di Eugenio Roscini Vitali

L’Egitto, il Regno Saudita ed altri paesi arabi, presumibilmente gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Kuwait e il Qatar, starebbero elaborando una mozione da presentare alle Nazioni Unite nella quale verrebbe rivendicato il diritto palestinese alla creazione di uno Stato arabo entro i confini  antecedenti il terzo conflitto arabo-israeliano, vale a dire la frontiera fissata prima del 5 giugno 1967 che includeva la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est capitale. La notizia, apparsa il 27 dicembre scorso sul quotidiano in lingua inglese The Jordan Times, parla di indiscrezioni israeliane secondo le quali la proposta, sviluppata segretamente in modo da evitare ogni possibile interferenza, dovrebbe essere portata sul tavolo del  Consiglio di Sicurezza dalla Libia o dal Libano.

Inoltre, in caso di veto statunitense, l’Autorità Nazionale Palestinese rassegnerebbe le sue dimissioni e nessun membro dell’attuale amministrazione o appartenente alla corrente moderata di Fatah concorrerebbe alle prossime elezioni presidenziali. Un fatto gravissimo, che metterebbe con le spalle al muro sia Washington che Gerusalemme: secondo la Costituzione palestinese infatti, nel caso in cui la carica istituzionale ricoperta da Abbas dovesse rimanere vacante, subentrerebbe automaticamente il presidente del Parlamento, Abdel Aziz Duaik, membro di Hamas già condannato dal tribunale militare israeliano di “Ofer” a 36 mesi di detenzione per appartenenza al gruppo parlamentare “Cambiamento e Riforma”.

Il Re saudita Abdullah, il presidente egiziano Mubarak e lo stesso Abbas contano sul fatto che il rappresentante della Casa Bianca all’Onu sarà comunque costretto a non boicottare il tentativo arabo, almeno fino a quando la soluzione del conflitto israelo-palestinese rimarrà una delle priorità in testa all’agenda internazionale dell’attuale amministrazione americana. Nel caso in cui Washington dovesse astenersi, in favore dell’iniziativa araba si potrebbero schierare almeno dieci dei 15 membri del Consigli di Sicurezza.

Secondo Abbas, infatti, a garantire la ratifica di una risoluzione che in pratica  metterebbe fine ad ogni futura discussione sulla delimitazione dei confini palestinesi, ci sarebbero i voti favorevoli di Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna, così come quelli dei paesi africani, asiatici e sud americani. Un impegno il cui impatto politico potrebbe essere sicuramente paragonato a quello del 29 novembre 1947, quando l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvando la Risoluzione 181, diede il via al Piano di spartizione della Palestina elaborato dall'UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) per la creazione di due Stati: uno ebraico, l'altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale.

Per Washington e Gerusalemme la questione palestinese diventa ancora più spinosa, se si pensa che a Beirut si torna a discutere sulla legittimità della Risoluzione 1559 con la quale, il 2 settembre 2004, le Nazioni Unite, oltre a ribadire il rigoroso rispetto della sovranità ed integrità nazionale del Libano, chiedevano il ritiro di tutte le forze straniere ancora presenti sul territorio e lo scioglimento e il disarmo di tutte le milizie, Hezbollah inclusa. Secondo fonti israeliane, il 23 dicembre scorso il ministro degli Esteri libanese, Ali al-Shami, avrebbe infatti informato la Casa Bianca sulle intenzioni del presidente Michel Suleiman di chiedere l’annullamento della Risoluzione 1559.

Un’iniziativa duramente criticata dalla stessa coalizione di governo che, attraverso le parole del  portavoce dell’alleanza “14 marzo”, Fares Soueid, avrebbe parlando di eccessiva e contestabile libertà d’azione. La richiesta di revisione della Risoluzione Onu arriva poi a poche ore dai colloqui di Damasco tra il premier libanese, Saad al-Hariri, e il presidente siriano, Bashar al-Assad, ed in concomitanza con l’incontro a Beirut tra il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, e il leader del movimento sciita Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah.

Fatti concomitanti e che lasciano intravedere nuovi scenari. Il viaggio in Siria del nuovo primo ministro libanese, il primo dopo cinque anni di conflitto tra Damasco e la vasta alleanza politica guidata da Hariri, segna infatti l’inizio di una nuova fase di relazioni diplomatiche destinate a rafforzare la cooperazione tra i rispettivi governi e, molto probabilmente, a garantire un Libano più stabile. Anche se il neonato governo di unità nazionale ha ottenuto un larghissimo voto di fiducia (122 dei 128 voti disponibili), a Beirut il dibattito parlamentare ruota ancora intorno alla legittimità dell’arsenale del movimento sciita appoggiato da  Iran e Siria.

L’esecutivo del sunnita Hariri, che per anni ha accusato Damasco di aver ucciso suo padre, lo statista Rafik al-Hariri, e che nell'aprile 2005 ha  costretto la Siria a ritirare le sue truppe, non è l’unico a sostenere il diritto di Hezbollah ad avere le armi. Il leader cristiano maronita Michel Aoun, generale cristiano che il 14 marzo 1989 lanciò contro l’esercito siriano la sua personale “guerra di liberazione del Libano”, è certo che per il Paese il movimento sciita significa sicurezza e libertà. Rispondendo alle critiche del capo delle Forze libanesi, Samir Geagea, Aoun parla di “difesa del diritto ad una resistenza armata come beneficio per il Libano”, mentre ai falagisti di Bachir Gemayel contesta i ripetuti tentativi portati avanti per modificare il paragrafo 6 del documento programmatico del governo, nel quale si ribadisce il diritto del Libano, della sua gente, del suo esercito e della sua resistenza (Hezbollah) a liberare i territori occupati di Shebaa e le colline di Kfar Shouba.

di Michele Paris

Il fallito attentato al volo Northwest-Delta 253 partito da Amsterdam e diretto a Detroit il giorno di Natale ha suscitato una valanga di reazioni per le falle ad un sistema di sicurezza che ha permesso l’imbarco per gli USA di un passeggero nigeriano il cui nome era da tempo su un database di presunti terroristi. La vicenda del 23enne Umar Farouk Abdulmutallab, a ben guardare, solleva però alcuni inquietanti interrogativi di diversa natura e suggerisce una sconcertante coincidenza con l’espansione dello sforzo miliare americano contro il terrorismo sullo scacchiere mediorientale.

Come hanno ampiamente riferito i media di tutto il mondo, l’attentatore arrestato al Metro Airport della metropoli del Michigan era finito da qualche tempo nel mirino dei servizi di sicurezza statunitensi. Qualche mese fa, addirittura, il padre di Abdulmutallab, banchiere ed ex funzionario governativo nigeriano, aveva segnalato all’ambasciata americana di Abuja i suoi timori per le attività del figlio e il suo avvicinamento all’estremismo di matrice islamica.

Dopo gli avvertimenti, il giovane nigeriano educato in Gran Bretagna era finito su una lista nera governativa (Terrorist Identities Datamart Environment) assieme ad altre 500 mila persone sospettate di avere legami con organizzazioni terroristiche. Essere stato aggiunto alla cosiddetta TIDE, tuttavia, non aveva comportato l’inserimento del nome di Abdulmutallab in una lista ben più ristretta di sospetti - circa 4 mila nomi - a cui viene vietato l’imbarco per gli USA, né ad una seconda - 14 mila nomi - che prevede controlli approfonditi al check-in.

Dopo aver acquistato un biglietto per Detroit, Abdulmutallab ha potuto così imbarcarsi all’aeroporto Schiphol di Amsterdam, senza alcun bagaglio. Durante il volo, l’attentatore è stato poi bloccato da alcuni passeggeri dopo aver fallito nel suo tentativo di far detonare l’esplosivo che aveva attaccato al corpo.

La spiegazione fornita dalle autorità per aver permesso ad un sospetto già schedato, e con dell’esplosivo, di prendere un aereo diretto in America risulta ben poco convincente. Una semplice svista o disattenzione appare infatti estremamente improbabile alla luce delle rigidissime direttive che negli ultimi anni hanno impedito a molti passeggeri di imbarcarsi o di entrare nel paese anche senza apparenti motivi. Le cronache raccontano di numerosi episodi di questo genere. Nell’aprile di quest’anno, ad esempio, sembra che le autorità americane abbiano rifiutato il permesso di sorvolare il proprio spazio aereo ad un velivolo dell’Air France diretto in Messico perché a bordo vi era un giornalista “di sinistra” autore di un libro sulla CIA. Nel 2004, nientemeno, fu il defunto senatore Ted Kennedy a finire sulla “no-fly list” del Dipartimento della Sicurezza Nazionale, quando a Washington gli fu impedito di prendere un aereo per Boston.

Per Umar Farouk Abdulmutallab, al contrario, i provvedimenti previsti non contemplavano nemmeno la revoca del visto di ingresso negli USA, che sarebbe scaduto nel giugno 2010. Solo dopo questa data, e in caso di una richiesta di rinnovo del visto, secondo quanto riferito dalle autorità, sarebbe stata disposta un’indagine più approfondita sul background del sospetto. I movimenti di Abdulmutallab, una volta rotti i rapporti con la propria famiglia in Nigeria, contribuiscono poi ad alimentare i dubbi sulla supposta “svista” del sistema di sicurezza. Dopo un soggiorno di studio a Londra tra il 2008 e il 2009 - dove, secondo quanto dichiarato da un anonimo cugino al New York Times, sarebbe entrato in contatto con esponenti del radicalismo islamico - Abdulmutallab si sarebbe infatti recato in Yemen, il paese natale della madre.

Qui, il membro di una benestante famiglia nigeriana avrebbe intrattenuto rapporti con esponenti di Al-Qaeda, ricevendo l’addestramento necessario per portare a termine attentati terroristici in Occidente. Proprio intorno a questo tormentato paese mediorientale - e alla Somalia - si stanno ora concentrando i resoconti della stampa, scrupolosamente impegnata a spiegare la crescente presenza di guerriglieri jihadisti che starebbero evacuando i loro rifugi non più sicuri in Pakistan e Afghanistan.

L’incidente di Detroit arriva così in un frangente quanto meno sospetto. In concomitanza cioè con varie rivelazioni giornalistiche di un impegno sempre maggiore dell’intelligence americana in Yemen, ufficialmente per colpire le basi dei militanti di Osama bin Laden, in realtà per aprire un nuovo fronte nella penetrazione di Washington in Medio Oriente. Le dichiarazioni di molti politici americani in questi giorni e il collegamento tra le attività di Abdulmutallab e lo Yemen sembrano presagire insomma una nuova escalation militare in questo paese.

Da almeno un anno d’altra parte, svariati agenti di primo piano della CIA si sono incontrati con esponenti governativi yemeniti, mentre esperti americani delle Operazioni Speciali pare stiano da tempo addestrando le forze di sicurezza locali per condurre operazioni anti-terroristiche. Il contributo americano in termini economici, militari e di intelligence, si sta recentemente concretizzando in una serie di offensive delle forze armate locali contro la resistenza di Al-Qaeda, da ultimo il bombardamento dello scorso 17 dicembre, che ha causato la morte di una sessantina di militanti.

L’episodio di Abdulmutallab, insomma, sembra ricalcare lo schema di altre “disattenzioni” delle autorità di sicurezza americane del recente passato e che ha il suo esempio più eclatante nei fatti che hanno preceduto l’11 settembre. Come l’attentatore nigeriano, anche i dirottatori di Al-Qaeda alla vigilia degli attacchi alle Twin Towers erano noti ai servizi segreti americani e, nonostante tutto, anche a loro venne consentito di entrare negli Stati Uniti, prendere lezioni di volo e alla fine imbarcarsi sugli aerei che si sarebbero schiantati su New York e il Pentagono.

Come nel caso dell’11 settembre 2001, anche il fallito attentato sul volo Amsterdam-Detroit, è facile immaginare, servirà così ad alzare il livello di guardia negli USA, seminando nuove paure tra una popolazione che da tempo ormai ha cominciato a mostrare la propria contrarietà allo sforzo militare in Afghanistan.

Sulle mancanze della sicurezza nel giorno di Natale, intanto, ha già disposto un’indagine lo stesso presidente Obama, mentre il Congresso ha chiesto chiarimenti. Un coro di voci e richieste già sentite all’indomani dell’11 settembre e, come in quella circostanza, c’è da temere, nessuna reale spiegazione verrà fornita per le mancanze del sistema di sicurezza, così come nessuna responsabilità delle agenzie governative coinvolte verrà alla fine accertata.

di Luca Mazzucato

L'esercito israeliano avrebbe ucciso giovani palestinesi per prelevarne gli organi, lungo un periodo di molti anni: questo lo scoop dell'agosto scorso del giornale svedese Aftonbladet. Il governo israeliano accusò la Svezia di antisemitismo e pretese le scuse ufficiali del suo governo, che però difese il suo quotidiano in nome della libertà di stampa. Ora arriva la conferma ufficiale che questa agghiacciante storia di traffico di organi è tragicamente vera: vi sta investigando niente meno che la Knesset, il parlamento israeliano.

La pubblicazione del reportage di Donald Bostrom, l'estate scorsa, accese una feroce guerra diplomatica tra Israele e Svezia, rischiando di mettere in crisi i già tesi rapporti tra i due stati. In seguito a questa bufera mediatica, che non accenna a placarsi a mesi di distanza, la ricercatrice americana Nancy Scheper-Hughes, professore di antropologia all'Università di Berkeley, ha deciso di rendere pubbliche alcune interviste per fare chiarezza sull'intera vicenda. Scheper Hughes fa parte dell'organizzazione medica “Organ Watch,” con sede a Berkeley e che studia il traffico planetario di organi a partire dal 1999.

La prova schiacciante fornita dalla professoressa americana è un'intervista a Jehuda Hiss, l'ex capo dell'Istituto Forensico Israeliano, in cui il medico racconta che i suoi dipendenti raccoglievano pelle, cornee, valvole cardiache e ossa da corpi di israeliani, palestinesi e immigrati. “La pelle,” dice Hiss, “andava ad una speciale banca di tessuti dell'esercito, per il loro uso interno, mentre le parti del corpo venivano usate dagli ospedali per trapianti su cittadini israeliani.” Hiss spiega che le persone mandate a raccogliere gli organi erano dei militari, spesso studenti di medicina, “che lo facevano informalmente e senza permesso, dunque era tecnicamente illegale.”

Dopo la pubblicazione dell'intervista al dottor Hiss, il governo israeliano ha ritirato le accuse di antisemitismo alla Svezia e ha confermato che la pratica di prelevare organi da giovani palestinesi senza il consenso della famiglia è però terminata nel 2000. Tuttavia Ahmed Tibi, durante la recente discussione alla Knesset, ha portato alla luce casi del tutto analoghi risalenti a quest'anno e chiesto l'apertura di un'indagine ufficiale. Il viceministro della sanità ha accolto la richiesta e autorizzato l'indagine.

In un'intervista ad Al Jazeera, l'autore svedese dello scoop svela alcuni retroscena che hanno portato alla scoperta e mettono in dubbio la versione del ministero israeliano. “Lo staff dell'ONU venne da me lo scorso anno e disse che dovevo investigare su questa faccenda. Giovani palestinesi stavano sparendo in certe zone della West Bank, per tornare cinque giorni più tardi al villaggio come cadaveri, su cui era stata eseguita un'autopsia contro il volere della loro famiglia.” Secondo Bostrom, manca la prova certa che i giovani siano stati uccisi all'interno di questo scenario di traffico di organi, ma un'indagine approfondita è necessaria per svelare l'identità delle vittime di questo scempio e chiarire chi è coinvolto nel traffico all'interno delle istituzioni israeliane, per fermare questo crimine nel caso sia tuttora in corso.

di Mario Braconi

Se Abdul Umar Mutallab non è riuscito riuscito ad uccidere 278 persone facendo esplodere il volo NorthWest 256 Amsterdam-Detroit è stato un puro caso: a proteggere fortunosamente centinaia di vite innocenti, una serie di circostanze del tutto fortuite: la scarsa dimestichezza con la sporca lotta terrorista del velleitario quaedista figlio-di-papà, certamente più a suo agio sui campi ben curati della British International School del Togo o nelle stanze moquettate della sua mansion a Marylebon che nei polverosi "compound" di addestramento del network internazionale del terrore. La scarsa potenza della bomba o l'errata miscelazione dei suoi componenti, in grado di produrre niente più che una fiammata di un metro - pericolosissima ma non necessariamente fatale all'interno di un apparecchio moderno e ben tenuto - come si spera siano quelli su cui ci spostiamo. La presenza a bordo di un misterioso "angelo salvatore", Jasper Schuringa, probabilmente un "angelo custode" della sicurezza di quelli che si trovano ormai immancabilmente (e comprensibilmente) a bordo di tutti gli aerei che viaggiano verso e dagli Stati Uniti.

Anzi, per la verità, ad analizzare freddamente la vicenda, per l'equilibrio psicologico di chi è costretto a frequenti trasferte aeree intercontinentali, è molto più rassicurante pensare che Schuringa non sia, come vuole la vulgata giornalistica, un regista in vacanza dotato di grande forza d'animo e presenza di spirito. Certo, è triste accantonare il pensiero piacevole di un atto di coraggio e di altruismo per trasformarlo in una missione ben retribuita, ma è particolarmente angosciante pensare che la probabilità di poter abbracciare una persona cara al termine di un viaggio aereo sia una funzione del coraggio di uno sconosciuto.

Poiché non vi sono stati morti, Janet Napolitano, Homeland Security Secretary, con una uscita spiegabile solo con la determinaziona cieca di chi vuole mantenere con le unghie un posto di lavoro che ha perso ogni diritto di occupare, ha dichiarato alla CBS: "Il sistema ha funzionato." Sarebbe stato meno ridicolo e più dignitoso ammettere che il sistema, così come è, rende impossibile la vita ai viaggiatori più o meno sani di mente con ispezioni e controlli snervanti, senza riuscire ad impedire che a bordo degli aerei un demente riesca nell'impresa di trasportare una siringa di esplosivo cucita nelle mutande.

Un sistema che si è dimostrato imbelle, burocratico, pletorico e controproducente, nonostante (o forse proprio in conseguenza del fatto che) prevede una schedatura massiva di potenziali terroristi – a gennaio del 2009 il "data mart" conteneva la bellezza di 564.000 nomi, corrispondenti a 500.000 possibili identità - lo sfrido di 64.000 unità (!) è dovuto alle varianti dei nomi, che, considerando la grande abilità degli americani ad leggere e scrivere nomi non anglosassoni aggiunge un altro pizzico di suspence alla lotta al terrore...

Infatti, 400.000 di quei nomi (con i caveat di cui sopra), costituiscono il Terrorist Screening Data Base (TSDB), ovvero la primaria fonte USA delle identità dei sospetti di terrorismo; all'interno di questo numero, sarebbero 4.000 i record associati a persone "no-fly", cioè cui è vietato sorvolare gli USA, mentre per 14.000 di essi l'accesso ad un volo da e verso gli USA è possibile solo dopo solo dopo ulteriori verifiche. Tutto questo dispendio di energie non ha però impedito a Abdul Umar Mutallab di scorrazzare allegramente in aereo per tutto il mondo, dallo Yemen alla Nigeria, dalla Nigeria agli USA, via Amsterdam, con un biglietto comprato in Ghana in contanti.

Eppure, il comportamento di Abdul Umar Mutallab ha dato numerosi segnali di preoccupazione e di sospetto: le sue considerazioni pro-attentato dell'11 settembre, mai nascoste, perfino negli ambienti climatizzati e vellutati in cui ha fatto lezione; il fatto che, una volta recatosi in Dubai per imparare l'arabo, abbia improvvisamente rotto con la famiglia dopo aver optato per una altra scuola sita in Yemen, un ulteriore e rinomato serbatoio di odio anti-occidentale low-cost. In Yemen opera Anwar al-Awlaki - a meno che non sia stato ucciso da un attacco militare yemenita a Shabwa - americano, ingegnere, professore universitario, reclutatore di assassini (come Nidal Malik Hasan, reponsabile della strage di Fort Hood) e "guida spirituale" dei terroristi dell'11 settembre.

Con un simile CV, gli Americani hanno pensato bene di farlo espatriare in Yemen, via Londra, anziché trattenerlo in patria per fargli qualche domanda; il fatto che il ricco e potente padre di Abdul Umar Mutallab, di casa negli USA, abbia avvisato le autorità nigeriane ed americane delle cattive frequentazioni del figlio, esprimendo nel contempo sorpresa alla notizia che gli era stato concesso un visto negli USA. Urgono alcune considerazioni inevitabili: forse che al figlio di un ricco signore non si possono creare problemi? O forse non si devono infastidire troppo i passeggeri stressati dal traffico delle Feste? O forse è necessario che gli USA adesso spendano qualche miliardo di dollari per dotarsi delle costosissime macchine "annusatrici" in grado di tracciare anche particelle infinitesimali di esplosivo? Ci stiamo preparando ad un’altra guerra? Non è dato saperlo. Nel frattempo, in bocca al lupo a chi viaggia in aereo – con questa “sicurezza”, ne abbiamo tutti bisogno.

di Michele Paris

Mentre in patria continuano ad animare un movimento conservatore che si oppone strenuamente ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, le potenti chiese evangeliche americane da qualche tempo hanno esportato più o meno surrettiziamente le loro battaglie oscurantiste nel continente africano. Ovviamente, con risultati a dir poco disastrosi per il rispetto dei diritti umani. A far scoppiare il caso dell’influenza nefasta di alcuni fanatici religiosi d’oltreoceano in Africa, è stata una legge fortemente discriminatoria nei confronti dei gay in discussione al Parlamento ugandese.

In questo paese, come in altri del continente, la classe politica sta infatti cavalcando una pericolosa corrente omofobica, che ormai in molti collegano all’esplosione del cristianesimo evangelico fondamentalista di stampo americano in Africa. Tra le conseguenze peggiori ci sarebbero appunto alcune leggi approvate, o ancora in fase di studio, estremamente severe sull’orientamento sessuale dei cittadini.

A dare lo slancio ad un clima di intolleranza diffusa nei confronti degli omosessuali in Uganda pare sia stato un convegno tenuto nella capitale, Kampala, lo scorso mese di marzo, nel quale ci si proponeva di “esporre la verità nascosta dietro l’omosessualità e le reali intenzioni degli omosessuali”. Protagonisti assoluti del seminario sono stati tre cittadini americani, esponenti di spicco del movimento evangelico: Scott Lively, attivista anti-gay e presidente dell’associazione cristiana conservatrice “Defend the Family International”, Don Schmierer e Caleb Lee Brundidge; questi ultimi autoproclamatisi “guaritori dall’omosessualità”.

L’organizzatore di questo incontro, l’ex elettricista ugandese diventato pastore Stephen Langa, ha successivamente promosso una raccolta di firme tra genitori preoccupati dell’opera di reclutamento secondo loro in corso nelle scuole del paese da parte di gay e lesbiche. Tale petizione è stata poi presentata al parlamento e pochi mesi più tardi si è trasformata nella legge attualmente in discussione e che potrebbe entrare in vigore in Uganda entro la fine dell’anno (“Anti-Homosexuality Bill”).

Mentre l’omosessualità in Uganda è già reato, il nuovo testo prevede pene fino all’ergastolo e, nel caso l’accusato abbia precedenti penali, sia malato di AIDS o la sua “vittima” risulti inferiore ai 18 anni, addirittura la pena di morte. Inoltre, ogni cittadino a conoscenza di “attività omosessuali” è tenuto ad informarne le autorità di polizia, pena il carcere fino a tre anni. Per i cittadini ugandesi residenti all’estero che si macchiassero di questo reato sarebbe poi richiesta l’estradizione. Bersaglio della legge non sono solo gli omosessuali, ma anche gruppi e associazioni che si battono per i diritti LGBT, i cui membri rischieranno pene detentive fino a sette anni.

Se il provvedimento all’analisi in Uganda rischia di rappresentare un pericoloso precedente per l’Africa, altri due paesi vicini si sono già incamminati su questa strada. A inizio anno, infatti, il Burundi ha adottato una legge che prevede fino a due anni di carcere per chi viene accusato di avere relazioni omosessuali. In Ruanda, invece, la pena potrebbe salire fino a dieci anni per chiunque “pratichi o incoraggi altre persone ad avere relazioni o qualsiasi pratica omosessuale” se una legge simile a quella ugandese allo studio del parlamento verrà approvata.

La crescente penetrazione in Africa di un Evangelismo mutuato da quello americano più conservatore è riconducibile in gran parte, come già anticipato, ai legami di molte importanti personalità di mega-chiese statunitensi con leader politici e religiosi locali. Uno di questi è il potentissimo e popolarissimo fondatore della chiesa evangelica californiana, Saddleback Church, il pastore Rick Warren.

Quest’ultimo, nel corso della campagna elettorale per le presidenziali del 2008, aveva addirittura ospitato i candidati Obama e McCain per una discussione pubblica trasmessa in diretta TV. Lo scorso gennaio era stato poi al centro di polemiche, innescate soprattutto dalla comunità gay americana, dopo essere stato scelto per recitare la tradizionale “invocazione” nel corso della cerimonia inaugurale del presidente Obama a Washington.

Da sempre contrario all’allargamento dei diritti degli omosessuali negli USA, Warren vanta forti legami con i vertici politici di Uganda e Ruanda, dove il messaggio fondamentalista della sua chiesa ha una fortissima eco. Warren è infatti amico personale dei presidenti dei due paesi, l’ugandese Yoweri Museveni (e la moglie Janet, che in varie occasioni ha tenuto discorsi presso la Saddleback Church) e il ruandese Paul Kagame. Secondo un giornale ugandese, nel corso di una sua visita a Kampala l’anno scorso Warren avrebbe fornito tutto il suo sostegno ai vescovi anglicani del paese schierati contro i gay, dichiarando apertamente che “l’omosessualità non può essere considerata un modo di vita naturale e perciò da essa non può derivare alcun diritto”.

Molto strette sono poi anche le sue relazioni con il principale attivista anti-gay in Uganda, il pastore pentecostale educato in America, Martin Ssempa. Acceso sostenitore della legislazione omofobica in fase di approvazione e anch’egli più volte ospitato nelle vesti di predicatore da Warren in California, Ssempa ha lavorato per il programma statunitense istituito dall’ex presidente Bush per la lotta all’AIDS (PEPFAR) e basato principalmente sull’astinenza. Nel paese africano, Ssempa si è contraddistinto per svariate manifestazioni contro gli omosessuali e per la pubblicazione di elenchi di gay e lesbiche corredati da fotografie e informazioni personali.

La demagogia omofobica che si sta diffondendo tra le chiese evangeliche in Africa, pur risentendo dell’ideologia di estrema destra di alcuni gruppi religiosi cristiani americani, riflette allo stesso tempo tutte le resistenze opposte dal continente alle influenze occidentali, di cui l’omosessualità sembra apparire appunto come una delle più deleterie. Per i pastori evangelici africani poi, la retorica contro i gay è uno strumento fondamentale per combattere il puritanesimo di un Islam con cui appaiono in aperta competizione per la conquista delle anime.

Per i leader evangelici statunitensi, di riflesso, l’ascendente delle loro chiese in Africa consente di estendere il loro potere e la loro influenza, ma anche di ampliare i propri interessi economici, in quello che numericamente sta diventando il continente più importante per la fede cristiana. In paesi dove la maggior parte della popolazione vive in condizioni di estrema miseria e dove sono in atto rapidi cambiamenti sociali, spesso percepiti come imposti dall’occidente, il messaggio integralista delle chiese riformate americane, intriso di puritanesimo e intransigenza, finisce così per trovare un terreno molto fertile. Con effetti però sempre più drammatici nei confronti di qualsiasi comportamento ritenuto “deviante”.


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