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di Emanuela Pessina
BERLINO. Nonostante la recente qualificazione ai mondiali di calcio del 2010, la Grecia ha poco da festeggiare: la sua pessima situazione economica preoccupa l'Europa intera a tal punto che qualcuno parla di una nazione a rischio bancarotta. E, come non bastasse, a un anno dalla morte del quindicenne Alexandros Grigoropoulos, assassinato dalla pallottola di un poliziotto durante le manifestazioni di piazza del 2008, sono riprese le proteste degli studenti. Gli unici, a quanto pare, disposti a manifestare apertamente contro un sistema che deve trovare la forza di rinnovarsi completamente.
I mercati e i governi di tutto il mondo stanno seguendo con aperta preoccupazione l'evoluzione della situazione economica della Grecia: le azioni stanno precipitando e la credibilità del Paese continua a scendere. Secondo una recente previsione dell'agenzia di rating americana Standard & Poor, il debito pubblico della Grecia potrebbe raggiungere, nel 2010, il 125 percento del Pil, mentre il deficit effettivo, al momento, è del 13 percento. In più, la Grecia risulta tra i Paesi più corrotti della Comunità Europea, raggiungendo il 71/mo posto nella classifica mondiale di Transparency (tanto per fare un piccolo confronto, l'Italia si trova al 63/mo posto).
Le cifre sono spaventose, ma il ministro delle Finanze greco Giorgos Papakonstantinou non ha mancato di rassicurare l'economia e la politica mondiale, cercando di fugare quelle voci di corridoio che vorrebbero la Grecia sull'orlo della bancarotta. "Non c'è assolutamente nessun rischio", ha assicurato Papakonstantinou. "Noi non saremo la prossima Islanda". Secondo il ministro, infatti, il 2010 sarà un anno difficile, ma "non impossibile".
Per Gennaio, Papakonstantinou ha promesso alla Comunità Europea un ambizioso programma di stabilità finalizzato a riequilibrare l'economia. Tra i punti principali del piano ci sono la sospensione delle assunzioni pubbliche, la riduzione delle spese statali del 10 percento e una più attenta lotta alle evasioni fiscali. Anche il primo ministro socialista Giorgios Papandreou, da parte sua, ha appoggiato il programma di stabilità di Papakonstantinou, ammettendo tuttavia la difficoltà di quella che sembra essere l'unica via di salvezza per l'economia greca.
Il premier socialista Papandreou (Pasok) è stato eletto appena due mesi fa, andando a sostituire l'ex premier Costas Karamanlis (Nea Demokratia) e il suo governo di centrodestra, allora al potere da sei anni. La popolazione ha riposto in lui parecchia fiducia: Papandreou, infatti, vanta profonda conoscenza della res politica, in quanto viene da una delle duefamiglie che - insieme ai Karamanlis - da decenni si alternano alla guida del Paese. Anche suo padre e suo nonno sono stati Premier.
Ma gli studenti non credono alle promesse della politica: i problemi contro cui hanno manifestato così violentemente nel dicembre 2008, che hanno portato alla morte del quindicenne Grigoropoulos per mezzo della pallottola di un poliziotto, non sembrano loro essere sulla via di una giusta risoluzione. E, nonostante Papakonstantinou abbia minacciato nei confronti di qualsiasi "tafferuglio" tolleranza zero, anche quest'anno sono scesi in piazza, mettendo a soqquadro, come in un pauroso dejá vu, il centro di Atene.
Il sistema educativo greco presenta, in realtà, numerose lacune, che vanno a intaccare anche ia società più in generale. Secondo informazioni del quotidiano berlinese Tagesspiegel, chi frequenta le scuole pubbliche greche è obbligato a prendere ulteriori lezioni private per superare gli esami. In un anno, le famiglie greche spendono in insegnanti privati circa 750 milioni di Euro. Secondo l'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD), gli studenti che iniziano l'università in Grecia sono, in media, 86 mila all'anno, mentre quelli che studiano presso atenei stranieri sono, al momento, più di 50 mila. Il rapporto non è certo dei più sani. La Grecia, tra l'altro, è il Paese europeo con la percentuale più alta di disoccupazione tra i giovani dai 16 ai 25 anni: e chi trova lavoro si deve accontentare di uno stipendio fissato per legge a 715,65 euro. Ce n’è abbastanza per manifestare.
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di Michele Paris
In un’escalation di dolorose concessioni, la sinistra del Partito Democratico americano ha visto quasi definitivamente svanire le residue possibilità di creare un efficace piano pubblico di assistenza sanitaria nell’ambito della riforma in discussione al Congresso. Dal gruppo dei dieci senatori di maggioranza - cinque appartenenti all’ala liberal ed altrettanti a quella moderata - incaricati di limare le differenze interne al partito, per permettere il passaggio in aula dell’intero progetto di legge, è uscita infatti una proposta che ancora una volta si è risolta in un compromesso al ribasso.
Dopo nove giorni di discussioni al Senato, in seguito all’approvazione di un provvedimento simile alla Camera dei Rappresentanti lo scorso mese di novembre, l’ostacolo principale appare sempre l’eventuale inclusione nella riforma sanitaria di quell’opzione pubblica tanto avversata dai repubblicani e dai democratici di centro. Vista l’impossibilità di raccogliere i 60 voti necessari a superare l’esame dell’aula, il leader di maggioranza Harry Reid aveva così delegato un comitato ristretto di senatori del suo partito a trovare una soluzione condivisa.
Secondo le parole di alcuni parlamentari coinvolti nelle trattative, la proposta partorita non cancellerebbe il piano pubblico di assistenza sanitaria ma lo metterebbe piuttosto “ai margini” della riforma. Un nuovo programma gestito dal governo federale, sostenuto dalla maggioranza dei democratici nei due rami del Congresso, dalla Casa Bianca e dalla maggioranza degli americani, verrebbe così rimpiazzato da una serie di polizze fornite da compagnie private. Per mantenere una parvenza d’intervento pubblico in un sistema che sarà invariabilmente dominato dal settore privato, tali piani di assistenza saranno negoziati dall’Office of Personnel Management, un’agenzia governativa che gestisce la copertura sanitaria dei dipendenti federali.
Solo nel caso le compagnie assicurative private non fossero in grado di assicurare polizze ritenute sufficientemente economiche per le tasche degli americani non coperti, il governo federale sarebbe chiamato a istituire un vero e proprio piano pubblico come quello che verosimilmente verrà stralciato dal testo all’analisi del Senato. Nella nuova proposta democratica è presente inoltre un allargamento del popolare programma pubblico Medicare, destinato attualmente agli over 65. Su insistenza della sinistra del partito, verrebbe consentita l’adesione a questo piano a partire dal compimento del 55esimo anno di età.
Il nuovo percorso indicato dai dieci senatori democratici, nonostante l’appoggio incassato dal presidente Obama, sembra in ogni caso ancora molto lontano dal poter costituire l’esito finale del delicatissimo dibattito in corso. Tanto per cominciare, la leadership democratica dovrà presentare la proposta a tutta la propria delegazione al Senato. Molti esponenti liberal potrebbero allora esprimere riserve, se non addirittura la loro contrarietà all’affossamento del piano pubblico. Se anche si riuscisse a trovare un consenso in questi termini all’interno della maggioranza al Senato, il provvedimento finale dovrebbe essere comunque combinato con quello già approvato dalla Camera e che contiene un piano pubblico ben più robusto.
Per un piccolo passo avanti verso l’approvazione della riforma nella Camera alta del Congresso americano, una nuova complicazione è però sopraggiunta contemporaneamente a disturbare il sonno del numero uno democratico, Harry Reid. L’aula ha infatti bocciato un emendamento che avrebbe proibito l’utilizzo di fondi pubblici per accedere all’aborto. Il provvedimento respinto con il voto di 50 democratici, due indipendenti e le due senatrici repubblicane del Maine, Susan Collins e Olympia J. Snowe, avrebbe colpito le donne appartenenti alle fasce più basse di reddito. L’interruzione di gravidanza sarebbe stata cioè esclusa dalla copertura sanitaria di coloro che, pur avendo acquistato un’assicurazione privata, riceveranno in qualsiasi misura i sussidi pubblici previsti dalla riforma.
La bocciatura di tale norma sull’aborto, approvata invece dalla Camera nel quadro della trattativa tra le varie anime democratiche, rischia di privare il partito di maggioranza al Senato del voto del senatore del Nebraska, Ben Nelson. Fautore del discutibile emendamento assieme al collega repubblicano dello Utah, Orrin G. Hatch, Nelson è uno dei democratici più conservatori al Congresso e ha minacciato più volte di votare con l’opposizione sulla riforma sanitaria in caso il testo finale non contenga restrizioni all’accesso all’interruzione di gravidanza.
Dal momento che il Partito Democratico non potrà permettersi nemmeno una sola defezione tra le proprie file al momento del voto decisivo, il voto di ogni singolo senatore diventa fondamentale. Anche per questo motivo, l’iter legislativo della riforma sanitaria al Senato si sta trasformando in un crescendo di concessioni a quella manciata di democratici appartenenti alla destra del partito e alle due già citate senatrici repubblicane, le quali, uniche nel loro partito, potrebbero considerare un voto a favore.
Il complicato cammino della riforma del sistema sanitario americano procederà nei prossimi giorni con il voto su molti altri emendamenti presentati da entrambi gli schieramenti. Tra i più contrastati vi è quello introdotto da 16 senatori democratici e 4 repubblicani per permettere l’importazione di medicinali dal Canada e da altri paesi dove i prezzi risultano di molto inferiori a quelli applicati negli USA.
Su quest’ultimo tema, tuttavia, si è già espressa negativamente la numero uno della Food and Drug Administration (FDA), Margaret Hamburg (nominata da Obama la scorsa primavera), ufficialmente per scongiurare possibili incognite legate alla sicurezza dei farmaci importati. Più realisticamente, invece, per evitare nuovi scontri con le industrie farmaceutiche che, da tempo, hanno stipulato un patto con la Casa Bianca per fissare paletti ben precisi alle concessioni che da esse verranno estratte un volta approvata la riforma sanitaria.
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di Mario Braconi
A quasi quattro anni dall'inizio della guerra in Iraq, la Gran Bretagna si interroga ancora una volta sulla legalità della sua malaugurata scelta bellica. Questa è la volta della Chilcot Inquiry, una commissione di inchiesta presieduta da Sir John Chilcot, il cui obiettivo è analizzare il coinvolgimento della Gran Bretagna nelle ostilità in Iraq dalla metà del 2001 fino al 2009. La commissione, apertasi lo scorso 24 novembre, si sta concentrando sulle "modalità con le quali si è svolto il processo decisionale (relativo all'invasione), al fine di determinare che cosa sia effettivamente successo e di trarre utili insegnamenti dalla passata esperienza. Il suo obiettivo dichiarato è assicurare che, qualora simili circostanze si verifichino in futuro (premessa spaventosa, n.d.r.), il governo che sarà al potere in quel momento si trovi nella condizione di gestirle nel modo più efficiace e nell'interesse del paese".
Perfino in un paese nel quale il controllo delle emozioni è considerato virtù nazionale (l'"immobile labbro superiore" britannico), l'adesione di Blair al folle progetto militare di Bush e dei suoi scagnozzi costituisce un trauma collettivo. Cui si spera di porre rimedio tramite il rituale delle commissioni d’inchiesta: la Butler Review (2004), il cui obiettivo era valutare il lavoro dell'intelligence britannica sulle - inesistenti - armi di distruzione di massa in Iraq e la Hutton Inquiry, che avrebbe dovuto indagare sul presunto "suicidio" del Professor David Kelly, esperto governativo di biologia, uno dei pochi ad aver letto in anteprima il celebre dossier del Governo britannico secondo cui Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa in grado di colpire la Gran Bretagna in 45 minuti.
Si tratta, in gran parte, di sedute di psicoanalisi collettiva. Per il resto, le commissioni si sono dimostrate uno spreco di tempo e denaro: la Butler Review, chiamata a giudicare sull'operato di servizi segreti che hanno costruito un casus belli su un dossier taroccato venduto sottobanco dal noto "sòla" Niccolò Pollari del SISMI direttamente alla Casa Bianca, si è limitata concludere che si poteva fare meglio, senza peraltro identificare i responsabili della vergognosa truffa costata migliaia di vite innocenti.
La Hutton Inquiry, dal canto suo, ha incredibilmente concluso che il professor Kelly si è suicidato; inoltre, la Hutton Inquiry, è ha censurato per lesa maestà Andrew Gillighan, il giornalista BBC che ha intervistato Kelly prima della sua morte misteriosa: si era infatti spinto a scrivere che "forse" Downing Street era a conoscenza della falsità del report - un'ipotesi che, leggendo quanto segue, è più che credibile. Per quanto la commissione abbia fatto il possibile per insabbiare il caso, lo scorso 5 dicembre sei medici hanno iniziato un'azione legale finalizzata a riaprire l'inchiesta sulla morte del professore: dal loro punto di vista, infatti, la recisione dell'arteria ulnare - causa di morte ufficiale di Kelly - non sarebbe stata sufficiente a causarne il decesso.
Come nota Adrian Hamilton sull'Independent, basta scorrere la lista dei membri della commissione Chilcot sull'Iraq per capire che anch’essa culminerà con la produzione di un "report che, dopo aver raccolto una montagna di documenti, interrogato infiniti testimoni, portato alla luce un po' di materiale interessante per far contenti i giornalisti", finirà per confermare che "ci sono stati sì problemi nel determinare la causa della guerra e gravi carenze nella pianificazione dell'occupazione militare, ma non c'era stata vera disonestà di intenti, nessuna vera intenzione di mentire al Parlamento, nessuna autentica illegalità".
Infatti, è difficile credere che i membri della commissione siano "assolutamente indipendenti" e dotati di punti di vista "eterogenei" come pure pretendono di essere. Non solo nessuno dei componenti, infatti, a suo tempo ha preso posizione contro la guerra in Iraq; non solo il suo capo, Sir Chilcot, è noto per essere stato uno degli esaminatori più molli della Butler Review - ma tra i suoi membri vi sono due storici, Michael Freedman, convinto assertore degli interventi militari "umanitari", e Martin Gilbert, che ammira Bush e Blair al punto da spingersi a paragonarli, rispettivamente, a Roosevelt e Churchill.
L'intervento di David Manning (ex consigliere dell'ex Primo Ministro Tony Blair sulla politica estera) davanti alla Commissione Chilcot è particolarmente interessante: secondo Mannig, nel corso dell'incontro presso il ranch della famiglia Bush in Texas (6 aprile del 2002), Blair, pur ammettendo che la politica del suo Paese era di sostenere le Nazioni Unite nel loro tentativo di disarmare Saddam Hussein, era "assolutamente disposto a considerare un cambio di regime nel caso le misure delle Nazioni Unite non avessero funzionato".
Dunque, Blair, fin dall'aprile del 2002 (vale a dire, circa 11 mesi prima dell'inizio delle ostilità) era pronto ad andare in guerra, anche se al Parlamento (e al Governo) continuava a dire il contrario: ad esempio, il 16 luglio 2002, la sua risposta alla domanda "ci stiamo preparando ad una guerra?" fu un secco diniego. Del resto, un documento segreto passato sottobanco al Daily Telegraph lo scorso 21 novembre (ma disponibile in rete sul sito Wikileaks dall'agosto del 2008), conferma che il Generale Graeme Lamb stava lavorando sull'ipotesi di una guerra addiritttura nel febbraio del 2002.
David Manning, inoltre, è rispettivamente autore e destinatario di due memo segreti, anche essi disponibili in internet (www.afterdowningstreet.org) dal 2005, che si rivelano altrettanto - se non più - imbarazzanti per Blair: nel primo, datato 14 marzo 2002, Manning riferisce al Primo Ministro di un incontro one-to-one con Condi Rice, nel quale i due hanno parlato diffusamente della questione Iraq. "E' evidente che Bush ti è grato per il sostegno e si è reso conto che per questa ragione ti stai rendendo inviso."
Scrive Manning a Tony Blair: "Gli ho detto che tu non cambierai idea sul tuo supporto all'idea del cambio di regime, anche se devi gestire una stampa, un Parlamento ed una opinione pubblica con orientamenti molto diversi da quelli americani. Ma gli ho anche detto che insisti nella tua idea che, se si deve operare un cambio di regime in Iraq, il tutto deve essere fatto con molta attenzione e produrre i risultati sperati. Non possiamo permetterci di fallire. La faccenda degli ispettori deve essere gestita in modo da convincere gli Europei e gli altri che gli USA tengono nella giusta considerazione la giustizia internazionale, nonché l'insistenza di diverse nazioni sull'esistenza di una base legale per dichiarare la guerra. Il ripetersi del rifiuto di Saddam ad accettare libere ispezioni può costituire un valido argomento".
Nel secondo, del 18 marzo 2002, Manning riceve la relazione dell'allora ambasciatore britannico negli USA, Christofer Meyer, sul contenuto di un incontro che quest'ultimo ha avuto con Wolfowitz (allora vice ministro della Difesa USA). Nel corso del meeting, scrive Meyer, "gli ho riferito che il Regno Unito sta pensando seriamente di pubblicare un documento che giustificherebbe la guerra." Questi documenti, certamente in grado di mettere in grave difficoltà Tony Blair, sono stati passati alla commissione Chilcot, anche se a Manning non è stato finora chiesto di commentarli.
L'eccessiva delicatezza della commissione ha fatto molto arrabbiare Philippe Sands, avvocato e professore universitario molto critico verso le politiche di Bush e Blair: "Sono rimasto scioccato dall'interrogatorio; sorpreso e deluso dalla decisione della commissione di non mettere Manning sotto pressione sui temi cui si riferiscono i due memo segreti", ha riferito al cronista del Guardian che lo ha interpellato.
Blair dunque era convinto di invadere l'Iraq sin dall'inizio, anche se, giustamente paventando una "rivolta pacifista", si è guardato bene dal far conoscere la sua strategia non solo al Parlamento, ma perfino ai membri del suo governo. Solo il 23 luglio 2002 i membri del gabinetto vennero informati della decisione del primo ministro di invadere l'Iraq. Qualche giorno più tardi Lord Goldsmith, Attorney General, scrisse un breve documento sulla sua carta intestata, firmandolo di suo pugno, nel quale sosteneva che: 1) un cambio di regime in Iraq non avrebbe reso legittima la guerra; 2) era esclusa la possibilità di attaccare l'Iraq con il pretesto della legittima difesa; 3) in nessun caso sarebbe stato possibile spacciare l'invasione dell'Iraq per intervento umanitario; 4) le delibere ONU degli anni Novanta contro Saddam non sarebbero state di alcuna utilità per i fini del governo inglese.
Insomma, almeno in un primo momento, Goldsmith decise di non vestire i panni dell'assolutore ufficiale di Blair. Anzi, mise nero su bianco le sue perplessità, cosa che fece infuriare Blair (aduso a comunicazioni verbali e con pochissimi testimoni) al punto da vietare a Goldsmith di partecipare alle riunioni di governo, a meno non vi fosse esplicitamente invitato dal premier.
Secondo il Daily Mail, foglio popolare e reazionario ma da sempre contrario alla guerra in Iraq, che ha rivelato il primo dicembre lo "scoop" della lettera di Goldsmith, egli è una persona onesta schiacciata dai mastini di Blair (la Baroness Morgan e Lord Falconer). E' possibile che i metodi di Blair e la sua allergia alla verità abbiano creato qualche problema a Sir Goldsmith; ma bisogna pur ricordare che c'è la sua firma sotto lo stringato documento datato 17 marzo 2003 (tre giorni prima dell'inizio della guerra in Iraq), con il quale, di fatto, egli sosteneva che la guerra era legale. Una squallida storia di vigliaccheria e di tornaconto personale, visto che Goldsmith deve tutto (titolo compreso) al suo vecchio amico Tony.
Anche se la commissione Chilcot non arriverà probabilmente da nessuna parte ed è comunque escluso che Blair venga accusato per crimini di guerra (per avere mandato la Gran Bretagna in guerra senza alcuna causa) e/o per violazione delle norme della convenzione di Ginevra (per aver spedito soldati al fronte con pochissima preparazione, causandone la morte nonché un non valutato "danno collaterale" civile), c'è almeno da augurarsi che l'opinione pubblica britannica (e non solo) si renda conto di che tipo di personaggio sia Tony Blair.
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di mazzetta
In Africa ci sono tre paesi che condividono lo stesso nome, destini diversissimi e identiche, pessime, condizioni di vita della popolazione. Nel Golfo di Guinea si affaccia la Guinea Equatoriale, ex colonia spagnola benedetta dalla presenza del petrolio nelle sue acque territoriali. La Guinea Equatoriale ha un territorio continentale quasi disabitato e due isole nel golfo, dove c'è la capitale e dove risiede la maggior parte della popolazione, composta di appena seicentomila anime. Nonostante un reddito pro-capite tra i più alti d'Africa, gli equato-guineani sono in genere tra i più poveri del continente a causa della rapina sistematica delle finanze nazionali da parte della famiglia presidenziale, a confermarlo ci sono la centoquindicesima posizione nell'indice dello sviluppo umano e la presenza stabile nella top ten dei paesi più corrotti.
Il presidente si chiama Teodoro Obiang ed ha appena trionfato alle elezioni per il secondo mandato con il 95,37% dei voti, inferiore al 97% raccolto la prima volta. Non c'è bisogno di dire che gli osservatori internazionali hanno dichiarato le elezioni una farsa. Già così non è una gran bella presentazione, ma in realtà c'è di peggio, perché Obiang è al potere dal 1979, anno nel quale si auto-promosse leader dalla posizione di capo della polizia del regime, uccidendo suo zio e prendendone il posto.
Insieme allo zio Obiang aveva già fatto scappare centomila guineani dal paese, un terzo degli abitanti d'allora. I “due mandati” citati dalla stampa sono quelli relativi al nuovo secolo, quando ha dovuto inscenare le elezioni per darsi una minima presentabilità. Non dovrebbe essere difficile “portare la democrazia” in Guinea Equatoriale, ma gli ottimi rapporti di Obiang con la EXXON, che ne fanno il terzo fornitore africano di petrolio degli USA e il prezzo di assoluto favore per le concessioni, hanno fatto diventare invisibili alle opinioni pubbliche occidentali Obiang e il suo regime.
Quando nel 2004 un gruppo di spietati mercenari africani, in combutta con Mark Thatcher, ha cercato di rovesciarlo, Obiang è riuscito a prevenire il colpo con l'aiuto del collega Mugabe, ha arrestato i mercenari (qualche decina) li ha condannati all'ergastolo. Li ha poi rilasciati solo recentemente per “ragioni umanitarie” facendoci pure bella figura. La consistenza militare di Obiang è prossima allo zero, tanto che per la sua sicurezza personale si avvale di guardie marocchine, mentre la capitale si è dimostrata vulnerabile persino alle incursioni di “pirati” nigeriani.
I buoni rapporti con gli americani gli sono tanto cari che spende milioni di dollari per l'opera di agenzie di lobbying e di costruzione dell'immagine negli Stati Uniti, ma con l'Onu proprio non gli riesce d'andare d'accordo: quando l'Onu si è lamentata per l'assenza di libertà e per lo scarso rispetto dei diritti umani, lui ha represso; quando gli ha fatto notare lo stato della baraccopoli accanto alla capitale; l'ha fatta radere al suolo dalle ruspe.
Più a Nord c'è la Guinea e basta, o Guinea Conakry, la più grande delle tre. Ex colonia francese è stata la prima ad affrancarsi dalla Francia nel 1958. Dieci milioni di abitanti, famosa per la bauxite e altre risorse naturali, anche questa Guinea ha avuto un solo leader per molti anni e due in tutto dall'indipendenza: l'impresentabile Lansana Conte dal 1984 e il suo predecessore Tourè, decisamente più socialisteggiante. Sorvolando sui suoi meriti e sui massacri che ha ritenuto necessari per conservarsi al potere, Conte ha avuto il cattivo gusto di morire questa estate senza preoccuparsi della successione e suo figlio non ha avuto la presenza di spirito sufficiente ad imporsi alla sua morte. Molto più veloce è stato il capitano Moussa Camarà, che alla morte del dittatore ha preso il potere con pretese moralizzatrici e grande spendita di buone intenzioni.
Poi è finita che Camarà non ha ancora materializzato le elezioni promesse e ha annunciato che, contrariamente a quanto annunciato per dirsi nobilmente disinteressato, si presenterà candidato alle presidenziali. Dopo aver accusato alcuni funzionari governativi e lo stesso figlio di Conte di traffico di droga, li ha però perdonati, preferendo accanirsi sulla “società civile” e sui politici d'opposizione. Opposizione intimidita anche con un vero e proprio massacro, quando le sue truppe hanno sparato sugli oppositori riuniti pacificamente in uno stadio e poi si sono dati allo stupro di decine di povere donne in giro per la città. Camarà ha dato la colpa all'opposizione e annunciato un'inchiesta, ma da quel giorno il suo capitale di credibilità è crollato, all'interno come all'estero.
“La sua politica non piacque, dopo tre mesi morì.” È il sunto della storia politica di uno dei tanti consoli romani che c'era sul mio libro di storia alle superiori, un epitaffio che poteva calzare benissimo anche per Camarà, se non fosse che il suo braccio destro gli ha sparato, ma non è riuscito ad ucciderlo. Sulle sue condizioni c'è ora un certo riserbo, è stato portato in Marocco per essere curato, mentre il vice-presidente è rientrato di gran carriera dall'estero e le notizie -necessariamente ottimiste- sulla sua salute, non sono verificabili. Il barometro politico tende al pessimismo, massacri e miseria ancora più nera sembrano dietro l'angolo a Conakry, Francia e vicini osservano interessati.
Ancora più a Nord c'è la Guinea-Bissau, ex colonia portoghese, un milione e mezzo di abitanti e un fantastico regime multipartitico che rappresenta una rarità per l'Africa Occidentale post-coloniale. La Guinea Bissau è diventata indipendente solo nel 1975, dopo una guerra vinta contro il regime fascista portoghese con l'aiuto di Cuba e di altri paesi, che ha portato anche all'indipendenza di Capo Verde. A lungo governata da Luis Cabral, fratello del defunto eroe della resistenza Amilcar Cabral, ha poi avuto un'evoluzione simile a quella di molti paesi dello spazio ex-sovietico, con il mantenimento del potere nelle salde mani dell'apparato militare e la guida affidata a un leader proveniente dai ranghi del vecchio potere.
Questa estate alcuni militari hanno ucciso il presidente Vieira, poche ore dopo l'assassinio del capo dell'esercito. Nelle settimane a seguire molti altri dell'entourage di Vieira sono passati a miglior vita, senza che alcuno rivendicasse l'uccisione del leader civile e di quello militare, la certificazione della verità è stata affidata a una commissione priva di poteri e di finanziamenti. La lotta invisibile all'interno degli apparati militari guineani ricalca lo stile severo di stampo sovietico e lo stesso Vieira nel '99 aveva purgato i ranghi militari sterminando gli oppositori prima d'affrontare le “elezioni”.
Che le elezioni siano state free&fair dopo accadimenti del genere non deve stupire, il potere guineano in questo caso non vive d'apparenza, ma all'ombra dello stato nascosto, quasi clandestino, costruito ai tempi della lotta anti-coloniale. Le elezioni si sono tenute, il vincitore è stato riconosciuto dal suo principale avversario e non ci sono stati moti di piazza e nemmeno stragi, a suo modo un risultato eclatante. Anche in questo caso il problema principale è rappresentato dalle ingerenze straniere, che nel caso assumono la forma del grande traffico internazionale di cocaina, che usano la Guinea come piattaforma di lancio verso i ricchi mercati occidentali, un flusso di denaro che attira l'interesse degli apparati di sicurezza e rischia di trasformare la Guinea in un narco-stato.
Potenze meno rilevanti di quelle del colonialismo economico e nazionalista, ma potenze che hanno la forza sufficiente per affermarsi in un piccolo paese castrato dalle ambizioni di una casta militar-poliziesca che ha poco interesse per lo sviluppo del paese e ancora meno per le condizioni di vita dei concittadini.
Per quanto diverse possano essere le storie e le cronache delle tre Guinea, per quanto possano essere ricche o povere, il destino della loro popolazione è straordinariamente simile e prevede un reddito inferiore al dollaro al giorno, pochi diritti, zero servizi e una buona dose di violenza. Nonostante le differenze, i tre paesi vivono al di sotto dell'attenzione dell'opinione pubblica globalizzata, segno che in fondo a molti va bene così.
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di Michele Paris
A poco più di un anno dal trionfo elettorale, l’entusiasmo degli elettori che aveva proiettato Barack Obama alla Casa Bianca sembra essere in parte scemato. Approdato alla guida di un paese affascinato dalla sua promessa di cambiamento, dopo i due mandati di George W. Bush ed altrettante guerre dispendiose, il primo presidente nero della storia americana ha visto spegnersi a poco a poco lo slancio delle molte iniziative di legge delineate durante la campagna elettorale dello scorso anno, nonostante una schiacciante maggioranza democratica al Congresso. Oltre alle evidenti incertezze di Obama, la paralisi di numerose iniziative che occupano un posto di primo piano nell’agenda presidenziale, o la loro approvazione in una versione decisamente moderata, sono anche la conseguenza di una procedura parlamentare che si risolve spesso in un formidabile strumento di potere in mano alla minoranza.
Il cosiddetto “filibuster” è un procedimento previsto dal regolamento del Senato degli Stati Uniti - non contemplato dalla Costituzione - che sempre più viene visto con preoccupazione dai leader del partito di maggioranza. Questo dispositivo ratifica l’ostruzionismo della minoranza prolungando indefinitamente il dibattito parlamentare e divenne famoso con il film di Frank Capra del 1939, “Mr. Smith va a Washington”, nel quale un senatore idealista interpretato da James Stewart sfidava gli interessi dei poteri forti bloccando i lavori della Camera alta del Congresso. Impiegato da qualche anno con uno spirito ben diverso da quello originario, il “filibuster” ha assunto ormai un carattere profondamente antidemocratico che compromette in maniera palese il diritto di legiferare della maggioranza.
Rimasto una pura opzione teorica fino agli anni Trenta del XIX secolo, il “filibuster” permette di far proseguire a oltranza il dibattito in aula quando si vuole evitare un voto finale su una determinata legge. Inizialmente, i senatori che si opponevano all’avanzamento di un provvedimento erano tenuti a non abbandonare l’aula e a parlare per un periodo di tempo indefinito. Nel momento in cui si esaurivano gli interventi dei “congressmen” di minoranza, il “filibuster” decadeva automaticamente e si dava luogo alle procedure di voto. In questo quadro normativo, non erano rari i discorsi interminabili di senatori che resistevano per ore parlando degli argomenti più disparati per allungare il dibattito. A tutt’oggi, il primato per il più lungo “filibuster” appartiene al senatore democratico e poi repubblicano Strom Thurmond, il quale per cercare di bloccare la legge sui diritti civili del 1957 parlò per ben 24 ore e 18 minuti.
Per impedire questa pratica è necessario che i tre quinti dei senatori (60 su 100) votino una mozione che ponga fine al dibattito (“cloture”). Sessanta è precisamente il numero di senatori su cui il Partito Democratico può attualmente contare (58 democratici più 2 indipendenti), un margine che teoricamente metterebbe al riparo dall’ostruzionismo repubblicano. Le profonde divisioni tra l’ala più moderata e quella progressista, tuttavia, stanno impedendo l’avanzamento spedito di progetti di legge importanti, già approvati dalla Camera dei Rappresentanti (dove il “filibuster” era previsto fino al 1842), come la riforma sanitaria e la riduzione delle emissioni in atmosfera. Anche il dissenso di un singolo senatore democratico, di fronte all’opposizione compatta del Partito Repubblicano, può così impedire il passaggio di una legge, costringendo spesso i leader di maggioranza a estenuanti negoziazioni per assicurarsi il voto compatto dei propri senatori.
La degenerazione e l’abuso del “filibuster” nel Senato degli Stati Uniti é chiaramente visibile nei numeri. Se nella legislatura del 1967-1968 fu invocato in sole sei occasioni, dieci anni dopo si sarebbe saliti a 13, per giungere a 43 nel 1987-1988, 53 nel 1997-1998 e addirittura 112 tra il 2007 e il 2008. Un’escalation che sta producendo effetti dirompenti sull’attività legislativa, causando spesso una vera e propria paralisi. La situazione è stata resa poi ancora più drammatica dopo una variazione apportata al regolamento del Senato nel 1975. In quell’occasione il “filibuster” venne reso “invisibile”, rendendo sufficiente cioè la sola minaccia di esso per bloccare il voto su una determinata legge.
Oggi basta infatti la prospettiva di 41 voti per far scattare il “filibuster, mentre non è più necessaria la presenza in aula a oltranza dei senatori ostruzionisti. Pertanto, se il leader della maggioranza al Senato non è in grado di mettere assieme i 60 voti necessari per far avanzare un determinato procedimento, quest’ultimo rimane bloccato in attesa di modifiche e compromessi che verosimilmente possano convincere i parlamentari recalcitranti. Questa è la sorte che sta toccando, tra gli altri, ai progetti di legge sul cambiamento climatico - approvato dalla Camera la scorsa estate - e per la semplificazione del processo di sindacalizzazione nelle fabbriche americane (EFCA) licenziato dalla Camera bassa nel marzo del 2007.
Gli unici provvedimenti che sfuggono al “filibuster” sono quelli relativi alle questioni di bilancio. In questo caso si fa ricorso ad un processo legislativo definito “reconciliation”, grazie al quale vengono drasticamente limitati sia la durata del dibattito sia eventuali emendamenti. Tali leggi possono essere così approvate con una maggioranza di soli 51 voti a favore.
Mentre la soppressione del “filibuster” richiederebbe un voto sulla modifica delle norme del Senato, da approvarsi con i due terzi dei senatori presenti in aula, esiste però fin da ora una soluzione per vincere l’ostruzionismo dell’opposizione, sebbene inutilizzata da tempo. Come ha suggerito recentemente in un suo editoriale Jerome Karabel, docente di sociologia a Berkeley, per superare il muro repubblicano sulla questione della riforma sanitaria, il numero uno dei democratici al Senato, Harry Reid, non dovrebbe far altro che ripristinare la procedura originaria del “filibuster”.
Ogni senatore contrario alla riforma dovrebbe essere perciò chiamato a esporre i propri argomenti in aula fino all’esaurimento del dibattito (e anche proprio), per quanto lungo esso possa profilarsi. Il “filibuster”, infatti, può essere superato anche lasciando in agenda la stessa legge per un periodo indefinito, senza aggiungere altre questioni all’ordine del giorno del Senato. Per evitare scontri troppo aspri tra maggioranza e opposizione, ma anche all’interno dello stesso partito di maggioranza, bloccare una legge opposta da almeno 41 senatori per passare ad altre questioni, invece, è diventata ormai pratica comune.
La sorte di un dibattito pubblico di questo genere, teoricamente ad oltranza, non sarebbe in realtà già scritta. Nel caso della riforma sanitaria, esso servirebbe quantomeno a portare alla luce del sole le divergenze presenti nei due schieramenti e, soprattutto, consentirebbe di spiegare agli elettori le ragioni di quei senatori, repubblicani e democratici, che si oppongono all’allargamento della copertura sanitaria a decine di milioni di americani che tuttora ne sono sprovvisti. Uno scenario, tuttavia, molto improbabile, che nelle prossime settimane lascerà il posto piuttosto ad un dibattito tutto interno al Partito Democratico e che condurrà, nella migliore delle ipotesi, ad una riforma ben lontana dagli obiettivi di universalità e accessibilità che lo stesso Obama aveva promesso prima di dover fare i conti anche con le regole del Senato degli Stati Uniti d’America.