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di Carlo Benedetti
MOSCA. Dalle armi all’industria petrolifera, dalle joint-venture ai rapporti economici. Ed ora per il Cremlino, impegnato da molti anni nel Sudan, scatta l’operazione “acqua potabile”. E così parte all’attacco del paese africano con un piano di sviluppo che prevede trivellazioni in tutte le zone e la realizzazione di stazioni di filtraggio. I tecnici inviati da Mosca sono già all’opera e la loro forma di intervento trova il pieno appoggio della popolazione locale, purtroppo abituata alle incursioni di un occidente avido di affari e di petrolio da esportare. Ed ecco che la Russia, che però non trascura l’oro nero, sceglie come facciata, la battaglia per l’oro bianco. E’ una scelta d’intervento economico, ma è soprattutto un tentativo per distinguersi dagli altri paesi presenti in questa tormentata zona dell’Africa.
Lo spiega alla stampa il russo Michail Markelov che a Kharthoum rappresenta la dirigenza russa. E’ lui che ricorda come con la firma della pace si è ora aperta una nuova difficile fase di ricostruzione del paese che coinvolge praticamente tutti gli ambiti della società sudanese. Rendere, ad esempio, disponibili i servizi di base tra cui l’accesso alle fonti di acqua potabile sarà dunque essenziale per il pacifico rimpatrio di centinaia di migliaia di rifugiati in tutto il sud e per il futuro sviluppo dell’intero Paese.
E’ noto – sottolinea Markelov – che la mancanza di acqua potabile è una delle piu delicate emergenze nel Sud. Essa è strettamente legata alle condizioni sanitarie e igieniche della popolazione che non avendo ampie disponibilita di risorse idriche è costretta a procurasi l’acqua con mezzi altamente insicuri e in zone contaminate come stagni, ruscelli e persino acquitrini formatisi durante le pesanti piogge stagionali; sorgenti tutte che spesso vengono contaminate da agenti esterni ed ambientali come animali domestici e attivita umane.
Questa situazione - ricordano i tenici russi che partecipano alle operazioni di trivellazione nel Sudan - favorisce la diffusione di malattie legate soprattutto ad una mancanza di igiene e di acqua potabile causando talvolta epidemie di colera (malattia la cui contaminazione avviene nella maggior parte dei casi attraverso acqua contaminata), epatiti e tifo.
Per questo motivo, la creazione di punti idrici sicuri sul territorio come boreholes (pozzi artesiani), wells (pozzi) o bacini di acqua potabile (water catchment) rappresentano tutt’oggi una importante risorsa per quelle popolazioni che vivendo ancora isolate a causa della guerra, non possono raggiungere facilmente i principali centri urbani. Durante la guerra civile, molte persone abbandonarono infatti le proprie abitazioni nei dintorni dei principali villaggi per trasferirsi nelle zone montane; luoghi certamente piu sicuri per sfuggire alle rappresaglie degli Arabi e ai bombardamenti, ma definitivamente molto più carenti per quanto riguarda la fornitura di cibo e soprattutto di acqua potabile. Notevole quindi il contributo dei tecnici russi e delle tecnologie messe a disposizione del Sudan.
Intanto negli ambienti della Croce Rossa di Mosca si fa notare che nelle zone dell’Eastern Equatoria, e in particolare in quelle delle Contee di Torit e Kapoeta, continua l’emergenza alimentare, resa ancor piu acuta dalle scarse precipitazioni e dal cronicizzarsi della siccità, che dagli anni ‘80 impoverisce la regione. Si assiste, infatti, ad un’anomala distribuzione delle precipitazioni nella zona. I rilievi condotti negli ultimi anni hanno mostrato precipitazioni fino a 3.000 mm. nella zona dell’Upper Tallanga e precipitazioni intorno ai 1.000 mm. nella zona Acholi, Madi, Torit; Lafon invece si attesta su valori intorno agli 800 mm. Quanto alla situazione politica attuale del Sudan i russi che seguono le vicende di Kharthoum rilevano che la situazione generale è sempre a rischio perchè il “vento” che soffia dalla vicina Somalia potrebbe sconvolgere il paese.
C’è soprattutto il problema collegato alla gestione nazionale. Perchè si dispiegano sempre più forze ostili al presidente del Sudan, Omar Hassan al-Bashir, accusato di genocidio da parte del Tribunale penale internazionale dell’Aja in riferimento, soprattutto, alla questione del Darfur.
Secondo gli osservatori russi (che in questi ultimi tempi tengono sotto tiro la situazione sudanese) tra i tanti problemi c’è quello che si riferisce al fatto che il presidente ha favorito una islamizzazione radicale senza tener conto che gran parte degli abitanti sono cristiani. Di qui lo scontro tra Nord e Sud. Ora la Russia - per favorire la penetrazione nel paese - utilizza l’arma dell’economia scegliendo come terreno d’intervento quello dell’acqua. Ma non trascura la corsa verso le infastrutture. In particolare - lo rende noto il quotidiano moscovita “Kommersant” - nel settore dei trasporti. Favorita in questo dal fatto che l’intero parco ferroviario del Sudan era stato fornito dagli americani, ma che col passare degli anni tutto è obsoleto e, praticamente, inutilizzabile.
La Russia offre ora le sue attrezzature per i 4764 chilometri di strade ferrate. Parla di acqua. Ma è chiaro che pensa all’oro nero. E in proposito va ricordato che ci fu a suo tempo una missione guidata da Medvedev. Il quale, era accompagna toda una delegazione composta da circa quattrocento uomini d'affari e rappresentanti del mondo industriale, tra i quali, in particolare, i dirigenti dei principali colossi russi, quali Rosatom, Lukoil e Gazprom.
Nel tentativo di avvicinarsi all'intensità di affari della Cina (obbiettivo particolarmente difficile tanto che lo stesso Presidente russo dichiarò apertamente che la Russia avrebbe dovuto iniziare ad instaurare rapporti commerciali con i Paesi africani da lungo tempo), Medvedev puntò l'attenzione, in particolare, sul campo energetico. Tanto che fu raggiunto un accordo tra il gigante dell'energia Gazprom e l'azienda nazionale Nigerian National Petroleum Corporation per la creazione di una società congiunta impegnata a concedere, al colosso russo un accesso diretto alle risorse gassifere e petrolifere del Paese. Per Mosca il problema, ora, consiste nel decantare le tensioni accumulate in una regione dove, purtroppo, la conflittualità è endemica, storica, secolare.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Il Pubblico Ministero di Diyarbakir (Turchia dell'Est) ha proposto 525 anni di prigione per il giornalista curdo Vedat Kursun, caporedattore dell'unico quotidiano curdo pubblicato in Turchia, l'Azadiya Welat. L'accusa è "propaganda terroristica" a favore del Partito dei Lavoratori Curdo (PKK), il movimento politico clandestino armato che dagli anni Ottanta lotta contro il governo di Ankara per ottenere il rispetto della minoranza curda. La situazione, tuttavia, è ben lungi dall'apparire lineare.
Secondo quanto riporta il quotidiano tedesco Tageszeitung (TAZ), la procura turca avrebbe portato ben 103 edizioni dell'Azadiya Welat a sostegno delle sue accuse contro Kursun, tutte apparse tra il 2007 e il 2008. Certo, trovare prove contro il giornalista trentaquattrenne non deve essere stato difficile. Per la Giustizia turca, infatti, anche solo parlare di "Kurdistan" o "guerriglia" risulta punibile secondo le leggi anti-terrorismo: non meraviglia che Kursun, pubblicando dichiarazioni di capi del PKK e annunci mortuari di combattenti curdi, sia sia guadagnato l'attenzione estrema del Governo di Ankara.
Che la Turchia non veda di buon occhio i mezzi di espressone in lingua curda non è un mistero. I curdi, con una popolazione totale di quasi 30 milioni di persone distribuita fra Turchia, Siria, Iran e altri stati del Medio Oriente, costituiscono uno dei più estesi gruppi etnici senza patria al mondo: già da oltre un secolo cercano di creare il Kurdistan, una nazione indipendente e autonoma politicamente, incontrando però sempre l'ovvia opposizione degli Stati sovrani.
La sola Turchia, da parte sua, ospita 7 milioni di individui di lingua e etnia curda: si tratta dell'8 percento dell'intera popolazione su suolo turco, una percentuale non indifferente. Il rapporto fra il Governo di Ankara e la minoranza curda è sempre stato complicato soprattutto a causa del Partito dei Lavoratori Curdo, il PKK: si tratta dell'ala estrema del movimento per l'indipendenza curda, accusata di azioni di terrorismo da diverse direzioni. Attivo dal 1984, il PKK combatte in maniera non sempre ortodossa contro un governo ufficialmente democratico ma concretamente monocolore ed è finito, fra l'altro, nelle liste "nere" dei terroristi per Europa, Turchia e USA.
Che il PKK sia un gruppo di matrice terroristica o meno, ciò non giustifica comunque l'atteggiamento del Governo nei confronti di tutti mezzi di comunicazione in lingua curda. Come, appunto, per l'Azadiya Welat, il quotidiano di Kursun, che vende in tutto 15 mila copie al giorno, una tiratura troppo ridotta anche solo per assicurargli un posto nelle edicole. Se Azadiya Welat significa in curdo "libertà della patria" e si assurge a canale d'espressione per eccellenza del popolo curdo in Turchia, il Governo lo legge come organo privilegiato di propaganda terroristica, limitandone in tutti i modi la libertà d'espressione.
Vedat Kursun è stato arrestato a gennaio del 2009 all'aeroporto di Istanbul, mentre cercava di fuggire in Europa: da allora siede in prigione in attesa di giudizio, sotto stretta sorveglianza, tanto che non gli è permesso neppure sedere a fianco dei suoi avvocati durante i processi a suo carico. La suprema corte di giustizia turca si è già espressa quattro volte sul suo caso, senza arrivare mai a una sentenza definitiva. Settimana scorsa, per l'ennesima volta, il processo è stato rinviato: la proposta è di una pena record di 525 anni, se ne riparlerà comunque il 6 maggio.
Ma la speranza di libertà, per Kursun, sembra essersi trasformata in un'illusione. Persino l'attuale caporedattore dell'Azadiya Welat, Eser Ungansiz, non è ottimista nei confronti del suo precedessore: "Kursun non uscirà mai", ha dichiarato al TAZ, spiegando che, per i giornalisti curdi, la situazione "non è mai stata così difficile come oggi". Ungansiz è il quinto dei caporedattori che si sono succeduti all'Azaiya negli ultimi tre anni. Da che il giornale è diventato quotidiano, nel 2006, la redazione è stata chiusa svariate volte, con l'accusa di "Pubblicità a favore di organizzazione illegale".
Come ad aggirare la violenta censura del Governo di Ankara, i caporedattori si sono succeduti per garantire una certa continuità al giornale. Tre su quattro (se si esclude l'attuale) sono ora sotto processo. Nel frattempo, in carcere, Kursun ha preso l'epatite: a ricordo perenne di una battaglia personale che, indipendentemente dall'ideale, è stata combattuta per la libertà di stampa.
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di Giuseppe Zaccagni
Non c’è crisi per le armi. Si spara e si vende in uno scenario di eventi traumatici e i dati che arrivano da questo mercato della morte sono sempre più impressionanti. Da Stoccolma, l’Istituto internazionale per le ricerche sulla pace (Sipri) diffonde un rapporto in merito, nel quale si sottolina che la vendita di armi a livello globale è cresciuta del 22 per cento rispetto al periodo 2000-2004, mentre in America del Sud l'incremento è stato del 150 per cento. Nel Sud est asiatico la crescita del volume è "drammatica" e l'acquisto di aerei e navi da guerra nella regione "potrebbe mandare in fumo i decennali sforzi per la pace".
Rispetto al 2000, le importazioni – ed è questo un altro dato significativo - hanno registrato un'impennata del 722 per cento in Malaysia, del 146 per cento a Singapore, dell'84 per cento in Indonesia. Singapore è così il primo paese dell'Asean a essere annoverato nella classifica dei primi dieci importatori dalla fine della guerra in Vietnam, nel 1975.
Anche l'Europa si mette in grande evidenza con la Grecia che, pur attraversando una drammatica crisi economica, rimane saldamente tra i cinque maggiori importatori mondiali, in particolare per l'acquisto di 26 caccia F-16 dagli Stati Uniti e 25 aerei da combattimento Mirage dalla Francia: un contratto che pesa per il 38 per cento sul totale degli investimenti nel settore armamenti del governo di Atene.
Intanto proprio agli aerei da combattimento il Sipri dedica un capitolo specifico della sua indagine. Risulta che sono le “armi” che fanno la parte del leone sul mercato, rappresentando il 27 per cento sul volume totale mondiale. Un dato che, segnala l'Istituto internazionale, dimostra "una preoccupante corsa al riarmo" che non fa che aumentare in modo decisivo la competizione tra i Paesi.
Nel quinquennio in esame le nazioni "ricche di risorse naturali hanno acquistato una quantità considerevole di aerei da guerra a prezzi molto elevati". A livello regionale, restano in testa per volume di importazioni Asia e Oceania (41 per cento), seguite da Europa (24 per cento), Medio Oriente (17 per cento), America (11 per cento) e Africa (7 per cento). E i pronostici sono tutti in salita. Sul fronte dell'offerta, gli Stati Uniti restano padroni del settore con il 30 per cento delle esportazioni, la gran parte delle quali rivolte alla Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti e Israele.
Alle spalle degli Stati Uniti la Russia, con il 23 per cento del mercato mondiale, e un export rivolto in particolare all'Asia e all'Oceania (che assorbono da sole il 69 per cento dell'offerta russa), ma anche India (Mosca ha venduto a New Delhi 82 aerei Su-30) e Algeria (28 caccia Su-30). In particolare, nella recente visita in India del premier russo, Vladimir Putin, sono stati siglati accordi per nuove forniture militari per 1,5 miliardi di dollari e l'intesa per l'ammodernamento (2,3 miliardi di dollari) della portaerei “Admiral Gorshkov”, che sarà consegnata all'India nel 2013. Notevoli, quindi, i crescenti impegni fuori area.
La Russia fornisce l'89 per cento delle armi acquistate dalla Cina. Al terzo posto si piazza la Germania, che ha visto incrementare il proprio export del 100 per cento rispetto al 2000-2004, passando da una quota del 6 per cento sul mercato mondiale all'attuale 11 per cento. I carri armati tedeschi sono particolarmente apprezzati e nel periodo preso in esame Berlino ha piazzato 1.700 veicoli corazzati in 21 Paesi, la gran parte dei quali europei. Al quarto posto la Francia, con un incremento del 30 per cento, che vende soprattutto gli aerei Mirage ma anche la tecnologia utile per i sottomarini nucleari. In controtendenza, al quinto posto, la Gran Bretagna che ha visto una flessione del 13 per cento nelle esportazioni, destinate in particolare a India e Arabia Saudita.
Tutto questo mentre ristagna il varo di un trattato internazionale sul commercio e sul traffico delle armi leggere. E questo nonostante che in questo settore si sia registrato - nel primo anno di presidenza di Barack Obama - un mutamento della politica statunitense. C’è in merito una analisi pubblicata dal Center for American Progress, istituto indipendente dai partiti. Nel documento si afferma che "con la presidenza Obama gli Stati Uniti hanno dimostrato la volontà di contribuire a elaborare un trattato sulle armi leggere". Lo scorso 30 ottobre, infatti, gli Stati Uniti si sono espressi a favore della risoluzione dell'Assemblea generale dell'Onu che fissa il 2012 come scadenza per l'adozione del Trattato sul commercio di armi (Att).
Nel documento si ricorda altresì che la diffusione delle armi leggere rappresenta una minaccia non solo per le società, ma anche per programmi di sviluppo e altre forme di assistenza agli Stati non in grado di controllare il territorio in modo efficace. La tesi di fondo dell'analisi dell'istituto statunitense è che ricreare le condizioni per uno sviluppo sostenibile in un ambiente dove le armi sono molto diffuse è un compito estremamente difficile, per assolvere il quale il governo di Washington potrebbe rivelarsi decisivo. Secondo il Center for American Progress, la nuova linea di Obama dovrà tradursi in impegni concreti sul piano sia della legislazione nazionale sia del negoziato internazionale.
"Controlli sulle esportazioni e valutazioni attente dei consumatori finali sono importanti”, si sostiene nell'analisi. Ma è altrettanto importante assicurarsi che le armi in eccedenza, obsolete e potenzialmente destabilizzanti, siano tolte dalla circolazione. Sono queste le armi spesso utilizzate nei conflitti brutali di Paesi come la Colombia, il Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, lo Sri Lanka o la Somalia". L’equilibrio planetario è, quindi, in pericolo.
Secondo le stime del Center for American Progress, oggi nel mondo ci sono circa 875 milioni di armi leggere, appena un terzo delle quali nelle mani di forze dell'ordine o di sicurezza riconosciute da un punto di vista legale. L'istituto statunitense porta a esempio il caso della Somalia, che nonostante numerose conferenze di pace e aiuti per miliardi di dollari, resta da vent'anni ostaggio della guerra civile in un mare di turbolenze. In Africa- come evidenziano le analisi delle diplomazie mondiali - le guerre civili sono cominciate subito dopo l'indipendenza dai Paesi colonizzatori, ma hanno avuto una vera e propria esplosione dopo il 1989, quando si sono ridotte le truppe e di conseguenza anche gli arsenali alle frontiere dell'ex guerra fredda.
In proposito ricordiamo che sedici governi africani sottoscrissero dodici anni fa una moratoria su importazione, esportazione e produzione di armi leggere. Rispettare oggi un simile accordo è di fatto impossibile, indipendentemente dalla credibilità di quei governi, in assenza di strumenti di controllo internazionale per rintracciare le origini di ogni singola arma.
C’è anche da dir che negli ultimi anni, lo sviluppo dell'industria locale degli armamenti in alcuni Paesi, soprattutto in Sud Africa, ha complicato ancora di più la questione. Tuttavia, il grosso resta d'origine extra africana. Nel 2001, l'Onu aveva adottato un piano per fermarne il commercio illecito, quello poi sfociato appunto nell'Att. Peraltro, secondo tutte le indagini internazionali - basti citare quelle dell'International Peace Research Institute di Stoccolma - risulta che i principali produttori di armi (tutte, non solo quelle leggere) sono, Gemania, Stati Uniti, Russia, Francia e Cina. Paesi tutti che hanno responsabilità planetarie. Ed è chiaro che non è così. Di conseguenza, con questa impennata del mercato delle armi la geopolitica è destinata a subire mutamenti molto prfofondi. E tutti di segno negativo.
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di Michele Paris
Dopo mesi di dure battaglie ed estenuanti trattative, di speranze e delusioni, il punto centrale del programma politico dell’amministrazione Obama è giunto in qualche modo in porto. Ad esultare per il voto definitivo della riforma sanitaria negli Stati Uniti, dopo l’approvazione di misura della Camera dei Rappresentanti nella notte tra domenica e lunedì, non saranno però tanto i cittadini americani, quanto un presidente e una maggioranza democratica che nelle prossime scadenze elettorali - rispettivamente nel 2012 e il prossimo novembre - avranno finalmente un risultato concreto da infilare nel proprio curriculum. Ma soprattutto, a beneficiare dei cambiamenti saranno le compagnie di assicurazioni private, le industrie farmaceutiche e gli ospedali che nel prossimo decennio incasseranno centinaia di miliardi di dollari sotto forma di sussidi federali passati a quei 32 milioni di americani a cui verrà estesa la copertura sanitaria.
La riforma fortemente voluta dalla Casa Bianca, infatti, non farà nulla per implementare oltreoceano un sistema sanitario pubblico universale come quello europeo o canadese. Oltre al fatto che da qui a dieci anni più di venti milioni di persone rimarranno ancora esclusi da qualsiasi genere di copertura (di cui un terzo saranno immigrati illegali), il nuovo sistema si baserà pressoché interamente sul mercato delle polizze private. I popolari programmi pubblici Medicare e Medicaid, rispettivamente per anziani e indigenti, pur rimanendo in vigore e in parte allargati, verranno colpiti da una serie di pesanti tagli che ne mineranno seriamente l’efficacia e finiranno per consolidare una sanità a doppio binario a seconda del reddito dei pazienti.
L’iter legislativo di una riforma che rimarrà comunque un episodio fondamentale nella storia dell’amministrazione Obama, ha avuto un andamento ben diverso da quello che i leader democratici e lo stesso presidente si immaginavano fino a pochi mesi fa. Dopo l’approvazione di due provvedimenti distinti sul finire dello scorso anno da parte della Camera dei Rappresentanti e del Senato, erano iniziati i lavori per giungere ad un pacchetto unico da sottoporre nuovamente al voto dei due rami del Congresso. Il clamoroso successo repubblicano in una speciale elezione in Massachusetts a metà gennaio, per scegliere il successore al Senato che era stato del defunto Ted Kennedy, aveva però improvvisamente cancellato la supermaggioranza democratica di 60 seggi nella Camera alta, necessaria a superare l’ostruzionismo dell’opposizione, bloccando il percorso della riforma.
Esposta alla totale opposizione repubblicana, la riforma appariva ormai sull’orlo del fallimento. Assorbito il trauma, Obama e la “speaker” della Camera, Nancy Pelosi, sono tuttavia riusciti a resuscitare il provvedimento e a lanciarlo verso la definitiva approvazione. La Camera bassa del Congresso, così, ha licenziato - con una maggioranza di 219 a 212 - l’identico testo a cui il Senato aveva dato l’OK alla vigilia di Natale. Contestualmente, i deputati americani hanno poi adottato una serie di modifiche allo stesso testo che nei prossimi giorni saranno inviate al Senato per l’approvazione tramite una speciale procedura (“reconciliation”) che richiede una maggioranza semplice di 51 voti a favore.
Quest’ultima manovra si è resa necessaria poiché un numero consistente di deputati democratici aveva mostrato forti resistenze alla versione del Senato. Anche con le modifiche adottate, il passaggio della riforma alla Camera è stato però possibile solo in seguito a fortissime pressioni esercitate sui rappresentati di maggioranza più recalcitranti (34 deputati democratici alla fine hanno comunque votato contro) da parte della Casa Bianca e dai vertici del Partito Democratico.
Ad assicurare i voti necessari al passaggio della riforma è stata infine una trattativa dell’ultimo minuto con i democratici antiabortisti, guidati dal deputato del Michigan Bart Stupak. Contrari al linguaggio - a loro parere troppo poco restrittivo sul finanziamento federale dell’aborto contenuto nel testo del Senato - i parlamentari “pro-life” hanno ottenuto la promessa di Obama di firmare un decreto presidenziale che impedirà ai beneficiari di sussidi governativi (cioè le donne con i redditi più bassi) di acquistare polizze private che offriranno l’interruzione di gravidanza.
La riforma Obama costerà 938 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, ma determinerà una riduzione del deficit federale di 143 miliardi grazie ai tagli previsti per il programma Medicare e a nuove tasse sui piani di copertura sanitaria più costosi e sui redditi più elevati. Scongiurato l’incubo delle compagnie di assicurazione - un piano di copertura pubblico gestito dal governo federale - la metà circa dei 32 milioni di americani attualmente scoperti otterrà una polizza tramite il programma pubblico Medicaid, mentre il resto finirà nel mercato privato.
Uno dei pochi aspetti positivi della riforma è che essa impedirà alle compagnie private, a partire dal 2014, di negare la copertura sanitaria a pazienti con condizioni di malattia pre-esistenti. Tale divieto sarà invece già operativo tra qualche mese per quanto riguarda i bambini, così come quello che proibirà alle stesse compagnie assicurative di cancellare una polizza ad un cliente nel momento in cui si ammala.
L’acquisto di una polizza sarà poi obbligatorio per quasi tutti gli americani, pena il pagamento di una penale il cui importo aumenterà con il trascorrere degli anni. L’obbligo di acquisto è stato molto discusso negli USA e si è reso necessario per consentire alle assicurazioni private di contare su maggiori entrate per bilanciare i maggiori esborsi da sostenere dovendo garantire la copertura anche a soggetti “a rischio”. Anche le aziende più grandi saranno tenute ad offrire un piano di copertura ai loro dipendenti se non vorranno pagare una sanzione, che appare in ogni caso irrisoria. Per quelle più piccole sono previsti invece crediti d’imposta per favorire la stipula di nuove polizze.
Per quanti non otterranno la copertura sanitaria tramite il proprio datore di lavoro e per i malati cronici, sempre dal 2014 saranno disponibili altre polizze private acquistabili in un mercato regolato a livello federale ma stabilito da ogni singolo stato americano (“insurance exchanges”). Per quanto riguarda la copertura finanziaria del provvedimento, dal 2013, singoli e famiglie con redditi elevati verranno gravati da una modesta tassa sui loro redditi finanziari. Per le polizze più costose, i cosiddetti “Cadillac plans”, al di sopra di una certa soglia scatterà poi una pesante tassa, fortemente contestata dai sindacati perché andrà a colpire soprattutto i lavoratori specializzati.
La firma di Obama sulla riforma, in attesa delle modifiche che il Senato dovrà approvare, arriverà già nella giornata di martedì, assieme al prevedibile inizio di una campagna di entrambi gli schieramenti per mettere in evidenza, da un lato, i presunti benefici del provvedimento per gli americani e, dall’altro, i danni che invece causerà soprattutto alle finanze federali. I repubblicani, infatti, hanno già fatto sapere che utilizzeranno il voto sulla riforma sanitaria per attaccare i candidati democratici più vulnerabili nelle elezioni di medio termine per il Congresso.
Ben lontana dal rappresentare quella vittoria nei confronti dei grandi interessi proclamata da Obama subito dopo il voto o dal reggere un confronto con l’approvazione delle leggi sulla sicurezza sociale (nel 1935) e del programma federale Medicare (nel 1965) - ottenuti rispettivamente grazie a mobilitazioni di massa dei lavoratori e nell’ambito della lotta per i diritti civili - questa riforma è stata imposta in realtà dalla classe politica democratica e dai grandi interessi economici preoccupati principalmente per la crescita incontrollata della spesa sanitaria.
In un clima politico avvelenato da laceranti divisioni di parte e, soprattutto, dominato dall’influenza delle lobby dei grandi interessi privati, tuttavia, la riforma approvata domenica appare forse come il risultato massimo a cui il presidente Obama poteva realisticamente ambire.
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di Eugenio Roscini Vitali
La chiusura era prevista per il prossimo dicembre ma con una decisione non proprio a sorpresa, alla fine dello scorso anno, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha esteso il mandato del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPIJ) a tutto il 2012; il che significa che all’Aja la giustizia avrà a disposizione altri ventiquattro mesi per far luce sugli efferati crimini commessi in Bosnia tra il 1992 e il 1996. La strategia dell’autodifesa scelta dagli imputati e il pericolo che il processo si trasformi in uno scontro ideologico, nonché il dibattito che ancora divide l’opinione pubblica serba e la latitanza di due tra i principali accusati, sono però fattori per i quali i prossimi due anni potrebbero essere non sufficienti a rendere giustizia ai 100 mila morti e ai 2,2 milioni di profughi che uno dei più sanguinosi e brutali conflitti dei nostri tempi ha causato.
Nelle scorse settimane, oltre alla clandestinità di Ratko Mladic e Goran Hadzic e alla strategia processuale dell’ex leader politico dei serbo-bosniaci, Radovan Karadzic, il TPIJ ha incontrato un altro ostacolo: la liberazione da parte delle autorità britanniche di Ejup Ganic, ex membro musulmano della presidenza della Bosnia-Erzegovina, arrestato all'aeroporto londinese di Heathrow su richiesta preliminare della Serbia e rilasciato tre giorni dopo su ordine dell’Alta Corte britannica. I legali di Ganic, accusato insieme a Stjepan Kljujic e ad altri 17 membri dell’esercito della Repubblica di Bosnia-Erzegovina di aver partecipato al massacro di 42 militari jugoslavi, barbaramente uccisi in un agguato avvenuto tra il 2 e il 3 maggio 1992 lungo la strada Dobrovoljacka, a Sarajevo, sostengono che l’azione legale intrapresa da Belgrado è mossa da motivazioni puramente politiche. Ma la Serbia non sembra voler cedere e il vice premier, nonché Ministro dell’Interno, Ivica Dacic, ha già dichiarato che l’offensiva diplomatica non avrà fine fin quando Ejup Ganic non verrà estradare in Serbia.
Nel 2003 il Tribunale penale dell'Aja aveva già esaminato il fascicolo Ganic, senza comunque trovare elementi di reato o di responsabilità penale sufficienti a procedere ad una incriminazione. Ora le cose sembrerebbero cambiate: il Ministero della Giustizia della Repubblica di Serbia avrebbe infatti inoltrato la domanda per l’estradizione dell'ex leader bosniaco in base all’ampia documentazione raccolta dal Consiglio per i delitti di guerra della Corte suprema di Belgrado, che dal dicembre 2008 indaga sui fatti accaduti a Sarajevo nel 1992.
Secondo i serbi, oltre ad essere uno degli organizzatori dell’assalto in via Dobrovoljacka, Ganic avrebbe fatto parte del comando operativo che in quei giorni ordinò l’attacco contro l’ospedale militare della capitale bosniaca, gestito dalle autorità jugoslave, contro una colonna di ambulanze e contro gli alloggi riservati ai militari dell'Esercito popolare di Jugoslavia; tutto questo mentre Belgrado stava procedendo al ritiro pacifico delle proprie truppe dalla Bosnia-Erzegovina.
All’inizio di marzo la giustizia internazionale ha fatto registrare altri due eventi certamente importanti: l’ennesima sospensione del processo Karadzic e l’arrestato di Veselin Vlahovic, alias Batko, conosciuto anche come “il mostro di Grbvavica”, presunto criminale di guerra accusato di strage e torture, fermato in Spagna nell’ambito di un’inchiesta sulle organizzazioni malavitose provenienti dall’Europa dell’est. A venti mesi dal suo arresto, il “guru” della medicina alternativa, Dragan David Dabic, al secolo Radovan Karadzic, è invece riuscito ad ottenere un nuovo aggiornamento dell’udienza nella quale dovevano comparire i primi testimoni delle violenze perpetrate durante il conflitto balcanico dalle unità paramilitari serbo-bosniache.
Nel processo appena iniziato, Karadzic usa la stessa tattica di Slobodan Milosevic e dell’ideologo delle pulizie etniche nei Balcani, Vojislav Seselj, anche lui accusato di crimini contro l’umanità. Come loro ha scelto la strada dell’autodifesa, garantita dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966 (art. 14 par. 3) e, ritenendo la Corte pregiudizievole, continua a non riconoscere l’autorità della stessa. E’ lecito pensare quindi che i presupposti perché il procedimento vada avanti ancora parecchi anni ci sono tutti: il procedimento contro Seselj, in carcere in Olanda dal 26 febbraio 2003, è iniziato solo il 27 novembre 2006 e dopo lunghe schermaglie procedurali è ben lungi dal potersi ritenere concluso; Milosevic è invece morto per arresto cardiaco nella sua cella quattro anni dopo l’avvio di un’azione giuridica che tecnicamente era ancora ferma alle fasi iniziali.
La mossa di Karadzic, che vuole ottenere una copertura mediatica il più ampia possibile, soprattutto in Serbia e in Bosnia Erzegovina, è quindi mirata a guadagnare tempo. Per questo parla massacro di Srebenica come di una “leggenda” e del conflitto bosniaco come di “una guerra giusta e santa”, e cerca di spostare il dibattito su un piano politico ed ideologico arrivando a definire l’assedio a Sarajevo, 44 mesi di bombardamenti che hanno causato 10 mila morti e 56 mila feriti, come una mossa orchestrata dai musulmani per costringere la Nato ad intervenire. Karadzic in pratica tenta la carta della riabilitazione politica, non gli interessa il verdetto e vuole essere ricordato come un eroe.
Il percorso tortuoso della giustizia deve anche fare i conti con casi che mettono in discussione la stessa autorità del TPIJ, come le vicende che coinvolgono la giornalista francese Florence Hartmann e l'ex vice di Karadzic, Biljana Plavsic. La prima è stata condannata nel settembre scorso per aver pubblicato informazioni riservate, richiamando in realtà l’attenzione sulle responsabilità del governo serbo nel massacro di Srebrenica e sul silenzio del Tribunale internazionale che, nonostante gli obblighi, non avrebbe garantito ai legali delle vittime il diritto di accesso alla documentazione in suo possesso.
Ma ancora più sconcertante è la liberazione per buona condotta di Biljana Plavsic, uscita dal carcere svedese di Hinseberg dopo aver scontato solo 7 anni degli 11 anni di reclusione inflittigli il 27 febbraio 2003 dal TPIJ. Consegnatasi alla giustizia nel 2001, l’ex professoressa di biologia all’Università di Sarajevo, nota per aver dichiarato che i musulmani erano un “difetto genetico del corpo serbo” e per aver definito la pulizia etnica come un “fenomeno naturale”, era stata condannata per di crimini di guerra e genocidio ed aveva ottenuto un notevole sconto di pena in cambio di un’ammissione di colpa e del pubblico pentimento avvenuto durante il suo processo.
La Plavsic, conosciuta per aver posato per i media a fianco del paramilitare serbo Zeljko Raznatovic Arkan, mentre sullo sfondo giacevano i corpi dei civili uccisi durante la “conquista” di Bijeljina, è la dimostrazione pratica di come anche il genocidio è un crimine che tecnicamente può essere patteggiato e di come si può tornata a casa ed essere accolti come un eroe. E probabilmente è proprio questo l’obiettivo “dell’artigiano” della pulizia etnica, Radovan Karadzic, che dall’Olanda riesce ancora a dividere l’opinione pubblica serba. A Belgrado il presidente Tadic sta infatti cercando di ottenere dal parlamento l’adozione di una risoluzione su Srebrenica, un atto di condanna del massacro materialmente eseguito dagli uomini di Ratko Mladic che però lascia spazio a numerose speculazioni.
Lo scontro, che coinvolge i media e gran parte degli ambienti politici ed intellettuali, riguarda soprattutto la questione sul termine da utilizzare: genocidio o crimine atroce. Ma c’è anche chi s’interroga sul perché il presidente Tadic abbia iniziato a parlare solo oggi di Risoluzione Srebrenica: bisogno di sostegno da parte della comunità internazionale all’ingresso nell’Unione Europea della Serbia o un modo per evitare le conseguenze della mancata consegna di Ratko Mladic e Goran Hadzic al TPIJ?
In realtà, nonostante gli sforzi della nuova classe dirigente, in Serbia l’opinione pubblica subisce ancora le conseguenze della sistematica propaganda fatta negli anni Novanta dal regime politico di Milosevic, bugie e cose non dette che a distanza di più di un decennio trovano ancora credito in molti strati della società. E così, nel 2010, a Belgrado ci sono persone che non credono all’assedio di Sarajevo o che sulla strage di Srebrenica conoscono una verità totalmente falsata. Esistono poi ambienti culturali dove vengono promosse idee nazionaliste, incluso un forte sentimento di avversione verso la giustizia internazionale, e dove la Risoluzione proposta da Tadic viene vista come un “tradimento”, una sorta di una “confessione” che, nonostante la sentenza del 2007, riaprirebbe la questione bosniaca a danno della Serbia.