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di Luca Mazzucato
New York. Il Palazzo di Vetro, in questa prima Assemblea Generale dell'era Obama, ha avuto un protagonista assoluto: Mahmoud Ahmadinejad. In un'intervista esclusiva per la CBS, Kouric cerca di mettere alle strette il presidente iraniano, che si difende contrattaccando. Poche ore dopo, la notizia dell'esistenza di nuove centrifughe segrete smentisce le sue dichiarazioni e precipita l'Iran in guai seri.
Per essere il presidente di un paese dove non esiste (più) libertà di stampa, Ahmadinejad dimostra di conoscere qualche trucco e riesce a tratti quasi a cavarsela anche di fronte all'esperta giornalista della CBS, che un anno fa aveva fatto a pezzi Sarah Palin, rendendola lo zimbello degli Stati Uniti. Ahmadinejad si difende dalle accuse della Couric, ricordando le tragedie dell'Iraq, dell'Afghanistan e della Palestina e ricordando che, a conti fatti, neanche in America le cose vanno a gonfie vele. Ma ancora una volta, il suo rifiuto di ammettere l'esistenza dell'Olocausto demolisce la sua credibilità di fronte al pubblico occidentale.
Rispondendo alle domande sulla durissima repressione seguita alle elezioni in Iran, con migliaia di arresti, torture e diversi assassinii di oppositori politici, Ahmadinejad non batte ciglio. Couric gli mostra una foto di Neda, la ragazza ammazzata in diretta durante una manifestazione pacifica contro i brogli nelle elezioni e gli legge le testimonianze di cittadini iraniani torturati. Il presidente si dice dispiaciuto per la morte di Neda, rifiuta le accuse di brogli e di torture e, anzi, denuncia il fatto che i disordini siano stati creati ad arte dai governi occidentali per metterlo in difficoltà. Infine contrattacca, ricordando alla CBS che il numero di cittadini uccisi ogni giorno negli Stati Uniti è di molto superiore al numero di morti durante gli scontri a Teheran.
Ha fatto scalpore la notizia che, fra pochi giorni, due delegazioni ufficiali da Washington e da Teheran s’incontreranno per discutere dei rapporti bilaterali tra i due paesi, per la prima volta in trent'anni. Couric va subito al sodo, chiedendo conferma al presidente iraniano riguardo alla sua recente dichiarazione, nella quale sostiene che il programma nucleare iraniano è parte integrante delle trattative. Ahmadinejad conferma questo fatto e, a sorpresa, si dice disponibile ad acquistare il combustibile nucleare se qualcuno glielo venderà (ringraziando Putin).
Couric prosegue chiedendo perché l'Iran non lasci entrare gli ispettori dell'ONU nelle sue centrali, ma Ahmadinejad contesta questo fatto, citando l'ultima ispezione di Settembre, in cui l'AIEA ammette la piena collaborazione dell'Iran e la natura pacifica del programma nucleare. Peccato che, poche ore dopo l'intervista alla CBS, in un annuncio scoop al G20, Obama, Sarkozy e Brown mostrino le prove di una centrale di arricchimento finora rimasta segreta e Ahmadinejad, costretto a confermarne l'esistenza, vanifichi di fatto le prove di dialogo e porti a far precipitare la crisi in un nuovo drammatico capitolo.
Riguardo all'accusa di bloccare le ispezioni, secondo Ahmadinejad “ci sono paesi che hanno diecimila testate nucleari e le hanno persino usate in passato. Non credete che siano i paesi come l'America a dover essere ispezionati, invece di paesi che non ne posseggono? Inoltre, c'è una legge internazionale e dev'essere valida per tutti”, aggiunge riferendosi ad Israele.
Couric fa notare che il programma nucleare iraniano è particolarmente pericoloso, visto l'appoggio dell'Iran ai gruppi terroristici internazionali. Qui però Ahmadinejad ribalta l'accusa con disinvoltura: “E' chiaro quali stati favoriscono il terrorismo: i terroristi in Afghanistan e in Iraq sono più potenti ora o prima dell'invasione degli USA e della NATO? Persino la produzione di droghe illegali è quadruplicata. Dal giorno in cui gli Stati Uniti sono sbarcati in Iraq, centinaia di migliaia di persone sono morte: chi è quindi il terrorista qui? A Gaza a Gennaio sono morte tremilatrecento persone sotto tonnellate di bombe. Chi è il terrorista?” Fin qui, poco da obiettare, ma Ahmadinejad si spinge oltre, tirando fuori la sua carta preferita, quella dell'Olocausto, e si chiede perché i palestinesi debbano soffrire per colpa di azioni compiute da governi europei sessant'anni fa” aggiungendo che “il mito dell'Olocausto è stato trasformato in un'arma dalle sue stesse vittime per coprire le proprie azioni terroristiche”.
Infine, Couric chiede conto ad Ahmadinejad della sua dichiarazione che definisce “l'Olocausto una menzogna basata su una rivendicazione mitologica e indimostrabile” e, mostrandogli una foto di Auschwitz, gli domanda se pensa si tratti di un fotomontaggio. Ahmadinejad si lancia in una lunga digressione sul concetto di mito; quindi ammette che, anche se l'Olocausto fosse accaduto, “perché insistere su questo fatto quando nella Seconda Guerra Mondiale morirono sessanta milioni di persone? Non sappiamo cosa successe sessant'anni fa, però sappiamo di preciso che è un pretesto per occupare la Palestina”. Incalzato per alcuni minuti dalla Couric, il presidente iraniano si rifiuta di ammettere che l'Olocausto sia veramente esistito, “mentre tutti, anche in America, si rifiutano di discutere del genocidio in Palestina per mano del regime sionista.” Detto da chi non riconosce l’orrore della Shoah, è davvero paradossale.
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di Michele Paris
Muovendosi con una insolita rapidità, i due rami del parlamento statale del Massachusetts hanno approvato questa settimana una disposizione che ha consentito al governatore democratico, Deval Patrick, di nominare il successore al Senato degli Stati Uniti di Edward (“Ted”) Kennedy, deceduto il 25 agosto scorso per un cancro al cervello. Mentre la legge elettorale prima della modifica rendeva necessaria l’attesa di una speciale elezione suppletiva per riempire il seggio vacante, grazie all’intervento legislativo il governatore di uno degli stati più democratici del paese ha potuto invece riconsegnare immediatamente al presidente Obama la fatidica soglia dei 60 senatori nella Camera alta del Congresso, numero necessario per evitare l’ostruzionismo dell’opposizione in vista del delicatissimo voto sulla riforma sanitaria.
Nell’ultima fase della sua malattia, il senatore Kennedy aveva sottoposto una richiesta personale al parlamento del Massachusetts per cambiare la legislazione corrente e permettere ad un senatore ad interim di occupare il suo seggio in attesa dell’elezione suppletiva, successivamente fissata per il 19 gennaio prossimo. La supplica dell’autorevole membro della famiglia Kennedy, se da un lato aveva ottenuto l’appoggio del governatore dello stato, di buona parte dei politici democratici locali e della Casa Bianca, aveva tuttavia suscitato molte polemiche ed accuse di opportunismo nei confronti del partito che detiene la maggioranza alla Camera e al Senato statali.
Il provvedimento infatti è stato valutato da molti come un voltafaccia dei democratici, i quali nel 2004 avevano precisamente introdotto una risoluzione che impediva al governatore di nominare un successore per un seggio vacante al Senato, delegando piuttosto la scelta agli elettori. In quell’occasione, il Partito Democratico temeva che, in caso di successo del Senatore del Massachusetts John Kerry, nelle presidenziali contro George W. Bush, il governatore repubblicano Mitt Romney avrebbe potuto scegliere un suo compagno di partito da spedire al Congresso di Washington.
Dopo alcuni giorni di scontri frontali tra maggioranza e opposizione e all’interno dello stesso Partito Democratico, la Camera del Massachusetts ha dato il via libera alla modifica con una maggioranza di 95 a 58; cinque giorni più tardi è toccato al Senato dare l’OK con 24 voti a favore e 16 contrari (di cui 11 democratici). La palla è passata così al governatore Deval Patrick che ha potuto operare la propria scelta per nominare il nuovo senatore che occuperà il posto di Ted Kennedy fino al 19 gennaio, quando si terrà la consultazione elettorale, una volta trascorso il periodo di tempo richiesto dalla legge. Il senatore che prevarrà nell’elezione speciale rimarrà poi al Senato per i tre anni che ancora sarebbero rimasti a Kennedy prima di esaurire il suo mandato di sei.
Il relativamente ampio favore incontrato dalla proposta di modifica della legge elettorale, e la celerità con la quale è stata passata dal Congresso statale, testimonia della profonda influenza tuttora esercitata dal clan Kennedy negli ambienti democratici, in particolare nel loro stato di provenienza. Proprio i due figli di Ted Kennedy - il deputato degli Stati Uniti Patrick J. e l’uomo d’affari Edward M. jr. - con la vedova Vicki, erano stati tra i più accesi sostenitori del nuovo provvedimento. Allo stesso modo, i membri della famiglia Kennedy hanno fatto molte pressioni sul governatore del Massachusetts affinché la sua scelta per il nuovo senatore ricadesse su un ex collaboratore di Ted.
Come da copione, Deval Patrick ha così nominato Paul G. Kirk jr. alla carica di senatore degli USA fino al gennaio prossimo. Da sempre fedelissimo dei Kennedy, il 71enne Kirk è stato segretario del Partito Democratico dal 1985 al 1989, assistente speciale di Ted Kennedy tra il 1969 e il 1977 ed attualmente presidente della John F. Kennedy Library Foundation di Boston. Al momento del suo giuramento, il neo-senatore ha promesso di farsi da parte al termine del breve mandato ad interim, promessa richiesta dal governatore per la nomina, nonostante non vi siano nel nuovo testo di legge indicazioni che gli impediscano di presentarsi nell’elezione suppletiva, e di avvalersi per il suo incarico a Washington dell’identico staff di Ted Kennedy.
Oltre a Kirk, gli altri principali candidati alla ambita poltrona di secondo senatore del Massachusetts - la prima è attualmente occupata da John Kerry - erano almeno l’ex governatore dello stato e candidato democratico alle presidenziali del 1988, Michael Dukakis, la ex vice-governatice Evelyn Murphy e il docente di Harvard e opinionista televisivo Charles Ogletree. Proprio l’aver messo da parte Dukakis ha fatto storcere il naso a qualche liberal. Sconfitto nettamente da George H. W. Bush ventuno anni fa per la corsa alla Casa Bianca, Dukakis rimane una figura molto stimata tra i democratici di sinistra del New England, non da ultimo per il fatto di essersi sempre battuto per un sistema sanitario più equo.
Proprio la battaglia in corso sulla riforma della sanità aveva spinto Ted Kennedy a cercare di installare un suo successore in tempi brevi al Senato, dove i numeri per i democratici e le divisioni interne rendono molto dubbia un’approvazione del progetto in discussione. Con l’arrivo di Paul G. Kirk, il partito del presidente Obama tornerà però ad avere da subito una maggioranza di 60 senatori (58 democratici più due indipendenti) per raggiungere la soglia minima necessaria ad evitare che i repubblicani prolunghino a oltranza la discussione in aula di un qualsiasi provvedimento (“filibuster”).
I repubblicani del Massachusetts hanno cercato in tutti i modi di impedire, o quanto meno ritardare, l’approvazione della modifica alla legge elettorale. Come ultimo tentativo, è stata infine presentata un’istanza presso il tribunale della contea di Suffolk per bloccare quella che il Partito Repubblicano considera una mossa anticostituzionale da parte del governatore Deval Patrick. Secondo la costituzione dello Stato, infatti, una legge approvata dal parlamento locale normalmente entra in vigore solo dopo 90 giorni, a meno che non abbia i caratteri dell’urgenza.
Per ottenere tale status, il governatore deve obbligatoriamente indirizzare una comunicazione al Segretario dello Stato, dichiarando che la legge in questione richiede l’immediata applicazione per motivi di particolare emergenza. Malgrado alcuni parlamentari avessero chiesto al governatore di chiedere un parere alla Corte Suprema del Massachusetts circa l’opportunità della sua azione, il Segretario dello Stato - il democratico William Galvin - ha posto fine a qualsiasi discussione accettando la “dichiarazione di emergenza”, definendola una procedura di routine.
In alternativa, la legislatura statale avrebbe potuto evitare questo procedimento approvando la legge con il voto favorevole dei due terzi dell’assemblea, obiettivo che era apparso però subito irraggiungibile, a testimonianza della poca convinzione di molti democratici nei confronti di una modifica che essi stessi avevano bocciato cinque anni fa.
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di Paola Vallatta
Un martello fa eco all’altro battendo sulla latta al mercato Dantokpa di Cotonou, il più grande mercato del Benin, crocevia internazionale d’Africa occidentale. È la zona dei fabbri: il ritmo di battuta è sostenuto, il rumore assordante. Tra le lamiere, le assi e i pezzi di cartone che formano la struttura del mercato, siedono uomini, ragazzi e pure bambini. Questi ultimi si alzano presto, mangiano poco e spesso nel mercato dormono pure. Vanno a cercare pezzi di lamiera e metalli nelle discariche e li portano al mastro-padrone, poi cominciano con il battere e il levare.
I piccoli vengono da villaggi a 10, 20, 50 chilometri da Cotonou e rimangono a lungo, fino a quando non hanno 18-20 anni. Secondo Justine Michayi, direttore esecutivo dell’Afamies, Association des Femmes Amies, piccola Ong legata a Emmaus che opera anche nel mercato di Cotonou, i ragazzini lavoratori di Dantokpa sono circa 400. Mastro fabbro va a cercarli nei villaggi più poveri e ipnotizza i genitori con il miraggio di un radioso futuro a Cotonou, terra promessa dove potranno imparare un mestiere, in seguito guadagnare molto denaro e infine contribuire al benessere di tutta la famiglia.
Mettere il ragazzo in apprendistato costa meno che mandarlo a scuola, così il mastro si fa dare una piccola somma e porta con sé il bambino. In Benin questi cuccioli d’uomo inviati alla ricerca di un avvenire migliore presso un artigiano o presso famiglie più benestanti di quella d’origine vengono chiamati bambini “prestati”, ma questa definizione pudica maschera in effetti una sorta di schiavitù.
La sorte del ragazzino varia a seconda del grado di umanità relativa del fabbro-padrone: molti vengono maltrattati, picchiati, affamati. I genitori non nutrono sospetti: di tanto in tanto il datore di lavoro invia piccoli pacchi al villaggio. Qualche scatola di riso, alcuni barattoli di conserva, un po’ di sale sono sufficienti per tranquillizzare i genitori: se il figlio manda questa roba significa che tutto procede nel migliore dei modi possibili. La realtà che vivono i piccoli, invece, è fatta solo di lavoro, spesso pure di stenti, sette giorni su sette. Per anni, fino a quando non si raggiunge la maggiore età, in genere. E, quando accade, molti si scoprono sordi: l’incessante frastuono dei colpi menati ai metalli, nel quale sono vissuti a lungo, ha rovinato il loro udito. Per sempre.
La signora Michayi e la sua associazione hanno iniziato a interessarsi a questo traffico di bambini nel 2003. All’inizio non si occupavano dei ragazzi del mercato, ma delle bambine impiegate come domestiche nelle famiglie benestanti, certamente sfruttate, quasi sempre maltrattate e, spesso, violentate dai padroni. Un fenomeno che riguardava 100 mila ragazzine nel solo Benin (le cifre fornite dall’Unicef contano complessivamente 200 mila bambini schiavi in Benin); piccole che venivano talvolta portate anche in altri paesi, Ghana o Costa d’Avorio, per esempio: tutte le condizioni perché si potesse parlare di schiavitù, lungo viaggio compreso, si trovavano così riunite.
Grazie anche all’interessamento dell’Afamies, la Brigata per la protezione dei minori è dovuta intervenire e, attualmente, la tratta delle bimbe è ufficialmente debellata. “Se continua, ed è probabile che continui”, dice la signora Michayi, “riguarda certamente molte meno ragazze ed è, sostanzialmente, clandestina”. Anche se molte famiglie, almeno a Cotonou, continuano a impiegare le bambine come domestiche.
È proprio cominciando a occuparsi di minori che Justine Michayi ha scoperto l’esistenza dei piccoli schiavi del mercato di Dantokpa. Per loro è riuscita a trovare un minuscolo locale nel cuore dell’area dove si trovano i fabbri, nel quale accogliere i bambini. Qui possono raccontare la loro storia, vengono informati dei diritti dell’infanzia e, due volte la settimana, il martedì e il giovedì, per due ore hanno lezione di francese.
Naturalmente far lavorare i minori sotto i 14 anni è proibito dalla legge anche in Benin, ma, per qualche misterioso motivo, questi piccoli fabbri non paiono evidentemente abbastanza sfruttati perché la Brigata per la protezione dei minori intervenga. Robert, Stéphane, Clément, Thierry e Marc (i nomi sono stati cambiati nell’interesse dei bambini stessi) sanno più o meno scrivere i numeri e il loro nome e riescono a leggere le semplici frasi scritte in stampatello sulla lavagna (una parte di parete verniciata di nero). Il più piccolo, Robert, ha otto anni e lavora al mercato da uno e mezzo. Scrive i numeri a rovescio e non riesce a concentrarsi, ma poi svela il perché: ha fame, non ha ancora mangiato nulla. E una volta che si è riempito la pancia va molto meglio e sorride più facilmente. Marc, il maggiore del piccolo gruppo, ha 15 anni e lavora a Dantokpa da otto. Sembra più sereno e sicuro di sé e ci fa da guida nell’esplorazione della zona.
Robert, Stéphane, Clément, Thierry e Marc fanno parte dei 50 ragazzini (su 400) che hanno accesso alle attività dell’associazione. “Quelli che vengono da noi sono una cinquantina”, conferma Madame Michayi, “ma, attenzione, non sono sempre necessariamente gli stessi 50”. Poi conclude: “scuola a parte, cerchiamo di aiutarli anche sotto il profilo sanitario. Se si feriscono, e accade, non si curano a dovere, anche perché non hanno alcuna protezione malattia. Così cerchiamo fondi per pagare loro un’assicurazione: bastano pochi euro all’anno (per la precisione 500 franchi CFA, ovvero 0,75 centesimi, al mese), ma, spesso, non abbiamo neppure quelli”.
C'è anche una piccola struttura benino-italiana, riconosciuta come Ong dallo stato beninese nel maggio 2008, che si occupa di bambini "prestati". Ha sede a Ouidah, a 42 km. da Cotonou, alla Maison de la Joie, ed è nata per iniziativa di Flavio Nadiani, di sua moglie Thérèse, degli amici Justine e Christian. Lì vivono attualmente circa 30 ragazzi (dai tre ai 20 anni) e cinque donne, che gestiscono un piccolo ristorante. La “Casa della Gioia” è come una grande famiglia: Justine e Christian hanno cinque figli, che coabitano con gli altri bambini. Alcuni di loro sono orfani, altri abbandonati; qualcuno ha uno o più parenti (ci sono quattro sorelline che vivono alla Maison insieme a nonna e zia, per esempio); tutti vanno a scuola, sono seguiti e, a partire dai 14 anni, collaborano alle faccende domestiche.
La Maison e i suoi abitanti si mantengono grazie ai proventi del turismo responsabile, a contributi privati, alle adozioni a distanza, e, in parte, anche grazie ai ricavi del piccolo ristorante. Dice Flavio: “A volte i sogni si realizzano. Ho cominciato a fare volontariato in Benin diversi anni fa e, durante uno di questi viaggi, ho incontrato Thérèse, che ora è mia moglie. Nel frattempo anche l’amica del cuore di Thérèse, Justine, si sposava con il suo compagno Christian e ho cominciato a conoscere il Benin sul serio insieme a loro. Quando si sono trasferiti a Ouidah, ho trovato la città dei miei sogni e ho deciso che lì avrei costruito casa. Una grande casa, con tante camere e tanto spazio, per ospitare Justine, Christian e i loro cinque figli.
Ben presto la casa ha cominciato a riempirsi di altri bambini bisognosi e di madri in difficoltà: era nata una comunità. Al momento di battezzare la casa, come si usa in Africa, non ho avuto dubbi: era come se già avesse un nome, la Casa della Gioia, la Maison de la Joie, il luogo dove almeno qualche bambino può ritrovare il sorriso”.
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New York. Un mese di bombardamenti, guerriglia casa per casa, millequattrocento palestinesi e tredici israeliani morti: la Striscia di Gaza, già duramente provata da guerre ed embargo, ridotta ad un cumulo di macerie fumanti. Una commissione d'inchiesta dell'ONU, guidata da un giudice “ardente sionista”, ha raccolto prove inconfutabili contro l'establishment israeliano. L'accusa ufficiale potrebbe portare all'incriminazione internazionale dei leader politici e militari israeliani: Ehud Olmert, Tzipi Livni, Ehud Barak, Gabi Ashkenazi e dei comandanti che guidarono l'attacco contro Gaza l'inverno scorso. Ma l'amministrazione Obama ha preso le distanze dalla commissione, perché troppo critica con Israele.
A capo della commissione d'inchiesta ONU sui fatti di Gaza è un giudice americano dalle credenziali a prova di bomba. Si tratta del sudafricano Richard Goldstone, che presiedette i tribunali internazionali sul genocidio in Ruanda e in ex-Jugoslavia e, più recentemente, sulle vicende del Darfur. Nell'editoriale pubblicato giovedì sul New York Times, Goldstone difende le conclusioni della sua inchiesta e lancia un appello ad Israele e ad Hamas affinché perseguano i propri criminali di guerra. Nel caso in cui le due parti trascurino di farlo, Goldstone si appella ai governi del pianeta perché diano corso giuridico alle accuse: “I governi occidentali hanno di fronte una sfida, perché hanno spinto per perseguire i criminali in posti come il Darfur, ma ora devono fare lo stesso con Israele, un loro alleato e uno stato democratico.”
I risultati dell'inchiesta sono estremamente dettagliati e contengono i nomi dei civili massacrati e le precise circostanze in cui i crimini di guerra sono avvenuti. Goldstone non ha poteri di polizia, ma rimbalza la palla ai diretti interessati, chiedendo ad Israele di perseguire i soldati responsabili dei massacri e a Hamas di processare chi lanciava i razzi Qassam e Katyusha contro le città israeliane. Si rammarica inoltre della mancata collaborazione di Israele, che ha anzi cercato in tutti i modi di ostacolare i lavori della commissione, vietandone ad esempio l'ingresso nel proprio territorio.
La reazione dello stato ebraico è stata immediata e, come di consueto, durissima. Il ministro degli esteri Lieberman, beffardo, denuncia come “la commissione non si sia fatta minimamente confondere dai fatti.” Ma l'accusa di anti-semitismo sbandierata dal governo israeliano, questa volta fa un buco nell'acqua. Il giudice Goldstone, infatti, è un grande amico d'Israele e fervente sionista. Sua figlia, in un'intervista in ebraico alla radio dell'IDF, ha fatto notare come la presenza del padre nella commissione ne abbia semmai addolcito di molto le conclusioni!
Con la fine ufficiale della “guerra globale al terrorismo” di George W. Bush, la mano libera di cui Israele ha goduto per otto anni potrebbe segnare il passo. Molti sono i segnali diplomatici che fanno presagire a dei cambiamenti. Con i risultati ufficiali della commissione Goldstone in mano, l'imminente Assemblea Generale delle Nazioni Unite potrebbe portare ad un grosso imbarazzo per lo stato ebraico. Il fronte dei paesi islamici e in via di sviluppo ha tra le mani un documento ufficiale in cui si descrivono dei crimini di guerra perpetrati da militari e politici israeliani.
Tel Aviv è sotto accusa anche riguardo al suo arsenale atomico. Al recente meeting dell'Agenzia Internazione per l'Energia Atomica (AIEA), per la prima volta in diciotto anni è stata affrontata la questione dell'arsenale nucleare israeliano. Con un voto a grandissima maggioranza, gli ispettori nucleari hanno espresso “preoccupazione riguardo le capacità nucleari d'Israele, e le minacce alla sicurezza in Medio Oriente sollevate dalla proliferazione nucleare.” L'agenzia, sotto forti pressioni per via del programma nucleare iraniano, ha deciso di affrontare a carte scoperte la decennale politica di ambiguità nucleare israeliana. Il voto è stato possibile per il cristallizzarsi dell'inedita alleanza tra paesi islamici e paesi in via di sviluppo, contro gli Stati Uniti e il suo alleato di ferro mediorientale.
Nonostante le accuse di crimini di guerra e le denunce sul suo arsenale nucleare, però, il supporto incondizionato degli Stati Uniti ad Israele pare tuttavia continuare, nonostante il recente disaccordo sul congelamento degli insediamenti illegali in West Bank. In questi giorni di fine estate, dopo il fallimento della missione dell'inviato della Casa Bianca Mitchell, che non è riuscito ad ottenere alcuna concessione né dai palestinesi né dagli israeliani, Washington non pare avere ancora un'idea precisa di cosa fare riguardo al processo di pace. L'amministrazione Obama, dopo aver aspettato alcuni giorni in silenzio, ha infine criticato i risultati della commissione Goldstone, perché troppo faziosi contro Israele.
Resta da vedere se l'opposizione americana sarà sufficiente per fermare eventuali incriminazioni internazionali contro quegli israeliani che ora, ufficialmente, sono stati dichiarati criminali di guerra. In risposta, alcuni commentatori israeliani si chiedono provocatoriamente se Obama permetterà a Goldstone di indagare anche sulla guerra in Afghanistan, dove i bombardamenti americani stanno facendo continue stragi di civili. Come a dire: se gli americani compiono incessanti massacri in Afghanistan e in Iraq, allora perché se Israele attacca Gaza per tre settimane tutto il mondo protesta?
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di Michele Paris
La scelta dell’amministrazione Obama di smantellare il pessimo progetto di scudo missilistico spaziale fortemente voluto da George W. Bush in Polonia e Repubblica Ceca, ha segnato il successo del pragmatismo sull’ideologia e un punto a favore del percorso di riavvicinamento tra Washington e Mosca. Il patto siglato in fretta e furia dal governo americano con quelli dei due paesi dell’Europa orientale, nell’agosto 2008, aveva infatti una serie infinita di carenze e, in definitiva, avrebbe finito per non essere in grado di far fronte ad una minaccia comunque inesistente e con scarse probabilità di materializzarsi anche nel prossimo futuro. Vale a dire, la presenza di missili iraniani di lunga gittata in grado di colpire l’Europa centrale o addirittura gli stessi Stati Uniti d’America.
Grande soddisfazione a Mosca, che blocca l'istallazione dei suoi missili decisi come risposta allo scudo americano. Si torna quindi a parlare di dialogo costruttivo tra i due paesi, giacché il progetto statunitense aveva spinto al bordo della crisi internazionale i rapporti con Washington. Medvedev e Putin, infatti, vedevano (con non poche ragioni) l’istallazione dei missili come una vera e propria minaccia militare alla Russia, oltre che il tentativo di colonizzare buona parte l’Europa orientale. Del resto, le ingerenze statunitensi in Ucraina e Georgia - solo per registrare le ultime - e l’aperta ostilità di molti dei paesi un tempo satelliti di Mosca, preconizzavano dal punto di vista del Cremlino un tentativo di accerchiamento politico e militare inaccettabile. Anche per questo Mosca decise di stroncare con la forza le velleità xenofobe della Georgia; il segnale era rivolto non solo e non tanto a Saakashvilj, quanto ai suoi sponsor della Casa Bianca. Per di più, in barba agli accordi strategici tra Mosca e Washington, Bush riproponeva nei fatti il ruolo di nemico strategico per la Russia, che tanto dall’Europa orientale quanto dalle regioni asiatiche, si a trovava circondata da eserciti e armamenti ostili.
L’idea di Bush per la costruzione di un sistema di difesa sul territorio dei due ex paesi del blocco sovietico risaliva al 2002. Nelle intenzioni della precedente amministrazione statunitense, la Polonia avrebbe dovuto ospitare una serie di missili anti-balistici, mentre una base radar sarebbe toccata alla Repubblica Ceca. L’intero progetto avrebbe dovuto essere operativo (il condizionale è d’obbligo) entro il 2012. Il modello di difesa missilistico in questione non era peraltro nuovo, ma si rifaceva al piano militare americano destinato a neutralizzare la minaccia nucleare sovietica negli anni della Guerra Fredda. Non a caso, dunque, le reazioni russe erano state da subito fortemente critiche e accompagnate da accuse agli USA di voler espandere la propria influenza ai due paesi già facenti parte del Patto di Varsavia.
Già prima del suo insediamento Obama aveva lasciato intendere di voler sottoporre a revisione il progetto voluto da Bush in Europa. La necessità di ottenere la cooperazione della Russia sulle questioni dell’Afghanistan - la visita di Obama a Mosca a luglio era stata anticipata dalla concessione di Medvedev ai velivoli militari americani diretti in Afghanistan di sorvolare il proprio spazio aereo - e del nucleare iraniano, avevano spinto poi ulteriormente Washington a valutare con occhio critico il progetto anti-missilistico. L’annuncio definitivo ha così raccolto l’approvazione del presidente russo, il quale ha tuttavia ufficialmente escluso scambi di favori ed ha verosimilmente fatto trarre un sospiro di sollievo a molti governi europei, in primo luogo quello tedesco, preoccupati per il deterioramento delle relazioni tra Russia e Occidente.
La mossa (quasi) tutta politica di Obama ha cancellato così quella ugualmente caratterizzata da motivazioni esclusivamente geo-politiche dell’amministrazione Bush e della destra repubblicana. Con l’accordo firmato assieme a Polonia e Cechia sul finire del proprio mandato, Bush aveva cercato di mettere il suo successore con le spalle al muro, accelerando un sistema di difesa che avrebbe dovuto presentarsi come un fatto compiuto, nonostante le deficienze che presentava. Nell’interesse strategico del proprio paese, Obama ha invece sostituito uno scudo spaziale inefficace con un sistema militare più facilmente attuabile e volto a fronteggiare una minaccia teoricamente reale, inquadrandolo in un progetto condiviso all’interno dell’Alleanza Atlantica.
Infatti, la scelta di Obama ha messo da parte missili intercettori - destinati alla Polonia - che ancora non erano stati realizzati, né tanto meno testati, mentre il sistema radar per la Repubblica Ceca aveva già presentato una serie di gravi difetti, evidenziati da esperti del MIT e di altri istituti di ricerca indipendenti. In sostanza, non era in grado di individuare le testate missilistiche che avrebbe dovuto seguire nel loro tragitto verso l’obiettivo. Allo stesso modo, la minaccia dei missili iraniani sull’Europa centrale era nient’altro che una mistificazione.
Teheran non sarebbe in grado nemmeno nei prossimi dieci anni, sempre secondo gli analisti, di costruire missili a media gittata (dai 3 mila ai 5 mila km) in grado di colpire l’Europa o a lunga gittata (dai 5.500 ai 10 mila km) per raggiungere gli USA. Anche per ottenere testate capaci di colpire le zone periferiche dell’Europa, servirebbero alla Repubblica Islamica almeno altri otto anni. Anche disponendo di tali armamenti, appare in ogni caso improbabile che il governo iraniano sia disposto ad imbarcarsi in un attacco suicida che scatenerebbe una reazione devastante da parte occidentale.
Ad anticipare la decisione dell’amministrazione Obama erano stati poi alcuni rapporti resi pubblici dall’ufficio governativo deputato alla supervisione della spesa pubblica americana (GAO, Government Accountability Office). L’ente aveva dapprima avvertito che i costi del sistema anti-missilistico in Europa orientale avrebbero sforato di parecchio il costo inizialmente stimato di 4 miliardi di dollari e, solo qualche giorno fa, ha bacchettato il Dipartimento della Difesa per la gestione del progetto negli ultimi otto anni. Il Ministero, infatti, non avrebbe svolto correttamente tutte le necessarie analisi e verifiche per prendere una decisione ragionevole sull’intera questione. Un piano, insomma, mandato avanti con eccessiva sollecitudine e senza la raccolta degli elementi indispensabili a una valutazione di possibili difetti e disfunzioni.
Ciò che preoccupa gli USA e i suoi alleati geograficamente più vicini all’Iran, al contrario, sono i missili a breve gittata che quest’ultimo paese già possiede. In paesi come Turchia o Israele potrebbero allora venire impiegati più efficienti e collaudati strumenti di difesa, come il THAAD (Terminal High Altitude Area Defense), un sistema anti-missilistico che sfrutta l’energia cinetica dell’impatto per l’abbattimento di SCUD o armi simili, e gli intercettori SM-3, installati su navi da guerra e utilizzati anche per l’abbattimento di satelliti. Questi sistemi avrebbero appunto le capacità di contrastare i missili di cui l’Iran dispone in gran numero, i cosiddetti Shahab-3, realizzati sul modello dei Nodong-1 sviluppati dalla Corea del Nord e con una gittata media di circa 1.200 km.
Per rassicurare gli alleati polacchi e cechi, i cui governi conservatori avevano puntato molto sulla partnership militare con gli USA malgrado le resistenze dell’opinione pubblica, dopo aver parlato personalmente con i leader di entrambi i paesi, Obama ha incaricato il Segretario alla Difesa Robert Gates di ricordare come gli Stati Uniti non intendano abbandonare l’Europa orientale al proprio destino, o al ritorno sotto la sfera di influenza russa. Il Pentagono, secondo l’ex membro dell’amministrazione Bush, sarebbe comunque in trattativa con Varsavia e Praga per installare missili intercettori SM-3 sul loro territorio a partire dal 2015.
Più che un’inversione di rotta dal punto di vista strategico rispetto al recente passato, la mossa di Obama appare dunque come una variazione tattica per modellare una politica estera americana più flessibile, specie dopo i risultati disastrosi prodotti dall’irresponsabilità della precedente amministrazione. L’esito in qualche modo positivo del conflitto in Afghanistan, così come il mantenimento dell’influenza nelle regioni ricche di petrolio e gas naturale in Medio Oriente e nell’Asia Centrale, rimangono di fatto gli obiettivi principali, al di là di chi controlli il potere a Washington. Il loro raggiungimento appare però meno complicato se si mettono da parte aggressioni e intransigenza ideologica, puntando piuttosto su un rapporto di collaborazione con gli alleati europei e con la stessa Russia.