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di Eugenio Roscini Vitali
Nel 2003, alle domande dei giornalisti sui danni collaterali in Afghanistan ed Iraq, il comandante delle truppe d’invasione, il Generale Tommy Ray Franks, rispondeva: “noi non contiamo i morti”. Alla fine del novembre scorso, fonti governative irachene annunciavano che, a sei anni e mezzo dall’inizio dell’occupazione, gli 88 civili rimasti uccisi negli ultimi trenta giorni rappresentavano un record positivo, il minimo storico mai raggiunto dall’inizio dell’operazione “Iraqi Freedom”. La mattina dell’8 dicembre 2009, otto giorni dopo il confortante annuncio del contestato governo al-Maliki e a poche ore dalla notizia di nuove elezioni, fissate dal Parlamento per 7 marzo 2010, una serie di potenti deflagrazioni, avvenute nell’arco di pochi minuti, colpivano varie zone di Baghdad causando la morte di 127 persone ed il ferimento di almeno 450 civili.
Un bilancio di sangue causato da cinque autobombe fatte esplodere nel centro della capitale e che verrà accompagnato dai quattro attentati del 15 dicembre, tre nei pressi della Zona verde della capitale ed uno nella città di Mossul, nei quali perderanno la vita cinque persone e altre 14 rimarranno ferite. Si è aperta così la strada verso la transizione democratica, una strada fatta anche di numeri, vittime su cui si misura il successo o il fallimento della colossale operazione messa in piedi dall’amministrazione Bush nel 2003, una guerra che secondo il presidente americano avrebbe dovuto rendere quel paese una nazione libera e democratica, un modello per tutto il Medio Oriente, “un esempio di nazione vitale, pacifica e capace di auto governarsi”.
Per intensità gli attacchi dell’8 dicembre sono stati simili a quelli avvenuti il 25 ottobre scorso contro il Ministero della Giustizia e il Governatorato di Baghdad, in cui erano morte 155 persone, e a quelli del 19 agosto in cui avevano perso la vita 95 iracheni. Prima di allora altri quindici grandi attentati con centinaia di vittime.
Dall’8 dicembre l’idea di Baghdad come una città sicura inizia ad offuscarsi e dopo il panico dei primi momenti iniziano ad emergere i soliti dubbi, interrogativi su questioni che come al solito rimarranno irrisolte. Il primo riguarda sicuramente il numero delle vittime, anche in questo caso diverso da quello diramato dagli organi di governo: 77 secondo le autorità, 127 per i media iracheni indipendenti; una replica di quanto avvenuto due giorni prima con le vittime della scuola elementare di Sadr City, notizia liquidata dai telegiornali vicini al governo con un servizio di circa quaranta secondi. Numeri ufficiali sui quali si gioca la credibilità di un establishment che cerca di trascinare il paese fuori dal pantano della guerra civile e per farlo continua a sostenere che negli ultimi 18 mesi gli attentati in Iraq sono fortemente diminuiti.
In ottobre le autorità di Baghdad hanno diffuso una notizia secondo la quale tra il 2004 ed il 2008 i morti causati dalle violenze sarebbero stati 85 mila. Prendendo in esame l’intero conflitto, l’Iraq Body Count, il progetto sulla sicurezza che dal 2003 registra le vittime della guerra irachena, parla di 94.705 -103.336 morti; nell’ottobre 2006, Lancet aveva pubblicato numeri numero totalmente diversi: 655 mila iracheni rimasti uccisi a causa degli effetti dell’invasione.
Anche se molti analisti ritengono che a partire dal 2008 l’Iraq è diventato un paese sicuramente più sicuro e che questo è dovuto principalmente alla consolidata distribuzione settaria avvenuta in seguito ai violenti scontri registrati tra il 2005 e il 2007, c’è comunque chi si interroga ancora sugli effetti della guerra scatenata dall’amministrazione Bush contro il regime di Saddam Hussein. Dubbi che riaffiorano soprattutto ora che dall’altra parte del mondo si comincia a puntare il dito contro chi continua a giustificare le finalità di quel conflitto. Tony Blair, che nel 2010 sarà chiamato a rispondere della decisione di invadere l’Iraq, continua infatti ad affermare che deporre il dittatore iracheno sarebbe stato comunque “giusto”, anche di fronte alla certezza che non esisteva alcun arma di distruzione di massa. A convincere Blair della necessità di schierarsi al fianco di George W.Bush sarebbe stata la “consapevolezza” che il leader iracheno “rappresentava una minaccia per tutta la regione”.
Sta di fatto che a sei anni e mezzo di distanza dall’invasione e a pochi mesi dal ritorno a casa di tutti i militari americani, l’Iraq deve ancora fare i conti con la sicurezza, un’emergenza che con il passare del tempo diventerà sempre più un affare iracheno, un affare che può essere riassunto nelle parole di Abbas al Bayati, membro della Commissione Difesa del Parlamento iracheno: “la popolazione ha bisogno di risposte convincenti dai comandanti della sicurezza” perché “se la sicurezza verrà meno, crollerà tutto”.
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di Michele Paris
La recente inaugurazione di un gasdotto che collegherà la Cina occidentale con il Turkmenistan è solo uno degli ultimi sviluppi dell’accesa disputa in corso tra le varie potenze mondiali per il controllo delle risorse naturali in Asia centrale. Il nuovo impianto, lungo oltre 1.800 km, entrerà a regime tra il 2012 e il 2013 e trasporterà annualmente 40 milioni di metri cubi di gas naturale - vale a dire circa la metà dell’attuale consumo totale cinese - attraverso il Kazakistan e l’Uzbekistan fino alla provincia dello Xinjiang, da dove verrà poi distribuito in altre 14 province dello sconfinato paese.
L’importanza strategica dell’accordo di fornitura è stata sottolineata dalla presenza alla cerimonia inaugurale presso il sito di Samandepe del presidente cinese, Hu Jintao. Secondo uno schema consolidato in altri paesi ricchi di risorse naturali, Pechino contraccambierà la possibilità di accedere alle riserve energetiche turkmene con la costruzione d’infrastrutture e la concessione di prestiti a tasso agevolato alle repubbliche centro-asiatiche. Con tutta l’intenzione, da parte della Cina, di estendere la propria influenza in un’area cruciale del pianeta, caratterizzata dalla presenza d’ingenti quantità di petrolio e gas naturale.
Fino al suo crollo nel 1991, era stata l’Unione Sovietica ad aver mantenuto in Asia centrale un dominio assoluto tramite una fitta rete di “pipeline”. Negli ultimi anni, tuttavia, Mosca ha visto crescere una seria minaccia al proprio monopolio sia da parte dell’Europa e degli Stati Uniti che dalla Cina. La costruzione pianificata da tempo del gasdotto “Nabucco” dovrebbe infatti rifornire i paesi europei passando attraverso l’Azerbaijan, la Georgia e la Turchia, riducendo la dipendenza proprio dalle forniture russe. La Cina, da parte sua, sta invece puntando sempre più sulle riserve di quest’area, nel tentativo di diversificare le forniture dall’Africa e dal Medio Oriente, costantemente esposte alla minaccia navale americana nell’Oceano Indiano.
Nonostante l’aggressiva mossa di Pechino in Turkmenistan s’inserisca precisamente in una disputa energetica tra quest’ultimo paese e la Russia, Mosca in realtà non sembra preoccuparsi più di tanto della Cina. La realizzazione del nuovo gasdotto sino-turkmeno, oltre a non avere effetti diretti sul principale mercato del gas russo - quello occidentale - produce d’altra parte un effetto gradito alla Russia: impedire l’accesso dell’Europa alle riserve del Turkmenistan. Infatti, secondo i piani dell’UE, i giacimenti di questo paese avrebbero dovuto contribuire in maniera decisiva ad alimentare il progetto “Nabucco”. Una prospettiva con ogni probabilità naufragata in seguito all’accordo appena stipulato con Pechino.
A mettere in difficoltà il progetto “Nabucco” d’altronde vi è anche, com’è noto, il cosiddetto South Stream, il gasdotto annunciato nel 2007 che consentirebbe a Mosca di mantenere il monopolio delle forniture di gas all’Europa, passando attraverso il Mar Nero e la Bulgaria. Allo stesso modo, gli altri paesi dell’Asia centrale che dovrebbero mettere a disposizione le proprie riserve di gas naturale per il piano alternativo europeo - in primo luogo l’Azerbaijan - continuano a mostrare perplessità e a stare molto attenti a non guastare i rapporti con la Russia.
Per Russia e Cina, in ogni caso, la minaccia maggiore in Asia centrale rimane quella statunitense, soprattutto dopo la recente decisione di inviare nuove truppe in Afghanistan in vista di una presenza che si protrarrà ancora per molti anni. Proprio per contrastare l’influenza di Washington, nel 2001 fu fondata l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), della quale fanno parte, oltre a Russia e Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, mentre India, Iran, Mongolia e Pakistan per ora vi partecipano come “osservatori”.
Tramite l’SCO, negli ultimi anni i due membri più potenti hanno spinto più di una repubblica centro-asiatica a chiudere basi militari americane presenti sui loro territori. Le esercitazioni militari congiunte russo-cinesi sono servite inoltre a mandare un messaggio molto chiaro, cioè che nell’area non verranno permesse nuove “rivoluzioni colorate”, sul modello di quella georgiana del 2003 o in Kirghizistan nel 2005, sponsorizzate dagli Stati Uniti per promuovere i propri interessi nelle ex repubbliche sovietiche.
Per comprendere la centralità del petrolio e del gas naturale nei rapporti di forza tra le potenze del pianeta in Asia centrale e, soprattutto, la crescita costante dell’influenza di Pechino in quest’area, sarebbe stato sufficiente ascoltare le parole dei leader presenti alla cerimonia d’inaugurazione del nuovo gasdotto che collegherà Cina e Turkmenistan.
Il presidente di quest’ultimo paese, Gurbanguly Berdimuhamedow, ha infatti esplicitamente assegnato un grande valore “non solo commerciale al gasdotto, ma anche politico”; mentre il presidente uzbeko Islam Karimov ha elogiato la Cina per la sua politica improntata alla “saggezza e alla lungimiranza” e per il ruolo ormai assunto di “garante della sicurezza globale”.
Una evidente prova di forza, dunque, quella cinese in Asia centrale nella battaglia per il controllo delle forniture energetiche che però, assieme alle altre questioni che contrassegnano questa porzione di continente, promette di intensificare le tensioni già esistenti. Con il rischio concreto di generare ulteriore instabilità e nuovi conflitti negli anni a venire.
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di mazzetta
Il passaggio dall'amministrazione Bush a quella Obama non ha cambiato molto per Israele, almeno in apparenza. La richiesta dell'amministrazione americana per il congelamento degli insediamenti ha dato fastidio, ma non è stata un'offesa irreparabile e neppure un presa di posizione capace di far cambiare direzione al governo più di destra che abbia mai avuto Israele. Con Bush, Israele ha avuto carta bianca: ha potuto bombardare il Libano, devastare Gaza e proseguire nell'opera di colonizzazione della West Bank, (un'operazione che ha avuto impulso proprio in coincidenza con l'avvento di George W. alla Casa Bianca) che ha fatto sì che i coloni - che prima di allora in Palestina erano poche migliaia, oggi siano diventati mezzo milione.
Anche il muro dell'apartheid e la divisione della West Bank sono novità del terzo millennio, intraprese con la tacita complicità dei neo-conservatori americani; non per caso il muro è stato cominciato nel giugno del 2002. Con i bombardamenti di Libano e Gaza Israele ha provocato una strage fatta di oltre duemila vittime e migliaia di feriti, oltre alle distruzioni materiali.
L'operazione di Gaza è stata particolarmente crudele, nei modi come nelle motivazioni che hanno spinto il governo di Tel Aviv all'azione. Si è trattato di una strage “elettorale”, così è stata letta anche in Israele, decisa da un premier, Olmert, ormai rovinato da accuse penali e da Livni, ministro degli esteri, che cercava nella guerra quel consenso che doveva sostenerla alle elezioni ormai imminenti. L'operazione ha goduto comunque di larghi consensi nel paese: tutti sapevano che dopo il termine del mandato di Bush azioni del genere avrebbero avuto un costo politico molto più alto e tutta la popolazione condivideva l'idea di essere “minacciata” dai detenuti a Gaza.
Bombardare l'umanità reclusa di Gaza è stato un crimine di guerra, tanto evidente che non c'era bisogno della conferma della commissione ONU guidata da Goldstone; ed è per questo che Israele rifiuta sia le conclusioni della commissione che le richieste di ulteriori indagini ed inchieste sull'operazione “Piombo Fuso”. La politica di segregazione è continuata anche dopo l'operazione militare, Israele non ha permesso l'ingresso ai materiali da costruzione e Gaza rimane un cumulo di rovine abitata per la metà da minorenni, senza accesso i servizi essenziali.
Da Gaza si doveva stanare Hamas, che aveva resistito al tentativo di golpe ordito da Fatah con il consenso e l'aiuto di Israele, Usa, Egitto e Giordania che avevano armato il “terrorista” Dahlan e infiltrato armi e uomini a Gaza. I golpisti furono ridotti alla fuga dagli uomini di Hamas (che aveva vinto le elezioni) e l'operazione Piombo Fusa è fallita miseramente, spianando la via da una parte al rafforzamento di Hamas e dall'altra alla sconfitta di Livni e all'affermazione di un governo israeliano che dipende per la sua sopravvivenza dall'estrema destra e dai fanatici religiosi.
Governo che irride le richieste di Obama, ben sapendo che l'americano ha problemi più incombenti e, con l'aiuto dell'Egitto, procede nel murare il confine occidentale di Gaza, costruendo un altro muro che corre trenta metri in profondità, a impedire la costruzione dei tunnel con i quali si rifornisce Gaza sotto assedio. Il nuovo governo israeliano è pieno di gente che pensa che buona parte dei Territori Occupati debba essere conquistata con la forza e sostiene con veemenza la colonizzazione; non vuole sentire parlare di accordi i pace, ma solo di concessioni israeliane e molto limitate.
Figlio di questo clima è l'ultimo “piano” proposto da Olmert ad Abbas, presidente illegittimo della West Bank. Israele manterrebbe buona parte delle colonie, offrendo in cambio un po' di terra vicina a Gaza e altra nel deserto del Negev, oltre a un “collegamento” tra Gaza e West Bank sotto sovranità israeliana, su Gerusalemme Est nemmeno una parola. Poi, se i palestinesi rifiutano la generosa offerta di terra desertica, si potrà sempre dire che “non vogliono la pace”.
Con la fine dell'amministrazione Bush, ma soprattutto dopo il clamoroso fallimento delle sue politiche e delle sue guerre, ha però ripreso fiato la voce dell'Unione Europea e, in questi giorni, si è fatta sentire per la prima volta la voce del suo primo ministro degli Esteri, quella Ashton fresca di nomina che avrebbe vinto in volata sul nostro D'alema. La prima uscita della signora ha fatto ribollire metà Israele e dato fuoco alle polveri della propaganda contro il ministro europeo.
Lady Ashton ha parlato senza troppe mediazioni diplomatiche, affermando che l'Europa chiede con forza il rispetto dei diritti umani e delle leggi che regolano la responsabilità delle potenze occupanti in Palestina. Ha chiesto la liberazione immediata di Gaza e stigmatizzato il blocco della striscia, così come la politica di colonizzazione. Dopo anni di silenzio il primo ministro degli Esteri europeo ha detto in pratica che la posizione della UE è ancora quella di dieci anni fa: due stati, con una Gerusalemme capitale divisa e confini non diversi da quelli riconosciuti dall'ONU.
Tanto è bastato perché la propaganda israeliana vomitasse di tutto su Lady Ashton, accusandola di essere, riassumendo, un'aristocratica razzista e antisemita. Peccato che Lady Ashton non sia affatto nobile e che la nomina a Lady l'abbia conquistata dopo anni di attivismo e militanza nel partito laburista e in diverse organizzazioni ecologiste e in difesa dei diritti umani. Peccato soprattutto che la Ashton non abbia parlato a titolo personale, ma esprimendo la posizione ufficiale della UE. Ma i commentatori filo-israeliani - in Israele e all'estero - hanno preferito buttarla sul personale come al solito; anche le gentili richieste di Obama per il congelamento della colonizzazione sono state trattate come espressioni personali di una brutta persona spinta da motivazioni malvagie.
A margine, il ministro degli esteri della UE non ha mancato di censurare l'operato di Blair (Inviato Speciale per il Medioriente) e del Quartetto (USA, Russia, UE e ONU), che rispettivamente da mesi e da anni assecondano senza mordere qualsiasi iniziativa iniziativa israeliana. Un censura esplicita, con la Ashton che informa Blair (ex leader del suo stesso partito) che deve dimostrare di valere i soldi che la UE ha investito nella sua missione, con qualche successo più rilevante della semplice apparizione di pattuglie della polizia palestinese per le strade di Jenin. Una rumorosa mozione di sfiducia che segue la bocciatura della candidatura di Blair alla presidenza della UE ed è abbastanza evidente che per il principale “complice” europeo di Bush si siano chiuse molte porte: non gode più di alcuna fiducia all'estero e nemmeno in patria, nemmeno all'interno del suo stesso partito.
L'esordio del ministro degli Esteri europeo ha avuto però un effetto paradossale nel nostro paese, nel quale la politica interna è interessata a quella estera solo se utile in chiave nazionale o possibile essere fonte di tangenti. Adesso che c'è il ministro degli Esteri europeo nessuno è sembrato interessato ad esprimersi nel merito a favore o contro. Il rischio evidente è che sotto l'ombrello del super-ministro europeo, che volerà alto su temi planetari, ci sia la proliferazione d’iniziative nazionali - se non regionali - improntate al dilettantismo e figlie di occasioni estemporanee.
Stiamo parlando di iniziative come il triste caso della collaborazione tra l'assessore milanese Prosperini con il regime eritreo, ma anche più preoccupanti, come le aperture di Berlusconi ad autocrati come Gheddafi, Putin e Lukashenko o, ancora, la gestione “riservata” dei rapporti con le dittature delle ex-colonie da parte della Francia. Di sicuro, come già verificato in questo caso, le iniziative del ministro degli Esteri della UE scivoleranno nell'indifferenza al di fuori del dibattito politico. Qui, Lady Ashton non fa audience.
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di Mario Braconi
Qualche giorno fa Noah Shachtman di WIRED USA è entrato nella base segreta USA dalla quale si tengono sotto controllo le operazioni dei "ragazzi" in Afghanistan. Su un enorme schermo che rappresenta la mappa del Paese, ogni singolo velivolo militare USA (caccia, bombardieri, droni, aerei-cisterna) è rappresentato da un pallino luminoso color blu-petrolio. Anche se la gran parte delle lucine si concentra attorno alle zone più "calde" del Paese (le province di Kandahar, Helmand e Nangarhar), almeno tre di esse si trovano chiaramente in territorio pakistano. Si tratta, certamente, di droni, cioè di sistemi militari composti da velivoli senza pilota a controllo remoto, da una centrale di controllo a terra e da un dispositivo satellitare: essi possono essere utilizzati tanto a scopo ricognitivo e di intelligence (dalle forze armate) che offensivo (dalla CIA).
In Afghanistan le truppe americane sono tenute sotto pressione da gruppi talebani che spesso fanno base in territorio pakistano; il presidente Obama, che ha reputato la guerra in Afghanistan talmente importante da decidere l'invio su quel fronte di altri 30.000 soldati, è determinato ad impedire che le zone tribali del Pakistan rimangano un porto franco dal quale gli estremisti possono continuare indisturbati ad attaccare i soldati americani, anche grazie alle complicità dei servizi segreti di quel paese. Poiché però la presenza di truppe USA in Pakistan, ad eccezione di qualche formatore per le truppe speciali locali, è tabù, la soluzione più logica è sembrata quella di utilizzare, anziché marine, robot controllati a distanza.
Il paradosso è che, mentre in Afghanistan, cioè in zona di guerra, gli attacchi americani tendono ad essere un po’ meno distruttivi, al fine di evitare di uccidere (troppi) civili innocenti, quelli dei droni americani in Pakistan sono assai più violenti e letali. Secondo il think tank New American Foundation, negli ultimi due anni i circa 80 attacchi mediante veicoli senza pilota hanno causato tra i 750 e i 1.000 morti, di cui 320 sarebbero civili. Secondo Altre fonti (vicine all'esercito), i morti sarebbero stati 450, con perdite civili attorno al 10% - ma c'è anche chi parla di "soli" venti civili uccisi. In realtà, dal punto di vista americano, la zona tribale del Pakistan è un luogo ideale per commettere abusi, dato che esso è chiuso alla stampa e alle ONG e che quindi è impossibile conoscere la verità.
L'aviazione americana ha in tutto 39 tra Predator e Reaper dispiegati in Asia Centrale e Medio Oriente; alcuni di essi vengono utilizzati dalla CIA per le sue missioni. Come quella che si è conclusa con l'assassinio di Baitullah Mehsud, il capo dei Talebani in Pakistan. Nella notte del 5 agosto scorso Mehsud, che stava prendendo il fresco su un terrazzo assieme al suocero e alla moglie, è entrato nel campo visivo di un Predator americano che lo spiava da una distanza di circa 3 chilometri. Al momento giusto, un agente della CIA, magari direttamente dal quartier generale di Langley in Virginia, ha premuto un tasto sul suo joystick. A 8000 chilometri di distanza, il Preadtor ha lanciato due missili Hellfire sulla casa in cui si trovava Mehsud, uccidendo, oltre a lui e ai suoceri, la moglie, un "ufficiale" e sette guardie del corpo.
Anche se Mehsud era un assassino ed un criminale - è accusato dell'omicidio di Benhazir Bhutto e della strage al Marriott di Islamabad - resta il fatto che egli è stato vittima di un assassinio stragiudiziale ordinato dal governo di un paese democratico. Come osserva il New York Times, "il sostegno politico al programma dei droni, il suo appeal high tech ed antisettico, e la sua segretezza hanno nascosto fino ad ora il suo approccio estremo. Ma per la prima volta nella storia abbiamo "una agenzia di intelligence civile che impiega robot per missioni militari, selezionando le persone da eliminare in un Paese con il quale gli Stati Uniti non sono ufficialmente in guerra". Tutto ciò a dispetto dell'ordine esecutivo 11905 rilasciato dal presidente Gerald Ford il 18 febbraio del 1976, con il quale si stabilisce che "Un impiegato del Governo degli Stati Uniti d'America non dovrà mai essere coinvolto in assassinii politici".
Eppure gli Stati Uniti non sono stati sempre così disinvolti in materia di esecuzioni stragiudiziali. Nel luglio del 2001, infatti, solo due mesi prima dell'11 settembre che avrebbe cambiato il mondo, l'ambasciatore americano in Israele, Martin Indyk, denunciando la pratica israeliana di uccidere i terroristi palestinesi, dichiarò: "Il governo degli Stati Uniti è ufficialmente contro gli omicidi mirati. [...] Si tratta di assassinii stragiudiziali, e noi non li sosteniamo". I tempi cambiano, e con esso le idee...
Come nota Hina Shamsi, avvocato alla New York University School of Law, intervistata da Jane Mayer per The New Yorker, l'opinione pubblica americana si è dimostrata alquanto strabica. Infatti, proprio nei giorni in cui veniva resa noto l'assassinio di Mehsud, il Wall Street Journal rivelò che, durante l'amministrazione Bush, la CIA aveva presa in seria considerazione la possibilità di attivare squadroni della morte per catturare o uccidere operativi di Al Qaeda in tutto il mondo. Non del programma non sono state mai avvisate le commissioni sull'intelligence del Senato e della Camera dei Rappresentanti, ma ad un certo punto è venuto fuori che la CIA intendeva subappaltare una parte del lavoro sporco alla Blackwater, oggi Xe Services, un contractor privato. Dunque, ciò di cui si sta parlando è uno stato che assolda killer privati per far fuori i suoi nemici senza nemmeno preoccuparsi di processarli. Una storia da far rabbrividire, e che ha fatto rizzare qualche antenna anche presso i media conservatori, come il Wall Street Journal.
Prosegue la Shamsi: "Ci siamo tanto arrabbiati per un programma mai nato (infatti, Leon E. Panetta, attuale capo dell'Agenzia, lo ha cancellato a causa dell'inestricabile groviglio di problemi legali, diplomatici e logistici da esso implicato n.d.r.), ma le uccisioni con i droni esistono già. Si tratta [anche in questo caso] di omicidi mirati sul territorio internazionale. Anche in questo caso, si fa uso di private contractor per una serie di attiività, tra cui far volare gli apparecchi." Ma, come nota Vicki Divoll, ex avvocato della CIA, pure interpellata da Jane Mayer per The New Yorker: "La gente si sente molto più a suo agio al pensiero di un Predator che fa fuori un po' di persone che con un tagliagole che ne ammazza solo una. Eppure gli omicidi 'meccanizzati' restano sempre omicidi."
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di Giovanni Gnazzi
Si è spento la notte scorsa nella "città santa" sciita di Qom, a 130 chilometri a sud di Teheran. l'ayatollah Hossein Ali Montazeri, uno dei religiosi iraniani più critici del regime, ex successore designato dell'ayatollah Ruhollah Khomeini alla guida della Repubblica islamica. Ne ha dato notizia un take di poche sillabe dell’agenzia di stampa Irna. Aveva 87 anni e, se negli ultimi anni il nome il suo nome era divenuto sinonimo di opposizione al regime, ben diverso era stato il suo ruolo nella lotta contro la dittatura di Rheza Phalevi.
Hoseyn Ali Montazeri era uno dei più importanti esponenti religiosi sciiti e, durante la Rivoluzione e nei primi anni della Repubblica Islamica, fu uno dei leader spirituali più ascoltati. Prima della caduta della monarchia dello Scià, infatti, Montazeri organizzò proteste pubbliche in apoggio a Khomeini. Venne arrestato e torturato in numerose occasioni.
Durante l’esilio di Khomeini, Montazeri fu nominato suo rappresentante all’interno del Paese e, successivamente, designato come successore. Malgrado però il suo alto grado religioso, Montazeri era stato poi escluso dalla successione a Khomeini dopo avere criticato apertamente sia alcune scelte dello stesso come una parte delle politiche del regime. Da allora, è vissuto a Qom, quasi come un recluso, costantemente sorvegliato dagli apparati di sicurezza. Dal 1997 ha anche trascorso cinque anni agli arresti domiciliari, per avere duramente contestato l'attuale Guida, l'ayatollah Ali Khamenei.
La morte di Montazeri é una pessima notizia per il cosiddetto “movimento verde” che nei mesi scorsi ha affollato le strade di Teheran scontrandosi con gli sgherri dei Pasdaran. L'ayatollah Montazeri, infatti, non si era tirato indietro nel sommare la sua voce al movimento, arrivando persino a lanciare una Fatwa di riprovazione verso Ahmadinejiad e, il fatto che godesse ancora di una vasta popolarità nel Paese, mise certamente in difficoltà il regime di Teheran. Il lancio della Fatwa non fu l’unico scontro con il regime. Nello scorso agosto, proprio dopo le contestate elezioni che confermarono alla presidenza Mahmud Ahmadinejad, l’ayatollah Montazeri aveva preso decisamente posizione al fianco del movimento di protesta, guidato dall'ex candidato moderato Mir Hossein Moussavi e da quello riformista Mehdi Karrubi.
L’ayatollah dissidente accusò i dirigenti iraniani d’imporre un regime autoritario in nome dell’Islam, regime che definì “una dittatura”. Fu proprio nel 1997, però, che Montazeri aprò lo scontro con il regime sciita, mettendo in discussione la legittimità dei poteri assegnati all’ayatollah Khamenei, successore di Khomeini. Come conseguenza di questa opposizione, le autorità chiusero la sua scuola religiosa, distrussero il suo ufficio e lo condannarono a sei anni di arresti domiciliari.
Sono migliaia gli iraniani che, avuta notizia della sua morte, si sono avviati a Qom per rendere omaggio alla salma dell’ayatollah dissidente. Ai suoi funerali, previsti oggi, si recheranno quasi certamente Mussavi e Karrubi, i due leader dell'opposizione iraniana, che hanno proclamato un giorno di lutto nazionale e hanno fatto un appello ai loro sostenitori affinché partecipino compatti ai funerali. Con la morte di Montazeri, il movimento verde vede certamente un suo ridimensionamento nei settori più religiosi del paese che, pure, sono contrari al governo di Ahmadinejiad. Montazeri era infatti un punto di riferimento per ci vuole sì una trasformazione del regime in funzione liberale, ma tutta interna al sistema di potere religioso.
E’ presto per vedere se il movimento si riposizionerà in funzione più laica, ma certo che la morte di Montazeri lo indebolisce in termini di autorevolezza. In previsione di funerali che si trasformeranno quasi certamente in una enorme manifestazione contro il regime, il governo di Teheran ha mobilitato ingenti forze di polizia e vietato l’accesso ai corrispondenti stranieri. Lontano dalle telecamere, si picchia meglio.