di Marco Montemurro

Nelle Filippine sono ormai prossime le elezioni generali del 10 maggio, data nella quale il paese è chiamato alle urne per scegliere il presidente, il governo e le varie amministrazioni locali. Gli elettori dovranno nominare il successore di Gloria Arroyo che, giunta al termine del suo secondo mandato, dovrà inevitabilmente lasciare il suo incarico. Molti candidati si contendono la presidenza, ma il confronto principale sarà tra il senatore Benigno “Noynoy” Aquino e Manuel “Manny” Villar, un imprenditore che, secondo la rivista Forbes, è classificato tra le dieci persone più ricche delle Filippine.

Aquino appartiene a una celebre famiglia, simbolo della democrazia del paese: il padre, suo omonimo, fu assassinato nel ’83 perché avverso al governo autoritario di Marcos, e la madre, Corazon Aquino, fu presidente dal ’86 al ’92, ossia durante gli anni di transizione dopo la dittatura. Il prestigio di Villar, al contrario, non deriva dalle sue origini, bensì dal suo operato, ed è proprio questo aspetto che lo rende il candidato più controverso del panorama politico filippino.

Manny Villar ha incentrato la campagna elettorale proprio sulle sue umili origini, mostrandosi così all’opposto di Aquino, e ha scelto lo slogan “sipag at tiyaga”, che in lingua tagalog significa diligenza e perseveranza. Tale espressione intende spiegare che, con il lavoro duro e la determinazione, si possono realizzare tutte le aspirazioni e, per ribadire questo concetto, Villar racconta sempre la sua storia personale. Ricorda che è nato a Tondo, un quartiere povero di Manila, secondo di nove figli, cosicché, per sostenere i fratelli, da ragazzo dovette aiutare la madre a vendere il pesce al mercato.

Quando era giovane le risorse economiche dei genitori erano scarse ma, grazie alla sua determinazione, afferma che riuscì a lavorare e a terminare gli studi universitari. In seguito, all’età di ventisei anni, utilizzò i risparmi per acquistare due furgoni, con i quali s’introdusse nel settore dell’edilizia. Costituì poi una ditta che, sostiene Villar, con il trascorrere del tempo, mattone dopo mattone, è cresciuta fino a diventare l’attuale Vista Land, ossia la più grande compagnia di costruzioni delle Filippine. Tali successi, raccontati come se fossero solamente il frutto di sacrifici e di onesto lavoro, hanno contribuito alla costruzione di un mito attorno alla sua personalità.

Manny Villar da mesi sta investendo molto in comunicazione e propaganda, per far conoscere la sua biografia, peraltro controversa. In televisione sono frequenti i suoi messaggi elettorali che, accompagnati da una melodia come fossero spot pubblicitari, mostrano il candidato alla presidenza sorridente tra la povera gente, nei mercati e nei quartieri disagiati dove, abbracciato ai bambini, si presenta come “uno di noi”. Benché possegga capitali miliardari e sia classificato tra i più ricchi del paese, intende mostrarsi come una persona umile che, grazie a “sipag at tiyaga”, ossia lavoro e determinazione, è riuscito ad emanciparsi. Così, in nome di questi valori, i suoi sostenitori lo accolgono, considerandolo un esempio di vita. Il comitato elettorale di Villar ha perfino creato in internet un social network, chiamato “akala mo”, nel quale gli utenti possono condividere i propri “akala”, cioè le aspirazioni personali.

Sul sito si possono leggere storie di ragazzi che, nonostante svolgano umili attività, sognano il benessere. C’è chi lavora al mercato della frutta, chi vende cibo per strada e chi lavora il legno, vite diverse, ma tutte accomunate dal desiderio di gestire un negozio o un ristorante, cioè diventare imprenditori, come il beneamato candidato. Anche se non posseggono alcun capitale economico, sognano di avviare una propria attività commerciale. Villar rappresenta per loro colui che è riuscito a emanciparsi dalla povertà e, per tale ragione, molti credono che da presidente aiuterà tutti coloro che hanno ambizioni. É una sorta di sogno americano, esportato però in uno dei paesi più poveri del mondo, come le Filippine.

Contribuisce ad accrescere il fascino di Villar anche Manny Pacquiao, il pugile campione mondiale dei pesi leggeri che, per merito della sua fama, quest’anno aspira a un posto al Congresso tra le fila del partito Nazionalista, la stessa forza politica di Villar. Lo sportivo è un idolo di tutti ed è l’orgoglio dell’intero paese perché, grazie ai suoi combattimenti, la bandiera filippina viene innalzata sul podio durante le competizioni internazionali. Villar, utilizzando il carisma di Pacquiao, si è garantito la simpatia di molte persone e, per di più, il successo del pugile è riconducibile al suo slogan che invita alla perseveranza, perché anche lui ha dovuto affrontare situazioni difficili.

Manny Pacquiao, benché sia cresciuto in un quartiere disagiato, con la forza della tenacia è riuscito ad affermarsi, diventando ricco e famoso. L’ideale politico di Villar si concilia dunque con il mondo dello spettacolo e dello sport, vale a dire, tutti possono raggiungere il successo grazie all’impegno e al talento. Tra i sostenitori del partito Nazionalista inoltre vi sono anche personaggi famosi del mondo della televisione, come la candidata alla vicepresidenza Loren Legarda, giornalista conduttrice della Abs-Cbn, e il presentatore Boy Abunda, un altro volto molto noto tra il pubblico.

Nelle Filippine la campagna elettorale è incentrata, non tanto sui programmi politici, bensì sugli ideali; vince colui che sa interpretare meglio i valori e i desideri diffusi nella società. Sia Noynoy Aquino sia Manny Villar, infatti, simboleggiano due cause ben distinte. Il primo è associato ai diritti democratici, che furono difesi dal padre e dalla madre, il secondo invece rappresenta l’imprenditore di successo dalle umili origini, un esempio per tutti coloro che sognano il benessere. Chiunque sia il vincitore, il 10 maggio comprenderemo meglio quali sono le aspirazioni che i filippini nutrono per il futuro.

 

di Eugenio Roscini Vitali

Nella zona di el Makombo, regione nord orientale della Repubblica Democratica del Congo, i ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore (Lord's Resistance Army - LRA) avrebbero commesso l’ennesima mattanza, uccidendo 321 civili e portando a termine il rapimento di almeno 250 congolesi, 80 dei quali bambini. A dirlo è Human Right Watch (HRW), che in un report pubblicato alla fine di marzo, parla di quattro giorni di violenza verificatisi tra il 14 e il 17 dicembre dello scorso anno, una follia omicida di cui non si era avuta ancora notizia. La strage, una delle più sanguinose tra quelle commesse dall’LRA nei suoi 23 anni di storia, dimostra come le popolazioni che abitano la vasta regione di confine a cavallo tra l’Uganda e la Repubblica Democratica del Congo vivano ancora sotto la costante minaccia di una delle più sanguinarie organizzazione paramilitari dei nostri tempi.

Questo nonostante le dichiarazioni delle autorità di Kampala che negli ultimi tre anni hanno più volte annunciato la sconfitta politica e militare di Joseph Kony, leader ed ideologo di un movimento noto soprattutto per l’efferata violenza  con la quale, da quasi un quarto di secolo, porta avanti  una delle più brutali guerre civili che l’Africa abbia fino ad ora conosciuto, un conflitto impastato di misticismo e fondamentalismo cristiano che ha già causato migliaia di vittime.

Intitolato “Trail of Death: LRA Atrocities in Northeastern Congo”, il report pubblicato da HRW è senza dubbio il primo documento che descrive in modo dettagliato le atrocità perpetrate dall’LRA tra il 2009 e i primi mesi del 2010;  67 pagine nelle quali vengono raccontati i fatti accaduti in almeno dieci villaggi della provincia nord orientale di Haut-Uélé, con atti di violenza  di ogni genere, omicidi, torture, sevizie, stupri e rapimenti.

Tra le 321 vittime si conterebbero numerosi adulti di sesso maschile, legati e poi trucidati a colpi di machete o a bastonate, 13 donne e 23 bambini, il più giovane dei quali, di appena tre anni, sarebbe stato dato alle fiamme. Massacrati anche coloro che hanno tentato la fuga e chi, fatto prigioniero, avrebbero rallentato la ritirata dei guerriglieri. Le testimonianze raccolte da HRW parlano di brutalità indescrivibili e di corpi ritrovati lungo la strada che dalle zone interne del Makombo porta alla piccola città di Tapili, circa 100 chilometri più a sud. Tra i casi documentati nel report si parla anche di bambini costretti ad uccidere altri bambini, gruppi di adolescenti ai quali è stato ordinato di circondare i coetanei che si rifiutavano di obbedire per poi colpirli a bastonate fino ad ucciderli.

Nella regione interessata dalle violenze la missione di pace delle Nazioni Unite (MONUC) opera attualmente con un contingente di circa mille unità, un numero evidentemente insufficiente per un’area geografica così vasta ed impervia, dove le frontiere praticamente non esistono e dove i gruppi ribelli e le bande di predoni passano con facilità da uno Stato all’altro e viceversa: dall’Uganda alla Repubblica Centrafricana, dal Sudan meridionale alle province nord orientali dell’ex Zaire. Un report pubblicato alla fine dello scorso anno dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHCHR) precisava che nell’arco dei primi dieci mesi del 2009 l’LRA aveva ucciso quasi mille persone, rapito 1.400 civili, tra cui 600 bambini e 400 donne, e causato la fuga dai propri villaggi di almeno 230 mila congolesi.

Numeri che confermano i dati raccolti dall’Ufficio dell'Onu per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), che per lo stesso periodo parla di 849 civili uccisi e di 1.486 rapimenti, e dal Fondo delle Nazioni Unite per le Popolazioni (UNFPA), che nella parte orientale del Paese conta circa 8.000 casi di donne rapite, sequestri portati a termine soprattutto dagli uomini di Kony e dalle milizie Hutu delle Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda (FDLR), che dal 1994 operano a fasi alterne nelle province del Kivu-Nord e Kivu-Sud.

Recentemente, l’OCHA aveva lanciato un allarme sulle razzie perpetrate dall’LRA e su una nuova escalation di violenze che nel distretto di Haut-Uélé potrebbe presto arrivare a coinvolgere i centomila ospiti dei campi profughi gestiti dalle organizzazioni umanitari internazionali. Un allarme che tra la popolazione desta grande preoccupazione, soprattutto ora che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, anziché rinforzare il contingente militare di pace, sembra voglia dare credito alle richieste di Kinshasa che da tempo preme affinché la MONUC abbandoni il Paese entro l’estate 2011.

E che all’Uganda e al Sudan meridionale l’LRA ormai preferisca le province congolesi, in particolar modo le foreste del Garamba National Park, è ormai un fatto assodato: il 27 gennaio scorso, poche settimane dopo il massacro di Makombo, l’Esercito di Resistenza del Signore è arrivato ad operare nelle aree prossime ai grossi centri urbani che sorgono lungo il fiume Uélé; due ragazzi sono stati rapiti nei pressi di Niangara e durante la notte è stato attaccato un piccolo villaggio che sorge a pochi chilometri da Dungu, città famosa per i due grandi campi profughi sorti negli anni Novanta per ospitare i civili fuggiti dalla Seconda guerra civile sudanese.

Perpetrata da due diversi gruppi, guidati secondo Human Rights Watch dal Tenete Colonnello Binansio Okumu (conoscito anche come Binany) e dal Comandante Obol, la strage di Makombo è solo uno dei capitoli della sanguinosa storia scritta dall’LRA. L’ultimo grande massacro risaliva al dicembre 2008: 865 civili trucidati nei villaggi a ridosso del confine con il Sudan in risposta all’operazione militare (Operation Lightning Thunder) lanciata in territorio congolese dalle truppe ugandesi e dall’intelligence americana.

Nel dicembre dello scorso anno i guerriglieri di Kony erano tornati ad attaccare il distretto di Haut-Uélé, un assalto contro i villaggi di  Bangadi e Ngilima che verrà ricordato per le orribili mutilazioni inferte ai prigionieri, straziati dalle sevizie e dall’amputazione delle labbra e di un orecchio affinché diventassero testimonianza vivente della presenza dell’LRA nella regione. Si calcola che a partire dal 1986 i guerriglieri guidati da Joseph Kony abbiano rapito circa 25.000 bambini, trasformati poi in piccoli soldati o schiavi sessuali dei capi ribelli, ed abbia causato la morte di quasi 100 mila persone.

L'80% delle forze dell'LRA è costituito proprio da questi bambini, usati come scudi umani per la localizzazione di mine antiuomo o mandati in prima linea a combattere o addirittura costretti ad uccidere i coetanei che si rifiutano di eseguire gli ordini; le ragazzine diventano invece schiave o “mogli” dei comandanti, vittime di ogni tipo di abuso e spesso madri a soli tredici anni.

Per più della metà di essi non si hanno più notizie, mentre i pochi fortunati che riescono a scappare devono affrontare i traumi psicologi causati dagli orrori di un’esperienza allucinante e un reinserimento sociale spesso difficile. Il 6 ottobre 2005 la Corte Penale Internazionale ha emesso cinque mandati di cattura contro altrettanti membri dell’LRA: i capi di accusa sono 33, dodici dei quali per crimini che comprendono l’assassinio, la riduzione in schiavitù, lo schiavismo sessuale e lo stupro. Altri ventuno, rubricati tra i crimini di guerra, comprendono l’omicidio, i maltrattamenti, il saccheggio, l’induzione allo stupro, il rapimento e lo sfruttamento di bambini.


 

di Giuseppe Zaccagni

Alle lacrime per i massacri di Katyn del 1940 si aggiunge ora la tragedia del Tu154 number one della presidenza di Varsavia che precipita - proprio nel giorno del ricordo della strage - nella terra di Smolensk, già bagnata dal sangue di quegli 11mila ufficiali polacchi uccisi dalla polizia segreta sovietica Nkvd. A bordo del "Tupolev" c'era l'intera delegazione ufficiale che doveva prendere parte alle cerimonie di Katyn.

Perché in questo disastro, che per la Polonia non ha precedenti, muoiono il Presidente Lech Kaczynski (e sua moglie Maria), il Governatore della Banca centrale, Slawomir Skrzypek, il Capo di Stato Maggiore, Franciszek Gagor, il capo dell'Istituto per la memoria nazionale, Janusz Kurtyka, il capo dell'Ufficio per la sicurezza nazionale Aleksandr Szczyglo, il capo della cancelleria presidenziale Wladyslaw Stasiak, il Segretario di Stato alla presidenza, Pawel Wypych e il Sottosegretario Mariusz Handzlik. Tra le 95 vittime anche  numerosi deputati del partito del presidente - Pis (Diritto e Giustizia, conservatore) - e varie personalità storiche, come  l'ultimo presidente del governo polacco in esilio a Londra, Ryszard Kaczorowski. E' un’ecatombe: scompare gran parte della attuale classe dirigente polacca.

Mosca organizza intanto una commissione d’inchiesta guidata dal premier Putin. E si sa già che la zona di Smolensk - al momento del disastro - era avvolta da una fitta coltre di nebbia e che dalla torre di controllo erano partiti segnali di allarme proponendo ai piloti del TU154 di modificare la rotta andando ad atterrare a Minsk. Ma questo non è avvenuto.

Intanto il governo di Varsavia rende noto che dopo la morte del presidente verranno indette elezioni anticipate e che per il momento a svolgere le funzioni presidenziali sarà Bronislaw Komorowski, attuale portavoce della Camera Bassa del Parlamento.
E di conseguenza la Polonia si troverà a voltare pagina.

La tragedia attuale, come detto, si è svolta sullo scenario dei giorni scorsi quando Mosca e Varsavia avevano ritrovato significativi punti di contatto. Perchè, proprio sulla questione delle "Fosse di Katyn", la Russia - con una dura requisitoria geopolitica - aveva riconosciuto le sue colpe sulla strage operata nel 1940 dall'Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Un crimine che Mosca aveva attribuito per decenni ai nazisti e che ora è tornato alla luce con tutta la realtà dei documenti e delle testimonianze. Con la Storia che si è ripresa la sua verità.

A siglare lo storico momento di riconciliazione è stato Putin il quale cercando una via d'uscita diplomatica e coesistenziale ha incontrato, appunto nei giorni scorsi, il collega polacco Donald Tusk. In quell’occasione sono stati rievocati i terribili momenti di quei "fatti di Katyn". E cioé il massacro avvenuto in quella foresta durante la II Guerra mondiale, con l'esecuzione di massa, da parte dei sovietici, di soldati polacchi detenuti del campo di prigionia di Kozielsk vicino al villaggio di Gnezdovo, a breve distanza da Smolensk.

Era l'anno 1940 quando le truppe sovietiche arrestarono 18.000 ufficiali dell'esercito, 230.000 soldati e 12.000 ufficiali di polizia. Tutti i graduati vennero portati in campi di concentramento su espresso ordine di Stalin: 11.000 di loro vennero uccisi con un colpo alla nuca e seppelliti in fosse comuni nella foresta vicino a Katyn. I tedeschi scoprirono le fosse nell'aprile del 1943, ma i russi "risposero" accusando proprio i tedeschi. Per poi far scendere una cortina di silenzio su tutta la vicenda, sfumando a poco a poco le testimonianze storiche.

Solo nel 1990 Mosca ammise la sua responsabilità. Ed ora Putin a Katyn non ha nascosto gli orrori commessi dal regime staliniano ai danni dei polacchi, ma nello stesso tempo ha proposto a modello l'attuale collaborazione Russia–Germania che, pur conservando la memoria del passato, sa guardare in avanti. Un'occasione storica, quindi, un’azione di grande diplomazia per stabilire un clima di distensione nel mondo slavo.
Proprio nei giorni scorsi Putin ha dichiarato alla stampa polacca che è un dovere morale comune chinare la testa davanti ai caduti, davanti al coraggio e alla tenacia dei soldati di paesi diversi, che hanno combattuto e distrutto il nazismo. Poi, con una rivisitazione storica di significativo livello, ha parlato di pagine tragiche  relative a storie comuni, ma ha anche avvertito che è quanto mai dannoso e irresponsabile speculare sulla memoria, sezionare la storia per cercarvi motivi per reciproche accuse e pretese. E ha denunciato colpe di politici e storici che hanno cercato di riscrivere la storia in funzione delle necessità dell'immediata congiuntura politica.

Quando sono stati posti sull'altare degli eroi i collaboratori dei nazisti e sono stati posti sullo stesso piano vittime e carnefici, liberatori e occupanti. L'affondo di Putin ha poi toccato Stalin, accusato di aver cancellato - grazie alla sua censura - nomi e fatti che non andavano a genio al Cremlino. Putin ha anche affrontato la questione della "amoralità" del patto Molotov-Ribbentrop,  ricordando però  che  proprio un anno prima Francia ed Inghilterra avevano sottoscritto a Monaco quel noto accordo con Hitler che aveva distrutto ogni speranza di formare un fronte comune di lotta contro il fascismo.

Ora la tragedia delle ultime ore riporta di grande attualità tutto il complesso stato delle relazioni tra Mosca e Varsavia. Ma é chiaro che da oggi i due paesi saranno più vicini, uniti in un lutto comune.

 

di Michele Paris

Da qualche settimana a questa parte, un’accesa disputa sta mettendo a dura prova i già logori rapporti tra il presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, e gli Stati Uniti. Quel poco di credibilità rimasta agli occhi delle potenze occupanti dopo le elezioni presidenziali dello scorso agosto caratterizzate da brogli diffusi, Karzai sembra averla persa rapidamente nell’ultimo periodo. Una inaspettata resistenza alle richieste occidentali e lo scontro prolungato sul controllo del processo elettorale, in vista del voto per il rinnovo del Parlamento afgano, stanno producendo un durissimo scontro con Washington, dove sembra si stia cominciando a pensare ad un futuro senza il presidente, ormai ex fantoccio della Casa Bianca.

Ad accendere gli animi tra Kabul e Washington, a febbraio, era stata la firma da parte di Karzai di un decreto che gli attribuiva maggiori poteri sulla commissione elettorale incaricata di valutare eventuali irregolarità nel voto. Una commissione che dopo le presidenziali dello scorso anno aveva annullato quasi un milione di schede a lui favorevoli in seguito a svariati reclami per presunte irregolarità. Con la nuova legge, il presidente afgano intendeva assicurarsi la facoltà di nominare tutti e cinque i membri della commissione. Una mossa che avrebbe privato l’ONU della possibilità di esercitare un qualsiasi controllo sulla correttezza delle procedure di voto.

In risposta all’iniziativa di Karzai, la Casa Bianca a marzo aveva allora cancellato bruscamente una visita a Washington del presidente afgano, il quale a sua volta aveva reagito invitando a Kabul il leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad, protagonista di un discorso dagli accesi toni anti-americani. Ad allentare momentaneamente le tensioni era giunta infine una visita a sorpresa di Obama nella capitale afgana. Oltre alla ormai consueta richiesta di adoperarsi maggiormente per combattere la corruzione dilagante nel suo gabinetto, il presidente americano era riuscito ad ammorbidire in parte la posizione di Karzai sulla questione della commissione elettorale.

Quest’ultimo, ha così acconsentito a scegliere solo tre dei cinque membri, riservandosi il diritto di nominare gli altri due dietro segnalazione dei delegati delle Nazioni Unite nel paese. La disputa si è successivamente trasferita sul terreno interno, dal momento che la Camera bassa del Parlamento afgano ha unanimemente bocciato il decreto di Karzai. Con la Camera alta che si è però rifiutata di esprimersi, e la Commissione Elettorale Indipendente espressasi a favore, il colpo di mano del presidente sembra destinato comunque ad andare a buon fine.

Che i dissapori con gli USA non siano però limitati a questioni elettorali lo confermano le più recenti uscite di Karzai nei confronti della potenza occupante che lo aveva issato ai vertici del nuovo stato afgano dopo la deposizione del regime talebano. Secondo alcune ricostruzioni, Karzai avrebbe espresso in privato tutte le sue riserve nei confronti degli americani, accusandoli di puntare esclusivamente al dominio del paese e dell’intera regione centro-asiatica. A suo dire, sarebbe proprio Washington ad ostacolare gli sforzi fatti dal suo governo per stipulare accordi di pace con i talebani più disponibili al dialogo. Una strategia mirata a perpetuare il caos in Afghanistan, così da giustificare una permanenza prolungata delle truppe NATO nel paese.

Come non bastasse, Karzai ha lanciato pubblicamente altre pesanti critiche all’Occidente che hanno provocato la durissima reazione della Casa Bianca. Il presidente afgano ha accusato gli USA e l’ONU di voler istituire un governo-fantoccio e per raggiungere tale scopo avrebbero orchestrato diffuse irregolarità nel voto dello scorso agosto, così da impedirgli di conquistare un secondo mandato.

L’ira di Karzai si è concentrata in particolare sull’ex vice capo missione dell’ONU in Afghanistan, il diplomatico americano Peter W. Galbraith, e l’ex generale francese Philippe Morillon, numero uno della missione dell’UE incaricata di supervisionare le operazioni di voto. Se i soldati alleati nel paese, ha aggiunto Karzai, continueranno ad essere percepiti puramente come mercenari al servizio degli interessi delle potenze occidentali, allora il popolo afgano non potrà che considerarli come invasori, trasformando inevitabilmente gli insorti talebani in un “movimento nazionale di resistenza”.

Una prospettiva quest’ultima che appare peraltro già molto vicina alla realtà sul campo, come testimoniano ormai svariati resoconti anche della stampa “mainstream” d’oltreoceano. È stato lo stesso New York Times, ad esempio, qualche giorno fa a rivelare il reale rapporto di forze nel distretto di Marja, nella provincia meridionale di Helmand, obiettivo della più recente offensiva delle forze ISAF. Nonostante i proclami, le forze occidentali qui controllerebbero quasi esclusivamente le proprie basi, mentre i Talebani avrebbero in mano tutte le aree circostanti, mettendo in atto ritorsioni nei confronti di quanti hanno collaborato con gli occupanti stranieri e costringendo alla chiusura molti progetti di ricostruzione frettolosamente avviati.

L’inquietudine mostrata da Karzai e le conseguenti reazioni di Washington rivelano in definitiva la vera natura del conflitto scaturito come risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Una guerra mirata ad istallare un governo docile agli interessi americani, indirizzati principalmente al controllo di una regione dalle sconfinate riserve energetiche, minacciate dall’instabilità dei movimenti integralisti islamici e dalla concorrenza di Russia e Cina.

Le accuse lanciate dal presidente afgano ai padroni di Washington riflettono, da un lato, la crescente ostilità della popolazione locale nei confronti di un’occupazione quasi decennale che ha causato migliaia di vittime civili e, dall’altro, rivelano le angosce di un Karzai sempre più isolato a livello internazionale e smanioso di riconquistare una qualche credibilità sul fronte domestico, cercando di resistere alle pressioni esercitate dall’Occidente.

Per l’amministrazione Obama, in ogni caso, il rapporto con Karzai rappresenta un vero e proprio dilemma. Con un secondo mandato da presidente che scadrà tra più di quattro anni, prenderne le distanze in maniera netta significherebbe minare il sostegno alla strategia americana che prevede entro l’estate l’invio in Afghanistan di altri 30 mila soldati. La minaccia di ritirare il contingente alleato per spingere Karzai a più miti propositi, poi, non appare percorribile, poiché la difesa degli interessi americani in Asia centrale deve passare necessariamente attraverso un’occupazione militare dell’Afghanistan.

In una situazione che sembra senza uscita, da qualche ambiente diplomatico inizia allora a trapelare l’ipotesi di una possibile spallata nei confronti del governo di Karzai, con ogni probabilità da mettersi in atto ad opera di quell’Alleanza del Nord che nel 2001 giocò un ruolo chiave nella cacciata dei talebani. Il tutto con la tacita approvazione di Washington, nel solco di una pratica americana ampiamente consolidata nel tempo.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Arriva al potere nelle antiche "Valli del Paradiso" del Kirghizistan asiatico - sull'onda di un’ennesima rivoluzione locale - una donna. Si chiama Roza Isakovna Otunbayeva, ha 59 anni, ed è stata alla testa delle forze di opposizione (quelle nate al tempo della "Rivoluzione dei tulipani", cinque anni fa) dopo aver guidato il ministero degli Esteri ed essere stata un diplomatico di alto rango nella vecchia Unione Sovietica. Eccola ora a gestire una difficilissima transizione nell'intera regione (198.500 Kmq. con una popolazione  di quasi 5,5 milioni) mentre le strade della capitale Bishkek (Frunze, nel periodo sovietico) sono ancora dominate da folle che protestano attaccando i palazzi del potere. C'è ancora in atto una guerriglia urbana con scontri armati e con vittime restate sul campo. Si parla di oltre cento morti e di centinaia di feriti. Tutto questo mentre le forze fedeli al vecchio regime si stanno concentrando nel sud del paese ai confini con la Cina.

Intanto il vecchio presidente Kurmanbek Bakiev - che era stato eletto trionfalmente nel luglio 2005 con la promessa di sradicare la corruzione, di promuovere lo sviluppo economico e di democratizzare il Paese - ha lasciato la sede del governo diretto - con una mossa patetica - verso una destinazione ignota. Una fuga clamorosa per sfuggire alle ire delle folle inferocite che lo accusano di aver sperperato le ricchezze nazionali e di aver organizzato un sistema di potere mafioso e feudale.

La situazione - nonostante gli appelli alla calma del nuovo gruppo che ha preso il potere - rischia di degenerare ancor più. E si ha notizia che le truppe ancora fedeli al vecchio presidente Bakiev hanno aperto il fuoco contro i manifestanti fuori dalla presidenza e anche della sede dei servizi di sicurezza, il Gsnb (l'ex Kgb dell'epoca sovietica). Il paese, dal punto di vista economico, è allo stremo, nonostante gli aiuti ricevuti (a partire dal 2001) soprattutto dagli Usa, interessati al mantenimento di una loro base aerea militare (Manas) fondamentale per le operazioni nel confitto in Afghanistan.

Intanto arrivano da ogni parte del mondo le prime reazioni riferite ai fatti di Bishkek. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, rientrato da poco da un viaggio nelle aree asiatiche del sud, si dice scioccato per le decine di persone uccise nei disordini in corso nel Kirghizistan e fa  appello al dialogo e alla calma per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Anche la Casa Bianca manifesta preoccupazione, con il portavoce della sicurezza nazionale, Mike Hammer, che manda a dire: "Seguiamo la situazione da vicino. Siamo preoccupati dalle notizie delle violenze e dei saccheggi e facciamo appello a tutte le parti perché evitino la violenza e esercitino moderazione".

E’ ovvio, in questo contesto, che anche Mosca è in allarme per quanto sta accadendo nella sua pur lontana periferia divenuta ora una polveriera in fiamme. Gli osservatori diplomatici puntano la loro attenzione soprattutto sulle questioni relative al petrolio. Per i russi, infatti, il Kirghizistan non è solo un "laboratorio politico" ma è anche un nodo strategico per quanto riguarda le questioni energetiche. E non c'è solo il petrolio, perché nel bilancio generale delle "ricchezze kirghise" figura anche l'uranio.

E' a Mailj Saj, una piccola città a sud del paese, che esiste una discarica radioattiva abbandonata sin dai tempi sovietici e dove i paesi socialisti dell'epoca depositavano i loro rifiuti. Il bacino che si è creato contiene scorie di piombo, di zinco, di stagno, di mercurio. E soprattutto di uranio anche arricchito. Mosca (che in Kirghizistan ha anche una sua importante base aerea) fa ora notare che tutta questa montagna di scorie potrebbe essere salvata ed utilizzata, impedendo, di conseguenza, che il tutto sprofondi ulteriormente provocando un disastro ecologico di proporzioni gigantesche. Per ora Mosca resta alla finestra attendendo che la situazione kirghisa rientri nella normalità. C'è solo una timida affermazione di Putin fatta nelle ultime ore: "Sembra che Bakiev come già fece Akaiev destituito nel 2005, si stia dando l'accetta sui piedi"…

Ma chi scrive in questo momento dalla capitale russa è obbligato a tornare a rileggere gli appunti e le note analitiche relative al Kirghizistan (che nei tempi sovietici era denominato Kirghisia) contenute nei faldoni del suo archivio. E così ritrova le note dedicate agli incontri con l'amica Roza Otunbayeva. Quando lei viveva a Mosca e la sua casa era un centro di vita sociale e culturale. Era stata portata, in quegli anni, nella capitale dal ministro russo Anatolij Adamiscin e posta alla direzione della filiale sovietica dell'Unesco. E già in quegli anni la "piccola Roza" rivelava le sue capacità politiche e diplomatiche, mantenendo rapporti con il mondo politico e culturale di ogni paese. Nella capitale, nel suo piccolo appartamento nei pressi della "Plosciad Kommuni", si parlava della vita politica della capitale Frunze e della sua carriera diplomatica.

Nata nel 1950 ad Osh si era laureata nel 1972 a Mosca in filosofia. Aveva poi insegnato sempre nella capitale sovietica. E nel 1981 era entrata nel Pcus. Nel 1992, in seguito alla nuova condizione d’indipendenza della sua repubblica, l'allora presidente Askar Akajev l'aveva nominata ministro degli Esteri, posizione che poi lasciò per diventare ambasciatore negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Rientrata in Kirghizistan nel 2004 fondò Ata-Zhurt (Madrepatria), un movimento filo-occidentale che chiedeva una maggiore democratizzazione e un più deciso avvicinamento all'Occidente.

Un anno dopo divenne uno dei protagonisti della “Rivoluzione dei tulipani” che rovesciò il regime del presidente Akajev. Al suo posto arrivò Kurmanbek Bakiev, fuggito ora in seguito alla insurrezione popolare. Con lui Roza divenne ministro degli Esteri nel governo provvisorio, ma non ottenne dal Parlamento la conferma nell'incarico. Dal dicembre 2007 ha poi guidato il Partito Socialdemocratico all'opposizione. Ed ora sembra raccogliere i frutti della sua attività.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy