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di Emanuela Pessina
BERLINO. In occasione del ventennale della caduta del Muro di Berlino, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha tenuto un discorso ufficiale di fronte al Congresso statunitense, onore toccato finora a un solo cancelliere federale, Konrad Adenauer, nel 1957. Il discorso della Merkel, tuttavia, non ha soddisfatto le attese del mondo politico. Se, da una parte, la cancelliera è riuscita a convincere tutti con le sue parole di ringraziamento agli Stati Uniti, dall'altra non ha fornito i chiarimenti attesi riguardo le quérelles internazionali più urgenti, come Afghanistan e crisi economica.
Angela Merkel ha aperto il suo discorso ringraziando gli Stati Uniti per l'appoggio offerto alla Germania nel corso della storia, soffermandosi sui due momenti particolari in cui il sostegno degli Usa fu fondamentale, e cioè contro la dittatura nazista e nel processo di Riunificazione della Germania. A questo proposito, l’ex ragazza dell'Est ha riportato con parole toccanti anche la sua esperienza personale.
"Come tanti giovani, anch'io mi sono entusiasmata per una marca particolare di jeans che non c'erano nella Repubblica Democratica Tedesca e che mia zia mi spediva dall'Ovest", ha confessato la Merkel. Con queste semplici parole, la cancelliera venuta dall'Est ha voluto testimoniare l'importanza degli eventi storici nella vita quotidiana die piccoli. "La terra delle possibilità infinite era, per me, la terra delle possibilità irraggiungibili", ha concluso la Merkel riferendosi all’America dell’american dream, e, per riportare il discorso a un tono ufficiale, ha colto l'occasione per commemorare i presidenti americani che hanno ricoperto un ruolo nel rapporto Usa- Germania, da J.F. Kennedy a G. W. Bush.
Dopo l'excursus storico, che non ha mancato di riscuotere lodi tra i senatori statunitensi, la Merkel è passata alle questioni politiche contemporanee: qui, però, la cancelliera non si è espressa in modo incisivo. Riguardo la questione mediorientale, la Merkel ha riconosciuto l'importanza e la difficoltà delle missioni, ribadendo l'interesse della stessa Germania "a condurre al successo il concetto ideale di sicurezza globale" espresso dagli Usa. La cancelliera, tuttavia, non ha dato risposte concrete alle richieste di Barack Obama, che vorrebbe un aumento del contingente tedesco in Afghanistan. Forse proprio in ragione della sua storia, la Germania è un Paese molto critico, e la cancelliera lo sa: sarebbe molto difficile spiegare ai suoi cittadini l'invio di nuovi militari in Afghanistan.
Per quel che riguarda la crisi economica, la Merkel non ha mancato di sottolineare l'importanza della collaborazione tra Stati Uniti e Europa, un rapporto che definisce cruciale per evitare il ripetersi della crisi. "Un'economia globalizzata richiede un sistema di regole globale", ha precisato la Merkel e, senza un impegno comune di Europa e Stati Uniti, questo non si può ottenere. La cancelliera ha invitato anche a "non cadere nella tentazione del protezionismo", non entrando però nel vivo delle critiche che ci sono state nei confronti della sua politica da parte degli Stati Uniti.
La Mekel ha pronunciato parole decise nei confronti dell'Iran, confermando un atteggiamento di "tolleranza zero" verso la politica di Mahmoud Ahmadinejad. "L'Iran conosce i limiti della politica occidentale: un presidente che nega l'Olocausto, che minaccia Israele e che non garantisce i diritti fondamentali dell'esistenza non può possedere la bomba atomica".
Ma il vero cavallo di battaglia dell'agenda Merkel è stata la questione del clima, che ha definito, senza mezzi termini, il nuovo "Muro eretto tra presente e futuro che c’impedisce di vedere le necessità delle generazioni future". A questo proposito ha chiamato tutti a impegnarsi in modo continuo e reale, strappando anche numerosi applausi ai senatori statunitensi che, si sa, al momento non vogliono (o non possono) investire troppo in questo campo.
Al momento, in effetti, Obama e i suoi collaboratori hanno numerosi problemi interni da risolvere, tra cui la riforma sanitaria e gli effetti quotidiani di una crisi economica non ancora inquadrata del tutto, e il problema del clima passa in secondo piano. Probabilmete lo sa anche Angela Merkel: per questo, forse, non si è sbilanciata con proposte concrete, limitandosi a mostrare un'ottima intesa con il presidente Obama e non forzando la mano sulle questioni più delicate tra le due potenze. Per la richiesta di seggio al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ambizione dichiarata di Berlino, é cosa utile avere un alleato alla Casa Bianca.
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di Michele Paris
A un anno esatto dalla trionfale conquista della Casa Bianca di Barack Obama, il Partito Democratico americano ha dovuto incassare martedì, come previsto, due pesanti sconfitte nelle uniche competizioni in calendario quest’anno per eleggere nuovi governatori: in Virginia e New Jersey. Se anche la tornata elettorale era stata presentata da molti, soprattutto repubblicani, come un referendum sul presidente, le due vittorie dell’opposizione nei due stati orientali dicono in realtà poco in previsione delle ben più importanti elezioni di medio termine del prossimo anno. Decisamente più rilevante invece a livello nazionale è stata un’elezione suppletiva, vinta dai democratici, per un seggio alla Camera dei Rappresentanti nello Stato di New York, trasformata dagli stessi repubblicani in una vera e propria scommessa sul futuro del proprio partito.
Dal punto di vista dell’impatto mediatico, il voto in Virginia e New Jersey era indubbiamente quello di maggiore interesse, dal momento che soprattutto nel secondo stato, tradizionalmente di orientamento democratico, lo stesso Obama aveva investito molto del suo capitale politico per sostenere il governatore in carica Jon Corzine. Ex presidente di Goldman Sachs, quest’ultimo aveva visto il proprio indice di gradimento crollare nell’ultimo anno in seguito alle gravi conseguenze causate dalla crisi economica nel suo stato. Incalzato dall’ex procuratore federale, il repubblicano Christopher J. Christie, Corzine nulla ha potuto per assicurarsi un secondo mandato nonostante l’ingente somma spesa nella campagna elettorale di tasca propria, ben tre comizi tenuti con Obama nelle ultime settimane e una serie di offensive mediatiche nei confronti del suo rivale.
Christie alla fine ha raccolto il 49% dei consensi contro il 44% di Corzine, in uno stato nel quale gli elettori registrati come democratici sono 700 mila in più rispetto ai repubblicani e che dodici mesi fa nelle presidenziali era stato conquistato da Obama con 17 punti percentuali di vantaggio su McCain. A contribuire in maniera decisiva alla vittoria repubblicana nel New Jersey sono stati la disoccupazione alle stelle, il deficit di bilancio fuori controllo e un livello di tassazione in continua crescita. Il neo-governatore da parte sua ha beneficiato del ruolo di primo piano giocato nello smantellamento di una vasta rete di corruzione che ha coinvolto negli ultimi mesi numerosi politici democratici. Una vicenda quest’ultima che ha pesato fortemente sulle motivazioni degli elettori del governatore in carica, molti dei quali infatti hanno deciso di non recarsi alle urne.
Se la competizione del New Jersey appariva come quella più a portata di mano per il partito del presidente, le speranze di ribaltare la situazione in Virginia erano andate invece svanendo nelle ultime settimane. La netta sconfitta subita del senatore dello Stato R. Creigh Deeds (41% dei consensi) per mano dell’ex procuratore generale Robert McDonnell (59%) giunge tra l’altro in contemporanea ai successi repubblicani messi a segno anche per le cariche di vice-governatore e procuratore generale. Funzioni tutte ricoperte fino a due giorni fa da democratici, i quali l’anno scorso con Obama avevano anche espugnato la Virginia nelle presidenziali per la prima volta dal 1964.
Con Mark Warner e Tim Kaine i democratici avevano occupato il posto di governatore in questo stato negli ultimi otto anni ma la debolezza del candidato Deeds era apparsa evidente poco dopo le primarie vinte ai danni del più agguerrito veterano clintoniano Terry McAuliffe. Durante la campagna elettorale i democratici avevano cercato in tutti i modi di dipingere McDonnell come un conservatore radicale, portando alla luce una sua tesi per un master universitario conseguito due decenni fa e nella quale dava giudizi pesantemente negativi sulle madri single e sulle donne lavoratrici. Il candidato repubblicano tuttavia è riuscito ad evitare lo scontro sui temi sociali, focalizzando la sua corsa attorno alla creazione di posto di lavoro e al sentitissimo problema dei trasporti pubblici, riuscendo così a fare breccia tra gli elettori indipendenti dei distretti settentrionali che nel 2008 avevano giocato un ruolo decisivo nella vittoria di Obama.
Il dato più significativo in chiave nazionale che emerge dalla Virginia e dal New Jersey, paradossalmente, sembra in ogni caso non essere troppo negativo per il presidente. Secondo gli exit poll, Obama rimane infatti piuttosto popolare in entrambi gli stati, come indica un livello di gradimento solo leggermente inferiore rispetto allo scorso anno, malgrado le difficoltà e le incertezze dei primi mesi del suo primo mandato. Ciò che appare evidente è piuttosto, da un lato, l’apatia di una parte dei suoi elettori (giovani e minoranze etniche) che hanno disertato le urne e, dall’altro, il sostegno offerto ai candidati repubblicani dai cosiddetti indipendenti, in genere molto preoccupati dell’andamento dell’economia americana.
L’abilità di Obama di mobilitare gli elettori a sostegno di altri candidati democratici, oltre che in Virginia e New Jersey, è stata messa alla prova poi anche nel 23esimo distretto congressuale dello Stato di New York, dove la Casa Bianca era in qualche modo intervenuta in una vicenda dagli sviluppi tutti particolari. L’elezione speciale in questo distretto solidamente repubblicano si era resa necessaria in seguito alle dimissioni del deputato dell’opposizione John McHugh, nominato Segretario dell’Esercito degli Stati Uniti. La competizione per il seggio vacante alla Camera dei Rappresentanti aveva attirato da subito l’attenzione dell’establishment politico di Washington, soprattutto degli esponenti di spicco del Partito Repubblicano.
Per l’elezione suppletiva, i repubblicani locali avevano inizialmente scelto la parlamentare statale Dede Scozzafava, le cui posizioni a favore dell’aborto e dei diritti gay, così come il suo appoggio al piano di stimolo all’economia di Obama, avevano però suscitato le critiche immediate dell’ala più conservatrice del partito. La competizione si era trasformata allora in una sorta di resa dei conti interna tra moderati, convinti che il futuro del partito risieda nel coinvolgimento di candidati ed elettori centristi, e conservatori, fautori di un ritorno ai valori originali del partito. Le personalità di punta del partito, a partire dall’ex candidata alla vice-presidenza nel 2008 Sarah Palin, avevano allora manifestato il proprio sostegno ad un terzo candidato, il poco conosciuto Douglas Hoffman, in corsa sotto le insegne del Partito Conservatore.
In seguito alle enorme pressioni subite, Dede Scozzafava qualche giorno prima del voto aveva così deciso di farsi da parte, teoricamente per non divedere il voto repubblicano favorendo il candidato democratico Bill Owens. Il giorno successivo al ritiro dalla competizione tuttavia, la candidata originaria del Partito Repubblicano, su richiesta della Casa Bianca, annunciava il suo appoggio proprio all’ex rivale democratico, tirandosi addosso le ire dei suoi colleghi e determinando verosimilmente l’esito del voto.
L’inaspettata vittoria da parte di Owens, centrata grazie a tre punti percentuali di margine su Hoffman (49% e 46%), rappresenta uno smacco per quei conservatori decisi a dare una netta svolta a destra al partito su scala nazionale e che a partire dalle elezioni del novembre 2008 hanno accresciuto la loro influenza tra i membri dell’opposizione al Congresso. Il livello di mobilitazione dei sostenitori di Hoffman e l’aperto sostegno offertogli nel corso della campagna elettorale da testate conservatrici importanti come il Wall Street Journal e il Weekly Standard, ma anche di anchormen popolari come Rush Limbaugh o Glenn Beck di Fox News, era sembrato galvanizzare la base repubblicana, ma ha in definitiva allontanato quella fetta decisiva di elettori moderati attestati su posizioni socialmente più liberal.
L’esito di questa elezione locale, se consente ad un Obama relativamente in affanno di prendere una boccata di ossigeno in vista delle imminenti battaglie al Congresso su temi delicati come la riforma sanitaria, impartisce una lezione severissima ad un Partito Repubblicano sempre più in mano alla destra radicale e virtualmente sparito dagli stati del nord-est del paese. Non è un caso infatti che, come indicano i più recenti sondaggi, a fronte di una popolarità in calo dello stesso presidente, quella della delegazione parlamentare repubblicana risulti addirittura inferiore al venti percento.
Oltre alle suddette elezioni, martedì negli Stati Uniti si è votato poi per molte altre competizioni locali e per alcuni referendum in vari stati. Tra le altre, va segnalata la conquista della carica di sindaco di New York per la terza volta consecutiva del miliardario Michael Bloomberg. Anche se ampiamente prevista, l’affermazione di Bloomberg è arrivata però con un margine molto ristretto nei confronti del suo sfidante, il democratico William Thompson (51% a 46%). Un attestato di sfiducia nei confronti del sindaco uscente che aveva frantumato ogni record di spesa in una campagna elettorale municipale spendendo oltre 100 milioni di dollari per assicurarsi un terzo mandato dopo aver dissolto il limite di due incarichi consecutivi con una manovra legislativa pochi mesi fa.
Nel Maine, infine, grande delusione c’è stata per i sostenitori dei diritti degli omosessuali. In questo piccolo stato del New England infatti gli elettori hanno deciso di annullare una legge adottata dalla legislatura locale la scorsa primavera che legalizzava i matrimoni dello stesso sesso. Dopo un’identica sconfitta rimediata in California nel novembre del 2008, il movimento gay sperava con questo voto di capitalizzare il via libera dato alle unione tra persone dello stesso sesso negli ultimi mesi da quattro stati americani: Connecticut, Iowa, New Hampshire e Vermont.
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di Michele Paris
Lo scorso venerdì le delegazioni del presidente deposto dell’Honduras Manuel Zelaya e del governo golpista al potere hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per la risoluzione della crisi politica iniziata nel paese centroamericano il 28 giugno. Dopo mesi di trattative che si erano continuamente arenate sulla questione del reintegro del presidente democraticamente eletto, a sbloccare la situazione è stato l’intervento del governo americano che ha inviato una propria delegazione a Tegucigalpa per convincere il leader del regime, Roberto Micheletti, a cedere alle pressioni della comunità internazionale.
Nonostante il compromesso sia stato propagandato da Washington come un trionfo per la democrazia, il ritorno di Zelaya alla guida del paese a meno di un mese dalle elezioni presidenziali appare, prima che inutile, tutt’altro che scontato. Così come la tardiva presa di posizione dell’amministrazione Obama non potrà evitare il compiersi dello scopo ultimo di un colpo di stato che essa stessa aveva in definitiva tacitamente appoggiato: impedire il cambiamento politico e sociale nel secondo paese più povero del continente. Se Zelaya verrà restituito al suo ruolo costituzionalmente legittimo, la sua sarà in ogni caso una brevissima presidenza privata di poteri in un governo da condividere con le stesse persone che cinque mesi fa lo avevano costretto all’esilio.
Le premesse per lo scioglimento dell’impasse honduregna, come già anticipato, erano state poste dall’arrivo nella capitale dell’assistente al Segretario di Stato americano per l’emisfero occidentale, Tom Shannon, già in carica durante l’amministrazione Bush, e del consigliere di Obama per l’America Latina, Dan Restrepo. Obiettivo della delegazione americana era quello di rendere legittime agli occhi della comunità internazionale le elezioni presidenziali del 29 novembre prossimo, trasformandole nell’occasione per ristabilire finalmente l’ordine in Honduras. Dal momento che praticamente nessun paese, USA compresi, appariva disposto ad accettare il risultato di un voto condotto con il presidente legittimo asserragliato nell’ambasciata brasiliana, dove era giunto a fine settembre, il governo di Micheletti ha finito col cedere.
I termini dell’accordo firmato dalle due parti a Tegucigalpa con la benedizione di Washington risultano molto simili a quelli contenuti nella proposta avanzata dal presidente del Costa Rica, Oscar Arias, dopo il golpe di giugno e che da subito aveva mostrato ben poche possibilità di raggiungere un qualche risultato definitivo. Ciò include in primo luogo la formazione di un governo di unità nazionale, all’interno del quale non è chiaro quale sarà la sorte dei politici e dei funzionari ministeriali vicini a Zelaya e rimpiazzati all’indomani del golpe. Nessun provvedimento invece verrà preso nei confronti di quei membri dell’esercito protagonisti del colpo di mano dello scorso giugno.
Da parte sua, Zelaya rinuncerà a qualsiasi pretesa di dar vita ad un Assemblea Costituente per modificare una Carta che l’Honduras ha adottato nel 1982, dopo la fine del regime militare, e che da allora ha servito gli interessi di un’oligarchia detentrice della gran parte della ricchezza del paese. Proprio il tentativo di Zelaya di tenere una consultazione popolare non vincolante per rivedere la costituzione era stato il pretesto scatenante il golpe. Secondo i golpisti, infatti, il presidente stava cercando di cambiare la costituzione in modo da ottenere l’abolizione del limite di un solo mandato alla guida del paese per poter correre nelle elezioni di novembre. Un’accusa evidentemente falsa, dal momento che l’eventuale elezione di un’assemblea costituente avrebbe dovuto tenersi proprio al momento della scelta del suo successore.
Una commissione con il compito di investigare a fondo gli eventi legati al golpe verrà poi istituita, mentre un organo costituito da esperti indipendenti honduregni e internazionali veglierà sull’implementazione dell’accordo. Mentre sarà escluso qualsiasi procedimento criminale ai danni di quanti sono stati coinvolti nel colpo di stato, nessuna amnistia è prevista invece, come chiedeva inizialmente Zelaya, per eventuali reati politici. Una condizione verosimilmente voluta dai militari, a quanto pare tuttora intenzionati a processare il presidente legittimo per tradimento.
Un altro punto critico delle trattative era poi la scelta dell’organismo a cui affidare l’eventuale decisione formale di reintegrare Zelaya. Quest’ultimo si aspettava infatti un voto del parlamento, nonostante in esso conservasse il supporto di appena un quinto dei deputati, mentre per Micheletti avrebbe dovuto essere quella stessa Corte Suprema che aveva deliberato la rimozione del suo rivale a deciderne il ritorno. Secondo il compromesso mediato agli USA, alla fine, la Corte Suprema dovrà emanare una propria opinione in merito allo status di Zelaya, sulla quale poi il Congresso sarà chiamato ad esprimere il voto decisivo.
Sui tempi tuttavia rimane estrema incertezza e le prime indicazioni fanno temere ulteriori ritardi nell’applicazione dell’accordo. In un’intervista alla stazione radio honduregna HRN, infatti, il presidente del Parlamento, José Alfredo Saavedra, ha già fatto sapere di non voler accettare ultimatum da parte di nessuno in merito alla data di un possibile voto sulla sorte di Zelaya. Fino a quel momento, Micheletti rimarrà così in carica con i pieni poteri. Ancora più preoccupanti sono state addirittura le dichiarazioni rilasciate da un membro dello staff del presidente golpista, Marcia Facussé de Villeda, a Bloomberg News, alla quale ha ammesso che “Zelaya non sarà reintegrato. Con la firma dell’accordo semplicemente ci siamo assicurati il riconoscimento delle elezioni presidenziali da parte della comunità internazionale”.
In attesa dei nuovi sviluppi della situazione, Mel Zelaya e il suo entourage rimangono bloccati dentro l’ambasciata brasiliana a Tegucigalpa, accerchiata dalle forze di sicurezza honduregne che nelle ultime settimane hanno puntualmente dissolto con la forza ogni manifestazione pacifica a sostegno del presidente deposto. Zelaya, che verrà comunque sostituito dal suo successore il prossimo mese di gennaio, ha da parte sua descritto l’accorso siglato venerdì scorso come un “segno di pace per il nostro paese e del ristabilimento della nostra democrazia”. I suoi ringraziamenti sono andati al Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton e alla delegazione americana protagonista della mediazione, così come al presidente costaricano Arias e al governo brasiliano di Lula.
Significativamente assente dai ringraziamenti di Zelaya è stato invece il presidente venezuelano Hugo Chavez, tra i critici più vigorosi del golpe di giugno. Proprio la progressiva vicinanza con Chavez, consolidata da contratti di fornitura di petrolio all’Honduras al di sotto del prezzo di mercato, era stata un'altra delle scuse che avevano condotto al colpo di stato. La classe dominante honduregna aveva più volte criticato la svolta a sinistra di Zelaya nel corso del suo mandato presidenziale, paventando per il proprio paese un percorso verso il socialismo simile a quello intrapreso dal Venezuela.
Il presunto successo diplomatico degli Stati Uniti, in ogni caso, non dissolve di certo le ombre e le ambiguità di un’amministrazione che pure aveva condannato ufficialmente il golpe fin dall’inizio. Innanzitutto, rimane l’interrogativo di un intervento americano che avrebbe potuto giungere ben prima della fine di ottobre per risolvere la crisi. Soprattutto alla luce della profonda influenza storicamente esercitata da Washington sull’Honduras, per il quale rappresenta di gran lunga il primo partner commerciale e l’investitore estero più importante.
Una strategia dilatoria quella dell’amministrazione Obama che, se ufficialmente è stata dettata dalla volontà di non intervenire direttamente nelle questioni interne di un paese sovrano, favorendo piuttosto il dialogo tra le parte in causa, ha dato l’impressione a molti di assecondare il governo di Micheletti prolungando le trattative fino alle elezioni di fine novembre, così da mettere da parte Zelaya e, di riflesso, contenere l’espansione nel continente di Hugo Chavez. Un sospetto alimentato anche dagli stretti legami dal punto di vista militare tra USA e Honduras, circostanza che rende difficile credere che Washington fosse stata all’oscuro delle manovre golpiste in atto la scorsa estate.
Nelle parole di Hillary Clinton dopo l’annuncio dell’accordo, gli esponenti del governo golpista sono stati allora descritti alla stregua di eroi della democrazia honduregna, spazzando via le loro responsabilità nel ribaltamento illegale dell’ordine democratico, ma anche dell’assassinio di almeno una ventina di oppositori, di centinaia di feriti e della soppressione sistematica del dissenso nel paese.
Se l’esito della crisi politica dell’Honduras rimane insomma ancora tutto da verificare, con i due candidati della destra favoriti per la vittoria nelle elezioni presidenziali, chi esce sconfitto dall’intera vicenda, almeno per ora, sembra essere il movimento di protesta sorto tra i lavoratori e le classi più emarginate nel corso dell’esilio forzato di Zelaya. Una richiesta di cambiamento diventata però impetuosa negli ultimi mesi, proprio in seguito al golpe promosso da quella ristretta aristocrazia economica che controlla il potere, e che promette di portare frutti importanti anche in questo paese nel prossimo futuro.
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di mazzetta
Negli Stati Uniti la marijuana è ormai de facto libera in diversi stati. Non che sia stata legalizzata, ma attraverso il cavallo di Troia dell'uso medico, la pianta ha ormai conquistato spazi di libertà impensabili fino a qualche anno fa. La questione dell'uso medico della marijuana si segnala per la massiccia quantità d'ipocrisia che è stata necessaria per giungere fino allo status attuale.
L'uso medico della marijuana è conosciuto da migliaia di anni e anche recenti ricerche hanno dimostrato l'efficacia nel trattamento di un numero impressionante di patologie. La usavano gli antichi cinesi, gli egizi, i greci, gli indiani ed è rimasta in uso in medicina fino alla campagna di criminalizzazione del ventesimo secolo. Numerose ricerche in età moderna ne hanno certificato le capacità anticancro, i benefici che può recare a chi soffre di diversi disturbi mentali e neurologici come di dolori cronici e altro ancora. I cannabinoidi contenuti nella cannabis si sono dimostrati versatili ed efficaci, senza provocare i pesanti effetti collaterali dei rimedi già in uso per le stesse necessità.
Nonostante queste virtù siano riconosciute e certificate anche da recenti ricerche, sono pochissimi i farmaci disponibili che contengono tetraidrocannabinolo (o THC), la sostanza psicoattiva prodotta dalla cannabis, e sono “dedicati” e testati per la cura di patologie specifiche. Pensando agli Stati Uniti e alle strette limitazioni imposte dalla Food & Drug Administration (FDA) al commercio di cibi e medicinali, c'è da stupirsi per la procedura che ha portato la marijuana a diventare ufficialmente un farmaco.
La marijuana medica è diventata tale a furor di popolo, attraverso referendum o decisioni degli organi legislativi, la FDA non ne ha affatto regolamentato l'uso o la vendita e le procedure stabilite per la sua somministrazione sono tanto aleatorie quanto lontane dal poter essere scambiate per un protocollo terapeutico. Non esistono indicazioni sulla posologia e nemmeno metodi d'assunzione raccomandati, anche se il più innocuo e apprezzato è sicuramente quello attraverso i vaporizzatori che, evitando la combustione e suoi prodotti tossici, assicurano l'effetto terapeutico e l'assunzione del principio attivo, buoni anche per l'uso ricreativo.
Molti altri stati stanno pensando d'introdurre l'uso terapeutico della marijuana e c'è un grande consenso popolare per questo genere di misure. Recentemente, in New Hampshire è stata bloccata una proposta del genere dal veto del governatore, siamo già al secondo tentativo e per poco non è stata raggiunta la maggioranza dei due terzi nelle due camere (76,6% alla Camera e 58,3% al Senato), ma in genere la tendenza indica una rapida espansione nella maggior parte degli stati federati.
Questo procedere disordinato in realtà è figlio del fallimento ufficiale della famosa “War on Drugs”, una guerra costata miliardi di dollari che non ha scalfito minimamente il traffico internazionale di droghe e che negli ultimi anni, in silenzio e senza attirare grande attenzione, è stata dichiarata persa e finita. Una presa di coscienza che non poteva che comportare un ripensamento drastico delle politiche antidroga, già minate dalla realtà. Prima ancora, il fallimento della War on Drugs aveva già comportato una depenalizzazione di fatto del commercio di marijuana, visto che in molti stati i procuratori scrivevano chiaro e tondo che non avrebbero perseguito chi fosse stato trovato in possesso di meno di duecentocinquanta chilogrammi. Meglio concentrare gli sforzi sui traffici di cocaina e metanfetamine, che hanno inondato il mercato a dispetto di qualsiasi contrasto. In molti stati la diffusione di migliaia di laboratori domestici per la produzione di droghe sintetiche ha reso incongrua e inutile la caccia alla marijuana anche agli occhi dei conservatori.
In un quadro del genere, vietare l'uso medico della marijuana è ancora più assurdo che vietarne il consumo ricreativo e chi ha provato questa via traversa per aggirare il perbenismo formale dei legislatori, è stato premiato dal successo e dal consenso popolare. Una volta aperti i “dispensari” legali di marijuana ad uso medico e concesso l'accesso alla “cura” dietro la semplice indicazione di un medico, i dispensari sono diventati migliaia e le persone in cura tantissime. La vaghezza legislativa si è resa necessaria in presenza di leggi federali repressive; gli stessi medici sono stati autorizzati a prescrivere informalmente la marijuana ai pazienti evitando i ricettari, perché una prescrizione con tutti i crismi potrebbe diventare la prova per un'accusa federale. Con queste premesse e la quantità di patologie che in teoria beneficiano del THC, i malati si sono moltiplicati esponenzialmente.
Una rivista alternativa di Denver ha cercato un recensore specializzato in marijuana medica. Il discorso non fa una piega, se c'é un mercato è normale che ci sia chi riferisce di questo mercato per orientare i consumatori, anche perché i “dispensari” possono avere qualsiasi forma, dagli antri iper-giovanili tappezzati di poster di Bob Marley fino al luogo asettico d'ispirazione ospedaliera. Poi ci sono le diverse varietà di medicamento, con un’offerta che spazia per oltre quindici varietà d'erba a larga diffusione e numerose produzioni di nicchia.
Per cercare di chiudere qualche incongruenza, il Dipartimento di Giustizia ha ordinato ai procuratori federali di evitare procedimenti contro i consumatori di marijuana medica in regola con la legislazione degli stati d'appartenenza. Una decisione di segno “federalista”, ma soprattutto un evidente viatico alla situazione che si è venuta a creare nella realtà. Una realtà sfumata da Stato a Stato nella quale, come in Europa, si passa da stati nei quali l'uso della marijuana può essere legale, decriminalizzato, illegale e non perseguito o assolutamente illegale e ora priva del cappello federale criminalizzante.
Una situazione che giustamente alcuni commentatori conservatori hanno definito un insulto all'intelligenza; proprio da costoro è venuta la richiesta di aprire un dibattito serio sulla legalizzazione. Una richiesta incredibile fino a pochi anni fa, per questo la dimostrazione più tangibile del fatto che i tempi siano politicamente maturi per chiudere il secolo della paranoia contro la canapa. Oggi l'ipotesi appare plausibile, tanto che la California di Schwarzenegger, repubblicano atipico, sta pensando ad alta voce alla legalizzazione della canapa con un occhio ai proventi che deriverebbero dalla sua tassazione, un toccasana per le casse di uno stato sull'orlo del fallimento e anche un brutto colpo alle gang messicane che ormai hanno tracimato negli States con tanto di piantagioni.
Un discreto caos dal quale si stano giovando indubbiamente i consumatori, ma un caos che in qualche maniera dovrà essere risolto, sia per rimuovere l'insulto all'intelligenza che per offrire un quadro certo e verificato all'impiego terapeutico del THC. Una soluzione che non potrà che includere la legalizzazione dell'uso ricreativo, lo studio e l'introduzione di protocolli terapeutici per il suo uso medico e in genere la liberalizzazione della produzione della canapa negli Stati Uniti. Una soluzione che sicuramente ha ancora parecchi feroci oppositori, in particolare in alcuni settori economici, ma che può contare oggi su una platea molto più vasta di sostenitori e su alcuni alleati anche tra i conservatori.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. I socialdemocratici tedeschi hanno annunciato grandi cambiamenti per il prossimo congresso di partito, previsto a Dresda (nel nord della Germania) tra il 12 e il 15 novembre: si parla addirittura di una sostituzione completa delle maggiori personalità politiche interne. Se questo passo aiuterà a redimere le sorti della Spd, in forte crisi dopo i disastrosi risultati delle elezioni 2009, è tutto da vedere. E, al riguardo, si è interrogato anche Thomas Steg, portavoce ufficiale del governo dal 2002 al 2009 e consigliere dell’ex-vicecancelliere Frank-Walter Steinmeier (Spd).
In un articolo apparso sul quotidiano di sinistra tedesco Tageszeitung (taz) di ieri, Steg ha affermato che “il cambio di guardia annunciato dall’Spd non verrà ricordato nella storia come una vera e propria cesura”, anche se si è trattato, ha ammesso, di un "passo inevitabile”. Secondo Steg, inserire nuove personalità nella rosa dei socialdemocratici non può, di per sé, bastare alla salvezza dei socialdemocratici: la rovina della Spd è stata “lenta e annunciata” e per risalire è necessario un lavoro duro e costante.
Steg, tuttavia, non si è limitato a commentare l’annunciato cambio di guardia: nel suo articolo ha proposto anche un’analisi approfondita della crisi dell’Spd, l’unica certezza del momento. Più che come un fenomeno nuovo e inaspettato, il politico ha presentato la difficile situazione attuale come il “risultato di tendenze concomitanti che agiscono da molto tempo”. In particolare, Steg ha proposto una lettura chiara e disincantata delle cause della miseria in cui è caduta l’Spd.
“La delimitazione contraddittoria dell'Spd dal partito di sinistra, la mancanza di una prospettiva di maggioranza durante la campagna elettorale e la linea strategica poco chiara, sono soltanto alcune delle sfaccettature del dilemma dell’Spd”, ha sottolineato Steg. Il vero problema è piuttosto “il profondo estraniamento che l’Agenda 2010 ha provocato negli elettori tradizionali dell’Spd”, ha precisato Steg, riferendosi al pacchetto di riforme strutturali proposte da Gerhard Schröder di recente. Un tradimento, in un certo senso, delle aspettative degli elettori. Per un'analisi approfondita di queste teorie, comunque, Steg rimanda a un saggio di Stephan Meise apparso di recente in un libro edito in lingua tedesca da Heiko Geiling, dedicato interamente alla crisi del partito, “Die Krise der Spd”.
La crisi della Spd, in effetti, non è mai stata così profonda come quella attuale. Le elezioni del 2009 hanno fatto registrare un crollo di consensi, per i socialdemocratici, dell’11,2% rispetto al 2005 e del 15,5% rispetto al 2002; risultati che non sono bastati a garantire al partito nessun ruolo nella maggioranza. Dopo undici anni di governo, la Spd del candidato-cancelliere socialdemocratico Steinmeier si sta trovando a doversi costruire un nuovo ruolo tra le fila dell’opposizione.
Un ruolo, per la Spd, molto difficile anche solo da immaginarsi. E lo ha notato anche la Linke, il partito di estrema sinistra che ha conquistato un inaspettato successo alle recenti elezioni. Secondo quanto riportato dal Taz, infatti, il presidente della frazione della Linke, Petra Pau, ha annunciato che “non c’è coalizione nell’opposizione” in quanto “l’Spd non si è ancora abituata al suo nuovo ruolo“. Visti gli esordi, c’è d’aspettarsi che la Linke non mancherà di far valere il suo recente successo elettorale, non ammorbidendo certo la strada già in salita dei socialdemocratici.
Per questi ultimi, d'altra parte, non sarà certo facile dimenticare le numerose voci di corridoio secondo cui molti nuovi elettori della Linke, il partito del famoso fuoriuscito dalle fila dell'Spd, Oskar Lafontaine, provengono proprio dai delusi della Spd, il partito che (agli occhi degli elettori) non è riuscito ad affrontare in modo soddisfacente la crisi economica. Anche perché la Linke, nelle recenti elezioni, ha ottenuto un aumento addirittura del 7,9% rispetto al 2002, guadagnandosi un peso non indifferente all'interno del Bundestag tedesco. Un travaso di voti, quello dalla Spd verso la Linke, che rischia di divenire un passaggio delle consegne.