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di Michele Paris
Lo scorso 24 febbraio, poco dopo mezzogiorno, nella città di San Pedro Sula, bussano alla porta di Claudia Larissa Brizuela, che stava festeggiando i suoi 36 anni. Aperta la porta di casa, riceve tre pallottole alla testa, morendo sul colpo. Claudia era militante nel sindacato del Comune dove lavorava e figlia di Pedro Brizuela, noto dirigente locale del Fronte Nazionale di Resistenza Popolare (FNRP). Questo nuovo omicidio terroristico è accaduto alla vigilia di una grande mobilitazione organizzata dal FNRP nella capitale, Tegucigalpa, in rifiuto alla Commissione della Verità, considerata come la via d’uscita verso l'impunità per tutti i criminali coinvolti nel colpo di Stato e nella selvaggia repressione che è seguita. Claudia è la terza vittima mortale in questo primo mese di governo di Porfirio Lobo. Sono già stati assassinati in circostanze abbastanza simili Vanessa Zepeda e Julio Funes.
Come si vede, la repressione non é cessata con la chiusura delle urne e l'elezione del nuovo "presidente": a otto mesi di distanza dal colpo di stato in Honduras che spodestò il presidente legittimo, Manuel Zelaya, gli effetti della crisi istituzionale nel paese continuano a farsi sentire. Mentre la recente amnistia approvata dal parlamento ha garantito l’impunità ai responsabili del golpe e ha messo al riparo lo stesso Zelaya da futuri processi politici, due pubblici ministeri honduregni hanno annunciato altrettante azioni legali distinte. La prima per cercare di incriminare lo stesso ex presidente per aver distratto fondi pubblici e l’altra i vertici militari autori del colpo di stato della scorsa estate. Il tutto mentre nel paese proseguono le proteste e la repressione del nuovo governo.
Insieme ad Andrés Thomas Conteris, giornalista e attivista per i diritti civili in America Latina, nonché fondatore del network radio-televisivo indipendente Democracy Now! in lingua spagnola, abbiamo ripercorso i fatti legati al colpo di stato nel poverissimo stato centroamericano dello scorso 29 giungo. Conteris, da tempo impegnato in vari progetti di sviluppo sociale n Honduras, è rimasto nell’ambasciata brasiliana di Tegucigalpa con il presidente deposto Manuel Zelaya, dopo che quest’ultimo era riuscito a rientrare di nascosto nel paese alla fine di settembre. Dalla sua testimonianza emerge chiaramente come la repressione contro il movimento di resistenza, messa in atto dal regime golpista, continui indisturbata anche dopo l’elezione del nuovo presidente, il conservatore Porfirio Lobo, nonostante gli Stati Uniti abbiano più volte proclamato che la crisi nel paese sia ormai in fase di pacifico superamento.
Innanzitutto, per quanto tempo sei rimasto confinato nell’ambasciata brasiliana di Tegucigalpa con il presidente Zelaya e i suoi più stretti collaboratori?
Ho vissuto all’interno dell’ambasciata brasiliana per tutto il periodo in cui è rimasto Manuel Zelaya, cioè per 129 giorni: dal 21 settembre 2009 al 27 gennaio 2010.
Torniamo ai giorni del golpe. Quali sono stati i veri motivi che il 28 giugno 2009 hanno portato alla rimozione di Zelaya dopo che si era rifiutato di cancellare una consultazione popolare non vincolante su possibili riforme costituzionali ?
Credo che una delle ragioni principali che hanno causato il colpo di stato in Honduras sia stata la precedente decisione di Zelaya di aumentare del 60% il livello del salario minimo nel paese. Questo provvedimento ha spinto i grandi interessi economici, che si sono sentiti penalizzati, a coalizzarsi con le élites politiche e militari per organizzare il golpe.
Alla luce degli stretti rapporti tra gli Stati Uniti e l’esercito honduregno, è possibile che Washington fosse all’oscuro delle manovre golpiste a Tegucigalpa? A tuo parere, gli USA hanno avuto o no un ruolo concreto nell’organizzazione del golpe stesso?
La partecipazione di Washington al golpe è altamente probabile. L’aereo che il 28 giugno ha trasportato Zelaya in Costa Rica (dopo che era stato prelevato dal palazzo presidenziali nel corso della notte) ha fatto un atterraggio alla base di Soto Cano, che si trova a circa 50 miglia dalla capitale dell’Honduras, prima di giungere alla sua destinazione finale. La “Joint Task Force Bravo” del Comando Meridionale Americano ha il suo quartier generale proprio in questa base. La motivazione ufficiale per lo scalo è che era necessario un rifornimento; una spiegazione che però non ha alcun senso, dal momento che la distanza tra Honduras e Costa Rica è molto breve.
Dopo la rimozione di Zelaya, gli USA hanno condannato ufficialmente il golpe. Tuttavia, Washington si è rifiutata di troncare i rapporti con il governo de facto di Micheletti e di cancellare tutti gli aiuti finanziari. Qual è il motivo di questo comportamento della Casa Bianca?
Anche se gli Stati Uniti hanno ufficialmente espresso la loro condanna, da un punto di vista legale non hanno definito l’azione un “colpo di stato militare”, un provvedimento che avrebbe automaticamente tagliato tutti gli aiuti al regime golpista. In realtà, gli esperti del Dipartimento di Stato avevano raccomandato l’adozione della definizione di “colpo di stato militare”, ma il Segretario Hillary Clinton si rifiutò di seguire questa indicazione.
Subito dopo il golpe, è stata lanciata una mediazione tra Micheletti e Zelaya, patrocinata da Washington e condotta dall'allora presidente del Costa Rica Oscar Arias. Questi colloqui sono falliti, così come non è andato a buon fine, successivamente, anche un altro negoziato che la diplomazia americana aveva gestito direttamente e che aveva portato ad un accordo momentaneo alla fine di ottobre. Quali sono stati i motivi di questi fallimenti?
La mediazione promossa da Arias, in realtà, fin dall’inizio non era stata accettata dal governo golpista, perché prevedeva chiaramente un percorso che avrebbe reinsediato al potere il presidente eletto, Manuel Zelaya. L’accordo firmato il 30 ottobre, invece, crollò in seguito ad un vero e proprio sabotaggio degli Stati Uniti, quando dichiararono che avrebbero riconosciuto le elezioni presidenziali del 29 novembre anche nel caso di un mancato reinsediamento di Zelaya. Questo è stato precisamente il messaggio lanciato da Thomas Shannon (all’epoca Assistente Segretario di Stato per l’Emisfero Occidentale, ora ambasciatore in Brasile) subito dopo la firma dell’accordo. Una posizione che ha rinvigorito il regime golpista, convincendolo a portare avanti le elezioni presidenziali prima che il congresso honduregno votasse per il ritorno di Zelaya al potere.
In una situazione di continuo stallo nelle trattative, il 21 settembre Manuel Zelaya riesce a tornare in Honduras, trovando rifugio all’interno dell’ambasciata del Brasile. Molti resoconti sono stati fatti sulle condizioni in cui il presidente e il suo entourage sono stati costretti a vivere sotto assedio della polizia e dell’esercito. Secondo la tua esperienza diretta, com’era la vita quotidiana nell’ambasciata brasiliana di Tegicigalpa? È vero che ci sono state minacce di morte al presidente Zelaya e che è stata messa in atto una sorta di guerra psicologica?
La vita all’interno dell’ambasciata direi che è stata piuttosto animata, nonostante le ovvie limitazioni. All’inizio ci sono stati vari attacchi con gas lacrimogeni e con strumenti LRAD (Long Range Acoustic Device, dispositivi che emettono suoni ad altissimo volume). Inizialmente, poi, erano impediti i rifornimenti di cibo e acqua, mentre successivamente sono stati ristabiliti. L’energia elettrica veniva interrotta di quando in quando e le comunicazioni elettroniche erano costantemente disturbate. Tattiche da guerra psicologica ed altre azioni ostili sono continuate per l’intero periodo, così come le minacce dirette da parte dell’esercito e della polizia honduregna.
Le elezioni presidenziali del 29 novembre si sono svolte in maniera libera e democratica, come hanno sostenuto gli USA? E la percentuale dei votanti è risultata in linea con le consultazioni precedenti o gli elettori honduregni sono rimati a casa, ascoltando l’invito al boicottaggio lanciato da Zelaya?
Assolutamente no. L’elezione del 29 novembre non si è svolta in un clima democratico. Il boicottaggio proclamato dalla resistenza nonviolenta al golpe è stato in larga parte ascoltato. C’è stata un’altissima percentuale di astensionismo, perciò il numero totale dei votanti alla fine è risultato molto inferiore rispetto ad altre elezioni in Honduras.
La vittoria di Porfirio Lobo nelle elezioni presidenziali ha segnato il ritorno al potere in Honduras delle élite più agiate del paese. Nonostante ciò, ci sono prospettive per una pacifica soluzione della crisi, come ha promesso il neo-presidente Lobo dopo aver ricevuto i poteri da Micheletti lo scorso mese di gennaio?
Fino ad ora non c’è stata alcuna soluzione pacifica, dal momento che le violazioni dei diritti umani in Honduras proseguono. Il colpo di stato del 28 giugno 2009 è stata un’azione incostituzionale e illegale; le violazioni dei diritti umani che ne sono seguite – arresti di massa, percosse, stupri, rapimenti e omicidi – rappresentano crimini contro l’umanità. Praticamente ogni articolo della Convenzione delle Americhe sui Diritti Umani è stato violato, a partire dalla rottura dell’ordine costituzionale. I crimini commessi, e la stessa azione criminale del colpo di stato, non sono stati sottoposti ad alcuna indagine e gli autori continuano a sfuggire alla giustizia. Le elezioni presidenziali del 29 novembre sono state organizzate da un regime golpista illegittimo che ha represso violentemente le proteste dei cittadini e il dissenso della società civile, rendendo impossibile un clima democratico. Le elezioni, inoltre, non sono state riconosciute dalla maggior parte degli honduregni né, almeno inizialmente, da quasi tutta la comunità internazionale.
Dopo il voto é cambiato qualcosa circa la repressione?
Dopo l’insediamento del governo de facto di Pepe Lobo le violazioni dei diritti umani sono continuate senza sosta, coinvolgendo l’esercito, la polizia e, sempre di più, organizzazioni paramilitari inquadrate in vere e proprie squadre della morte. Gli obiettivi della repressione sono sindacalisti, giornalisti, indigeni Garifuna, le comunità di “campesinos” ed altri esponenti della società civile che si è opposta al golpe. Solo nelle prime due settimane di febbraio ci sono stati almeno sei omicidi documentati, rapimenti e altre repressioni extra-giudiziarie ai danni di membri della resistenza. L’istituzione della cosiddetta Commissione per la Verità il 25 febbraio, promossa dagli stessi responsabili del golpe, non è che una farsa. Non ci potrà essere verità e riconciliazione nel paese senza la fine delle impunità e il ristabilimento della sovranità democratica che appartiene al popolo honduregno.
Con la deposizione e ora l’esilio in Repubblica Domenicana di Zelaya e il ritiro dei candidati che lo sostenevano dalle elezioni dello scorso novembre, esiste la possibilità che nel prossimo futuro la causa dell’eguaglianza e della giustizia sociale in Honduras sia portata avanti in qualche modo?
Manuel Zelaya continuerà a battersi per l’eguaglianza e la giustizia sociale assieme alla resistenza nonviolenta in Honduras. Nonostante il golpe, continuano gli sforzi per giungere ad una Assemblea Costituente che riscriva una Costituzione che finalmente risponda ai bisogni del popolo e non solo di quelli delle élites.
Oltre alla Commissione per la Verità di cui hai parlato in precedenza, cosa ne pensi dell’amnistia proposta dal presidente Lobo?
L’amnistia, in realtà, è già stata approvata e rappresenta una garanzia di impunità per i crimini commessi dal regime di Micheletti e per quelli di cui si è già reso responsabile l’attuale governo.
Il segretario generale dell’OSA [Organizzazione degli Stati Americani], José Miguel Insulza, ha detto che farà di tutto per riammettere l’Honduras nell’organizzazione. Credi che questo messaggio, assieme al voltafaccia americano riguardo al golpe, può favorire altri colpi di stato in altri paesi dell’America Latina (in particolare in Nicaragua, dove le destre erano estremamente entusiaste di Micheletti, o in Venezuela) perché gli eventuali autori potranno contare sull’impunità garantita per i loro atti ?
È evidente che le destre in tutta l’America Latina siano uscite rinforzate dal colpo di stato in Honduras e dal fatto che il presidente legittimo non è stato reinsediato. Il ruolo dell’OSA inizialmente era sembrato utile alla causa della resistenza anti-golpista, ma in seguito l’organizzazione non ha saputo tenere fede ai propri impegni, lanciando un pericoloso messaggio per il futuro delle democrazie di tutto il continente.
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di Michele Paris
Con il crescere del malcontento tra il popolo americano per i profitti record delle grandi banche di investimento di Wall Street - in larga misura responsabili del tracollo finanziario che ha innescato la crisi economica - è emerso negli ultimi mesi un improbabile lato populista del presidente Obama e degli altri leader del suo partito. Dopo gli attacchi ai potenti manager, che continuano a raccogliere enormi bonus grazie al salvataggio delle proprie compagnie garantito dal denaro pubblico, dalla Casa Bianca e dalla maggioranza al Congresso sono giunte alcune modeste proposte di legge per regolare il sistema finanziario americano. Una svolta che però non è piaciuta ai potenti banchieri, che hanno così deciso di chiudere i rubinetti dei finanziamenti elettorali ai democratici per dirottarli verso i rivali repubblicani.
A rendere pubblico il cambiamento d’umore dell’élite finanziaria d’oltreoceano è uno studio dei flussi dei contributi redatto da un istituto indipendente (Center for Responsive Politics) per il Washington Post. La retorica di Obama, in particolare, avrebbe spinto i generosi colossi di Wall Street a voltare le spalle ai democratici, i quali all’inizio del 2009 incassavano dall’industria finanziaria oltre il doppio rispetto ai repubblicani. Entro la fine dello scorso anno, l’atmosfera era cambiata al punto che questi ultimi si erano assicurati complessivamente la metà del denaro erogato dalle banche commerciali e d’investimento americane. Ancor più significativo è poi il dato dell’ultimo trimestre del 2009, durante il quale candidati e parlamentari repubblicani hanno ricevuto due volte tanto quanto è stato donato ai democratici.
Il trionfo elettorale di Obama del 2008 era arrivato anche sull’onda di una straordinaria capacità di intercettare ingenti contributi in denaro elargiti dalle banche più importanti. Insolitamente, il candidato democratico alla presidenza aveva ottenuto un numero maggiore di donazioni in questo ambito rispetto a quello repubblicano. Obama, infatti, era giunto allo storico election day che l’avrebbe proiettato alla Casa Bianca con 18 milioni di dollari ricevuti dalle banche e dai loro dipendenti, contro 10 milioni di John McCain.
Donatore principe della sua campagna elettorale era stata J. P. Morgan Chase, il cui amministratore delegato e presidente, Jamie Dimon, è un aperto sostenitore del presidente. Nel corso del 2009, ben 500 mila dollari sono stati distribuiti in contributi elettorali da J. P. Morgan, i cui destinatari sono però cambiati con il passare dei mesi. Mentre nel primo trimestre i democratici hanno beneficiato del 76% del totale, negli ultimi tre mesi dell’anno ai repubblicani è andato il 73% dell’intera torta.
Sempre in relazione all’anno scorso, J. P. Morgan ha sborsato 30 mila dollari a favore dei comitati elettorali repubblicani per le votazioni di medio termine del prossimo novembre, mentre quelli democratici sono rimasti all’asciutto. La logica è molto semplice, come ha fatto notare una fonte interna alla compagnia di Wall Street: i vertici della banca non hanno intenzione di sostenere candidai democratici che utilizzerebbero i fondi ricevuti per appoggiare iniziative che potrebbero danneggiare i loro interessi.
Le banche d’investimento e, in maniera ancora più marcata, quelle commerciali, hanno d’altra parte finanziato massicciamente lo schieramento repubblicano negli ultimi decenni. L’entusiasmo per i democratici - i quali si trovano nella difficile situazione di dover teoricamente sostenere anche gli interessi del lavoro organizzato, dal momento che ricevono importanti contributi dai sindacati - sembra essere durato ben poco e, in sostanza, è coinciso con l’irresistibile ascesa di Obama nel 2008 e i suoi primi mesi da presidente.
I repubblicani, da parte loro, dopo avere a lungo criticato i democratici per il loro rapporto simbiotico con l’alta finanza statunitense, non hanno esitato a fare appello alle banche di Wall Street per fare ritorno all’ovile, chiedendo apertamente il loro aiuto per battere una maggioranza congressuale e un presidente che, dal loro punto di vista, non potrà che finire col danneggiare i grandi interessi finanziari.
A ben vedere, tuttavia, i risentimenti delle grandi banche nei confronti dei democratici non sono del tutto giustificati. Se nel paese - e in parte della classe politica - sono palpabili i malumori verso una casta di multimiliardari, che si è arricchita grazie a pratiche rischiose e con il salvagente del denaro federale, le proposte in campo per porre un freno alla deregulation che regna nel settore finanziario non appaiono particolarmente incisive.
Il piano comprensivo di riforma voluto da Obama giace da mesi al Congresso in seguito alla mancanza di un accordo tra maggioranza e opposizione, e tra gli stessi democratici. La creazione di un’agenzia indipendente che protegga i piccoli investitori dagli abusi delle grandi compagnie continua a trovare ostacoli anche a causa dell’intensa attività di lobby delle stesse banche. La stessa tassa annunciata dalla Casa Bianca sulle attività bancarie, se mai vedrà la luce, risulta infine di portata estremamente modesta. Tanto è però bastato ai giganti di Wall Street per restringere i cordoni della borsa a favore del partito di maggioranza.
La tendenza che sta emergendo per quanto riguarda i contributi elettorali pone in ogni caso i democratici in una difficile situazione. Se il legame tra i banchieri e il Partito Repubblicano può fornire uno strumento formidabile per attaccare i rivali di fronte ad un’opinione pubblica sempre più insofferente, allo stesso tempo la mancanza di quel denaro che, fino a pochi mesi fa, giungeva in grande quantità da Wall Street, si farà sentire in una campagna elettorale che promette ancora una volta di essere molto competitiva.
Una pericolosa prospettiva per il prossimo futuro che metterà di nuovo Obama e i democratici nella difficile posizione di bilanciare il populismo e la retorica anti-Wall Street con la necessità di strizzare l’occhio a quella stessa élite finanziaria che continua ad esercitare un peso decisivo sulla politica americana. Un’ambiguità rischiosa che lo stesso presidente si dimostra incapace di sciogliere quando, da un lato, continua a definire “vergognosi” i bonus e i profitti dei banchieri e, dall’altro, esalta ed esprime ammirazione incondizionata per quegli stessi presunti “eroi” del capitalismo finanziario americano.
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di Carlo Benedetti
Mosca. La “Città delle scienze” in Russia è Akademgorodok, nei pressi di Novosibirsk, nel cuore della Siberia. Onore e vanto del periodo sovietico, perché qui erano stati concentrati i migliori istituti scientifici del paese e i più grandi laboratori che si occupavano di nuove tecnologie e di genetica... E c’era poi - sempre negli anni dell’Urss - la “Città segreta” di Dubna, nella regione di Mosca. Qui gli scienziati di tutto il paese vivevano nelle villette messe a disposizione dall’Accademia centrale delle Scienze e progettavano il futuro dell’energia atomica.
Tutto, quindi, sul conto del Cremlino brezneviano. Ma ora, mutati i tempi, il nuovo potere del duo Putin-Medvedev va all’attacco e punta ad affermare l’esistenza di una città che dovrà rappresentare il cuore dello sviluppo di questo secolo. La scelta è stata fatta. Riguarda la siberiana Tomsk che, con i suoi cinquecentomila abitanti, diverrà il centro di una Silicon Valley in versione tutta russa. E secondo i piani del potere centrale moscovita la città dovrà assumere un volto nuovo, moderno, e soprattutto divenire un centro di scambi internazionali sfoggiando, nello stesso tempo, un tono di fresca modernità.
Una svolta epocale, quindi, per un “punto geografico” sino a ieri noto solo per essere immerso in una lontana realtà siberiana toccata, a volte, dai 40 sottozero... Ed ora il Cremlino si ricorda che proprio a Tomsk vivono 83600 studenti, (pari al 17% della popolazione) e che qui è attiva una università di estremo valore che fornisce quadri a tutto il paese quanto ai settori dei sistemi di controllo e della radioelettronica. E c’è di più. Perchè in questa città - ritenuta ingiustamente un centro di periferia - sono più che mai attivi istituti di matematica applicata, di biologia, di biofisica e di fisica nucleare.
Parte così, sulla base di una realtà sottovalutata, un programma di sviluppo che punta alla modernizzazione e allo sviluppo tecnologico dell’economia. L’annuncio viene dal presidente Medvedev il quale firma un “ukase” che lancia, sulla scena locale e mondiale, l’iniziativa del futuro: una Silicon Valley siberiana che – sulla scia di quella californiana - avrà come obiettivo la sperimentazione e la messa in pratica di nuove politiche economiche e di avanzate soluzioni tecnologiche.
Tomsk, quindi, come capitale delle innovazioni che vedrà la completa ristrutturazione di circa 200 imprese locali. In tal senso il Cremlino ha già lanciato una campagna per attirare in Siberia nuovi imprenditori e scienziati di tutto il mondo. E a questo processo di creazione della Silicon Valley locale vengono chiamate banche russe e mondiali perchè concedano crediti a lungo termine e a tassi ben diversi da quelli attuali. Comincia - pur se in ritardo - la fuga in avanti di una Russia che ha ancora molte carte di riserva.
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di Michele Paris
La recente decisione di Washington di installare un proprio ambasciatore in Siria dopo cinque anni di assenza potrebbe apparire, a prima vista, come la logica conseguenza dei progressi nelle relazioni tra i due paesi, iniziati con il cambio della guardia alla Casa Bianca. Le più recenti mosse di riavvicinamento a Damasco, tuttavia, s’inseriscono in una più ampia offensiva americana in Medio Oriente diretta ad isolare l’Iran - di cui la Siria è appunto uno degli alleati più stretti - per preparare l’imposizione di nuove sanzioni, se non, addirittura, un’aggressione militare.
L’amministrazione Bush aveva ritirato il suo ambasciatore a Damasco nel 2005, in segno di protesta nei confronti del regime siriano, ritenuto responsabile dell’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri a Beirut. Già dal giugno dello scorso anno si era iniziato a parlare negli Stati Uniti di un possibile ritorno di un ambasciatore in Siria. Poi, la scorsa settimana, l’annuncio della nomina del diplomatico americano Robert S. Ford.
Attuale vice-capo missione presso l’ambasciata USA di Baghdad, quest’ultimo aveva ricoperto la carica di ambasciatore in Algeria dal 2006 al 2008 e, in precedenza, di vice-capo missione in Bahrain tra il 2001 e il 2004. Ford dovrà essere ora confermato dal Senato di Washington nel suo nuovo incarico, mentre la Siria pare avere già approvato la nomina.
Il pieno ristabilimento delle relazioni con la Siria giunge dopo che negli ultimi mesi si erano tenuti una serie d’incontri diplomatici, al fine di allentare le tensioni. Nel 2009, l’inviato speciale di Obama per la pace in Medio Oriente, George Mitchell, si era recato a Damasco in due occasioni. Colloqui a un livello inferiore si erano poi susseguiti, mentre in concomitanza con la nomina del nuovo ambasciatore nella capitale siriana si è tenuta una importante visita ufficiale del Sottosegretario di Stato William Burns, vale a dire il diplomatico americano più alto in grado a recarsi in questo paese dopo il Segretario di Stato Colin Powell poco meno di sei anni fa.
Accompagnato nella sua missione dal coordinatore del contro-terrorismo per il Dipartimento di Stato, Daniel Benjamin, il vice di Hillary Clinton ha parlato con il presidente Bashar al-Assad, sottolineando la disponibilità di Washington a migliorare le relazioni con la Siria e la volontà di cooperare nello sforzo per giungere ad un accordo di pace tra arabi e israeliani. Nella sua conferenza stampa seguita all’incontro con Assad, però, Burns ha significativamente ricordato anche quanto sia irto di ostacoli il cammino che porta a una riconciliazione tra Stati Uniti e Siria.
Secondo i media occidentali, all’ordine del giorno dei colloqui di Damasco vi era, in primo luogo, la collaborazione per l’ennesimo avvio dei negoziati di pace tra palestinesi e israeliani, ma anche le continue infiltrazioni dal confine siriano di estremisti sunniti ed ex-baathisti di Saddam Hussein che alimentano la violenza settaria in Iraq, nonché il sostegno economico e militare siriano ad Hamas in Palestina e a Hezbollah in Libano, organizzazioni entrambe definite terroristiche da Washington.
Dietro alla facciata della nuova politica di riavvicinamento promossa da Obama fin dai tempi della sua campagna elettorale, per dare maggiore “impeto alla costruzione della pace in Medio Oriente”, si nasconde in realtà, in maniera peraltro non troppo velata, il tentativo di aumentare le pressioni nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare. Le manovre di accerchiamento da parte della diplomazia a stelle e strisce hanno infatti subito un’improvvisa accelerazione proprio nelle ultime settimane.
Da pochi giorni si è concluso il tour dei paesi arabi del Segretario di Stato, Hillary Clinton. Nel corso di un discorso in Qatar, la ex first lady ha lanciato un appello a sostegno delle sanzioni contro l’Iran volute da Washington per frenare la presunta corsa di Teheran verso la produzione di ordigni nucleari. La tappa successiva è stata poi l’Arabia Saudita, dove Hillary si è adoperata per convincere la monarchia assoluta a rassicurare la Cina circa possibili ulteriori forniture di petrolio nel prossimo futuro. La Cina importa gran parte degli idrocarburi necessari al proprio fabbisogno dall’Iran, una linea di fornitura che potrebbe essere tagliata nel caso Pechino finisca per appoggiare le sanzioni proposte dagli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Lo stesso Sottosegretario di Stato Burns, nel corso della sua trasferta mediorientale, si è incontrato in Libano con il presidente Michel Suleiman e il primo ministro Saad Hariri, mentre successivamente si è recato in Azerbaijan e in Turchia, entrambi paesi che mantengono buoni rapporti con l’Iran. Un altro vice della Clinton, James Steinberg, sarà inoltre in Israele questa settimana, così come il capo di Stato Maggiore americano, generale Michael Mullen, volerà in Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi dopo essere già stato ricevuto in Egitto dal presidente Mubarak e dai vertici militari israeliani a Tel Aviv.
L’argomento principale di tutti questi incontri rimane sempre e comunque l’Iran. Così come in funzione anti-iraniana va interpretato anche un altro annuncio che qualche settimana fa aveva alimentato nuove tensioni: la promessa di nuove forniture militari per il rinnovamento del sistema missilistico dei paesi arabi del Golfo Persico alleati degli Stati Uniti (Bahrain, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi). L’isolamento dell’Iran sembra dunque essere l’obiettivo principale della nuova strategia nei confronti della Siria, anche se non è chiaro fino a che punto Assad sarà disponibile ad allentare la sua alleanza con Teheran per migliorare i rapporti con Washington.
Se quest’ultima prospettiva risulterebbe cruciale per le speranze di Damasco di recuperare le alture del Golan, occupate da Israele nel 1967 durante la Guerra dei Sei Giorni, gli ostacoli alla distensione rimangono parecchi. Sulla lista nera dei paesi sponsor del terrorismo fin dal 1979, la Siria continua a soffrire a sua volta per le pesanti sanzioni applicate dagli USA nel 2004 e che vietano la vendita di beni, ad eccezione di cibo e medicinali.
Da parte sua, il presidente Assad ha già espresso scetticismo nei confronti della volontà degli Stati Uniti di accogliere le richieste siriane. Ancora meno propenso si è dimostrato poi nell’assecondare lo sforzo della Casa Bianca per raccogliere consensi nella comunità internazionale al fine di punire l’Iran con nuove sanzioni.
Lo sganciamento della Siria dall’Iran voluto da Washington, in definitiva, non sarà così facilmente raggiungibile. Non solo il sentimento anti-americano nella società siriana continua ad essere molto radicato, ma la posizione di Assad, sia all’interno del paese sia sul piano internazionale, secondo molti osservatori, si è consolidata negli ultimi tempi, garantendogli un peso maggiore nei negoziati.
Gli investimenti nel paese si sono infatti moltiplicati in seguito ad una serie di riforme economiche, i rapporti diplomatici con la Francia ed altri paesi dell’UE sono stati completamente ripristinati e, infine, la stessa influenza sul Libano sembra essere tornata quella di un tempo, dopo che la Rivoluzione dei Cedri nel marzo del 2005 aveva portato al ritiro delle truppe siriane dal paese sul quale esercitava un protettorato di fatto.
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di Eugenio Roscini Vitali
Lo slogan della nuova strategia Usa è “Clear, Hold, Build”: liberare, mantenere, costruire. Ma in Afghanistan il massiccio coinvolgimento delle truppe occidentali e il crescente numero di vittime civili rivelano le difficoltà di un conflitto sempre più complesso e la cui fine appare ogni giorno più lontana. L’ennesima dimostrazione arriva dalla zona di confine tra le province di Uruzgan e Dai Kondi - dove domenica scorsa trentatre civili hanno perso la vita a causa di un missile sparato aereo Nato - e dalle difficoltà incontrate dai militari della coalizione nell’operazione Moshtarak, la campagna militare intrapresa a metà febbraio nella provincia meridionale di Helmand.
Per cercare di domare la resistenza dei circa 800 talebani rimasti a guardia della città di Marjah, principale centro urbano del distretto di Nad Ali dove vivono 120 mila persone abbandonate al loro destino, l’Isaf (International Security Assistance Force) ha infatti schierato 15 mila soldati; militari americani, afgani, britannici e canadesi che hanno operato con il supporto ravvicinato dell’aviazione, di elicotteri da combattimento e di droni equipaggiati per azioni di attacco.
Vero è che dopo una settimana di combattimenti le forze alleate sono riuscite ad assumere il controllo di gran parte della città e questo a permesso il rischieramento di circa 600 poliziotti della Gendarmeria afgana che ora sorvegliano il centro e le vie di accesso al capoluogo, ma l’operazione si sta rivelando più complessa e lunga del previsto e in molte zone della provincia si continua ancora a combattere. Nonostante i talebani abbiano deciso di arretrare, la tensione rimane infatti altissima e, anche se non si può parlare di strage, il numero dei così detti “danni collaterali” continua a crescere.
Proseguite per alcuni giorni, le deflagrazioni delle bombe sganciate dagli aerei ed dagli elicotteri della coalizione si sono sentite fino a Lashkar-gah, a 30 km di distanza, e dall’inizio dell’operazione tra i civili si contano già più di 20 vittime e decine di feriti, incluso l’uomo ucciso da una pattuglia dell’Isaf per non essersi fermato all’alt dei militari che si erano insospettiti per la presenza di una scatola lasciata sul bordo della strada, involucro che al contrario non è risultato essere un ordigno, e il ragazzo di 9 anni ferito gravemente alla testa mentre da dietro la finestra guardava incuriosito i mezzi blindati che passavano davanti casa.
La morte di civili è uno dei temi più delicati nei rapporti tra Kabul e le truppe Isaf e il bombardamento di Uruzgan, nel quale sono stati colpiti tre minibus a bordo dei quali viaggiavano solo donne e bambini, non fa altro che esacerbare l’animo di una popolazione ormai esasperata. Sabato scorso il presidente Hamid Karzai aveva affermato che «le iniziative militari creano ancora troppe vittime civili» e, mostrando la foto di una bambina di 8 anni, aveva esclamato: «Questa è l'unica persona rimasta a raccogliere i cadaveri dei suoi familiari, uccisi da un missile della Nato che giorni fa ha sbagliato il bersaglio». E le stesse frasi sono state ripetute lunedì, dopo che i generali americani si erano scusati dicendo che il convoglio di civili era stato colpito per un errore di mira. Parole che suonano beffarde per chi vive tutti i giorni il dramma della guerra e si vede uccidere la famiglia da chi dovrebbe portare pace e stabilità.
Annunciata come la più grande offensiva militare dai tempi del rovesciamento del regime talebano, l’operazione Moshtarak va considerata come un test fondamentale della nuova strategia Usa, una condotta volta a stanare e cacciare i guerriglieri da quelle roccaforti che fino ad ora sembrano essere inaccessibili. Ma l’assalto a Marjah, che il capo del comando centrale Usa, Generale David Petraeus, considera coma la prima fase di una campagna che durerà tra i 12 e i 18 mesi, viene anche utilizzato dall’amministrazione Obama per guadagnare il consenso dell’opinione pubblica americana verso la decisione della Casa Bianca di aumentare in Afghanistan il livello delle truppe Usa fino a quasi 100 mila unità.
L’obiettivo è dimostrare, prima del 2011, data prevista per il definitivo ritiro, che le forze Isaf sono in grado di riprendere il controllo del territorio, soprattutto nelle provincie più densamente abitate, e che il governo afgano è in condizione di affermare e mantenere la sua autorità: proteggere la popolazione locale ed ottenere il suo sostegno in cambio di infrastrutture e servizi quali strade, acqua potabile, elettricità, sanità, istruzione e giustizia.
Come ogni piano, anche quello militare in Afghanistan ha però i suoi punti deboli. Innanzitutto, come sostiene il Generale Nick Carter, comandante Nato nel sud del Paese, «non è tanto la fase della liberazione che è decisiva. Lo è invece la fase del mantenimento delle posizioni». Le truppe della coalizione possono infatti allentare la morsa talebana nel sud del Paese, dove i ribelli godono comunque del sostegno della comunità pashtun, ma devono continuare a mantenere anche una sostanziale presenza nelle aree dove i fondamentalisti sono ancora temuti. In secondo luogo, le vere roccaforti talebane non si trovano in Afghanistan ma appena al di là del confine pakistano e la perdita di posizioni quali Marjah potrebbe essere considerata una sconfitta accettabile, soprattutto in vista del ritiro americano che dovrebbe avvenire entro la fine del prossimo anno.
C’è poi un problema legato alla capacità delle autorità afgane di far fronte alle profonde divisioni etniche e settarie che dividono i pashtun dai tagiki, così come gli uzbeki dagli hazara e dai turcomanni. E vanno infine prese in considerazione le reali difficoltà incontrate fino ad ora nell’assicurare la presenza sul terreno di funzionari incorruttibili e competenti, strada che fino ad ora si è dimostrata praticamente impercorribile, e nell’organizzare una forza armata addestrata e ben equipaggiata. L’Afghanistan è un paese fondamentalmente povero e il bilancio del governo dipende dagli aiuti stranieri, cosa che di fatto rende difficile organizzare una struttura efficiente ed affidabile: pur essendo particolarmente temuta, la polizia afgana è infatti considerata dai civili come un’organizzazione corrotta e violenta.