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di Eugenio Roscini Vitali
Il 18 ottobre scorso, sul sito internet della rete televisiva iraniana Press TV è stata pubblicata la notizia secondo la quale il Majles, l’Assemblea Consultiva della Repubblica Islamica dell’Iran, ha approvato gli articoli 1 e 2 del disegno di legge sul piano di riforma dei sussidi: taglio degli aiuti di Stato sui prodotti energetici. La norma, che nell’arco dei prossimi cinque anni punta a ridurre gradualmente la domanda e la conseguente spesa destinata all’import dei prodotti derivanti da raffinazione, comprende tutte le categorie dei beni sui quali, fino ad ora, l’amministrazione pubblica è intervenuta con sovvenzioni e sgravi fiscali: combustibili da trasporto, gas ed energia elettrica e, di conseguenza, prodotti alimentari. Nulla di strano se non fosse altro che con questa decisione il parlamento consegna al presidente Mahmoud Ahmadinejad il controllo su una cifra che varia tra i 30 e i 50 miliardi di dollari, fondi che il Tesoro avrebbe altrimenti destinato al sostegno delle fasce sociali più deboli.
Il voto, che ora attende l’approvazione del Consiglio dei guardiani, non è stato comunque unanime: il radicale Ayatollah Ahmad Jannati, membro fondatore dell’influente istituto Haghani, scuola teologica vicina alle posizioni di Ahmadinejad, ha argomentato la decisione ritenendo vergognoso mantenere un sussidio che al 70% ricade sulle tasche di quel 30% della popolazione che appartiene alle classi più agiate; il ministro dell’Economia, Shamsoddin Hosseini, ha definito la legge una riforma strutturale destinata a combattere l’inflazione.
Il presidente del Parlamento, Ali Larijani, si è detto invece contrario e non ha nascosto le sue perplessità su una decisione politica che, in un paese alle prese con pesanti sanzioni internazionali, non risana l’economia ed evita altresì di imporre un maggiore controllo sulle spese decise dal governo. In un intervento alla televisione di Stato, Mahmoud Ahmadinejad ha dichiarato che “il piano dovrebbe prevenire l’eccessiva crescita dei consumi così come intervenire nelle ingiustizie sociali attraverso la ridistribuzione degli aiuti”; in Iran il prezzo della benzina applicato fino ad oggi è uno dei più bassi al mondo: con l’attuale sistema, alla pompa i primi cento litri vengono pagati 0,38 dollari per gallone (0,10 dollari al litro); oltre questo limite il prezzo sale a 1,50 dollari per gallone (0,40 dollari al litro).
Ufficialmente i funzionari giustificano il taglio dei sussidi con la necessità di recuperare parte dei 90 miliardi di dollari stanziati annualmente dal governo per gli aiuti di Stato; una manovra destinata ad orientare i fondi verso il finanziamento di progetti ed interventi infrastrutturali e per sostenere le fasce più povere con aiuti mirati. Alcuni economisti sostengono comunque che portare il prezzo dei carburanti ai livelli del mercato internazionale porterà soltanto ad un brusco effetto inflazionistico e farà lievitare il costo dei generi di prima necessità: in Iran il 30% del budget è destinato ai sussidi ed il regime deve fare i conti con l’inasprimento delle sanzioni economiche e con il crollo della domanda del greggio, passato dai 147 dollari al barile di metà 2008 ai 40 dollari al barile del marzo scorso; l’inflazione registrata ad ottobre è stata pari al 16,7%, in ripresa rispetto al 18,5% del mese precedente e al 28% del settembre 2008 ma sicuramente più alta del 10,9% segnato nell’agosto 2005, mese di inizio del primo mandato Ahmadinejad.
Il piano di riduzione arriva in un periodo particolare per il Paese: sottoposto alla pressioni della comunità internazionale, il regime deve rispondere alle proposte di accordo avanzate dall'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) sul progetto nucleare iraniano e sulla recente scoperta di un secondo sito per l’arricchimento dell’uranio a Qom. Un rifiuto potrebbe portare la comunità internazionale a decretare nuove sanzioni e, come dichiarato in una intervista al settimanale tedesco Der Spiegel dallo stesso presidente russo Dimitry Medvedev, questa volta Teheran non potrebbe contare sull’appoggio di Mosca. In Iran però l’invito alla calma e alla collaborazione avanzato dal Cremlino non pare aver trovato spazio e l'Agenzia Spaziale Iraniana (ISA) non è sembra disposta a fermare lo sviluppo dei vettori Sejil II e Shahab III, missili con un range di duemila chilometri, capaci di raggiungere Israele e le basi statunitensi nella penisola arabica.
Smentendo chi pensa alla possibilità di un accordo con le grandi potenze sul nucleare, Ahmadinejad starebbe sfruttando la drastica riduzione sui sussidi di Stato per trasferire i fondi nel programma atomico e nello sviluppo di missili balistici a lunga gittata: questa l’idea di quei “malpensanti” che poco credono del pragmatismo del leader iraniano e al contrario, ritengono Ahmadinejad più forte che mai e pronto ad affrontare la sfida con l’occidente. La preoccupazione scaturisce dall’efficienza raggiunta dai tecnici dell’ISA che a quanto pare non hanno più bisogno dell’assistenza dei colleghi nord coreani o cinesi per raggiungere risultati eccellenti.
Per dimostrarlo basti pensare all’ambizioso programma Safir-Omid e al secondo satellite spia che l’Iran si prepara a mandare in orbita sopra il Medio Oriente: vettore Safir II, ufficialmente sviluppato per scopi civili; satellite Omid II da 200 chilogrammi, 8 volte più pesante del suo predecessore Omid I lanciato con successo il 2 febbraio scorso. Secondo gli esperti, se il lancio dovesse avere successo, l’Iran sarebbe in grado di produrre missili a propellente solido capaci di colpire obbiettivi a 2450 chilometri di distanza, un range che coprirebbe non solo Israele e la Turchia, ma anche la Grecia e gran parte dell’Europa orientale.
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di Eugenio Roscini Vitali
L’allarme è stato lanciato dal Generale Amos Yadlin, capo dell’Agaf HaModiin (Aman), l’intelligence militare israeliana: il braccio armato di Hamas avrebbe a disposizione un numero imprecisato di razzi di fabbricazione iraniana con un raggio d’azione di 37 miglia (60 chilometri), capaci quindi di raggiungere la periferia di Tel Aviv. Nel corso di un dibattito a porte chiuse, Yadlin ha riferito alla Commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset che il primo novembre i miliziani del gruppo islamico palestinese hanno compiuto con successo il test di un missile identificato come Silkworm C-802, lanciato sul Mediterraneo dalla costa occidentale della Striscia di Gaza.
Anche se l’Aman non ha precisato da chi sarebbe stato fornito il missile, la notizia, diffusa il 3 novembre scorso dalla stampa israeliana, confermerebbe i sospetti espressi nei mesi scorsi dai servizi segreti ebraici sulle intenzioni di Teheran di continuare ad armare il Medio Oriente, e in particolare Hamas ed Hezbollah. Secondo le informazioni in possesso, i militanti islamici sarebbero ora in grado di colpire le aree urbane che sorgono a sud della capitale israeliana, Hulon e Bat-Yam, la città di Rishon-Letzion, l’aeroporto internazionale Ben-Gurion e i principali collegamenti stradali che da Tel Aviv raggiungono Gerusalemme e molte alte località dell’entroterra.
Evoluzione del modello da esportazione del missile cinese Ying-Ji-802 (YJ-82), il Silkworm C-802 è lo stesso razzo con cui Hezbollah, il 15 luglio 2006, ha colpito e danneggiare seriamente (nell’attacco morirono quattro militari) la INS Hanit, una corvetta classe Saar 5 della Heil HaYam HaYisraeli, la Marina Militare israeliana. A causa delle innumerevoli modifiche tecniche apportate, oggi non è abbastanza chiaro quante versioni ne esistano e quale sistema d’arma sia nelle mani Hamas: il primo YJ-8 (C-801), presentato nel 1989 dalla China Haiying Electromechanical Technology Academy (Cheta), pesava 815 chilogrammi ed aveva un range di 42 chilometri, 80 per il modello YJ-81 (C-801A).
L’ultimo modello (YJ-82, indicato dalla NATO con il codice CSS-N-8 Saccade) è mosso da un motore turbo-jet, monta una testata da 165 chilogrammi e alla velocità massima di 0.9 mach (1102 km/h) raggiunge una distanza di 120 chilometri. Per le sue caratteristiche tecniche e per il sofisticato sistema anti-jamming è difficilmente intercettabile e nel 98% dei casi riesce a centrare l’obbiettivo; nella sua versione da esportazione (C-802), lo Ying-Ji-802 è utilizzato dalle marine militari di Algeria, Bangladesh, Indonesia, Iran (più di cinquanta quelli dislocati sull’isola di Qeshm), Pakistan, Tailandia ed in Libano dai miliziani del movimento sciita Hezbollah.
L’intelligence israeliana sospetta che il missile lanciato nei giorni scorsi dal braccio armato di Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam, sia stato contrabbandato da Hezbollah e che gli istruttori siano militanti del gruppo sciita libanese. Il segnale è comunque chiaro: armare il movimento islamico palestinese per interrompere il blocco navale imposto da Gerusalemme sulle acque prospicienti la Striscia di Gaza; una strategia già applicata con successo nel paese dei cedri dove, grazie ai missili iraniani, Hezbollah è risuscito a trasformare la costa libanese in una vera e propria roccaforte, la più difesa costa del Mediterraneo. A Gerusalemme sono inoltre preoccupati del fatto che, oltre all’area urbana di Tel Aviv, i palestinesi sono ora in grado di colpire le strutture militari e i porti, soprattutto quello di Ashdod, oltre che un numero non precisato di obiettivi strategicamente importanti come depositi carburanti e munizioni, centrali elettriche e nodi vitali per le telecomunicazioni. Nel 1987 l’Iran usò proprio questo tipo di missili per bombardare le istallazioni petrolifere in Kuwait.
In relazione al contrabbando di armi verso Gaza, alla fine di ottobre il sito israeliano Debka aveva parlato del coinvolgimento della Forza al Quds, l’unità speciale dei Guardiani della rivoluzione iraniana che all’estero organizza, addestra, finanzia ed equipaggia i movimenti islamici legati al terrorismo internazionale. Secondo l’intelligence dello Stato ebraico i miliziani del Generale Qassem Suleimani starebbero cercando di far arrivare nella Striscia di Gaza i missili di superficie Fajr-5, razzi che hanno una gittata di 75 chilometri e possono quindi arrivare a colpire l’area settentrionale della capitale israeliana. Smontati in 8-10 sezioni e portati clandestinamente fino ai porti del Sudan, i vettori arriverebbe ai campi di addestramento palestinesi che sorgono al confine con l’Egitto per poi raggiungere clandestinamente i Territori controllati da Hamas attraverso il Canale di Suez, il Sinai e i tunnel sotterranei di Rafah.
Che nel vicino Medio Oriente qualche cosa bolla in pentola lo provano anche i fatti accaduti tra il 3 e il 4 novembre scorso a largo di Cipro, fatti che secondo il Servizio di sicurezza generale per gli affari interni (Shin Bet) dimostrano come Teheran sia fermamente intenzionata ad armare non solo Hamas ma anche le milizie Hezbollah. Nel quadro dell’operazione “Four Species”, durante un’ispezione a bordo del cargo “Francop”, avvenuta a circa 100 miglia dalla costa dello Stato ebraico, i commandos della Flottiglia 13, unità speciale israeliana, hanno trovato un carico di 500 tonnellate di armi, un quantitativo 10 volte superiore a quello scoperto nel gennaio 2002 sulla Karin A. Sulla nave, battente bandiera dell’Antigua, sono stati rinvenuti 9 mila proiettili da mortaio, 3 mila munizioni d’artiglieria, 2 mila razzi da 122 e 107 millimetri, 600 mila proiettili 7.62 per fucili d’assalto AK47 e 20 mila granate a frammentazione. Un vero arsenale che per le autorità di Gerusalemme si va ad aggiungere a quello che da mesi alimenta il gruppo armato libanese.
In questo caso le armi sarebbero arrivate nel porto egiziano di Damietta (Dumyat) a bordo della Iranian Visea, nave di proprietà della Iran Shipping Lines (IRISL): il carico, imbarcato a Bandar Abbas (Stretto di Hormuz) o a Bandar Imam Khomeini (Golfo Persico), è salpato il 14 ottobre per il Mediterraneo; dopo aver fatto tappa a Jabel Ali (Dubai), il 26 ottobre la Visea avrebbe raggiunto il porto egiziano e, dopo aver scaricato i container, sarebbe ripartita per Felixtowe, 60 chilomentri a nord di Londra, ed Amburgo. In Egitto il carico è rimasto fino al 1°novembre, giorno in cui viene caricato sul Francop, nave mercantile di proprietà della compagnia tedesca Francop Schiffahrts GmbH & Co, che al momento della scoperta delle armi dichiarerà di non essere stata a conoscenza del materiale trasportato. Intercettato il 4 novembre, il cargo, abitualmente utilizzato per il trasporto di alimentari tra il Damietta, Limassol (Cipro), Beirut (Libano) e Latakia (Siria), viene scortato nel porto israeliano di Ashdod e sottoposto a nuove ispezioni. Riprenderà il mare il giorno successivo.
Tornando al missile lanciato dalle coste palestinesi, Hamas nega ogni cosa e considera le accuse del Generale Amos Yadlin una “macchinazione” per creare nell’opinione pubblica un allarme generalizzato, un tentativo malriuscito per depistare l’attenzione della comunità internazionale dalle 575 pagine che compongono il rapporto Goldstone sull’operazione “Piombo Fuso” a Gaza. Due giorni dopo la notizia sul lancio del missile palestinese, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite avrebbe infatti votato una risoluzione di condanna contro le forze armate israeliane, accusate di aver compiuto crimini di guerra contro i civili che abitano la Striscia, e contro i miliziani di Hamas, colpevoli di aver puntato i loro razzi contro la popolazione ebraica del Neghev.
Approvata a maggioranza (114 Paesi a favore, 18 contrari e 44 astenuti), la risoluzione non ha comunque scalfito le posizioni di Israele, che ha anzi ribattuto affermando che il rapporto Goldstone è un tentativo arabo di infangare la reputazione dei capi militari ebraici ed ha invitato l’Onu a concentrare la sua attenzione sulle violazioni iraniane alle risoluzioni 1747 e 1701 del Consiglio di Sicurezza.
II 6 novembre 2009 il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha dichiarato: “Durante l’Operazione Piombo Fuso, Israele ha dato prova di alto livello morale e anche in futuro intende difendere la popolazione dalla minaccia dei razzi in possesso dei suoi vicini; Israele respinge la risoluzione dell'Assemblea Generale dell'Onu che è completamente avulsa dalla realtà che Israele deve affrontare sul terreno”.
L'operazione militare Piombo Fuso ha avuto inizio il 27 dicembre del 2008; l’invasione via terra della Striscia di Gaza è partita il 3 gennaio 2009; la guerra si è conclusa il 18 gennaio; sono morti 1203 palestinesi di cui 410 bambini; migliaia i feriti, molti con dei quali in modo irreversibile; 5300 le persone che hanno subito l’amputazione di un arto; 13 gli israeliani che hanno perso la vita, quasi 200 i feriti.
Il 7 novembre il leader di Hamas, Khaled Meshaal, ha invitato il presidente palestinese Mahmoud Abbas a interrompere ogni tentativo di compromesso con Israele e gli ha proposto di mettere fine alle divisioni tra i palestinesi: “il compromesso con Israele, nato con gli accordi di Oslo del 1993, ha fallito nel tentativo di bloccare l’espansione degli insediamenti israeliani e non ha sostenuto i palestinesi nello stabilire un loro stato indipendente nelle terre occupate dagli ebrei con la guerra del 1967; qualunque leader palestinese creda realmente nel diritto al ritorno, deve sapere che l’unico modo per farlo non è attraverso i negoziati, ma con la lotta santa, la resistenza e l'unità nazionale”.
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di Luca Mazzucato
Il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen ha annunciato che non si candiderà alle prossime elezioni palestinesi, che lui stesso ha convocato per il prossimo gennaio. La decisione è stata presa in seguito alle forti polemiche per la sua posizione ambigua sul rapporto della Commissione Goldstone su Gaza e il buco nero in cui sono precipitate le speranze di pace in Medioriente. A capo dell'ANP da cinque anni, Abu Mazen (alias Mahmoud Abbas) è stato un pilastro di moderazione nel panorama palestinese, dopo la morte di Yasser Arafat. A settantaquattro anni, una vita di militanza nell'OLP e in Al Fatah, ha rappresentato insieme al premier palestinese Fayyad l'interlocutore privilegiato degli Stati Uniti e il garante dello status quo. Personaggio chiave della strategia del “processo di pace,” durante l'amministrazione Bush e i governi Sharon-Olmert-Livni si è distinto per il suo supino allineamento alle richieste occidentali e israeliane.
Dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 e il sequestro da parte israeliana di tutti i parlamentari eletti nel movimento islamico, Abbas ha avallato un vero e proprio golpe, insediando Fayyad a capo di un governo di Fatah e cercando di riconquistare con la forza delle armi la Striscia di Gaza, controllata da Hamas. Quest'ultima azione, portata avanti dal compagno di partito Muhammad Dahlan sotto il controllo americano, è sfociata in una sanguinosa guerra per bande e nell'espulsione di Fatah dalla Striscia di Gaza. Il conflitto intra-palestinese cominciato allora rimane tuttora irrisolto, nonostante gli assidui tentativi di riconciliazione tra Hamas e Fatah perpetrati da Egitto, Qatar e Arabia Saudita.
Rappresentante della vecchia guardia di Fatah, notoriamente corrotta e ormai priva di consensi, Abu Mazen non ha perso occasione per minare la propria credibilità agli occhi del popolo palestinese. In seguito ai sanguinosi scontri tra Hamas e Fatah a Gaza, le forze di polizia palestinesi in West Bank, sotto il controllo del presidente, hanno attuato una feroce repressione ai danni degli attivisti di Hamas, in un gioco di squadra insieme alle forze di Occupazione israeliana. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso riguarda l'atteggiamento tenuto da Abu Mazen nei confronti della Commissione Goldstone sull'invasione di Gaza nello scorso Gennaio.
Il rapporto della Commissione ONU, guidata dal giudice Goldstone, fervente sionista e dunque inattaccabile dalla propaganda israeliana, accusa governo ed esercito israeliano (insieme ad Hamas) di crimini di guerra durante l'invasione di Gaza. A fine settembre, la delegazione palestinese all'ONU avrebbe dovuto iniziare le procedure per presentare il dossier all'ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza, per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite. Ma Abu Mazen si è piegato alle pressioni americane e ha deciso di bloccare l'iniziativa e posticiparla all'anno prossimo, cercando di insabbiare il procedimento.
La sottomissione di Abbas al diktat americano è stata di fatto percepita come un tradimento imperdonabile della causa nazionale da parte dei palestinesi, che sono scesi in piazza numerosi a dimostrare contro Abbas, tanto che persino la Siria e gli altri paesi arabi hanno condannato la mossa. Nonostante siano stati presi di mira dalla Commissione Goldstone, i leader di Hamas hanno accusato Abbas di giustificare a posteriori il massacro dei millequatrocento palestinesi morti nelle tre settimane di conflitto. Abbas ha cambiato idea la settimana scorsa, ottenendo l'approvazione del dossier Goldstone dal Consiglio ONU per i Diritti Umani nonostante la contrarietà americana, ma l'indecisione dimostrata in precedenza sarà difficile da digerire per gli elettori palestinesi. Durante una recente telefonata con Obama, in cui lo avvisava della sua volontà di farsi da parte, Abbas ha ammesso al presidente americano che il caso Goldstone è stato un grave errore politico.
Questo è il percorso che ha portato Abu Mazen a non ricandidarsi. Ha atteso la partenza del Segretario di Stato americano Hillary Clinton, in visita ufficiale tra Israele e Palestina, per rendere nota la propria decisione con un messaggio in diretta tv, ammettendo che qualsiasi tentativo di dialogo con il governo del falco Netanyahu è inutile e dunque la sua missione politica è esaurita.
Nonostante le elezioni siano programmate per il prossimo gennaio, è improbabile che la data venga rispettata. Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha dichiarato che non riconoscerà le elezioni fino a quando non verrà raggiunto un accordo tra il movimento islamico e Fatah, accordo che al momento resta lontano. Dunque Abu Mazen rimarrà saldamente al potere ancora per qualche tempo, in attesa che tra le file di Fatah emerga un candidato alternativo. Ma quali sono le alternative?
Al recente congresso di Fatah, il maggior consenso è stato riscosso proprio da Muhammad Dahlan, l'artefice del fallito colpo di stato a Gaza contro Hamas e uomo di fiducia dei servizi segreti americani. Ma la popolarità di Dahlan tra i palestinesi è ridotta, per via delle voci di corruzione e soprattutto per la sua rocambolesca fuga da Gaza in West Bank, orchestrata dall'esercito israeliano. Rimane Marwan Barghouti, ex-capo delle milizie Tanzim, che gode di un enorme consenso popolare e pare l'unico in grado di battere Haniyeh, il premier del governo Hamas a Gaza. Purtroppo, Barghouti si trova nelle carceri israeliane, dove sta scontando una condanna a cinque ergastoli, sebbene voci sul suo possibile rilascio riaffiorino di tanto in tanto.
Quel che è certo è che le speranze di pace per il Medioriente, all'apice un anno fa dopo l'elezione di Barack Obama, sono sprofondate. Nell'opinione pubblica palestinese, l'atteggiamento della nuova amministrazione americana nei confronti di Israele non è cambiato rispetto all'era Bush. La questione del congelamento delle colonie illegali in West Bank, che Obama aveva posto come precondizione per la ripresa del negoziato, è naufragata miseramente. Netanyahu ha chiamato il bluff americano e ha vinto la partita. L'ultima doccia fredda per i palestinesi è stato infatti l'accordo tra Clinton e Netanyahu per un cosiddetto “blocco temporaneo delle colonie,” ostentato come un grande successo dagli Stati Uniti, ma visto dai palestinesi come la definitiva capitolazione americana. Non è del tutto implausibile che la moneta di scambio sia stato l'addolcimento della posizione israeliana sull'Iran, che Netanyahu avrebbe offerto in cambio della mano libera sugli insediamenti nei Territori.
Dopo la notizia dell'abbandono di Abbas, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha dichiarato che “i palestinesi dovranno abbandonare l'idea di uno stato indipendente,” e che Abbas dovrebbe “dire la verità al suo popolo, cioè che con l'espansione degli insediamenti la soluzione dei due-stati non è più un'opzione possibile.” Secondo Erekat, “non rimane che focalizzare la propria attenzione sulla soluzione dello stato singolo, dove musulmani, cristiani ed ebrei possono vivere con gli stessi diritti.”
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di Michele Paris
Dopo mesi di estenuanti trattative e onerosi compromessi, nella notte tra sabato e domenica la Camera bassa del Congresso americano ha consegnato al presidente Obama una prima sostanziale vittoria nella ancora lunga battaglia per la riforma sanitaria. La risicatissima maggioranza messa assieme dai democratici nella votazione decisiva, è stata resa possibile però solo a prezzo di rilevanti cedimenti all’ala più moderata del partito sulla questione dell’accesso all’aborto, nell’ambito del piano pubblico che rappresenta uno dei nodi centrali della riforma stessa.
Il blitz di Barack Obama al Congresso, alla vigilia di un voto che era rimasto in dubbio fino all’ultimo, è risultato alla fine decisivo per convincere una manciata di deputati recalcitranti ad appoggiare una legge di 1990 pagine che costerà oltre mille miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Il primo test parlamentare per la riforma che potrebbe segnare l’intera presidenza dell’inquilino della Casa Bianca, è stato alla fine superato con una maggioranza di 220 voti a favore e 215 contrari. Tra i democratici, si sono contati 39 voti contrari, quasi tutti di “congressmen” provenienti da distretti conservatori, mentre a sorpresa un solo repubblicano ha votato con la maggioranza, il deputato Anh “Joseph” Cao della Louisiana.
Nonostante l’approvazione del piano di riforma renda possibile il più consistente allargamento della copertura sanitaria negli USA dal 1965, anno in cui vennero istituiti i piani pubblici per anziani e indigenti (Medicare e Medicaid), il nuovo sistema continuerà a poggiarsi fondamentalmente sulle compagnie di assicurazione private. Queste ultime, però, non potranno più rifiutare la copertura sanitaria a persone con precedenti malattie, così come dovranno sottoporre eventuali aumenti dei premi delle loro polizze ai nuovi organi regolatori istituiti dal governo.
Le aziende americane, da parte loro, avranno l’obbligo di offrire un’assicurazione sanitaria ai propri dipendenti; in caso contrario dovranno pagare una sanzione pari all’8% di quanto spendono in stipendi. Allo stesso modo, ogni singolo cittadino dovrà acquistare una polizza per non pagare una multa che potrà arrivare fino al 2,5% del suo reddito annuo. A livello statale, il programma Medicaid, riservato ora a famiglie a basso reddito, verrà esteso a 15 milioni di persone. Per quanti hanno entrate tali da non potersi permettere l’acquisto di una polizza da una compagnia privata, saranno disponibili sussidi governativi e, soprattutto, un piano pubblico alternativo.
Il nuovo piano democratico potrebbe giungere così a coprire circa 36 milioni di americani attualmente privi di ogni assistenza sanitaria, lasciandone però ancora altri 18 milioni senza alcuna copertura, un terzo dei quali immigrati illegali. Per evitare un aumento del già enorme deficit statunitense, la riforma secondo la legge licenziata dalla Camera dei Rappresentanti sarà finanziata da 400 miliardi di tagli al programma pubblico Medicare e da una serie di nuove tasse, tra cui un contributo del 5,4% sui redditi superiori ai 500 mila dollari per singoli contribuenti e al milione per le famiglie.
La legge uscita dalla Camera, come ha ammesso la stessa speaker democratica Nancy Pelosi, appare ben lontana dal rappresentare una risposta compiuta ai problemi del sistema sanitario americano. Tanto più che la riforma definitiva che Obama vorrebbe firmare entro la fine dell’anno dovrà passare ora attraverso l’esame del Senato, dove la proposta in discussione appare già decisamente più timida rispetto a quella appena approvata alla Camera. Una volta ottenuto l’OK tutt’altro che scontato del Senato, i due documenti dovranno essere amalgamati in un unico testo che richiederà nuovamente il voto positivo di entrambi rami del Congresso. Un percorso ancora lungo, dunque, e pieno di ostacoli, soprattutto alla luce delle divisioni emerse negli ultimi mesi tra le varie anime del Partito Democratico.
Con l’opposizione pressoché totale dei repubblicani, per ottenere il passaggio della legge la leadership democratica alla Camera ha dovuto sostenere serrate trattative con i propri deputati, in particolare intorno ad un emendamento relativo all’accesso all’aborto. Alcune decine di democratici contrari all’interruzione di gravidanza avevano infatti minacciato di votare contro la riforma se in essa non fosse stata inclusa un’esplicita proibizione di finanziare l’aborto con denaro federale. Pur mettendo a rischio il sostegno dei parlamentari “pro-choice”, la speaker Nancy Pelosi ha alla fine dovuto sacrificare l’opportunità per le donne con redditi più bassi di avere accesso all’aborto, così da assicurarsi il passaggio della riforma nella sua interezza.
Alla fine del processo legislativo, con ogni probabilità, la riforma sanitaria americana risulterà ben diversa da quella auspicata da buona parte degli elettori - soprattutto liberal - che hanno sostenuto Obama nella sua corsa alla Casa Bianca dodici mesi fa. Analogamente, l’esito definitivo sarà molto lontano da quella soluzione che sola avrebbe potuto istituire un sistema pubblico di assistenza sanitaria veramente universale (“single-payer”).
Al di là dei limiti che caratterizzano il provvedimento appena uscito dalla Camera e di quelli che segneranno quello che dovrebbe uscire tra qualche settimana dal Senato, l’eventuale firma di Obama su un testo definitivo rappresenterebbe indiscutibilmente un successo storico per questa amministrazione. Un risultato certamente di compromesso, ma che con ogni probabilità non avrebbe potuto essere altrimenti, viste le resistenze e gli interessi dei poteri forti che da decenni negli Stati Uniti si oppongono strenuamente ad ogni cambiamento ad un sistema che a tutt’oggi nega qualsiasi assistenza sanitaria a quasi 50 milioni di persone.
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di Michele Paris
In concomitanza con la visita in Pakistan della settimana scorsa del Segretario di Stato americano, Hillary Rodham Clinton, i militanti islamici hanno portato a termine un attentato a Peshawar che ha causato oltre cento morti. Qualche giorno più tardi, sono state almeno una cinquantina le vittime di due esplosioni a Rawalpindi e Lahore. Solo nelle ultime settimane, una drammatica escalation di violenze ha accompagnato l’attacco dei militari pakistani nella regione del Waziristan del Sud, vera e propria roccaforte delle forze ribelli al confine con l’Afghanistan. Un’iniziativa bellica complicata e voluta fortemente da Washington che, nonostante i proclami, difficilmente potrà però cancellare in maniera definitiva la presenza dei talebani e dei seguaci di Al-Qaeda che operano nelle aree tribali del nord-ovest del paese.
In concomitanza con l’avanzata dell’esercito pakistano, la guerriglia talebana ha immediatamente intensificato le proprie operazioni e modificato i destinatari delle offensive. Mentre in precedenza gli attacchi suicidi erano rivolti ad obiettivi occidentali e ad installazioni delle forze di sicurezza pakistane, le loro azioni appaiono ora sempre più indiscriminate e mirate a mietere il maggior numero di vittime nei centri più densamente abitati.
La regione montana semi-autonoma del Waziristan è da tempo il rifugio dell’organizzazione islamica Tehrik-i-Taliban, un’alleanza che raccoglie una decina di gruppi integralisti che si battono per la destabilizzazione del governo centrale pakistano. Il loro leader, Baitullah Mehsud, era stato ucciso il 5 agosto scorso da un’incursione di un drone statunitense e, da allora, la guida del movimento è stata assunta dal 28enne Hakimullah Mehsud, sul quale il governo ha ora messo una taglia di 600 mila dollari.
L’avanzata dei Talebani in Pakistan, a partire dalle zone di frontiera con l’Afghanistan, era giunta nel 2007 fino alla valle dello Swat, a poche centinaia di chilometri dalla capitale, dove il loro controllo, avallato dal governo, aveva portato all’imposizione della legge islamica su una popolazione terrorizzata. La minaccia di puntare su Islamabad aveva finalmente provocato la reazione del governo, fino ad una massiccia controffensiva dell’esercito condotta con successo qualche mese fa. Lo sgombero dei ribelli dal distretto di Swat è avvenuto tuttavia solo in seguito a gravi perdite da entrambe le parti e all’abbandono delle proprie abitazioni di centinaia di migliaia di persone.
Il piano seguito in quest’ultima regione appare ora però difficilmente replicabile in Waziristan, dove i militari avevano peraltro già sofferto gravi perdite in un’offensiva del 2004, risoltasi con una tregua e la cessione di fatto del territorio ai talebani. La strategia dell’esercito potrebbe piuttosto limitarsi al tentativo di eliminare la presenza dei membri di Al-Qaeda ritenuti più pericolosi, in particolare quel migliaio di militanti di nazionalità uzbeka che combattono in Pakistan. Negli ultimi giorni infatti l’avanzata dei militari ha portato alla conquista proprio di due roccaforti dei guerriglieri uzbeki – le città di Kaniguram e Karama, evacuate in fretta e furia.
Questo obiettivo limitato permetterebbe così al governo pakistano di evitare un massiccio impiego di forze nell’area e, allo stesso tempo, di soddisfare almeno temporaneamente le richieste degli Stati Uniti e della NATO per una zona di confine più stabile, così da facilitare le operazioni militari in Afghanistan. Anche solo limitarsi alla cacciata dei militanti uzbeki non sembra tuttavia un compito facile, dal momento che l’avanzata dell’esercito in Waziristan rischia di coinvolgere nel conflitto altri gruppi ribelli attivi nelle regioni limitrofe.
Secondo alcuni analisti pakistani, sarebbero tra i mille e i duemila gli affiliati ad Al-Qaeda del Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU) nel Waziristan del Sud. Inizialmente attivi in Afghanistan, furono costretti a riparare in Pakistan nel marzo del 2002 in seguito all’Operazione Anaconda, condotta dall’esercito americano e dalla CIA. Negli ultimi mesi i militanti uzbeki sembrano essere stati notevolmente indeboliti dagli attacchi condotti dai droni americani in territorio pakistano, in uno dei quali è stato ucciso il loro leader, Tahir Yuldashev. Alla vigilia dell’offensiva delle forze armate di Islamabad, lo stesso comandante dell’esercito, generale Ashfaq Parvez Kayani, aveva lasciato intendere che le “dinamiche nel Waziristan del Sud potrebbero cambiare se riuscissimo a rimuovere i combattenti uzbeki”, definiti come i più fedeli seguaci dell’ideologia integralista e sanguinaria di Al-Qaeda.
Siano queste o meno le vere intenzioni pakistane, rimangono forti le pressioni degli USA per fare pulizia completa dei militanti islamici nelle aree tribali e riconsegnarle al controllo del governo centrale. Una tale prospettiva, allo stato attuale delle forze in campo, appare però poco più di un miraggio, come ha dimostrato un recente studio pubblicato dal think tank di Washington, New American Foundation, sulle effettive capacità dell’esercito del Pakistan di condurre operazioni di “counterinsurgency”.
Questa analisi realizzata dal ricercatore Sameer Lalwani ha evidenziato come, per conquistare in maniera definitiva le aree tribali del nord-ovest, l’esercito pakistano dovrebbe impiegare dai 370 ai 430 mila uomini. Il numero massimo di soldati che potrebbero essere mobilitati dal confine indiano in tempi ragionevoli è stimato però intorno alle 152 mila unità. Per mettere assieme invece una forza tale da garantire un controllo completo delle operazioni, a Islamabad servirebbero dai due ai cinque anni. Attualmente, nel Waziristan del Sud sono spiegati appena 28 mila soldati che devono fronteggiare circa 12 mila militanti che conoscono alla perfezione la conformazione di un territorio ostile.
La realtà sul campo appare dunque ben diversa dai proclami che si stanno sprecando nelle ultime settimane dalle capitali americana e pakistana. La sempre più profonda influenza di Washington nelle questioni interne del Pakistan promette poi di accrescere il malcontento nel paese e di mettere in crisi ulteriormente un governo già debole e impopolare come quello di Asif Ali Zardari. Come ha dimostrato peraltro anche l’accoglienza estremamente critica riservata settimana scorsa a Hillary Clinton nel corso dei suoi meeting organizzati con studenti e cittadini comuni.
Perché in Pakistan difficilmente può passare inosservata la presenza americana dietro l’offensiva dell’esercito nel Waziristan. Washington infatti sta silenziosamente fornendo armi ed equipaggiamenti militari al governo pakistano per centinaia di milioni di dollari negli ultimi mesi. I voli degli aerei di sorveglianza senza pilota hanno allo stesso modo consegnato importanti informazioni relative agli obiettivi da colpire nelle zone presidiate dai militanti islamici. Nonostante agli americani non sia consentito condurre operazioni di combattimento in territorio pakistano, il numero di paramilitari e soldati delle forze speciali di Washington giunto nel paese con compiti di addestramento si è inoltre moltiplicato.
Se il Segretario di Stato USA ha trovato interlocutori disposti ad ascoltare la lezione di Washington, sia nei membri del governo di Zardari che nel leader dell’opposizione Nawaz Sharif, le relazioni tra i due paesi rimangono complicate. Così come profondamente radicato resta il sentimento anti-americano nel paese, tanto che esponenti politici e militari locali sono difficilmente disponibili a parlare apertamente degli aiuti forniti dal potente alleato nel disperato tentativo di rafforzare il controllo del governo centrale sui molteplici movimenti ribelli che fioriscono entro i propri confini. Un’ingerenza che l’amministrazione Obama vede come inevitabile per stabilizzare la situazione del vicino Afghanistan, ma che rischia seriamente di produrre effetti opposti a quelli desiderati.