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di Michele Paris
Ad accendere ulteriormente il dibattito sull’interruzione di gravidanza, già inasprito di recente negli Stati Uniti, la settimana scorsa è arrivata una decisione molto discutibile da parte di un giudice del Kansas all’apertura del processo contro l’assassino di un medico abortista. Proprietario di una clinica a Wichita, nel Kansas, il dottor George Tiller era uno dei soli quattro medici rimasti in tutti gli USA ad eseguire interruzioni di gravidanza oltre la 21esima settimana. La sua struttura medica aveva subito un attentato dinamitardo nel 1986 ed era continuamente presidiata da varie associazioni “pro-life” che in passato avevano cercato in ogni modo di avviare azioni legali nei suoi confronti. Sempre scagionato, Tiller aveva più volte incassato il riconoscimento della legalità del proprio lavoro, svolto nel rispetto della legge americana sull’aborto, fondata sulla storica sentenza della Corte Suprema “Roe contro Wade” del 1973.
A causa del suo impegno, il dottor Tiller era l’oggetto d’incessanti minacce, concretizzatesi già nel 1993, quando era sfuggito miracolosamente ad un tentato omicidio. In quell’occasione, l’attivista di estrema destra Shelley Shannon gli sparò con una pistola semiautomatica, ferendolo ad entrambe le braccia. Nessuno scampo per lui c’è stato invece la mattina del 31 maggio 2009. Mentre distribuiva il bollettino della Chiesa Luterana Riformata di Wichita che era solito frequentare, Tiller venne avvicinato da un uomo armato che aveva assistito alla funzione religiosa e che lo colpì in pieno volto uccidendolo all’istante.
L’assassino, il 51enne Scott Roeder, aveva già dei precedenti penali ed era stato segnalato alle autorità di polizia nei giorni precedenti l’omicidio per aver commesso atti vandalici ai danni di un’altra clinica femminile. Il suo gesto, tutt’altro che isolato nella lunga storia delle violenze contro i medici abortisti americani, venne immediatamente condannato da entrambe le parti in causa.
In molti ambienti di estrema destra, tuttavia, si stava alimentando da tempo un pericoloso clima di odio che aveva frequentemente al centro dell’attenzione proprio il 67enne medico del Kansas. Il suo accusatore più accanito era il popolare commentatore di Fox News, Bill O’Reilly, il quale aveva fatto proprio il soprannome “Tiller the baby killer”, coniato durante un intervento al Congresso dall’ex deputato repubblicano ultra-conservatore della California, Bob Dornan.
Influenzato o meno dall’accanimento anti-abortista nei confronti della sua vittima, Roeder venne arrestato a Kansas City tre ore dopo l’assassinio e successivamente accusato di omicidio di primo grado, accusa punibile con l’ergastolo. Nel corso delle udienze preliminari del processo è giunta però la doccia fredda del giudice della contea di Sedgwick. Il pronunciamento - sia pure non definitivo - del giudice distrettuale, Warren Wilbert, potrebbe consentire all’omicida reo confesso di fare appello ad un capo di imputazione molto meno grave dell’omicidio di primo grado - per il quale è imputato - invocando le sue opinioni anti-abortiste come attenuanti per il crimine commesso. Una decisione che, a detta di molti sostenitori del diritto all’aborto, potrebbe incitare alla violenza e suonare come una sentenza di morte per quei pochi medici che negli USA continuano a praticare interruzioni di gravidanza in stato avanzato del feto.
Poco prima dello scorso Natale, il giudice Wilbert aveva rifiutato il tentativo fatto dalla difesa di appellarsi al cosiddetto “stato di necessità”, circostanza per cui l’assassino avrebbe sostenuto che il suo gesto era necessario per fermare gli aborti condotti dal dottor Tiller e che avrebbe quindi agito per il bene della società. La richiesta di ricorrere a quello che l’ordinamento statunitense definisce “voluntary manslaughter” - una sorta si omicidio volontario attenuato che prevede una pena compresa tra i quattro e i sei anni - ha trovato invece parziale accoglienza da parte del giudice in questione.
Secondo la legge dello stato del Kansas, in particolare, quest’accusa si applica quando un imputato agisce secondo la credenza “sincera”, anche se “insensata”, che il suo gesto violento possa evitare un danno a se stesso o ad altri. Le circostanze attenuanti, per Scott Roeder, sarebbero quindi le sue convinzioni a proposito dell’aborto. Idee che potrebbe così esporre alla corte nel corso del dibattimento processuale pubblico, per giustificare l’uccisione del dottor Tiller.
Il giudice Wilbert, in ogni caso, ha sostenuto che la sua decisione non è da ritenersi definitiva, ma che verrà riconsiderata una volta che la selezione della giuria sarà ultimata. Anche se appare poi difficile che la difesa di Roeder riesca a convincere i giurati che il medico abortista, mentre si trovava in chiesa quella domenica di maggio, rappresentasse una “minaccia imminente” - requisito necessario secondo la legge del Kansas per far rientrare l’accaduto nella definizione di omicidio volontario attenuato - le polemiche seguite alla concessione del giudice distrettuale rischiano da sole di avere un effetto devastante.
Il messaggio che sta emergendo, anche in seguito all’inevitabile amplificazione della vicenda sui media americani, è che la violenza ai danni di un medico che esegue interruzioni di gravidanza può avere una qualche giustificazione e, di conseguenza, portare a sentenze più clementi. Accettare la richiesta della difesa di Roeder, secondo Kim Parker, vice-procuratore distrettuale coinvolto nel caso, avrebbe effetti molto gravi. “Portato alle estreme conseguenze, questa argomentazione consentirebbe a chiunque di commettere un omicidio premeditato facendolo passare per omicidio volontario attenuato, semplicemente sostenendo che la vittima è portatrice di valori morali e idee politiche diverse” dalle proprie.
Una volta ultimato il difficile processo di selezione della giuria popolare, verrà dunque stabilita l’ammissibilità della linea difensiva dell’assassino del dottor Tiller. Nell’eventualità che la difesa di Scott Roeder finisca per avere la meglio, il suo caso sarebbe il primo di questo genere nel quale verranno almeno prese in considerazione le giustificazioni ideologiche addotte dall’imputato.
Un esito che suonerebbe come un trionfo per gli anti-abortisti americani, già compiaciuti dalle pesanti restrizioni all’interruzione di gravidanza previste dalla riforma sanitaria in corso di approvazione, e che ancora una volta ricorderebbe tristemente i passi indietro compiuti in questi anni nella lotta per il diritto di scelta delle donne negli Stati Uniti.
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di Carlo Benedetti
Mosca. In Ucraina, per ora, la “rivoluzione arancione” continua, pur se il suo leader massimo - il presidente Viktor Juscenko - esce sonoramente battuto dalla consutazione elettorale di domenica. Perchè le urne delle presidenziali lo hanno relegato al quarto posto con un umiliante 5%, mentre la sua ex alleata - Julia Timoshenko - ha raggiunto il 25%. E’ andata quindi bene al maggiore sfidante, il leader del “Partito delle regioni”, Viktor Janukovic che ha superato il 33%. Ora sarà necessario andare al ballottaggio e il giorno fissato è il 7 febbraio.
Comincia da questo momento una nuova battaglia elettorale che verrà giocata, in particolare, ai tavoli delle trattative, poiché sulla scena politica del Paese sono attive varie formazioni minoritarie, che assumeranno un ruolo determinante quando si avvierà il ballottaggio tra Janukovic e Timoshenko. Nel conto generale andrà poi messo quel 13% di voti riportati da Sergej Tighipko - ex presidente della banca nazionale e uno dei trenta uomini più ricchi del Paese - e quel 4% incassato dal leader comunista Piotr Simonenko.
Ora si tratta. E la partita del ballottaggio vedrà in campo non solo i personaggi tradizionali dello scontro politico locale, ma anche forze esterne. Mosca, in primo luogo. Perchè è chiaro che la Russia di Putin-Medvedev, pur avendo già appoggiato clamorosamente Janukovic, flirta ora con la Timoshenko, le cui azioni sono significativamente salite negli ambienti del Cremlino.
Intanto sul tappeto del ballottaggio tornano i grandi problemi del Paese e il nuovo voto si annuncia cruciale per i rapporti tra Kiev e l’Ovest ed anche per le relazioni generali dell’Est e della Russia con l’Europa. Tutto questo tra la disillusione degli elettori, colpiti dalla crisi economica ma anche preoccupati per il fatto che l’Ucraina dipende pesantemente dalla Russia per i suoi bisogni energetici. Soprattutto dopo le tensioni degli ultimi anni dovute alla querelle del gas. Gli ucraini sanno bene che chi uscirà vincente dal ballottaggio dovrà cercare di rivitalizzare l'economia e prendere il controllo delle finanze pubbliche, sostenute da un programma del Fondo monetario internazionale da 16,4 miliardi di dollari.
Non mancano però nubi grigie sull’intera vicenda elettorale di queste ore. Perchè in appoggio a Juscenko e alla Timoshenko sono arrivati dalla Georgia i “fratelli” dell’altra “rivoluzione”. Quella delle “rose”, che nel novembre del 2003 sconvolse l’intera regione avendo ricevuto fondi e sostegni da parte dell’occidente e dei servizi iraeliani. Ora a Kiev sono sbarcati oltre cinquecento personaggi, provenienti da Tbilisi, che si sono presentati come “osservatori” per garantire la normalità delle elezioni. Ma questa vicenda si è subito tinta di giallo.
Perchè - come risulta negli ambienti della diplomazia ucraina e russa - quasi tutti questi “agenti” (così li definisce la stampa russa) fanno parte delle strutture vicine ai servizi segreti georgiani. Una notevole parte sono militari. Alcuni sono muniti di documenti falsi e tutti hanno seguìto corsi di addestramento per combattimenti corpo a corpo. Scopo di questa “invasione georgiana” - si rileva negli ambienti politici che appoggiano Janukovic - consiste nel prendere contatto con quanti sono restati “fedeli” alle prime mosse della rivoluzione arancione. E nei piani dei georgiani ci potrebbero essere azioni diversive con l’organizzazione di proteste e manifestazoni contro Janukovic. Su questo pericolo i media della Russia insistono particolarmente, riportando anche la registrazione di un compromettente colloquio tra la Timoshenko e il suo amico presidente georgiano, Saakasvili, notoriamente antirusso e quisling degli americani.
Nello scontro interno ucraino rientra poi il tema religioso, dal momento che nel recente passato il presidente Jushenko lanciò l’idea di fondare una chiesa ortodossa ucraina svincolata dal Patriarcato di Mosca. Attualmente la chiesa di Kiev è infatti subordinata alla Russia che è di fatto - dal punto di vista delle strutture religiose - l’unica sopravvissuta alla disgregazione dell’Urss. Molti dei territori un tempo parte dell’Unione e oggi indipendenti - come Ucraina, Bielorussia, Estonia, Lituania e Lettonia - continuano a fare riferimento, per ciò che concerne l’organizzazione ecclesiastica, a Mosca. Il che dà modo alla Russia - che con Putin ha conosciuto una forte saldatura tra potere civile e potere religioso - di esercitare un’altra forma d’influenza, anche se decisamente più soft rispetto alle pressioni energetico-politiche, su nazioni sovrane non più parte dell’Urss ma ancora parte dello spazio russo.
Tutto peserà di conseguenza nel bilancio che gli ucraini dovranno fare nel momento in cui - il 7 febbraio, appunto - dovranno scegliere il nuovo presidente: uno Janukovic schierato sul fronte filorusso o una Timoshenko, pasionaria, volta all’Occidente, ma segnata fortemente dalle mode nazionaliste.
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di mazzetta
Sono ormai molti gli osservatori internazionali che ritengono come la strategia statunitense in Asia non possa più prescindere da un ripensamento della linea politica verso Karachi. E' infatti evidente come le sorti della guerra in Afghanistan siano direttamente intrecciate con quanto avviene in Pakistan, dove, a rendere ancora più precaria la situazione, ai successi militari non si sono accompagnate buone notizie sul versante politico.
Il piano dell'amministrazione Bush era lineare nella sua brutale elementarità: consegnare il governo a Benhazir Bhutto e la presidenza a Musharraf, con il ritorno dell'esercito sotto il controllo dell'autorità civile. Un piano che, per realizzarsi, ha avuto bisogno di alcune forzature, che poi hanno dimostrato la loro debolezza una volta messe alla prova dalla realtà. Per rendere realizzabile il piano, infatti, Musharraf ha decretato un'amnistia per i numerosi politici e funzionari accusati di corruzione e ha cancellato il limite costituzionale dei due mandati, permettendo così a Benhazir Bhutto il rientro dal dorato esilio negli Emirati, ma anche quello del suo eterno rivale Sharif.
Benhazir Bhutto è durata pochissimo, uccisa in un sanguinoso attentato mentre percorreva il paese in campagna elettorale, ma il piano è sopravvissuto. A reggere il partito di famiglia (PPP) è stato nominato il figlio appena diciottenne e, come candidato premier, si è presentato suo marito, Alì Zardari, già noto con il soprannome di Mr Dieci Percento, dalla quota che esigeva su ogni spesa del governo retto dalla moglie in passato. A guastare la festa ci si è messa per la Corte suprema, che minacciava di dichiarare incostituzionali le leggi di Musharraf, che quindi ha reagito cacciando alcuni giudici e anche il Chief of Justice Chaudri, fortemente ostile.
Vinte le elezioni è andato al governo Zardari, che ha subito dimenticato la promessa di reinsediare i giudici cacciati, perché gli era sufficiente la sentenza che sanciva l'invalidità dell'elezione di Musharraf alla presidenza che la Corte, ancora monca, gli aveva offerto per liberare la presidenza e insediarvi un esponente del suo partito. Alla fine ha dovuto però soccombere alle pressioni della piazza e delle opposizioni. Intanto l'esercito ha reagito alla minaccia talebana raccogliendo il favore della popolazione, in passato poco convinta dell'opportunità di combattere tra pachistani su impulso degli americani. Per convincere i pachistani, Musharraf aveva preparato il terreno lasciando arrivare i talebani ad assumere il controllo della valle dello Swat, un paradiso turistico presto trasformato in un simpatico angolo di medioevo a pochi chilometri dalla capitale.
L'esercito ci è andato con la mano pesante e gli attaccati hanno risposto con sanguinosi attentati, compensando così la schiacciante superiorità militare dell'avversario. Un gioco che è costato duemilaottocento vittime pachistane in un anno e centinaia di migliaia di profughi in fuga, cifra che autorizza a parlare di guerra in Pakistan, anche se per i media la guerra non c'è nemmeno in Afghanistan.
In questi giorni il governo di Zardari è andato in frantumi: la Corte ha annullato anche l'amnistia di Musharraf e il ministro dell'Interno, quello della Difesa e molti altri esponenti del PPP, hanno dovuto scegliere se versare una cauzione per restare in libertà o darsi alla fuga, perché la sentenza della Corte ha improvvisamente riportato in vita vecchi processi e vecchi mandati di cattura. Zardari si è salvato perché gode dell'immunità garantita alla carica, ma solo momentaneamente, perché un codicillo “islamico” non garantisce l'immunità nei casi di “turpitudine”; tutti gli osservatori concordano nel ritenere più che turpi le ruberie di Zardari, che non sembra aver cambiato abitudini negli anni e che è largamente inviso alla popolazione.
Resterebbero in campo solo Sharif, a capo di un partito di minoranza e privo di referenze impeccabili, già protagonista di due governi fallimentari, e le seconde linee del PPP. Ma resta in campo anche l'esercito, sempre pronto a surrogare il potere civile in frantumi, che potrebbe essere addirittura chiamato in causa dalla Corte nel caso il governo si rifiutasse di riconoscerne ed eseguire le sentenze. L'esercito è ora retto dal delfino di Musharraf, come lui proveniente dal comando dell'ISI, i potenti servizi pachistani, che gli americani vorrebbero ricondurre sotto la direzione civile. Ma una mossa di Zardari in tal senso è già andata a vuoto, mentre i militari continuano ad esercitare il controllo e la custodia del programma nucleare pachistano, che procede con l'impegnativa costruzione di nuovi vettori e nuovi reattori, nonostante il paese sia dovuto correre a piangere un prestito presso il Fondo Monetario per salvare l'economia dalla crisi.
Una situazione fluida che non consente di considerare consolidati i successi militari contro i numerosi gruppi armati che si muovono lungo la frontiera afgana: E nemmeno offre alcuna certezza, se non che gli unici ad essere tranquilli sono Musharraf - che può sempre contare sulla garanzia di un esilio dorato se le cose si mettessero male sul piano giudiziario - e il suo successore A. P. Kayani, che collabora sornione alle iniziative americane, ma che è anche pronto in ogni momento a mobilitare il potere militare per il bene del paese.
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di Emanuela Pessina
Berlino. Nonostante la straordinaria ondata di freddo e neve che ha colpito Berlino negli ultimi giorni resta alta la temperatura all'interno del Bundestag, il Parlamento tedesco: la coalizione nero-gialla non sembra trovare l'accordo sullo sgravio fiscale e i toni si inaspriscono sempre più. E neppure i tradizionali congressi di partito di inizio anno, che si sono svolti proprio in questi giorni, lasciano intravedere armonia tra i partiti di governo; la strada dell'accordo tra liberaldemocratici (FDP), Unione Cristiano-Democratica (CDU) e Unione Cristiano Sociale (CSU) sembra ancora lunga e, soprattutto, in salita.
Secondo i liberaldemocratici tedeschi, la riduzione delle tasse è un passo inevitabile per la crescita futura del Paese: è quanto hanno ribadito i rappresentanti del partito in occasione del tradizionale congresso di partito dell’Epifania tenutosi a Stoccarda."Senza crescita è impossibile garantire il consolidarsi del bilancio e, proprio per questo, dobbiamo tenere duro e ridurre le tasse ai cittadini", ha detto il ministro dell'Economia Rainer Brüderle (FDP). Il presidente dell'FDP - e vicecancelliere - Guido Westerwelle, da parte sua, ha sottolineato che la riforma fiscale è stata fatta "per tutto il popolo": Qualcuno ci ha visto una mossa per fugare le critiche dell'opposizione, che hanno tacciato la politica economica liberaldemocratica di clientelismo e l'hindirizzata al solo ceto medio borghese.
Ma in cosa consiste effettivamente la riforma fiscale proposta dai liberali? Secondo il quotidiano regionale Rheinischer Post, il ministro Brüderle punta a una semplificazione del sistema tributario e all'introduzione di tariffe "a gradini" per le imposte sul reddito. Ma l'equità della riforma annunciata non ha convinto l'opposizione: secondo il presidente della frazione socialdemocratica Joachim Poss (SPD), i liberali vorrebbero "risparmiare su famiglie, lavoratori dipendenti e disoccupati".
E intanto è cominciato a Wildbad Kreuth (vicino a Monaco di Baviera, Sud) anche il convegno della CSU: le premesse non lasciano presagire nulla di buono neppure qui, per i liberali.Il presidente dei cristiano sociali Horst Seehofer ha invitato l'FDP a non prendere decisioni affrettate: sì allo sgravio fiscale, ma solo dopo un'analisi accurata dell'effettiva situazione economica del Paese. Il direttore della commissione per le Finanze del Parlamento tedesco Hans Michelbach (CSU), invece, ha usato toni ben più decisi contro la riforma di Brüderle: “È stato un errore lasciare il settore economico ai liberaldemocratici”, ha dichiarato Michelbach in un’intervista all’agenzia stampa ddp, poiché “lo sgravio fiscale su cui insistono non aiuta né la Germania né la coalizione”.
L'FDP, da parte sua, non risparmia aspre critiche all'Unione della Merkel, cui mancherebbe, in particolare, l'orientamento di fondo: "L'Unione non ha una decisa preferenza in parecchie questioni fondamentali", ha commentato il segretario generale dell'FDP Christian Lindner, sottolineando che l'unione non saprebbe decidersi "tra la libertà e l'uguaglianza."
Lo sgravio fiscale, in realtà, è stato il tallone d’Achille della coalizione nero-gialla fin dall'inizio. L’Unione Cristiano Democratica, insieme alla consorella bavarese Cristiano Sociale (CSU), ha cercato di evitare da subito promesse di sgravi in considerazione dell’enorme debito pubblico della nazione. Per i liberali, invece, le previsioni di miglioramento della congiuntura costituivano già un'occasione per abbassare le imposte alle aziende in nome dello sviluppo.
L'ago della bilancia, a quanto pare, sarà proprio la voce di Angela Merkel. Il consiglio direttivo della CDU è previsto per questo weekend a Berlino, ma la cancelliera ha già provveduto a farsi sentire dopo un lungo, inusuale silenzio. "La riforma tributaria sta, per me, fuor da ogni dubbio", ha detto la Merkel al quotidiano economico tedesco Handelsblatt, specificando che "il contratto della coalizione prevedeva di applicare lo sgravio fiscale entro il 2011, e così rimane". La cancelliera ha annunciato decisioni concrete per maggio: sperando che, per allora, le temperature primaverili della capitale tedesca riescano a daddolcire gli animi anche all'interno del Governo federale.
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di Carlo Benedetti
Mosca. In Ucraina si vota oggi per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. L’atmosfera è più che mai tesa, dal momento che il paese si trova già da anni al centro di una contesa geopolitica tra la Russia e gli USA che puntano ad attrarlo nelle proprie sfere d’influenza. Ma vediamo da vicino i personaggi che aspirano alla vittoria. In primo luogo c’è il presidente uscente, Viktor Jushchenko, (classe 1950) che è presidente dal 2004 e che si è sempre battuto per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nell’Unione Europea. E’ stato il principale animatore di quella “Rivoluzione arancione” sponsorizzata dagli americani e dal grande capitale occidentale. La sua politica è stata quindi fortemente filo-statunitense ed ha creato numerosi problemi con la Russia. Nel 2006 una riforma costituzionale gli ha ridotto i poteri presidenziali e, nello stesso tempo, la sua amministrazione è stata caratterizzata anche dai rapporti tesi coi suoi primi ministri.
Nella scuderia dei candidati c’è poi Viktor Janukovic (classe 1950) capo del Partito delle regioni (Pr) e leader dell’opposizione. E’ lui che conta sulle aspirazioni filorusse di gran parte della popolazione ucraina e che trova, di conseguenza, forti appoggi nel Cremlino moscovita. Ma nello stesso tempo non disdegna il sostegno (economico) di Rinat Achmetov, l’uomo più ricco del paese. Janukovic si fa vanto delle sue posizioni filo-russe ed ha recentemente confermato il suo “no” alla NATO. Come quasi tutti i maggiori candidati si è invece dichiarato favorevole all’ingresso dell’Ucraina nell’UE, seppure con tempi più “rilassati”.
Pur se molto vicino alla Russia di Putin, ha più volte affermato di voler fare dell’Ucraina uno Stato neutrale, sponsorizzando l’idea di un sistema di difesa collettivo europeo. In politica interna ha promesso un incremento della spesa sociale e delle pensioni, accompagnato da una riforma fiscale e del sistema legale. Si è inoltre impegnato a modernizzare il settore energetico e ad aumentare la produzione domestica di gas naturale. Ha infine proposto il riconoscimento della lingua russa come seconda lingua ufficiale.
Su queste due candidature, che dominano la cordata, pesa il nome della “pasionaria” Julija Timoshenko. Personaggio contraddittorio e misterioso: primo ministro a 49 anni ed esponente di spicco della famosa “rivoluzione” del 2004 che la vide appoggiare il filoccidentalismo di Juscenko. Accusata un tempo di contrabbando di gas e di valuta, ma poi prosciolta. Oggi (a capo del “Blocco” che porta il suo nome) si schiera in funzione anti-Juscenko - con il quale è ai ferri corti - ed incontra, di conseguenza, i favori del premier russo Vladimir Putin.
Convinta sostenitrice dell’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea, non ha preso invece posizione riguardo un’eventuale adesione alla NATO per non incrinare i rapporti con la Russia, riconoscendo la necessità di dialogare e preferendo demandare la questione ad un referendum popolare. Quanto alle questioni prettamente amministrative, si oppone alla privatizzazione del sistema nazionale di trasporto del gas e ha basato la sua campagna presidenziale su di un ampio programma di riforme economiche, giudiziarie e politiche, per rendere più stabile e governabile il paese, in particolare attraverso una modifica della costituzione in senso meno centralista.
Nazionalista pragmatica (contraria all’idea d’introdurre il russo come seconda lingua ufficiale del paese) e di orientamento filo-occidentale, è accusata dagli occidentalisti più radicali - tra i quali appunto l’ex alleato Juscenko - di svendersi alla Russia, mentre i suoi diretti avversari la accusano di arrivismo. A questi tre candidati di spicco vanno aggiunti altri 15 nomi, che rappresentano varie organizzazioni minoritarie. Tutti, comunque, promettono promettono riforme fiscali con tagli delle tasse, innalzamento delle pensioni, investimenti, modernizzazioni, senza però alcuna effettiva copertura finanziaria. Allo stesso modo quasi tutti, con la sola eccezione del comunista Symonenko, si dichiarano favorevoli ad un’intensificazione dei rapporti con l’UE in vista di un futuro ingresso nell’Unione.
Previsioni? A Kiev gli ambienti degli osservatori e delle diplomazie occidentali danno per scontata la vittoria di Janukovic, ma non si esclude un testa-a-testa. Una situazione che rispecchierebbe la realtà geopolitica di un’Ucraina divisa tra la parte occidentale e centrale - incentrata su Lviv e Kiev, che guarda verso l’Ue e gli Usa - e la parte orientale e meridionale - gravitante su Kharkiv e Donetsk, dove prevale la lingua russa - e che è orientata verso Mosca.
E’ quindi probabile che stasera non vi sarà un vincitore e che sarà necessario il ballottaggio, già previsto per il 7 febbraio. La situazione é che mai indecisa. E se dalle urne uscirà confermato questo stato di tensione e di instabilità vorrà dire che non solo l’Ucraina, ma tutta l’Europa dell’Est (Mosca in particolare) si troverà a fare i conti con una nuova rivoluzione ucraina. Torneranno sul tappeto le questioni legate alle forniture di gas e i temi della divisione della flotta del Mare Nero. Per non parlare della nota questione della Crimea, contesa tra Mosca e Kiev.