraniani, al contrario, sostengono che le autorità americane hanno deciso di rilasciare Amiri dopo aver preso atto del “fallimento del loro piano propagandistico per screditare il programma nucleare iraniano”, creando artificialmente interviste con un cittadino della Repubblica Islamica.

Se dietro alla vicenda di Amiri rimangono molte zone oscure, è possibile che i servizi americani nelle ultime settimane abbiano iniziato a sentire qualche pressione che ha portato infine il presunto esule a “riparare” presso la rappresentanza diplomatica pakistana. Le accuse da parte di Teheran stavano infatti aumentando e, ai primi di luglio, il Ministero degli Esteri iraniano aveva convocato l’incaricato d’affari dell’ambasciata svizzera, che cura gli interessi americani in Iran, presentandogli una serie di documenti che avrebbero provato le responsabilità della CIA nel rapimento.

Il giorno successivo all’apparizione di Amiri a Washington, inoltre, il network satellitare iraniano Press TV aveva diffuso un comunicato dei servizi segreti di Teheran, nel quale si spiegava come al ricercatore erano stati promessi dieci milioni di dollari per apparire sulla CNN e annunciare la sua intenzione di defezionare negli Stati Uniti. La pratica del rapimento di personalità in grado di fornire notizie classificate sul nucleare iraniano da parte della CIA, oltretutto, non è nuova. All’inizio del 2007, ad esempio, l’ex vice-ministro della Difesa Ali-Reza Asgari venne con ogni probabilità rapito da un’azione congiunta di CIA e Mossad durante un viaggio a Istanbul, in Turchia.

A far scemare l’interesse per Shahram Amiri dei servizi statunitensi, e a decretare il loro sostanziale fallimento nell’intera operazione, c’è poi la sua probabile scarsa conoscenza dei supposti “segreti” nucleari dell’Iran. Ricercatore presso l’Università Malek Ashtar di Teheran, secondo alcuni collegata al Ministero della Difesa e al Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, Amiri non avrebbe l’esperienza necessaria per entrare in contatto con i leader del programma nucleare e quindi non ne conoscerebbe sufficientemente le eventuali implicazioni.

Qualche indicazione in più sull’esilio volontario o forzato di Amiri negli Stati Uniti la si avrà forse dopo il suo arrivo in Iran, da dove mancava da oltre tredici mesi. Quel che è certo è che le polemiche attorno alla sua vicenda continueranno ad alimentare la guerra fredda in corso da tre decenni tra i due paesi nemici.

di Mario Braconi

L’ayatollah iracheno Muhammad Hussein Fadlallah, definito ufficialmente “terrorista” dal Governo USA nel 1995, si è spento lo scorso 4 luglio a settantacinque anni per un’emorragia interna. Il religioso sciita, assai popolare nel suo paese ed in tutto il Medio Oriente, viene comunemente considerato uno degli sponsor più blasonati (addirittura uno dei “padri spirituali”, per così dire) di Hezbollah, a dispetto del fatto che negli anni 90 i suoi rapporti con il movimento politico-militare fossero piuttosto tesi.

La sua “benedizione” all’attacco terroristico di Hezbollah alle caserme delle Forze di Pace del 23 ottobre 1983 (cinque tonnellate e mezzo di tritolo, trecento militari americani e francesi uccisi, una sessantina di feriti) non lo rende un personaggio simpatico - almeno in questa parte del globo, né particolarmente potabile per i funzionari delle cancellerie dei Paesi Occidentali (con qualche rilevante eccezione, come si vedrà oltre).

Racconta Robert Pollock, il giornalista del Wall Street Journal che lo intervistò nel marzo del 2009, che nei corridoi dei suoi uffici Fadlallah aveva appeso i ritratti di quelli che egli considerava “martiri” islamici: tra di essi, quello di Imad Mughniyah, peso massimo del terrorismo internazionale, assassinato dal Mossad (pare con la complicità di qualcuno dei “suoi” cui non era particolarmente simpatico) con una carica esplosiva nascosta nel poggiatesta dell’auto il 12 febbraio del 2008; quando Mughniyah, cui viene attribuito un lungo elenco di crimini terroristici ributtanti (tra cui l’ideazione dell’attacco del 23 ottobre 1983) morì, Fadlallah ne pianse la dipartita con le seguenti parole: “Oggi la resistenza ha perso uno dei suoi pilastri”.

Per completezza ed obiettività storica, sia pure nel sordido pantano del terrorismo e delle guerre di occupazione, occorrerà comunque aggiungere che lo stesso Fadlallah fu oggetto di un tentativo di assassinio organizzato dalla CIA con la complicità dei sauditi che, oltre a fallire l’obiettivo (anche se alcune delle sue guardie del corpo perirono nell’esplosione dell’autobomba, l’ayatollah si salvò), uccise 60 persone e ne ferì duecento; tutta gente che passava di là per caso o che era andata in moschea.

Da un punto di vista politico, la scomparsa di Fadlallah coinciderà con un rafforzamento della stretta iraniana in Libano; considerazioni morali a parte, bisogna riconoscere che l’opposizione di Fadlallah alla Repubblica Islamica avrebbe costituito un’ottima carta per porre un limite alla nefasta influenza iraniana nel Paese dei Cedri: una carta che, tanto per cambiare, né gli USA né gli altri Paesi occidentali interessati a quello che accade in quell’area, hanno saputo giocarsi nel modo giusto. Come nota Pollock, infatti, Fadlallah non ha mai accettato la dottrina inventata da Khomeini e nota come “velayat-e faqih” (in persiano, “tutela dell’esperto della Legge”) secondo cui un giurista musulmano ha il diritto di bloccare qualsiasi legge del Parlamento che non sia perfettamente conforme alla sua propria interpretazione della shari’a (legge islamica): di fatto, la premessa all’imposizione di una teocrazia. “Sempre meglio l’influenza di Fadlallah rispetto a quella degli agenti iraniani che ora si presenteranno come i suoi eredi”, conclude Pollock.

A quanto pare, lo scomparso ayatollah era dotato di un carisma non comune: sono infatti ben due le professioniste (un’ambasciatrice e una giornalista della CNN) che hanno perso (o rischiato di perdere) il loro lavoro a causa dei commenti riservati alla memoria del religioso islamico subito dopo la sua scomparsa. Frances Guy, ambasciatrice del Regno Unito in Libano, nel suo blog ha così tratteggiato la figura del religioso: “Quando gli si faceva visita, si poteva esser certi di godere di un autentico dialogo, di uno scambio rispettoso di opinioni, e quando si andava via, si aveva la sensazione di essere una persona migliore. [...] Il mondo ha bisogno di più persone come lui, desiderose di spingersi oltre gli steccati delle diverse fedi”.

Sembra quasi incredibile che una persona di consumata esperienza, quale necessariamente deve essere quella che siede sulla poltrona attualmente occupata dalla signora Guy, possa lasciarsi andare ufficialmente a commenti di tale imbarazzante ingenuità. “Ciò non vuol dire”, conclude Pollock, “che qualsiasi commento positivo su quell’uomo debba automaticamente diventare off-limits”. Si noti che a dirlo è un giornalista non immune al fascino di Fadlallah, visto che nel suo pezzo fa sapere ai suoi lettori di quel “luccichio disarmante” che ha visto balenare negli occhi dell’anziano Fadlallah. Ma il mondo va in modo diverso da come vorrebbe Pollock e, ovviamente, la signora Guy ha dovuto ritrattare in fretta e furia per salvare il posto.

Peggio è andata a Octavia Nasr, redattrice senior della CNN per il Medio Oriente, costretta a dare le dimissioni per aver postato sul suo account Twitter un commento nel quale manifestava il suo dolore per la scomparsa di Fadlallah, da lei salutato come “uno dei giganti di Hezbollah”. Tanto è bastato per farla cadere nella graticola sulla quale gli ultrà pro-Israele sono stati lieti di cacciarla, e dalla quale ha potuto liberarsi solo dopo aver lasciato la CNN.

Il caso della Nasr fa particolarmente riflettere: come nota acutamente Brian Whitaker, del Guardian, decano dei corrispondenti dal Medio Oriente, sono in parte anche i moderni giornali ad invitare i loro giornalisti a “sconfinare nei cosiddetti social media, per stabilire un rapporto più personale ed informale con i propri lettori”. Un’interessante innovazione, si dirà, anche se capace di trasformarsi in doccia fredda per tutti i lettori che vivono nell’illusione che il giornalista sia un essere privo di opinioni proprie sul materiale che “copre”. E certo mettersi alla prova su un social network basato sull’impossibilità di veicolare messaggi più lunghi di 140 caratteri è una bella sfida.

 

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. E' ufficiale: l’Europa potrà essere nuovamente spiata in nome della guerra al terrorismo. Dopo diversi mesi di trattative, il Parlamento europeo ha sottoscritto in questi giorni a Bruxelles il controverso patto Swift. Gli Stati Uniti avranno libero accesso alle banche dati di milioni di cittadini europei e potranno utilizzarli nella loro campagna antiterrorismo. E, ancora una volta, la privacy e la democrazia vengono sacrificate in nome di una guerra: una guerra ambigua che, come tutte le vere e proprie lotte armate, non ha né buoni né cattivi e in cui tutti sono sia vittime che carnefici.

Il patto Swift prevede innanzitutto uno scambio di dati unilaterale tra Europa e Stati Uniti: i Governi del Vecchio continente concederanno alla Casa Bianca pacchetti di informazioni riguardanti milioni di cittadini europei che verranno poi registrati nelle banche dati dei servizi segreti statunitensi. Qui potrebbero rimanere salvati per ben cinque anni, alla faccia della “legge bavaglio” e di tutte le diatribe italiane al riguardo.

L’accordo prende il nome dall’azienda di comunicazione che gestirà il delicato scambio di informazioni: è Swift, una multinazionale che ha la sua sede principale nel comune vallone di La Hulpe, in Belgio, a 30 chilometri da Bruxelles. Tra parentesi: la praticità delle scelte del neo Parlamento europeo lascia esterrefatti.

E la parte più controversa dell’accordo Swift è proprio il modo in cui il gruppo di comunicazione belga lavora. Swift, infatti, non si preoccuperà di passare le informazioni alla Casa Bianca in maniera precisa e mirata, quindi limitatamente ai singoli individui indiziati, ma a “pacchetti”. Se un sospetto vive a Milano, ad esempio, Swift potrebbe trasmettere ai funzionari statunitensi tutti i nomi dei cittadini che hanno versato soldi in un Paese extra europeo dalla regione Lombardia in un determinato periodo.

A scegliere i criteri di traffico dei dati, tra l’altro, saranno gli Stati Uniti: chi è sospetto, i motivi della presunta colpa di quest’ultimo e il grado di estensione dell’indagine stessa dipenderanno esclusivamente dai canoni statunitensi. A garanzia della correttezza nel trattamento delle informazioni ci sarà, a Washington, un unico e solo funzionario europeo. Nel Vecchio Continente, invece, le richieste d’indagine saranno esaminate dall’Europol, l’Ufficio europeo di polizia, che tutto ha a cuore tranne che l’intimità dei cittadini. Nessun magistrato, quindi, a gestire la nostra privacy quotidiana, ma un organo di polizia non specializzato nella faccenda.

Nonostante la netta maggioranza con cui l’accordo è stato sottoscritto nel Parlamento europeo - 494 voti a favore e 109 contro - la battaglia per la tutela della privacy e della democrazia in Europa non è ancora finita. Al momento, la Comunità Europea non ha un proprio sistema di valutazione per la lotta al terrorismo e quindi si deve affidare a Swift a queste condizioni. La prospettiva dei parlamentari europei è quella di crearne uno nei prossimi 5 anni, così da filtrare razionalmente l’eventuale trasferimento dei dati agli Stati Uniti. E in questo nuovo software di valutazione “nostrano” si cercherebbe di usare più delicatezza nei confronti della privacy dei piccoli.

I tratti del sistema di valutazione europeo dovrebbero essere definiti entro il prossimo anno: l’idea è redigere un accordo strutturale che difenda il singolo cittadino da un eventuale sistema di polizia troppo invasivo. Limitare l’analisi indistinta dei dati “in massa”, ad esempio, e dare una qualità giudiziaria al controllo e alla trasmissione di questi ultimi verso gli Stati Uniti, sarebbero già - seppur piccole - forme di rispetto del singolo. Attenzioni, in realtà, che erano già state considerate a Bruxelles in passato proprio in riferimento alla  questione Swift e ora dimenticate.

La situazione, quindi, sarebbe solo transitoria. Ma si può sospendere temporaneamente il trattamento corretto della privacy di milioni di persone - e quindi uno dei valori della democrazia - in vista di un futuro cambiamento? Si potrebbe, forse, in nome della giustizia assoluta. Un valore che però non esiste e che comunque non appartiene alle istituzioni a stelle e strisce.

Quello che appare chiaro, ben più e ben oltre la sbandierata guerra al terrorismo, è che un paese - gli Usa - avrà il monopolio del possesso dati e l’arbitrarietà assoluta sulle modalità del loro utilizzo. Che sarà politico, militare e, cosa che difficilmente verrà ammessa, commerciale. I dati che non verranno considerati utili per la “war of terror” non verranno certo eliminati. Verranno in qualche modo consegnati alle imprese statunitensi che, a loro volta, avranno un vantaggio enorme sulle altre. L’antiterrorismo diventa un business e il business dell’antiterrorismo non conosce crisi.

 

di Mariavittoria Orsolato

“Un nuovo terremoto” così il leader dei contadini haitiani Chavannes Jean-Baptiste ha definito il dono che la Monsanto - l’arcinota multinazionale agrochimica specializzata in OGM - ha destinato alle popolazioni colpite dal disastro dello scorso 12 gennaio. Sessantamila sacchi, 475 tonnellate circa di semi ibridi, per un valore complessivo di 4 milioni di dollari, che però i contadini sono caldamente invitati a boicottare.

Quella dei paysans haitiani è infatti una vera e propria protesta, maturata dall’idea che, con il pretesto dei soccorsi e della ricostruzione post-sisma, grandi multinazionali, come appunto la Monsanto, si vogliano inserire forzosamente nell’economia locale, un’economia prevalentemente a carattere di sussistenza che sarebbe irrimediabilmente 0000stravolta.

Secondo Chavannes, infatti, “le sementi rappresentano una sorta di diritto alla vita. Ecco perché oggi abbiamo un problema con la Monsanto e con tutte le multinazionali che vendono semi: semi e acqua sono patrimonio comune dell'umanità”.

Molti avranno sentito parlare della Monsanto a causa delle controversie che il suo metodo operativo ha aperto nello scenario degli OGM, scatenando le ire dei gruppi ambientalisti: essendo geneticamente modificati, i semi prodotti dalla multinazionale di St. Louis hanno sì grosse rendite in termini di dimensioni del raccolto o della resistenza a malattie e siccità, ma al contempo sono semi sterili, incapaci cioè di trasmettere le proprie caratteristiche agli esemplari figli; perciò chi decide di usare questo tipo di semenze è costretto, ad ogni semina, a comprare nuovi esemplari anch’essi sterili.

C’è però un altro problema ed è da questo che i contadini haitiani hanno mosso la loro protesta: per la naturale azione dei venti, le propaggini delle colture geneticamente modificate arrivano ad intaccare anche i prodotti di chi invece ha scelto di continuare a coltivare con il metodo biologico.

L’ MPP (il movimento dei paysans haitiani) si batte infatti per la sovranità alimentare - ossia per il diritto di ciascun Paese di definire in modo autonomo la propria politica agricola, il diritto delle comunità di decidere cosa produrre, e quello dei consumatori di poter consumare prodotti sani - e lo scorso 23 giugno un gruppo di agricoltori di Hince ha bruciato pubblicamente alcune sementi di mais ibrido donate del colosso dell’agrotecnologia, invitando i colleghi ad emularli.

Secondo il portavoce della società, Darren Wallis, è tutta una questione di buona fede: “Monsanto ha fatto questa donazione, in poche parole, perché era la cosa giusta da fare. Le necessità di Haiti sono significative e noi abbiamo i semi che potrebbero aiutare gli agricoltori a far crescere il cibo non solo per se stessi ma, con un raccolto abbondante, anche per i bisogni alimentari di altri cittadini haitiani”.

L'azienda ha poi sottolineato in un comunicato stampa che le sementi non sono geneticamente modificate, come sostengono Chavannes e i suoi paysans, ma ha ammesso che i semi sono stati in parte trattati con fungicidi e pesticidi, tra cui Maxim XO e tiramina (sostanze note per i loro effetti collaterali sulla salute umana).

“L’associazione che è stata fatta tra organismi geneticamente modificati e quello che stiamo facendo è completamente errata - dice Christopher Abrams della Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID) che sta contribuendo a distribuire le sementi - ma da allora, si sono generate opinioni tra la popolazione sul significato presunto di questa operazione”. E il significato presunto è, secondo Chavannes ma anche secondo il più semplice dei sillogismi, che “i nostri agricoltori smetteranno di essere autonomi e dovranno dipendere da una multinazionale come la Monsanto o altre multinazionali che vendono semi” e così dicendo il eader dell’MPP accusa anche il presidente haitiano René Préval di “collusione con l’imperialismo”, nell’intento di svendere il patrimonio agricolo nazionale.

Non è, infatti, sviluppo sostenibile quello che pretende di legare a doppio filo una realtà rurale come quella di Haiti con le teste di serie dell’universo multinazionale: costretti a pagare ciclicamente per delle sementi altrimenti gratuite, i contadini sarebbero comunque coattati ad attrezzarsi per il nuovo tipo di coltura e ad approvvigionarsi perciò all’azienda madre, la Monsanto appunto.

Ma c’è di più: nel momento in cui un agricoltore decide di servirsi dei semi prodigiosi della Monsanto, deve firmare una sorta di contratto in cui si impegna a non tenere da parte i semi e a non venderli a terzi: una semplice formalità, secondo molti, che cela però uno stretto controllo, espletato, secondo svariati testimoni, da un vero e proprio esercito di investigatori privati che segretamente acquisiscono immagini e video dei contadini.

La paura dei paysans haitiani è infatti quella di finire come i colleghi americani cui la Monsanto ha indirizzato ben 112 querele per un totale di 21,5 milioni di dollari di risarcimento: in breve, la multinazionale ha citato in giudizio tutti quei contadini che, dopo aver adottato il loro sistema, hanno contaminato i raccolti circostanti per effetto della naturalissima impollinazione che, da che mondo è mondo, permette di riprodurre le piante.

La multinazionale di St.Louis è a un passo dal monopolizzare il mercato delle sementi ed il pericolo più tangibile è che con l’adozione sempre più massiccia di tale tipo di coltivazione la semina convenzionale scompaia, rendendo la Monsanto di fatto padrona dell’approvvigionamento agricolo. Haiti è già una terra abbastanza martoriata ed è normale che questo dono, apparentemente disinteressato, venga considerato un cavallo di Troia.


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