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di Rosa Ana De Santis
Si tiene in questi giorni, a Città del Capo, il Congresso mondiale di ginecologia e ostetricia. I numeri che riguardano la pelle delle donne, le percentuali degli aborti, soprattutto delle giovanissime, disegnano i contorni di una condizione di genere sotto assedio. Un quarto delle donne che abortiscono sono adolescenti, la clandestinità dei rimedi cui si ricorre è la risposta immediata di vite congelate in una miseria totale e atavica. Tredicimila esperti si confrontano su questo scenario. Educazione nelle scuole è la parola d’ordine e fa buona pubblicità sulla stampa occidentale, non c’è dubbio. Informazione e contraccezione sono gli ingredienti fondamentali. Le parole degli esperti chiamano in causa il compito delle scuole pubbliche e quello delle istituzioni.
Idee sane e proiettate sul successo nel lungo periodo, con una difficoltà procedurale e contingente schiacciante. La condizione della maternità e quindi anche della non maternità non è legata unicamente alla condizione della donna, alla sottomissione sociale e privata, alla violenza, ma a un contesto di povertà strutturale da cui non sarebbe possibile né onesto separare la singola situazione, il singolo problema a meno che se non si volesse correre il rischio di approntare l’ennesima teoria corretta e piena di fascino, scollegata da ogni ragionevole contestualizzazione. Preservativi, farmaci, terapie anti HIV hanno un costo proibitivo per quasi tutti. La scuola per prima ce l’ha.
E’ la misera a interdire l’accesso alla cultura, all’informazione e quindi alla consapevolezza di sé e alla tutela della propria salute. E’ proprio la canadese Dorothy Shaw a ricordare che il problema culturale non può essere mai disgiunto dalla discriminazione economica. Le parole degli esperti e le buone intenzioni non possono prescindervi e possono semmai diventare una pressione in più per i governi chiamati in causa. Una soluzione alla Lula, con i preservativi quasi gratis, può sembrare una provocazione, non più di un pronto soccorso per l’emergenza, ma comunque un valido richiamo al cuore del problema. La sensazione è che le buone parole sull’educazione, senza il monito all’economia, siano l’ennesima esibizione dell’ autorefernzialità occidentale.
Non c’è dubbio che l’utilizzo del preservativo sia difficile da integrare con un paradigma maschilista della famiglia e delle relazioni uomo-donna, lo è persino quando c’è un rischio di contagio di malattie a trasmissione sessuale, figurarsi nella scelta e nella programmazione delle gravidanze: una chimera culturale. Ma non è difficile che una donna veda i propri figli senza scarpe né vestiti, spesso senza cibo e senza scuola e non riesca a vedere la priorità della contraccezione. E’ la povertà economica a impedirle questa forma di riscatto, ogni forma d’informazione ed educazione. Inutile nascondersi tra le parole: una ragazza in una città che la affama preferirà morire di HIV più in là, che di fame subito. Questo è quello che rispondono molte alle domande dei volontari.
Il binomio efficace, secondo il Presidente della Società italiana di ginecologia ed ostetricia (SIGO), Giorgio Vittori, è quello della pillola e del preservativo, per agire sia sulla questione della gravidanze non programmate - e quindi sui numeri degli aborti - sia per abbattere le infezioni sessuali. Bisognerebbe ricordare però, che nei territori più tartassati dell’Africa, sono i missionari cattolici ad essere presenti e ad insegnare approcci molto diversi sui costumi sessuali e sulle questioni della vita familiare. Magari non del tutto in linea con quelle ortodosse di Roma, ma certamente non così tanto eretiche. La SIGO, rientrata in patria potrebbe pubblicamente sottoporre la sua relazione tecnica al Santo Padre. E’ chiaro però che debbano essere gli stati e non le missioni o le ONG a farsi carico unicamente di certe campagne. Solo in questo modo si esce dall’alibi della solidarietà.
Ma si rimane come immobili di fronte alla normalizzazione di un’Africa in morte. L’afasia di un assurdo concettuale e morale. I governi per primi. L’accettazione pacata di una miseria così disperante è insopportabile. Eppure in Africa è normale ammalarsi, non potersi curare, non avere i farmaci, non poter difendere la vita dei giovani e delle bambine. Questa gente è semplicemente nata nella parte sbagliata di mondo. Forse destinata a soccombere per tenere noi belli grassi e tutti in piedi. In Africa, ignorando l’Africa, a volte si lavora a fiumi di soldi e lauti rimborsi per la cultura e per la bandiera dell’educazione; siamo abili a fare business in tutto, anche della coscienza e del male assoluto.
Forse la verità è che l’Africa toglie il fiato con il suo scandalo e con le sue contraddizioni e che di buone teorie siamo ormai in overdose. Quelle donne e le loro storie ci obbligano, prima di tutto, a ricordarci quanto siamo lontani dall’economia dell’inferno.
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di Eugenio Roscini Vitali
Erano centinaia le persone che lo scorso venerdì 2 ottobre affollavano la moschea di Conakry. Erano accorse per identificare i corpi delle persone rimaste uccise durante gli scontri avvenuti in occasione della manifestazione organizzata il lunedì precedente dagli oppositori del regime del Capitano Moussa Dadis Camara, contrari alla candidatura del capo della giunta militare all'elezione presidenziale di gennaio. Una protesta repressa nel sangue, una carneficina finita con decine di cadaveri all'obitorio dell’ospedale universitario Donka, tutti segnati da ferite da taglio o da arma da fuoco riportate durante gli scontri con le forze di sicurezza: 54 morti secondo le fonti ufficiali; 157 e più di 1.200 feriti per le organizzazioni impegnate nella battaglia per i diritti umani.
Un passaggio alla democrazia invocato da migliaia di persone riunitesi intorno allo stadio “28 settembre”, lo stesso intitolato al giorno del referendum con il quale il popolo di Guinea mise fine al periodo coloniale francese, lo stesso impianto in cui si svolsero i funerali di due dei più longevi dittatori africani, i predecessori di Camara, gli ex presidenti Ahmed Sékou Touré e Lansana Conté. Una mattanza, una vera caccia all’uomo che secondo i racconti di chi è scampato si è estesa alle strade intorno allo stadio, alle case dove i partecipanti alla manifestazione avevano trovato rifugio, che si è trasformata in barbarie, in aggressioni, pestaggi e violenze sessuali.
Una repressione feroce, avvenuta all'interno dello stadio, contro uomini e donne arrivati da ogni angolo del Paese, contro una folla che non si era fatta intimidire dall’assedio organizzato dall’esercito ma che si dovuta piegare di fronte ai machete, ai bastoni e ai fucili dei militari che sparavano a vista. E’ questa la Guinea del Capitano Camara, l’uomo che lo scorso anno ha preso il potere con colpo di stato e che a distanza di un anno, dopo aver insanguinato le strade, è riapparso in televisione cercando di negare l’evidenza dei fatti, minimizzando gli effetti di un’azione efferata e scaricando le responsabilità di quanto accaduto su qualche militare che avrebbe perso la testa: “Qualcuno ha esagerato. Hanno perso il controllo, io stesso non sono in grado di controllare tutti i soldati”. Parole che lasciano perplessi, soprattutto perché il Capitano ha ricordato che le autorità non hanno nessuna intenzione di tollerare altre manifestazioni e che ogni forma di assembramento sarebbe stata punita: “Ho dato ordine di intervenire con forza e durezza”.
Moussa Dadis Camara prende il potere il 23 dicembre 2008, sei ore dopo la morte del presidente Lansana Conté, l’uomo che per 24 anni ha guidato il Paese con il pugno di ferro; il golpe, portato a termine grazie alla complicità di un gruppo di giovani ufficiali, viene annunciato alla radio dallo stesso Camara. Sciolte le istituzioni repubblicane e sollevato il presidente dell'Assemblea nazionale, che entro 60 giorni avrebbe dovuto indire nuove elezioni, Camara sospende la Costituzione, si auto-proclama presidente ad interim ed istituisce una giunta composta da 26 militari e 6 civili, il Consiglio Nazionale della Democrazia e dello Sviluppo della Guinea. Primo ministro viene nominato Kabiné Komara, ex direttore dell’African Export Import Bank, un istituto internazionale di credito con sede al Cairo.
Alle proteste della comunità internazionale, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, che promette severe sanzioni, Camara risponde affermando che la situazione è transitoria e che la giunta militare non vuole restare al potere, piuttosto è un organo di garanzia che ha il compito di sovrintendere al ritorno della democrazia, che dovrà avvenire attraverso libere elezioni che dovranno svolgersi entro il gennaio 2010. Parole alle quali il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana non crede e, ad una settimana dal golpe, sospende il Paese da ogni attività dell’organismo, almeno “fino al ritorno all’ordine costituzionale”.
Mentre i principali movimenti di opposizione chiedono di andare alle urne entro la fine del 2009, il capitano parla subito di apertura nei confronti della società civile, dei gruppi religiosi e dei partiti politici. Una mossa che a pochi giorni dal golpe gli permette di fare breccia su quei guineani che, stanchi di decenni di corruzione e della cronica crisi economica in cui versa il Paese, sperano in una vera svolta. Con il referendum del 28 settembre 1958, la Guinea aveva optando per la piena indipendenza, rifiutando l'ingresso nella Comunità francese; una volontà che Parigi aveva accettato, ma che aveva fatto pagare ai guineani abbandonando il Paese al suo destino e chiudendo l’erogazione degli aiuti previsti per le ex colonie. A livello internazionale Camara trova comunque l’appoggio di Francia e Belgio, le due grandi ex potenze coloniali che nell’Africa francofona difendono gli interessi occidentali.
Finito il regime comunista dell’ispiratore della scelta indipendentista, il presidente Sekou Toure, l’occidente torna in Guinea. Dotato d’immense risorse minerarie, il Paese rappresenta un affare enorme: tra i principali produttori mondiali di bauxite, dispone di miniere di oro, diamanti, uranio e di giacimenti di idrocarburi, individuati ma non ancora sfruttati; ricchezze che con il generale Lansana Contè, non si trasformano in benessere permanente, almeno per i guineani che continuano a patire la mancanza di infrastrutture e di un sano tessuto economico. Aumentano piuttosto i traffici illeciti e la presenza di “predatori”: armi, droga, traffico di clandestini e smaltimenti di scorie tossiche e radioattive provenienti dal Nord del Mondo, un cancro che trasforma Conakry e i mari della Guinea in una vera bomba chimica.
Una mancanza cronica di abitudine alla democrazia, ulteriormente aggravato dal golpe del Capitano Moussa Dadis Camara, il “paladino” della lotta alla corruzione e al narcotraffico che oggi è a capo dello stesso esercito che, all’inizio del 2007, represse nel sangue una delle più grandi proteste popolari mai registrate in Guinea. E’ lo stesso esercito che si è macchiato dei crimini e del massacro del 28 settembre. La continuità sguazza nel sangue.
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di mazzetta
C'è un dittatura nel cuore dell'Asia dove nessuno ha voluto portare la democrazia. A dire il vero ce n'è più d'una, ma questa è la storia dell'Uzbekistan, dove il dittatore Karimov ha appena mandato a raccogliere il cotone i due milioni di uzbeki tra i 6 e i 15 anni che invece dovrebbero essere a scuola. Visto che rimarrebbero a presidiare aule vuote, Karimov manda a raccogliere il cotone anche i docenti, i bidelli e quanti più impiegati pubblici gli è possibile. Il cotone è una delle produzioni più importanti dell'Uzbekistan, realizzata grazie a colture intensive importate ai tempi dell'Unione Sovietica.
La furbata di coltivare una pianta che ha bisogno di molta acqua in un paese semi-desertico ha avuto i suoi costi, seccando letteralmente il Lago D'Aral e impoverendo terreni sempre più salati e sempre più inquinati da fertilizzanti e pesticidi. Al dittatore e alla sua famiglia, che detiene il monopolio del cotone, sembra importare poco: il ricorso alla manodopera forzata e gratuita garantisce comunque margini interessanti. Da parecchi anni l'ONU e alcune associazioni anglosassoni protestano per il lavoro minorile, che è poi schiavitù non essendo retribuito; la diplomazia uzbeka risponde che farà e provvederà, ma poi non succede niente.
Molti grandi marchi statunitensi hanno deciso di non comprare più cotone uzbeko e a loro si è unita anche qualche azienda italiana. A livello ufficiale la UE mantiene buoni rapporti con l'Uzbekistan, anche se di cotone ne importa pochino. Molto più interessante sembra il gas naturale, di cui il paese è ricco. Anche quello ovviamente è cosa di Karimov, ma le democrazie occidentali non sembrano preoccuparsi. Il dittatore è in buoni rapporti con il vicino russo e anche con gli americani, ai quali ha prima concesso l'uso di una base molto utile alla guerra in Afghanistan, poi li ha cacciati per poi, successivamente, siglare un nuovo accordo concedendo nuovamente la base.
Gli americani avevano avuto la cattiva idea di criticare una strage compiuta dal regime nella valle di Fergana. L'astuto Karimov aveva lamentato un attacco di “terroristi islamici”, ma si trattava in realtà di una rivolta di commercianti a seguito di abusi e taglieggiamenti culminati con un'ondata di arresti. Alla protesta, Karimov reagì con tale violenza che parecchie migliaia di uzbeki corsero alla frontiera e scapparono dal paese così com'erano, profughi. Una volta che la dinamica risultò evidente, mezzo mondo protestò e Karimov reagì ancora peggio.
Quando nel 1989 crollò il muro di Berlino, nessuno fece caso al fatto che cadde in testa anche agli uzbeki e ai loro vicini degli “Stan” sovietici. Karimov era allora il governatore della repubblica uzbeka e oggi ne è il dittatore. Sono passati vent'anni durante i quali lui e la sua famiglia hanno depredato tutto il depredabile e preso il controllo di tutti gli asset strategici del paese, dall'energia alle telecomunicazioni fino al cotone. Dal 1989 non ci sono più state elezioni, ma solo referendum per prorogare la carica di Karimov; non esistono partiti d'opposizione e il regime perseguita chiunque professi qualsiasi fede religiosa, dagli evangelici agli ebrei, fino ai musulmani e ai cristiani. Chi professa una fede si vede di norma negato il permesso di viaggiare all'estero e subisce altre angherie. Gli uzbeki di origine russa e gli ebrei in particolare hanno da tempo lasciato il paese in massa, colpiti prima dalle necessità economiche che dai morsi del regime.
Un vero e proprio regime di terrore, tanto che le proteste sono rarissime da parte di una popolazione impoverita dai furti della dittatura e intimorita dalle crudeli reazioni dell'apparato poliziesco. Innumerevoli sono i rapporti che parlano di torture e persino di una predilezione di Karimov per il bollire vivi avversari e nemici. La libertà di stampa non esiste e c'è anche un giornalista che si sta facendo 10 anni di galera per un articolo troppo “ecologista”; niente di strano, di solito basta molto meno.
La spietata dittatura di Karimov e quelle dei suoi colleghi confinanti non suscitano il minimo interesse in Europa, non si ricordano tonanti prese di posizione europee contro le elezioni-farsa in quei paesi, ma nemmeno contro scandali come questo degli scolari schiavizzati per raccogliere il cotone del “presidente”. Probabilmente c'entrano i grandi giacimenti di gas naturale di queste zone dell'Asia Centrale, che fanno gola a molti, ENI in prima fila.
Probabilmente, se in Italia interrogassero i parlamentari sull'Uzbekistan, finirebbe come per il Darfur, che venne scambiato con il “fast-food”. All'indifferenza della politica si contrappone invece l'attività delle imprese: é un fatto che l'interscambio commerciale con Karimov e suoi inguardabili colleghi sia in crescita costante da anni.
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di Eugenio Roscini Vitali
Capoluogo del distretto occidentale di Uasin Gishu, nella provincia di Rift Valley, Eldoret è famosa per aver dato i natali al capostipite dei fondisti kenioti, Kipchoge Keino, e non solo. Da qualche giorno, infatti, la città è tornata alla ribalta per una ragione sicuramente meno nobile: sembra che le autorità di Nairobi abbiano annunciato la chiusura del locale campo profughi, un struttura che ospita circa 2.200 rifugiati interni, civili di etnia Kikuyu scampati alle violenze etniche post elettorali che tra il dicembre del 2007 e la primavera del 2008 sconvolsero la regione. La paura è che le zone di provenienza non siano ancora del tutto sicure e per questo molti profughi non sarebbero disposti a tornare a casa; per facilitare l’operazione di sgombero il governo avrebbe comunque offerto ad ogni famiglia la cifra di 35 mila scellini (490 dollari) e il trasporto gratuito fino alle comunità di appartenenza.
Un problema di difficile soluzione che da una parte vede gente disperata alla quale viene promesso un risarcimento insufficiente a costruire una qualsiasi alternativa di vita, dall’altra la polizia che potrebbe ricorrere all’uso di squadre speciali per lo sgombero forzato della tendopoli. Le tensioni quindi non mancano e nel campo, gia teatro di diversi scontri, i profughi hanno una sola grande preoccupazione: non sanno dove andare.
Secondo quanto dichiarato dall’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), degli oltre 350 mila profughi interni transitati nei centri di accoglienza, quelli che già tornati a casa sono 347.500; il numero dei civili ancora presenti nelle tendopoli è ufficialmente di 7.200 ospiti. Il governo ha già deciso di chiudere entro la prima metà di ottobre tutti e 43 i campi che sono stati aperti in seguito all’emergenza scoppiata tra il 2007 e il 2008, compreso il centro di Eldoret, che oggi rappresenta la struttura più grande tra quelle riservate ai rifugiati interni.
L’allarme non è certo da sottovalutare, soprattutto se si pensa alle difficoltà alle quali andranno incontro le famiglie vittime di un conflitto interno di inaudita violenza e che, a tutt’oggi, possono solo contare sull’aiuto delle Nazioni Unite, della Croce Rossa Keniana e delle agenzie umanitarie non governative che operano in Africa orientale.
La lotta per la sopravvivenza attraversa tutto il Paese e l’emergenza è ormai totale. La condizione più tragica riguarda sicuramente i quasi 300 mila rifugiati somali che vivono nei tre campi profughi di Dadaab, scappati dai combattimenti e agli scontri armati, dagli stupri e dai saccheggi, da una situazione che rende impossibile qualsiasi intervento sanitario e che trasforma un popolo in un esercito di senza speranza, gente alla quale è stato tolto qualsiasi diritto. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UHNRC), da gennaio ad oggi sono oltre 50 mila i somali che hanno attraversato il confine per raggiungere le tendopoli di Ifo, Hagadera e Dagahaley; una fuga di massa che ha generato un flusso pari a 6.400 unità al mese e un sovraffollamento che ha costretto le autorità a trasferire 12 mila profughi da Dadaab al campo di Kakuma, a pochi chilometri dal confine sudanese, dove peraltro erano già presenti 45.017 rifugiati.
Secondo i dati relativi al 31 agosto scorso, Ifo, Hagadera e Dagahaley ospitano 288.079 profughi, il 23% in più rispetto a gennaio 2009 e il triplo del numero massimo per il quale è predisposto. La gestione è affidata a Care International, l’organizzazione umanitaria statunitense che opera in Kenya dal 1968 e dal 1991 nei campi profughi di Dadaab. Dopo quella di Afgooye, 30 chilometri ad ovest di Mogadiscio, una striscia di 15 chilometri di terra dove sono ospitate circa 490 mila persone, la tendopoli di Ifo, Hagadera e Dagahaley rappresentano una delle più grandi concentrazioni di rifugiati al mondo. E’ una tragedia umanitaria che le Nazioni Unite e le organizzazioni non governative di tutto il mondo definiscono di proporzioni impensabili, composta per il 97% da somali e per il resto da sudanesi, ugandesi e congolesi.
Una situazione tragica che in alcuni casi diventa umiliante, dove innumerevoli persone sono costrette a vivere senza un accesso regolare ai servizi igienici, all’acqua, al cibo, alle strutture sanitarie, minacciate all’interno dei campi da continue epidemie di colera, malaria, TBC e dissenteria, dall’aumento di casi di HIV/AIDS, polio e morbillo, senza alcuna garanzia sulla sicurezza, vittime di una violenza diffusa (soprattutto sevizie e stupri) che negli ultimi mesi ha superato una crescita del 30%.
A due anni di distanza, il Kenya deve ancora interrogarsi sulle cause che provocarono gli scontri scoppiati all’indomani delle elezioni presidenziali del dicembre 2007, la peggiore ondata di violenza della storia post coloniale: almeno 1200 morti, migliaia di feriti e circa 2 milioni di civili costretti a fuggire e a diventare profughi nel loro stesso Paese. Secondo lo studio intitolato “Le cause profonde e le implicazioni della violenza post elettorale del 2007”, commissionato dal gruppo interconfessionale Inter-Religious Forum (IRF) alla Media Focus on Africa, organizzazione no-profit che opera nel settore della comunicazione per lo sviluppo, le ragioni di questa tragedia vanno ricercate nel decadimento morale e sociale di una nazione esposta a fattori che ancora oggi minacciano la sua stessa esistenza.
Corruzione, cattiva gestione della cosa pubblica, negazione di una qualsiasi forma di giustizia sociale, iniqua distribuzione delle terre, marginalizzazione di alcuni gruppi dal contesto politico ed economico e mancanza di riforme istituzionali: sono questi i motivi che, insieme ad un sistema politico secondo il quale “il vincitore prende tutto”, hanno aumento in modo esponenziale le tensioni etniche e sociali che hanno trascinato il Kenya sull’orlo della guerra civile.
E’ in questo contesto che i rifugiati di Eldoret, Kakuma, Ifo, Hagadera, Dagahaley e di tutti gli altri campi profughi del Kenya devono sopravvivere, in una lotta per il potere politico ed economico che risale ai tempi dei presidente Kenyatta, uno scontro che ha attecchito le sue radici durante il regime di Daniel arap Moi ed è esploso con Mwai Kibaki, che ha una sua logica nello scontro etnico tra Kikuyu e Luo ma che coinvolge gli interessi di Washington e Londra, che in Kenya ancora molti interessi. Un Paese instabile, oppresso dalla violenza, assediato dal quinto anno consecutivo di siccità e devastato dalle inondazioni, dove c’è chi sopravvive con due litri di acqua al giorno, meno acqua di quanto noi consumiamo scaricando lo sciacquone del gabinetto.
Un Paese asfissiato dalla povertà, dai prezzi del cibo (superiori del 180% rispetto alla media africana), dei carburanti e dei beni essenziali, dove 1.340.000 persone ricevono forme di assistenza alimentare di prima necessità e dove 3.800.000 hanno bisogno di aiuti di emergenza. Dove quindi essere rifugiati diventa un problema tra i problemi.
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di Michele Paris
Dopo giorni di annunci minacciosi e intimidazioni da parte degli Stati Uniti e degli alleati occidentali nei confronti dell’Iran, alle porte di Ginevra è andato finalmente in scena il primo round di colloqui multilaterali e bilaterali, per cercare di dirimere la questione del nucleare di Teheran. In quasi otto ore di discussioni, che hanno incluso anche il primo storico faccia a faccia ad alto livello tra USA e Iran dalla rivoluzione del 1979, sono stati fatti almeno due primi passi importanti verso una risoluzione pacifica della questione. Una disponibilità iraniana forse inaspettata però a Washington, da dove, nonostante tutto, si è continuato a minacciare nuove sanzioni in caso di mancata collaborazione in tempi molto brevi.
L’incontro tra il negoziatore iraniano Saeed Jalili e il cosiddetto gruppo P5+1, composto dai rappresentanti dei cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) più la Germania, non era nato però sotto i migliori auspici, anche se alla vigilia del meeting aveva contribuito ad allentare le tensioni la concessione da parte dell’amministrazione Obama di un visto d’ingresso negli USA al ministro degli esteri di Teheran, Manoucher Mottaki, per visitare il proprio ufficio di rappresentanza a Washington presso l’ambasciata pakistana.
In coda al G20 di Pittsburgh della settimana scorsa, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna avevano annunciato con grande enfasi la presunta scoperta di un impianto segreto iraniano per l’arricchimento dell’uranio nei pressi della città santa di Qom. Nel rispetto del Trattato di Non-Proliferazione, del quale l’Iran è firmatario, Teheran aveva però comunicato all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) l’esistenza della seconda costruzione - dopo quella di Natanz, già sottoposta ad ispezioni - quattro giorni prima della “rivelazione” americana. Il trattato, infatti, prevede la comunicazione alla IAEA di un eventuale nuovo sito almeno 180 giorni prima dell’invio ad esso di combustibile nucleare per essere trattato.
I governi e i media occidentali avevano tuttavia immediatamente sfruttato una dichiarazione del direttore dell’agenzia, Mohammed El Baradei, nella quale sosteneva che l’Iran stava violando il Trattato di Non-Proliferazione, dal momento che una modifica di esso stabiliva la comunicazione di un nuovo sito nucleare 180 giorni prima della costruzione dello stesso. Peccato però che tale modifica non sia mai stata approvata dal governo iraniano e, nel corso della stessa intervista alla CNN indiana, El Baradei abbia chiarito come a tutt’oggi non sussistano prove che l’Iran stia procedendo nella produzione di armi nucleari. Una versione, quest’ultima, puntualmente celata all’opinione pubblica occidentale.
La struttura di Qom è stata dunque utilizzata per lanciare una serie di ultimatum verso il governo di Ahmadinejad e per minacciare nuove sanzioni che, se adottate, interesserebbero, tra l’altro, l’accesso al credito e le forniture di petrolio raffinato all’Iran. Per raccogliere consensi all’interno del Consiglio di Sicurezza attorno a provvedimenti più duri per Teheran, da dove si continua a sostenere che il proprio programma nucleare viene sviluppato esclusivamente per scopi pacifici, gli Stati Uniti hanno messo allora in atto forti pressioni sui paesi più recalcitranti (Russia e Cina), giungendo un paio di settimana fa anche alla rinuncia dell’installazione di uno scudo missilistico in Repubblica Ceca e Polonia, fortemente osteggiato da Mosca.
La trattativa di Ginevra per gli USA avrebbe dovuto così ruotare esclusivamente attorno alla questione del nucleare di Teheran, mentre da parte iraniana si puntava su un’agenda decisamente più ampia e tesa ad includere altri temi importanti come la non-proliferazione, la situazione in Afghanistan e la riforma delle Nazioni Unite. I cinque membri del Consiglio di Sicurezza - tutte potenze nucleari (più la Germania) che da tempo ha completato il processo di arricchimento che si cerca di bloccare in Iran – hanno anche già stabilito di “intensificare il dialogo nelle prossime settimane” ed hanno dato appuntamento a Saeed Jalili, il quale oltre guidare il negoziato per il suo paese è anche il segretario del potente Consiglio Nazionale per la Sicurezza iraniano che risponde direttamente all’ayatollah Khamenei, a fine ottobre per un secondo confronto.
Nel corso dei colloqui, che hanno visto anche un faccia a faccia di 45 minuti tra il rappresentante di Teheran e il sottosegretario di Stato americano, William J. Burns, i paesi del "gruppo 5+1" hanno alla fine ottenuto due concessioni decisive, quanto meno per permettere alla diplomazia di guadagnare tempo e scongiurare, per il momento, il ricorso a sanzioni più pesanti. Jalili ha infatti accettato di aprire nelle prossime due settimane il sito nucleare di Qom alle ispezioni dell’IAEA - El Baradei sarà infatti a Teheran nei prossimi giorni - e di inviare la maggior parte del proprio uranio arricchito in Russia per trasformarlo in carburante necessario ad alimentare un piccolo reattore da utilizzare per scopi di cura e ricerca medica.
Attualmente, le riserve iraniane di uranio sono state arricchite ad un livello stimabile tra il 3,5 e il 5%. Per utilizzare il materiale in ambito medico è necessario invece ottenere un arricchimento del 19,75%, mentre per ottenere un ordigno nucleare si deve giungere fino al 90%. Una situazione che chiarisce a sufficienza, a dispetto delle pretese occidentali, quanto l’Iran sia lontano dal possedere uranio arricchito sufficiente per un’arma nucleare. Se l’uranio di cui dispone verrà inoltre spedito all’estero per essere trattato, parecchi altri mesi ancora potrebbero passare prima che l’Iran possa tornare a raccogliere tutte le sue scorte nei siti dichiarati.
Nonostante le concessioni strappate, il presidente Obama in prima persona, da Washington, ha lanciato un nuovo ultimatum nei confronti dell’Iran, ricalcando i toni del suo predecessore nelle settimane precedenti all’invasione dell’Iraq. Gli Stati Uniti insomma sono “pronti ad aumentare la tensione”, ha minacciato l’inquilino della Casa Bianca, “se da Teheran non ci si muoverà rapidamente” verso il rispetto degli obblighi riguardo al nucleare.
L’atteggiamento bellicoso dell’amministrazione americana, in sostanza, è rimasto invariato rispetto alla vigilia dei colloqui di Ginevra e la richiesta di permettere agli ispettori internazionali un “accesso completo e senza restrizioni” al sito di Qom, situato nei presso di una base militare, rischia di complicare il negoziato. L’obiettivo finale degli Stati Uniti inoltre è sempre stato quello di giungere ad una totale sospensione dell’arricchimento dell’uranio, una pretesa che l’Iran si è invece sempre rifiutato di prendere in considerazione.
Una strategia, quella americana, che può apparire mirata a mantenere alta la pressione, fino al raggiungimento di risultati concreti, su un paese con il quale non ha rapporti diplomatici da tre decenni e il livello di diffidenza rimane estremamente elevato. Ma che sembra utilizzare, secondo alcuni, anche la questione del nucleare come un pretesto per spingere l’Iran, attraverso nuove sanzioni, verso una transizione ad un regime più docile nei confronti degli Stati Uniti e della loro volontà di consolidare la propria influenza in Medio Oriente e in Asia Centrale.
La lezione dell’Iraq sembra essere già stata dimenticata dalla nuova amministrazione a Washington, come ha fatto notare qualche giorno fa, dalle pagine del New York Times, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale per il Medio Oriente Flynt Leverett, il quale ha ricordato come la strategia della minaccia di nuove sanzioni non farà che aumentare la frustrazione iraniana o, nella peggiore delle ipotesi, condurre ad un conflitto militare. Secondo Leverett, la politica più efficace consisterebbe al contrario nella ricerca di un riallineamento strategico con l’Iran sull’esempio di quello condotto da Nixon nei confronti della Cina negli anni Settanta e secondo il quale gli USA dovrebbero muovere dei passi concreti per assicurare Teheran che la normalizzazione dei rapporti bilaterali sarebbe nel suo stesso interesse.
Il riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran, tuttavia, comporterebbe anche un certo grado di conflittualità con quei paesi europei (per non parlare di Russia e Cina) che godono già di proficui rapporti commerciali con Teheran. Alimentare le tensioni potrebbe invece indebolire in qualche modo le relazioni tra di essi e l’Iran, consegnando agli americani maggiore spazio di manovra in caso di un cambiamento di regime nel prossimo futuro. Forse anche per questo, minacce e provocazioni, piuttosto che un piano mirato ad un ristabilimento graduale di pacifiche relazioni diplomatiche, promettono di rimanere una costante della retorica statunitense nei confronti dell’Iran anche nei mesi a venire.