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di Michele Paris
La scorsa settimana una oscura manovra all’interno del Partito Laburista australiano (ALP) ha deposto il primo ministro eletto Kevin Rudd, sostituendolo con la sua vice, Julia Gillard. Per la maggior parte dei media internazionali, la vicenda ha rappresentato la logica conseguenza del presunto crollo nei consensi tra l’elettorato dell’ormai ex capo del governo. Dietro all’ascesa al potere della prima donna premier dell’Australia è andato in scena invece un vero e proprio golpe, orchestrato dai vertici dei colossi dell’industria mineraria che vedevano minacciati i loro profitti miliardari.
I problemi per Kevin Rudd erano iniziati alla fine del 2009, in seguito al mancato appoggio parlamentare al suo progetto per una nuova legge sul controllo delle emissioni in atmosfera che era stato al centro della vittoriosa campagna elettorale del 2007. Il passaggio di questa legge era stato reso pressoché impossibile dal cambio della guardia alla guida del Partito Liberale all’opposizione dopo una campagna anti-riforma alimentata dalle stesse aziende estrattive e dai grandi interessi economici australiani.
Qualche mese più tardi, oltre al definitivo ritiro del provvedimento sulle emissioni in atmosfera, alla presentazione del bilancio per il nuovo anno fiscale, Rudd avrebbe fatto poi il decisivo passo falso sulla strada verso la sua rimozione. La proposta di una tassa speciale sui profitti delle compagnie operanti nel settore estrattivo (Resource Super Profits Tax, RSPT), il più importante comparto economico del paese, ha infatti dato vita ad una furiosa campagna di opposizione che ha trovato la propria naturale cassa di risonanza nei media di proprietà di Rupert Murdoch.
Allo stesso tempo, ricalcando una strategia già vista altrove, i giornali conservatori e le élites finanziarie hanno moltiplicato le loro critiche, cominciando a chiedere il ritiro delle misure di stimolo all’economia adottate per fronteggiare la crisi per sostituirle con tagli alla spesa pubblica.
Sui media pro-business si è cominciato anche ad elogiare le credenziali della vice-premier Julia Gillard, già protagonista dell’introduzione di misure volte a comprimere i diritti dei lavoratori nelle relazioni industriali e in grado di fronteggiare l’opposizione degli insegnanti durante un confronto su alcune misure relative al sistema scolastico australiano. Contestualmente, le organizzazioni sindacali allineate con i laburisti e i dirigenti delle fazioni della destra del partito hanno iniziato a preparare il cambio al vertice del Labor.
Da parte sua, Julia Gillard ha fino all’ultimo annunciato di non voler correre per la leadership del partito e per il posto di primo ministro. Finché, un ultimo vertice del Partito Laburista, ha di fatto sfiduciato Kevin Rudd che, posto di fronte al fatto compiuto, ha rinunciato alla propria carica lasciando strada alla sua vice che ha finito per cedere alle pressioni che la volevano alla guida del nuovo governo.
La vera e propria cospirazione dietro alla fine politica di Rudd ha come protagoniste principali le tre più importanti multinazionali australiane che operano nel settore estrattivo. BHP Billiton, Rio Tinto e la compagnia svizzera con forti interessi in Australia, Xstrata; in spregio delle regole democratiche, sono state in prima linea nel mettere in scena una campagna costata oltre 100 milioni di dollari per far cadere un governo legittimamente eletto.
Già osannato dalla stampa e accreditato di consensi da record all’inizio del suo mandato, l’ormai ex primo ministro laburista ha a poco a poco perso la fiducia dei poteri forti del paese e i media hanno iniziato a diffondere sondaggi che davano il suo governo in caduta libera sul fronte del gradimento popolare.
Una volta insediatasi, la nuova premier si è affrettata a rispondere al diktat delle compagnie estrattive che l’hanno proiettata verso la nuova carica. Dopo un parziale rimpasto di governo, Julia Gillard ha annunciato di voler rivedere le condizioni di applicazione della “super tassa” sui profitti delle multinazionali minerarie. Ciò che queste ultime pretendono, in ogni caso, è una consistente riduzione dell’impatto della tassa stessa.
Rivelando minacciosamente il ruolo da esse svolto nel colpo di mano ai danni del governo Rudd, in un’intervista al giornale The Australian (gruppo Murdoch) il presidente di un’altra azienda del settore ha dichiarato: “Sarebbe vergognoso se il risultato finale della negoziazione tra il governo Gillard e l’industria mineraria risultasse simile a quanto era stato stabilito quando Rudd era primo ministro. In tal caso, la sua uscita di scena sarebbe stata inutile”.
La “super tassa” sui profitti, peraltro, non rispondeva se non in minima parte all’obiettivo propagandato da Rudd di ridistribuire una fetta delle ricchezze australiane ai suoi abitanti. I proventi programmati sarebbero andati piuttosto a coprire, tra l’altro, un taglio del 2 per cento del carico fiscale delle corporation e le spese per la creazione d’infrastrutture destinate a migliorare le esportazioni dalle regioni minerarie verso i mercati internazionali. Questi stessi progetti saranno ora nuovamente all’ordine del giorno del governo Gillard, così come il pareggio di bilancio entro il 2013, e a finanziarli sarà una consistente sforbiciata alla spesa pubblica.
All’interno del Partito Laburista australiano, intanto, rimangono profonde divisioni circa la data delle prossime elezioni politiche, che molti tra i protagonisti della deposizione di Rudd vorrebbero già il prossimo mese di agosto. Un’impazienza dettata dal desiderio di evitare un dibattito pubblico prolungato sulla stessa cospirazione ai danni del precedente governo e sulla politica economica di quello appena insediato. La manovra avallata dai laburisti, in ogni caso, ha già prodotto un profondo malcontento tra gli elettori e, al di là della data del voto, nulla potrà evitare al partito di governo una sonora sconfitta nella prossima consultazione elettorale.
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di Carlo Musilli
Un rapporto estremamente critico sulla situazione dell’Afghanistan presentato ai ministri della difesa della Nato e all’Isaf (International Security Assistance Force) è cosa ben diversa da una delirante intervista rilasciata a un periodico musicale. E ci aiuta a capire meglio come abbia fatto il generale Stanley McChrystal a trasformarsi da soldato di ferro in semplice civile nel giro di una settimana. Dopo essersi dimesso dal comando delle forze Nato in Afghanistan, il generale ha infatti deciso di lasciare anche l’esercito americano, svestendo la divisa indossata per 34 anni.
Ufficialmente, la caduta di McChrystal è stata attribuita alle dichiarazioni riportate dal magazine Rolling Stone, in cui il generale sparava a zero su governo e amministrazione Obama. Risultava però difficile capire come un uomo del genere, tutt’altro che sprovveduto, avesse potuto farsi raggirare con tanta leggerezza da un pur bravo reporter. Fortunatamente l’Indipendent online ci è venuto in socorso, rivelandoci del rapporto alla Nato e all’Isaf.
Stando alle fonti militari del quotidiano inglese, McChrystal presenta un quadro “devastante” dello scenario afgano. Il generale parla di “una ribellione in forte crescita” e avverte che “non ci saranno progressi per i prossimi sei mesi”. La sicurezza è il punto più critico: a causa della grave mancanza di addestramento, meno di un terzo dell’esercito afgano e solo il 12% della polizia può essere considerato davvero efficiente. Sono pochissime le aree del paese classificate come “sicure” (5 su 116) e ancor meno quelle “sotto il pieno controllo del governo” (5 su 122).
Un governo definito da McChrystal “inefficace e screditato”, incapace di far fronte alle esigenze dei cittadini perché schiacciato sotto il peso di una “corruzione cronica”, un virus che infetta ad ogni livello anche il sistema giudiziario. L’Afghanistan è poi diventato “sempre più dipendente dagli aiuti della comunità internazionale” e quindi non sembra in grado di “creare le condizioni per lo sviluppo”, soprattutto al sud, la zona più povera.
Un resoconto disperante quello del generale, ma più che verosimile. Forse un po’ troppo per non diventare un ostacolo alla politica di Barack Obama, che vorrebbe iniziare il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan nel 2011, in modo da far salire le sue quotazioni per le elezioni presidenziali del 2012. La guerra comincia infatti a costare troppo: in termini economici (siamo arrivati a 7 miliardi di dollari al mese), ma soprattutto in termini umani. Giugno 2010 è stato il mese più nero in 8 anni e mezzo di conflitto, con 88 morti fino ad oggi. Dall’inizio dell’anno le vittime fra i militari (non soltanto americani) sono 62, quasi il doppio rispetto ai 32 nei primi sei mesi del 2009.
È evidente come al Presidente americano convenga tagliare i costi di una guerra che sta dando scarsi risultati e riportare negli Stati Uniti quanti più ragazzi possibile. Ma dovrà essere un ritiro, non una ritirata. O quantomeno non dovrà sembrarlo. E per salvare la faccia domani, quando arriverà il momento di tornare a casa, oggi non conviene essere troppo schietti e dettagliati sulla reale situazione in Afghanistan.
Non conviene che un generale ragioni della permanenza militare americana in termini di anni, quando la Casa Bianca preferisce parlare di mesi. E sicuramente non convengono le dichiarazioni disfattiste, come quella del portavoce della Nato che, commentando il rapporto di McChrystal, ha detto: “Non credo che nessuno possa dire che stiamo vincendo”.
L’intervista del generale a Rolling Stone non è stata quindi un incidente, ma un’opportunità per Obama, perché gli ha consentito di “eliminare l’opposizione ai suoi piani senza dover affrontare alcun dibattito”, come spiega ancora una fonte militare citata dall’Indipendent. Scartando l’ipotesi dell’errore, resta da spiegare perché McChrystal abbia deciso di gridare al mondo quelle frasi al vetriolo contro Obama e i suoi uomini. È vero, ha soffocato da solo la propria voce d’opposizione. Ma chissà che nel 2012 non ritorni, in forma nuova.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. L’autorità statunitense U.S. Geological Survey ha confermato di recente che il sottosuolo afghano custodisce materie prime per un valore complessivo di 1000 miliardi di dollari. Tra queste ricchezze sono presenti soprattutto rame, litio, ferro, oro, cobalto e terre rare: elementi talmente preziosi per la società contemporanea da trasformare l’Afghanistan in una vera e propria lampada di Aladino per ogni Paese industriale del mondo. Ma le sorprese non sono finite: gli ultimi sviluppi mostrano che in Afghanistan la quantità di petrolio è 18 volte superiore a quanto stimato nel 2001.
Secondo i geologi, l’Afghanistan ha le tutte le carte in regola per diventare “l’Arabia Saudita del litio”: un ruolo no da poco, se si considera che il litio è il materiale utilizzato per le batterie ricaricabili di cellulari, portatili e auto elettriche. Tra le terre rare nascoste nel Paese mediorientale, inoltre, ci sarebbe il gallio, elemento necessario alla produzione delle celle solari negli impianti fotovoltaici. In sostanza, nonostante la sua attuale povertà, l’Afghanistan sembra essere destinato a diventare uno dei più importanti giacimenti del futuro, poiché la quantità di materie prime è tanto elevata da poterlo rendere una delle nazioni esportatrici più potenti.
I depositi sono stati scoperti grazie al materiale cartografico raccolto dagli esperti minerari dell’ex-Unione Sovietica durante l’occupazione dell’Afghanistan degli anni ’80. Dopo il ritiro delle truppe russe, i geologi indigeni hanno conservato il materiale in via del tutto personale e l’hanno depositato negli archivi statali solo nel 2001, dopo la caduta del regime talebano. Secondo le notizie ufficiali, i dati sul sottosuolo afghano sarebbero stati trovati soltanto nel 2004 dagli studiosi nordamericani e divulgati, poi, nel 2007. L’interesse pubblico, tuttavia, sembra essersi rivolto alle ricchezze dell’Afghanistan solo oggi, dopo che il quotidiano statunitense New York Times ha scritto un articolo al riguardo.
Il presidente afghano Hamid Karsai, da parte sua, considera la scoperta una buona notizia: un suo portavoce l’ha definita addirittura “la migliore notizia degli ultimi anni per l’Afghanistan”. Gli esperti, tuttavia, dubitano che lo sfruttamento di queste risorse possa avvenire in maniera liscia, corretta e indolore. La posta in gioco è alta e le esperienze passate e presenti insegnano a diffidare di ogni buon proposito in certe situazioni: è una storia vecchia come il mondo che, purtroppo, non sembra interrompere mai il suo ciclo diabolico.
Per estrarre le materie prime servono investimenti enormi: l’Afghanistan è politicamente instabile e non ha infrastrutture statali qualificate per le operazioni. Inoltre, il rischio corruzione è alto: nel 2009 il Ministro per le risorse minerarie afghano si è dovuto dimettere proprio a causa di una tangente di 30 milioni di dollari ricevuta da un’azienda cinese per l’esclusiva dell’estrazione del rame, privilegio tuttora in vigore.
L’amministrazione statunitense ha già predisposto una commissione di esperti internazionali in attività minerarie per la consulenza del Governo afghano in materia. Che l’intromissione si sviluppi positivamente, purtroppo, è discutibile: gli Stati Uniti, così come i Paesi del mondo tutti, hanno i loro interessi economici da difendere. Inoltre, le esperienze in Congo e Nigeria mostrano come dalle grandi ricchezze del sottosuolo e dall’intervento degli europei non si siano sviluppati che conflitti etnici e grossolana corruzione. Risultato immancabile è l’inasprimento delle disuguaglianze fra i pochi ricchissimi e la massa di poverissimi, tipico quadro delle società africane che - purtroppo - da parecchio tempo non fa più notizia.
Da non dimenticare, in tutto questo, la caratteristica principale per cui è conosciuto l’Afghanistan, e cioè la cosiddetta Enduring Freedom (OEF), la “missione di pace” con cui Nato e Usa vogliono liberare la nazione (e il mondo) dai malefici talebani. La notizia delle ricchezze del sottosuolo afghano ha offerto ai numerosi critici dell’OEF un’ulteriore chance per ribadire le loro accuse di sporco doppio gioco nei confronti delle forze armate che occupano Kabul: le truppe Nato sarebbero in Afghanistan per difendere le materie prime e i loro interessi economici, più che la democrazia e il popolo semplice.
Per i più maliziosi, tuttavia, le prospettive di ricchezza dell’Afghanistan sono servite semplicemente da specchietto per le allodole mediatico. La settimana scorsa, infatti, l’allora comandante generale delle truppe Nato in Afghanistan, Stanley McChrystal, aveva accennato a un’interruzione dell’offensiva nella provincia di Helmand (Sud-Est dell’Afghanistan) e a un rinvio - a chissà quando - dell’avanzata nella provincia di Kandahar (Sud). Affermazioni che, come scrive il quotidiano berlinese Tagesspiegel, suonano come una “dichiarazione di bancarotta”: la notizia ricchezze dell’Afghanistan avrebbe cercato di nascondere prepotentemente l’insicurezza umana di un momento, un’esitazione che gli Stati Uniti non si possono permettere.
Se queste voci siano solo malignità, è tutto da dimostrare. Di certezze, invece, ve sono almeno due: in Afghanistan stazionano attualmente 100mila soldati Nato, di cui 3150 italiani e 4300 tedeschi, e l’onnipotente generale McChrystal è stato “licenziato”. E, mentre i grandi sono impegnati a Toronto per cambiare le regole di gioco dell’economia e i piccoli si commuovono per i mondiali in Sudafrica, in altri angoli di mondo la quotidianità sembra continuare il suo corso, paradossalmente offuscata dai media stessi.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Tutti se lo chiedono: cosa c'è dietro l'assurda sparata del generale americano contro Obama, che gli è costata il posto di comandante in capo della missione internazionale in Afghanistan? Non sarà che lo scaltro ex-comandante stia per scendere in campo contro il Presidente stesso nel 2012? Nel frattempo, McChrystal appende l'uniforme al chiodo. L'intervista del generale McChrystal a Rolling Stone è caduta come un fulmine a ciel sereno sulla Casa Bianca e sulle centomila truppe americane in Afghanistan. Anche se le avvisaglie non erano mancate: nei mesi scorsi il generale non ha perso occasione per mettersi in mostra e tirare il Presidente per la giacca. Il più clamoroso episodio riguarda la discussione sull'escalation di soldati alla fine dello scorso anno.
Poco dopo essere stato dichiarato comandante della missione afghana, in un chiaro tentativo di forzare la mano al Presidente, il generale aveva fatto trapelare alla stampa un suo rapporto riservato in cui chiedeva 40.000 soldati in più. Prima che Obama prendesse la decisione sull'aumento di truppe, McChrystal si presentava alla NATO per chiedere più truppe agli alleati, senza mandato del Presidente.
Ma con la sua esilarante intervista a Rolling Stone, il generale ha passato il segno. Non resta da chiedersi come mai abbia deciso di farsi licenziare di punto in bianco. Perché non c'è alcun dubbio che il generale abbia riflettuto a lungo prima di farsi sentire e permettere ai suoi collaboratori di parlare a ruota libera. Il direttore di Rolling Stone ha infatti confermato in diretta tv che il testo integrale è stato preventivamente approvato dal generale. Dunque non si tratta di interviste estorte a notte fonda dopo la quinta birra.
Non resta che una spiegazione: Stanley McChrystal aveva deciso di farsi licenziare. Se avesse abbandonato il posto di comando avrebbe rischiato la gogna mediatica e il disonore; ha perciò scelto l'antica tecnica dell'insubordinazione, insultare il Presidente e non lasciargli altra scelta. “Adoro i piani ben riusciti”, direbbe il generale se fosse Hannibal dell'A-Team. Ma qual è il movente?
Un particolare ci porta sulla buona strada: il nuovo comandante in capo in Afghanistan, nominato seduta stante dal Presidente, è il celebre David Petraeus, artefice della stabilizzazione irachena grazie alla strategia della controinsurrezione. I rumori di Washington davano Petraeus in pole position per le primarie repubblicane nel 2012. Solo un vero e proprio eroe di guerra potrebbe insidiare la rielezione di Obama. Ma ora il generale è fuori gioco, ci mancherebbe solo che lasci il posto anche lui: forse gli Stati Uniti ritirerebbero finalmente le truppe per manifesta incapacità.
Dunque non resta che McChrystal: curriculum da eroe di guerra, adorato dalle truppe, sempre pronto a scendere tra le prime linee, fine stratega. Mancava solo un ultimo dettaglio per fare presa sull'elettorato di destra: lo scontro con il Presidente. Da cui, nell'immaginario di Fox News e dei Tea Parties, McChrystal esce a testa alta.
Lunedì il generale ha annunciato l'intenzione di andare in pensione, ma a cinquantacinque anni non gli resta che aspettare qualche mese per mettere a frutto l'enorme popolarità di cui gode in patria e scendere in campo, questa volta in borghese. Magari scegliendo come vicepresidente ancora una volta Sarah Palin, per il ticket perfetto: eroe di guerra per l'elettorato moderato e celebrità svitata per l'estrema destra religiosa.
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di Michele Paris
Il primo dei due summit annuali del G-20, andato in scena nel fine settimana a Toronto, ha messo in luce in maniera drammatica le profonde divisioni che attraversano i paesi più industrializzati all’indomani della gravissima crisi economica planetaria. Alla ricerca di un impossibile compromesso tra maggiore spesa pubblica per stimolare l’economia e misure di austerity per ridurre il deficit, i leader di governo riuniti in Canada hanno finito per accordarsi su una dichiarazione finale inconsistente e contraddittoria. Allo stesso tempo, i sia pur deboli provvedimenti previsti per regolare il sistema bancario internazionale, sono stati ancora una volta messi da parte.
Ad anticipare il principale conflitto che ha messo di fronte la Germania e i paesi europei agli Stati Uniti, era stata una lettera indirizzata alla vigilia del vertice dal presidente Obama agli altri membri del G-20. Nella missiva, Washington metteva in guardia dagli effetti negativi sulla ripresa economica prodotti dalle misure di riduzione del debito, adottate da fin troppi governi da questa parte dell’oceano. Per incoraggiare le esportazioni americane, la casa Bianca invitava in particolare Germania e Cina - i due maggiori paesi esportatori - ad incrementare la propria domanda interna.
Con lo spettro della Grecia e il diktat delle grandi banche e dei mercati finanziari, in Europa si è però ormai scelta la strada dei tagli alla spesa pubblica e del “consolidamento” del debito sovrano. Con Berlino e Londra a guidare la febbre del deficit - entrambi i governi conservatori hanno recentemente introdotto tagli indiscriminati alla loro spesa - la maggioranza dei venti paesi più avanzati ha finito allora per convergere sostanzialmente sulla proposta del primo ministro canadese, Stephen Harper. Il comunicato ufficiale ha così sancito il ritorno alle misure di austerità dopo il breve periodo di “deficit spending” seguito all’esplosione della bolla finanziaria dell’autunno del 2008.
Gli obiettivi ufficialmente fissati dal G-20 sono il dimezzamento del passivo di bilancio dei paesi membri entro il 2013 e la stabilizzazione del loro rapporto tra debito e PIL entro il 2016. Di fronte alle perplessità di Stati Uniti, Brasile, India, Giappone e altri paesi, tali obiettivi non saranno però vincolanti ed ogni governo sarà libero di intraprendere provvedimenti su misura per ridurre i rispettivi deficit. Ogni governo, in definitiva, sceglierà autonomamente il proprio percorso per uscire dalla crisi, con buona pace della necessità di stabilire regole in maniera condivisa per scongiurare nuovi rovesci dell’economia mondiale.
Ancora a sottolineare le divisioni e il tentativo di conciliare due visioni opposte, nel documento finale del summit, su richiesta americana, è stato inserito un passaggio che evidenzia come ci sia “il rischio che una serie di aggiustamenti finanziari [tagli] sincronizzati messi in atto dalle maggiori economie possano mettere a repentaglio la ripresa”. Ciò riflette l’ammonimento del Segretario al Tesoro USA, Tim Geithner, il quale aveva chiesto un approccio misurato alla riduzione del debito, così da non ostacolare la ripresa e gettare l’economia mondiale in una nuova fase di recessione. Nonostante i proclami, tuttavia, gli scrupoli di Washington sono rivolti agli altri paesi, dal momento che proprio la scorsa settimana al Congresso è stato bocciato un nuovo pacchetto di stimolo all’economia e di sostegno alla disoccupazione.
Se il numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, ha elogiato l’esito del G-20, rassicurando che i tagli che stanno per abbattersi sui lavoratori e la classe media in Europa e negli Stati Uniti non provocheranno una nuova recessione, sembra essere precisamente quest’ultimo scenario ad attenderci nel prossimo futuro. Il taglio della spesa pubblica in un periodo di crisi non fa altro che indebolire ulteriormente un’economia già fragile, comprimere gli investimenti e ridurre le entrate fiscali dei vari paesi.
Oggi, insomma, si stanno ripetendo i medesimi errori che portarono ad un aggravamento della crisi economica nei primi anni successivi al crollo del 1929, come ha ricordato il premio Nobel Joseph Stiglitz in un’intervista al giornale inglese The Independent. Ma si stanno ripercorrendo anche le orme del FMI quando, tra gli anni Ottanta e Novanta, impose pesanti politiche restrittive all’Argentina, all’Indonesia e a molti altri paesi in via di sviluppo causando più danni che benefici. Una politica dettata principalmente dal rigore ideologico di un’élite dirigente incapace di vedere le conseguenze devastanti prodotte dalla compressione della spesa, dal taglio dei servizi e dal ridimensionamento dell’intervento pubblico nell’economia su decine di milioni di persone.
I fantasmi della Grande Depressione sono stati rievocati sul New York Times anche da un altro Nobel per l’economia, Paul Krugman, il quale, dopo aver criticato l’esito “profondamente scoraggiante” del G-20 canadese, ha preannunciato una imminente terza depressione, dopo quelle del cosiddetto “Panico del 1873” e appunto quella degli anni Trenta del secolo scorso. L’ossessione per un inesistente pericolo inflazione e per misure di contenimento del deficit, quando il vero problema è in realtà un livello inadeguato di spesa pubblica, non potranno che condurre ad un prolungato periodo di stagnazione, disoccupazione di massa e gravi sofferenze per i redditi più bassi.
Sul fronte della regolamentazione del sistema bancario, infine, tutto è stato rinviato al prossimo summit che si terrà a Seoul, in Corea del Sud, a novembre. I temi all’ordine del giorno comprendevano in particolare una nuova tassa da applicare alle transazioni finanziarie per ripagare i costi dei programmi di salvataggio delle banche degli ultimi anni e, allo stesso tempo, l’aumento del capitale che queste ultime dovrebbero garantirsi per fronteggiare eventuali perdite in periodi di crisi. Anche in questo caso, l’esito dei negoziati ha smascherato le spaccature all’interno del G-20.
Da un lato gli USA spingevano per un’implementazione relativamente rapida delle nuove norme; dall’altro in Europa si chiedeva di rimandarne l’entrata in vigore in attesa di una piena ripresa economica. In realtà, queste divergenze nascondono un’aspra competizione tra gli istituti bancari europei ed americani. Infatti, mentre le banche americane sono state stabilizzate grazie ad una serie di fusioni e soprattutto agli ingenti fondi pubblici stanziati dopo il crollo del settembre 2008, quelle europee appaiono tuttora in condizioni estremamente precarie. Se le nuove regole dovessero essere applicate a breve, la debolezza delle banche europee consentirebbe a quelle americane di conquistare nuove quote di mercato nel vecchio continente.