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di Eugenio Roscini Vitali
Ad un anno dalla fine dell’operazione Piombo Fuso e ad un mese dalla scadenza dell’ultimatum imposto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Israele ed Hamas non hanno ancora punito i responsabili dei crimini commessi durante tre settimane di guerra nelle quali hanno perso la vita 1.417 palestinesi e 13 israeliani. La Risoluzione 64/10, approvata il 5 novembre scorso con 114 voti a favore, 18 contrari e 44 astenuti e bocciata da Gerusalemme, perché considerata completamente avulsa dalla realtà, concedeva ad entrambe le parti 90 giorni per avviare un’inchiesta credibile sulle denunce relative ai delitti commessi contro la popolazione civile tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009.
Al contrario, nonostante la tregua stabilita a Sharm el Sheikh e il Rapporto Goldstone, che nel settembre scorso ha messo sul tavolo le prove di quanto accaduto in quel conflitto, i responsabili delle violazioni del diritto internazionale non sono ancora stati identificati e i razzi e l’assedio hanno continuato a minacciare la vita degli uni e degli altri. E, cosa più importante, le vittime non hanno ricevuto - e molto probabilmente non riceveranno mai - la giustizia dovuta.
Se Israele e Hamas non dovessero svolgere indagini serie, a febbraio il Consiglio di sicurezza potrebbe trasmettere al procuratore della Corte penale internazionale le conclusioni del rapporto stilato dalla missione di accertamento diretta dal giudice sud-africano Richard Goldstone. Sono 575 pagine che condannano entrambe le parti e parlano di palestinesi usati come scudi umani e di 22 giorni di sconsiderati attacchi militari, di gravi violazioni della IV Convenzione di Ginevra e di bombardamenti che hanno trasformato intere zone di Gaza in cumuli di macerie.
Descrizioni approfondite e circostanziate di quelli che possono essere considerati crimini contro l’umanità: uccisioni, torture e trattamenti inumani che non trovano giustificazione in alcuna operazioni di carattere militare. La relazione parla anche di esposizione della popolazione civile a rischi inutili e di violazione del principio di distinzione degli obiettivi con lancio di razzi e mortai contro insediamenti civili, località abitate che in alcun modo potevano essere considerati installazioni militari.
In realtà, secondo molti analisti, l’operazione Piombo Fuso non ha prodotto i risultati sperati. Ancora oggi, infatti, anche se con minore intensità, i Qassam continuano a cadere sullo Stato ebraico; incessanti, come incessanti sono i raid dell’aviazione israeliana. Fino ad ora l’intervento della comunità internazionale non ha neanche impedito il blocco dei valichi e gli egiziani non hanno nemmeno fermato l’arrivo di armi contrabbandate attraverso i tunnel scavati in prossimità del confine di Rafah.
Ad un anno dalla fine del conflitto, neanche i numeri sono una cosa certa, o perlomeno un argomento sul quale si riesca a trovare un punto di convergenza: le stime ufficiali diramate dall’organizzazione israeliana per i diritti umani “B’Tselem” parlano della morte di 765 civili estranei ai combattimenti: 762 arabi, di cui circa 300 bambini, e 3 ebrei. Completamente diverso il numero dichiarato dalle Forze di Difesa Israeliane, che si fermano a 295 vittime. Human Rights Watch documenta poi la violazione israeliana delle leggi di guerra e del diritto umanitario internazionale con la distruzione delle infrastrutture civili e sanitarie necessarie alla sopravvivenza e all’assistenza della popolazione, con l’uso di proiettili al fosforo bianco nelle aree densamente abitare (vietato tra l’altro dal Trattato di Ginevra del 1980).
Il rapporto prosegue con casi altrettanto significativi, come la morte dei 29 civili palestinesi, fra cui otto bambini, colpiti dai missili sparati dai droni utilizzati dalle truppe del Tsahal, o come gli 11 arabi disarmati, tra i quali cinque donne e quattro bambini, caduti sotto il fuoco dei militari israeliani mentre sventolavano bandiera bianca. Per quanto riguarda Hamas, l’organizzazione newyorkese per i diritti umani denuncia poi il lancio di razzi contro aree urbane e i numerosi casi di tortura nei riguardi dei rivali di Fatah catturati durante i giorni del conflitto.
Mentre il rapporto annuale dei servizi di sicurezza israeliani elogia, e non a torto dal punto di vista ebraico, gli effetti dell’operazione anti-Hamas come il risultato di un’azione efficace e fruttuosa, a Gaza la ricostruzione non é ancora partita. Secondo i numeri diramati da Gerusalemme, il 2009 è stato sicuramente l’anno più calmo dall’inizio della seconda Intifada, sia per quanto riguarda la Cisgiordania che la Striscia di Gaza; non vi è stato un solo attentato suicida e il lancio dei razzi sugli insediamenti è calato del 75%, con 15 israeliani rimasti uccisi contro i 36 del 2008.
Da parte palestinese invece le famiglie costrette a vivere sotto le tende fornite dalle Nazioni Unite sono ancora 162; 40 mila le persone senza corrente elettrica; più di 3.500 le case da ricostruire, 268 le piccole aziende distrutte, decine le scuole, i depositi e le infrastrutture ancora inutilizzabili. Tutto fermo, fin quando non verranno almeno rimosse le 600 mila tonnellate di detriti causati dai bombardamenti e non inizierà ad arrivare il materiale necessario alla ricostruzione. Facile a dirsi, ma non a farsi: per questo tipo di attività nel 2009 a Gaza sono stati fatti entrare 41 camion, contro i 7.400 veicoli al mese autorizzati prima del blocco imposto nel 2007.
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di Michele Paris
In seguito alla confusione provocata dal fallito attentato sul volo Amsterdam-Detroit il giorno di Natale, l’autorità americana per la sicurezza dei trasporti (TSA) ha disposto alcune discutibili e discriminanti forme di controllo nei confronti di alcuni passeggeri che si imbarcheranno per gli Stati Uniti. Le nuove disposizioni scatteranno automaticamente per i cittadini di 14 paesi - prevalentemente mediorientali e africani - e per tutti gli altri diretti in America e provenienti da una di queste stesse nazioni.
In attesa di conoscere i contenuti delle misure anti-terrorismo promesse da Obama dopo giorni di consultazioni con il proprio gabinetto e i consiglieri per la sicurezza nazionale, gli ultimi inutili provvedimenti promettono di rallentare ulteriormente le procedure d’imbarco nei grandi aeroporti e, soprattutto, di gettare le basi per uno screening permanente dei viaggiatori su base razziale.
A far parte della lista stilata dalle autorità d’oltreoceano saranno non solo paesi ritenuti “sponsor del terrorismo” come Iran, Sudan, Siria e, incredibilmente, Cuba; ma anche Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Iraq, Libano, Libia, Nigeria, Pakistan, Somalia e Yemen. I controlli speciali previsti a partire da lunedì scorso comprendono sistematicamente un’ispezione approfondita del bagaglio ed una perquisizione completa dei passeggeri che rientrano in questa categoria. Per tutti gli altri, invece, le verifiche eccezionali non saranno più automatiche - com’era stato disposto all’indomani dell’episodio natalizio sul volo della Northwest Airlines - ma scatteranno in maniera casuale o saranno dettate da situazioni sospette.
Alcuni paesi hanno poi annunciato negli ultimi giorni l’impiego di strumenti più sofisticati per il controllo dei passeggeri da imbarcare nei propri aeroporti. Come il controverso “body scanner”, che in pochi secondo riproduce un’immagine di un corpo nudo, sia pure di bassa qualità. Il via libera al suo utilizzo è già stato dato dal governo olandese per i voli diretti negli Stati Uniti. Allo stesso modo, si sono dichiarati a favore di un dispositivo gravemente lesivo della privacy dei passeggeri, e i cui effetti sulla salute sono tuttora ignoti, il Premier britannico, Gordon Brown, e il nostro Ministro dell’Interno, Maroni.
Oltre a creare ulteriori situazioni di tensione su scala internazionale implementando un sistema intrusivo per la ricerca di fantomatiche e sfuggenti sostanze esplosive, le nuove iniziative per la sicurezza dei voli hanno già suscitato un coro di proteste da parte dei gruppi a difesa dei diritti civili. Le direttive dell’ente per la sicurezza dei trasporti negli USA implicano, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento dei viaggiatori a seconda della loro nazionalità o del paese di provenienza.
Diventare un sospettato di legami con il terrorismo solo per il fatto di avere un passaporto di un paese musulmano risulta un evidente atto discriminatorio che non può far altro che alimentare il radicalismo di matrice islamica. Senza considerare poi il fatto che un tale sistema finisce in ogni caso per lasciare fuori dalla rete dei controlli quei cittadini americani o britannici che potrebbero avere legami reali con le reti terroristiche internazionali.
Come accadde con Richard Reid, passeggero di passaporto britannico e imbarcatosi a Parigi, quando nel 2002 cercò di far scoppiare un aereo per gli Stati Uniti con dell’esplosivo nascosto nelle scarpe. Per i voli interni in America, inoltre, le nuove disposizioni della TSA in questa forma non avranno alcun impatto. Ai passeggeri che viaggiano tra le varie città statunitensi, infatti, non è richiesto il passaporto ma è sufficiente mostrare, ad esempio, la patente di guida, così che la loro nazionalità spesso non viene nemmeno verificata.
Mentre i comportamenti paranoici nei confronti dei viaggiatori provenienti da paesi musulmani sono destinati a moltiplicarsi nei prossimi mesi, il nuovo giro di vite avallato da Obama assesta un ulteriore colpo alla pretesa volontà del presidente democratico di cambiare rotta rispetto ai disastrosi effetti della politica del suo predecessore nella lotta contro il terrorismo.
Rispetto incondizionato per i diritti civili ed uguaglianza di fronte alla legge finiranno così per essere ancora una volta calpestati, così come passerà nuovamente in secondo piano la riconciliazione tra Stati Uniti e mondo musulmano che questa amministrazione aveva annunciato dodici mesi fa. Una scelta sciagurata che non renderà l’Occidente un posto più sicuro.
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di Fabrizio Casari
Se tanti indizi formano una prova, allora sembra probabile che sia lo Yemen il teatro prescelto per l’ennesima guerra a stelle e strisce. Mediatica, diplomatica e militare, l’escalation di queste ore è evidente. Il fallito attentato al volo Northwest-Delta 253, partito da Amsterdam e diretto a Detroit il giorno di Natale, è stato l’innesco ideale per l’apertura di una campagna di stampa internazionale sul presunto pericolo che lo Yemen rappresenta per la sicurezza mondiale. Minacce di Al-Queda, normalmente gestite dall’intelligence, sono di colpo divenute notizie di rilievo assoluto, sulle quali si montano paginate di giornali e contatti diplomatici. La chiusura delle ambasciate di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giappone, con l’aggiunta della visita-lampo del Generale Petraeus a Sana’a, sembrano la risposta minacciosa alle minacce: sloggiamo i nostri per poter meglio colpire i vostri.
In realtà, che lo Yemen sia da diversi anni sotto l’influenza di Al-Queda non è una novità per nessuno. E tanto meno risulta una novità l’espansione progressiva dell’organizzazione di Osama bin Laden - o comunque, della galassia quedista - in lungo e in largo; dal Pakistan all’Afghanistan, dall’Indonesia al Maghreb, alla Somalia e, appunto, allo Yemen.
Lo stesso Yemen che in questi anni - ed anche recentemente - ha già avuto la sua dose di bombe e di vittime civili, i famosi “danni collaterali”. Questo, com’era prevedibile, non solo non ha piegato l’estremismo islamico, ma anzi l’ha rinforzato ed esteso. In un paese dove nessuna persona gira senza un’arma addosso, non è certo una buona notizia. Forse incrementare gli aiuti economici, invece che i bombardamenti, scaverebbe un fossato maggiore tra la popolazione e le sirene della Jihad. Per ora da Washington si nega qualunque idea d'intervento diretto, si afferma che “c’è l’impegno a sostenere il governo yemenita contro il terrorismo”, ma di solito il mezzo con cui si recapita il messaggio in qualche modo lo identifica. Quando il latore del messaggio é il comandante delle forze militari in Irak e Afghanistan, invece che un alto diplomatico, si vuole inviare un senso superiore al testo, un “tra le righe” che dice più delle righe stesse.
Ma per quanto un’azione punitiva statunitense possa essere devastante dal punto di vista della popolazione yemenita, la Casa Bianca sa - o dovrebbe sapere - che la guerra asimmetrica contro il terrorismo islamico non può essere condotta con gli schemi della guerra convenzionale. Non vince, non chiude: apre scenari che creano spirali ancora peggiori, invade ma non controlla, resta impantanata perché prevede un’inizio e non una fine, perde perché la guerra permanente, l’occupazione militare di paesi lontani decine di migliaia di chilometri, non può vincere.
Obama avverte la pressione interna dei repubblicani e cerca una strada per affermare una dottrina politico-militare che non si limiti a ripercorrere, pedissequamente, quella del suo predecessore. Non vi sono dubbi sulla diversa impostazione culturale e politica di Barak Obama nei confronti della cultura reazionaria che ha animato i maledetti otto anni dell’era neocon alla Casa Bianca. Ma la sua incapacità di gestire lo scontro interno, o la mancanza di strumenti e di forza per farlo, sembra indirizzarlo, per quanto involontariamente, sempre più nell’emulazione delle politiche internazionali di George Bush.
Mentre infatti ancora si attende il ritiro promesso dall’Irak, un nuovo corso in Medio Oriente, una exit extrategy degna di tal nome dall’Afghanistan ed un robusto cambio di linea in Pakistan, si firma il più imponente budget militare della storia statunitense, si accettano i golpe in America centrale, si riempie di basi militari l’America del Sud, si lascia campo libero a Netanyahu e ci s’infila in un corridoio angusto come quello yemenita, nel quale se si entra non sarà semplice uscire.
Eppure due cose dovrebbero essergli chiare: gli Stati Uniti hanno un’intelligence incapace di tenere la sfida con nemici che dimostrano di non avere timore e di espandersi in diversi paesi; le sue forze armate risultano seriamente inadatte a tenere il campo delle operazioni militari. Quella degli Stati Uniti è una crisi militare, oltre che politica ed economica, che mostra come la crisi profonda della leadership globale di Washington sia ormai un dato oggettivo, difficile da confutare con annunci di buone intenzioni e politiche sbagliate.
Servirebbe invece una dimostrazione di leadership e di capacità di tenere la barra del timone che corrispondesse all’aspirazione degli elettori americani e dell’opinione pubblica internazionale, che avevano visto in Obama la speranza di un’altra politica per un’altro Paese, diverso da quello ereditato. Servirebbero idee e decisioni che mirino a ristabilire il comando della politica sulle lobbies del petrolio e delle armi per definire concretamente il new deal. La ricerca del compromesso al ribasso a tutti i costi renderebbe invece chiara l’inadeguatezza del personaggio e l’incoerenza delle tesi sostenute con le azioni intraprese e farebbe sembrare la vittoria del primo presidente afroamericano alla Casa Bianca, poco più che un’operazione di maquillage politico e d’immagine.
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di Rosa Ana De Santis
Un nulla di fatto circondato da parole inutili. Si é conclusa così a Cartagena, in Colombia, la II Conferenza di revisione del Trattato di Ottawa sulla messa al bando delle mine anti uomo. La geografia delle responsabilità disegna un quadro non molto diverso da quello che abbiamo visto nel recente vertice della FAO o nella conferenza sul clima di Copenaghen. L’impegno del Nord del mondo vacilla e si sgretola. Un pezzetto per volta, in silenzio. Rwanda, Zambia, Albania e Grecia sono stati dichiarati liberi da mine, questo il risultato ufficiale di Cartagena, mentre solo l’Australia ha onorato gli impegni assunti per sostenere i programmi di bonifica e di sostegno alle vittime delle mine.
Il Trattato di Ottawa rappresenta un esperimento ben riuscito di proattività politica da parte della società civile; eppure, proprio quella parte significativa della Carta che riguarda il sostegno alle comunità colpite e l’assistenza alle vittime conta lacune ingiustificabili e dannose carenze istituzionali. Manca, ad oggi, la firma di adesione degli Stati Uniti, della Cina, della Russia e del Pakistan.
Quasi una fotocopia del Tribunale Penale Internazionale, quella bellissima architettura accademica di giustizia internazionale che manca delle adesioni decisive, che lo investirebbero di tutto il potere operativo che ancora non ha. Almeno non su tutti i Paesi. A poco più di dieci anni dalla sua entrata in vigore, al Trattato di Ottawa mancano le firme per potssano assegnarle pieno valore istituzionale e per non rimanere inghiottito nella bontà delle lodevoli iniziative degli aiuti internazionali e di volontariato.
L’Italia, ha sottolineato Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna italiana contro le mine, si è allineata perfettamente alle scelte dei Grandi e ha ridotto di molto i fondi destinati alla bonifica dei terreni minati e alla cura delle vittime. Il nostro Paese ha smesso di produrle - per legge - nel 1997, ma l’Afghanistan è ancora invaso dalle nostre vecchie produzioni e rimuovere ogni impegno nella direzione della bonifica equivale a voler rimuovere il passato senza ammende, per comoda amnesia di colpevolezza.
A questo va aggiunto che la capillare rete dei finanziamenti delle banche ai grandi gruppi industriali non impedisce affatto che continuino ad affluire i soldi nei lauti affari di chi produce questo orrore. E’ questo il caso di Eurizon Capital, la società d’investimenti del Gruppo Intesa-Sanpaolo, che alla fine del 2007 investiva 1,10 milioni di Euro nella società Lockheed Martin che produce proprio le mine anti-uomo.
Il report pubblicato annualmente sullo stato della bonifica dei terreni minati registra in ogni caso progressi anche in quei paesi che non hanno ufficialmente ratificato il Trattato, come Iran, Pakistan e Cina. Molti altri Paesi, mancando degli aiuti promessi, hanno richiesto proroghe per mettersi in regola. Tra questi Cambogia, Tagikistan e Uganda.
E’ chiaro che fintanto che gli Stati Uniti proteggeranno la macchina bellica che li sostiene, così come la Russia o l’India, nonostante la semina di morte fatta in Kashmir o in Cecenia, il Trattato di Ottawa rimarrà privo della forza politica di cui avrebbe bisogno. A Cartagena, Obama ha inviato per la prima volta una delegazione di rappresentanza. L’ennesimo piccolo passo avanti che forse, come tutte le altre mediazioni del Presidente americano, potrebbe rimanere a fare buona propaganda e nulla di più. E’ ancora il tempo della speranza e non degli impegni. Per ora, su quei quasi 700 tipi di mine, seppellite a mano o poggiate sui terreni, con carica esplosiva per uccidere un bersaglio da 50 a 200 metri, quelle cosiddette a “farfalla” scambiate spesso dai bambini per giocattoli o quelle a frammentazione“saltante” si continua a morire, si perdono braccia e gambe. Le vittime sono civili per il 90%.
Le chiamano “perfect soldiers” perché non mancano mai il bersaglio. La loro eredità è fatta di tante storie. Si fa fatica a leggerle navigando su internet nei siti delle associazioni di volontariato che le raccolgono. Storie che raccontano della bestialità degli uomini, incurabile condizione antropologica, e di un sistema politico-economico degenerato che trova naturale e conveniente il matrimonio indissolubile tra gli affari e le sue vittime.
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di Eugenio Roscini Vitali
L’Egitto, il Regno Saudita ed altri paesi arabi, presumibilmente gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Kuwait e il Qatar, starebbero elaborando una mozione da presentare alle Nazioni Unite nella quale verrebbe rivendicato il diritto palestinese alla creazione di uno Stato arabo entro i confini antecedenti il terzo conflitto arabo-israeliano, vale a dire la frontiera fissata prima del 5 giugno 1967 che includeva la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est capitale. La notizia, apparsa il 27 dicembre scorso sul quotidiano in lingua inglese The Jordan Times, parla di indiscrezioni israeliane secondo le quali la proposta, sviluppata segretamente in modo da evitare ogni possibile interferenza, dovrebbe essere portata sul tavolo del Consiglio di Sicurezza dalla Libia o dal Libano.
Inoltre, in caso di veto statunitense, l’Autorità Nazionale Palestinese rassegnerebbe le sue dimissioni e nessun membro dell’attuale amministrazione o appartenente alla corrente moderata di Fatah concorrerebbe alle prossime elezioni presidenziali. Un fatto gravissimo, che metterebbe con le spalle al muro sia Washington che Gerusalemme: secondo la Costituzione palestinese infatti, nel caso in cui la carica istituzionale ricoperta da Abbas dovesse rimanere vacante, subentrerebbe automaticamente il presidente del Parlamento, Abdel Aziz Duaik, membro di Hamas già condannato dal tribunale militare israeliano di “Ofer” a 36 mesi di detenzione per appartenenza al gruppo parlamentare “Cambiamento e Riforma”.
Il Re saudita Abdullah, il presidente egiziano Mubarak e lo stesso Abbas contano sul fatto che il rappresentante della Casa Bianca all’Onu sarà comunque costretto a non boicottare il tentativo arabo, almeno fino a quando la soluzione del conflitto israelo-palestinese rimarrà una delle priorità in testa all’agenda internazionale dell’attuale amministrazione americana. Nel caso in cui Washington dovesse astenersi, in favore dell’iniziativa araba si potrebbero schierare almeno dieci dei 15 membri del Consigli di Sicurezza.
Secondo Abbas, infatti, a garantire la ratifica di una risoluzione che in pratica metterebbe fine ad ogni futura discussione sulla delimitazione dei confini palestinesi, ci sarebbero i voti favorevoli di Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna, così come quelli dei paesi africani, asiatici e sud americani. Un impegno il cui impatto politico potrebbe essere sicuramente paragonato a quello del 29 novembre 1947, quando l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvando la Risoluzione 181, diede il via al Piano di spartizione della Palestina elaborato dall'UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) per la creazione di due Stati: uno ebraico, l'altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale.
Per Washington e Gerusalemme la questione palestinese diventa ancora più spinosa, se si pensa che a Beirut si torna a discutere sulla legittimità della Risoluzione 1559 con la quale, il 2 settembre 2004, le Nazioni Unite, oltre a ribadire il rigoroso rispetto della sovranità ed integrità nazionale del Libano, chiedevano il ritiro di tutte le forze straniere ancora presenti sul territorio e lo scioglimento e il disarmo di tutte le milizie, Hezbollah inclusa. Secondo fonti israeliane, il 23 dicembre scorso il ministro degli Esteri libanese, Ali al-Shami, avrebbe infatti informato la Casa Bianca sulle intenzioni del presidente Michel Suleiman di chiedere l’annullamento della Risoluzione 1559.
Un’iniziativa duramente criticata dalla stessa coalizione di governo che, attraverso le parole del portavoce dell’alleanza “14 marzo”, Fares Soueid, avrebbe parlando di eccessiva e contestabile libertà d’azione. La richiesta di revisione della Risoluzione Onu arriva poi a poche ore dai colloqui di Damasco tra il premier libanese, Saad al-Hariri, e il presidente siriano, Bashar al-Assad, ed in concomitanza con l’incontro a Beirut tra il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, e il leader del movimento sciita Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah.
Fatti concomitanti e che lasciano intravedere nuovi scenari. Il viaggio in Siria del nuovo primo ministro libanese, il primo dopo cinque anni di conflitto tra Damasco e la vasta alleanza politica guidata da Hariri, segna infatti l’inizio di una nuova fase di relazioni diplomatiche destinate a rafforzare la cooperazione tra i rispettivi governi e, molto probabilmente, a garantire un Libano più stabile. Anche se il neonato governo di unità nazionale ha ottenuto un larghissimo voto di fiducia (122 dei 128 voti disponibili), a Beirut il dibattito parlamentare ruota ancora intorno alla legittimità dell’arsenale del movimento sciita appoggiato da Iran e Siria.
L’esecutivo del sunnita Hariri, che per anni ha accusato Damasco di aver ucciso suo padre, lo statista Rafik al-Hariri, e che nell'aprile 2005 ha costretto la Siria a ritirare le sue truppe, non è l’unico a sostenere il diritto di Hezbollah ad avere le armi. Il leader cristiano maronita Michel Aoun, generale cristiano che il 14 marzo 1989 lanciò contro l’esercito siriano la sua personale “guerra di liberazione del Libano”, è certo che per il Paese il movimento sciita significa sicurezza e libertà. Rispondendo alle critiche del capo delle Forze libanesi, Samir Geagea, Aoun parla di “difesa del diritto ad una resistenza armata come beneficio per il Libano”, mentre ai falagisti di Bachir Gemayel contesta i ripetuti tentativi portati avanti per modificare il paragrafo 6 del documento programmatico del governo, nel quale si ribadisce il diritto del Libano, della sua gente, del suo esercito e della sua resistenza (Hezbollah) a liberare i territori occupati di Shebaa e le colline di Kfar Shouba.