di Alessandro Iacuelli

Il presidente russo Dmitry Medvedev e il primo ministro indiano Manmohan Singh, in visita a Mosca, hanno firmato un accordo di cooperazione per l'utilizzo pacifico della tecnologia nucleare. L'accordo consentirà la costruzione di numerose centrali nucleari in India da parte dell'agenzia atomica russa Rosatom, ha detto il numero uno Sergei Kiriyenko parlando coi reporter a margine dei colloqui al Cremlino. Al momento non sono stati resi noti molti altri dettagli dell'accordo, ma i pochi filtrati dai comunicati ufficiali fanno pensare a intese anche in altri settori strategici per l'India: una possibile collaborazione in campo spaziale e nel mercato dei diamanti.

Così, l'India sembra intenzionata a essere un serio alleato strategico della Russia. Negli ultimi sei mesi, il premier Manmohan Singh si è recato per ben tre volte in visita ufficiale al Cremlino. L’ultima lo scorso 7 dicembre, quando i due Paesi hanno varato un importante accordo di cooperazione sullo sfruttamento pacifico dell’energia nucleare.

L'accordo con la Russia è il secondo, dopo quello con gli Usa, alla fine di una lunga battaglia condotta da Washington e Delhi, perché l'India fosse esonerata dalle norme internazionali sulla non-proliferazione, che da oltre tre decenni impedivano la vendita all'India di combustibili e tecnologia nucleari. Queste norme erano state adottate proprio perché il Paese aveva usato le tecnologie nucleari a lei fornite per "scopi pacifici" per fabbricarsi armi nucleari, soprattutto in chiave anti pachistana, a causa della controversia sul Kashemir. In seguito al test nucleare indiano del 1974, venne costituito il Nuclear Suppliers Group (NSG), il Gruppo internazionale dei fornitori nucleari, con 45 Stati membri, fra cui l'Italia; proprio questo gruppo, l'anno scorso ha cancellato il bando all'India sull'importazione di tecnologia nucleare.

Dopo tre anni di dibattiti a Washington, Delhi e Vienna, nell'ottobre 2008 il senato americano aveva approvato l'accordo di cooperazione nucleare civile con l'India, secondo il quale gli USA forniranno tecnologie e carburante a New Delhi per una ventina di centrali nucleari civili. In cambio l'India garantirà circa 70 miliardi di dollari in scambi commerciali con le imprese Usa.

La Russia non è rimasta a guardare a lungo. Al momento sono pochi i dettagli forniti sull'accordo di cooperazione nucleare del 7 dicembre: si sa però che Rosatom costruirà altri 4 reattori per la centrale nucleare di Kundankulam in Tamil Nadu, già simbolo della collaborazione tra i due Paesi (il primo reattore dovrebbe essere avviato già all'inizio del 2010); verranno avviati i lavori per una nuova centrale nel Bengala occidentale, dove Rosatom dovrebbe occuparsi della costruzione di quattro su sei reattori programmati nel giro di 10-15 anni.

L'accordo, valido dal 2011 al 2020, avrà un valore di decine di miliardi di dollari e, oltre al nucleare, prevede la vendita alla Russia di hardware militare in dotazione all'India. È probabile che la simbiosi si completi pure su altri campi, dato l'interesse di New Delhi nella ricerca spaziale, le telecomunicazioni, i mercati di diamanti grezzi e i prodotti farmaceutici.

Al momento il nucleare fornisce all'India meno del 3% di elettricità; nel 2050, a pieno regime, la quota dovrebbe arrivare fino al 25%. Nonostante le critiche di ambientalisti e di gruppi pacifisti, con quella che ormai gli analisti chiamano la “diplomazia dei reattori”, il primo ministro Singh ha riportato l'India più che mai al centro dello scacchiere internazionale. A causa della crisi petrolifera il mercato nucleare diventa infatti sempre più appetibile per i Paese emergenti. E ora anche la Francia, vero rivale per Mosca sul mercato del nucleare indiano, aspetta il suo momento per farsi avanti.

C'è naturalmente, come sempre quando si parla di accordi internazionali in campo nucleare, chi non si fida. Vari analisti di tutto il mondo ricordano come spesso i Paesi importatori di tecnologia nucleare, anzichè usarla a fini di approvviggionamento energetico, l'abbiano non solo usata a fini militari, ma anche rivenduta a Paesi terzi. Così, oggi c'è chi ipotizza che dietro l'accordo siglato a Mosca potrebbe esserci l'Iran, sempre al centro delle polemiche quando si parla di nucleare. Infatti, la Russia venderà all'India del combustibile atomico, così come voleva farlo con l'Iran. Dopo il distacco di Mosca dal suo appoggio tacito al piano nucleare di Teheran, quella attuale potrebbe essere una mossa compensativa che gode del tacito avallo americano.

Il governo russo non conferma e non smentisce: "I nostri due paesi hanno tanti campi di cooperazione, molti progetti riguardano la sfera energetica e una parte considerevole di essi concerne il settore nucleare", ha dichiarato Medvedev nella conferenza stampa dopo la firma dell'accordo, "Il documento che abbiamo firmato oggi consente di sviluppare la collaborazione negli anni futuri", ha aggiunto. Il premier indiano, subito dopo l'arrivo a Mosca, aveva incontrato in forma privata Medvedev nella sua residenza privata a Barvikha, mentre i colloqui ufficiali, a delegazioni allargate, si sono svolti al Cremlino. Al momento non si sa di più: tutto ciò che riguarda il governo russo è decisamente coperto da riserbo e ovviamente, tanto per cambiare, si parla di vendita di uranio per “soli usi pacifici”.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Nonostante la recente qualificazione ai mondiali di calcio del 2010, la Grecia ha poco da festeggiare: la sua pessima situazione economica preoccupa l'Europa intera a tal punto che qualcuno parla di una nazione a rischio bancarotta. E, come non bastasse, a un anno dalla morte del quindicenne Alexandros Grigoropoulos, assassinato dalla pallottola di un poliziotto durante le manifestazioni di piazza del 2008, sono riprese le proteste degli studenti. Gli unici, a quanto pare, disposti a manifestare apertamente contro un sistema che deve trovare la forza di rinnovarsi completamente.

I mercati e i governi di tutto il mondo  stanno seguendo con aperta preoccupazione l'evoluzione della situazione economica della Grecia: le azioni stanno precipitando e la credibilità del Paese continua a scendere. Secondo una recente previsione dell'agenzia di rating americana Standard & Poor, il debito pubblico della Grecia potrebbe raggiungere, nel 2010, il 125 percento del Pil, mentre il deficit effettivo, al momento, è del 13 percento. In più, la Grecia risulta tra i Paesi più corrotti della Comunità Europea, raggiungendo il 71/mo posto nella classifica mondiale di Transparency (tanto per fare un piccolo confronto, l'Italia si trova al 63/mo posto).

Le cifre sono spaventose, ma il ministro delle Finanze greco Giorgos Papakonstantinou non ha mancato di rassicurare l'economia e la politica mondiale, cercando di fugare quelle voci di corridoio che vorrebbero la Grecia sull'orlo della bancarotta. "Non c'è assolutamente nessun rischio", ha assicurato Papakonstantinou. "Noi non saremo la prossima Islanda". Secondo il ministro, infatti, il 2010 sarà un anno difficile, ma "non impossibile".

Per Gennaio, Papakonstantinou ha promesso alla Comunità Europea un ambizioso programma di stabilità finalizzato a riequilibrare l'economia. Tra i punti principali del piano ci sono la sospensione delle assunzioni pubbliche, la riduzione delle spese statali del 10 percento e una più attenta lotta alle evasioni fiscali. Anche il primo ministro socialista Giorgios Papandreou, da parte sua, ha appoggiato il programma di stabilità di Papakonstantinou, ammettendo tuttavia la difficoltà di quella che sembra essere l'unica via di salvezza per l'economia greca.

Il premier socialista Papandreou (Pasok) è stato eletto appena due mesi fa, andando a sostituire l'ex premier Costas Karamanlis (Nea Demokratia) e il suo governo di centrodestra, allora al potere da sei anni. La popolazione ha riposto in lui parecchia fiducia: Papandreou, infatti, vanta profonda conoscenza della res politica, in quanto viene da una delle duefamiglie che - insieme ai Karamanlis - da decenni si alternano alla guida del Paese. Anche suo padre e suo nonno sono stati Premier.

Ma gli studenti non credono alle promesse della politica: i problemi contro cui hanno manifestato così violentemente nel dicembre 2008, che hanno portato alla morte del quindicenne Grigoropoulos per mezzo della pallottola di un poliziotto, non sembrano loro essere sulla via di una giusta risoluzione. E, nonostante Papakonstantinou abbia minacciato nei confronti  di qualsiasi "tafferuglio" tolleranza zero, anche quest'anno sono scesi in piazza, mettendo a soqquadro, come in un pauroso dejá vu, il centro di Atene.

Il sistema educativo greco presenta, in realtà, numerose lacune, che vanno a intaccare anche ia società più in generale. Secondo informazioni del quotidiano berlinese Tagesspiegel, chi frequenta le scuole pubbliche greche è obbligato a prendere ulteriori lezioni private per superare gli esami. In un anno, le famiglie greche spendono in insegnanti privati circa 750 milioni di Euro. Secondo l'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD), gli studenti che iniziano l'università in Grecia sono, in media, 86 mila all'anno, mentre quelli che studiano presso atenei stranieri sono, al momento, più di 50 mila. Il rapporto non è certo dei più sani. La Grecia, tra l'altro, è il Paese europeo con la percentuale più alta di disoccupazione tra i giovani dai 16 ai 25 anni: e chi trova lavoro si deve accontentare di uno stipendio fissato per legge a 715,65 euro. Ce n’è abbastanza per manifestare.

 

 

 


 

di Michele Paris

In un’escalation di dolorose concessioni, la sinistra del Partito Democratico americano ha visto quasi definitivamente svanire le residue possibilità di creare un efficace piano pubblico di assistenza sanitaria nell’ambito della riforma in discussione al Congresso. Dal gruppo dei dieci senatori di maggioranza - cinque appartenenti all’ala liberal ed altrettanti a quella moderata - incaricati di limare le differenze interne al partito, per permettere il passaggio in aula dell’intero progetto di legge, è uscita infatti una proposta che ancora una volta si è risolta in un compromesso al ribasso.

Dopo nove giorni di discussioni al Senato, in seguito all’approvazione di un provvedimento simile alla Camera dei Rappresentanti lo scorso mese di novembre, l’ostacolo principale appare sempre l’eventuale inclusione nella riforma sanitaria di quell’opzione pubblica tanto avversata dai repubblicani e dai democratici di centro. Vista l’impossibilità di raccogliere i 60 voti necessari a superare l’esame dell’aula, il leader di maggioranza Harry Reid aveva così delegato un comitato ristretto di senatori del suo partito a trovare una soluzione condivisa.

Secondo le parole di alcuni parlamentari coinvolti nelle trattative, la proposta partorita non cancellerebbe il piano pubblico di assistenza sanitaria ma lo metterebbe piuttosto “ai margini” della riforma. Un nuovo programma gestito dal governo federale, sostenuto dalla maggioranza dei democratici nei due rami del Congresso, dalla Casa Bianca e dalla maggioranza degli americani, verrebbe così rimpiazzato da una serie di polizze fornite da compagnie private. Per mantenere una parvenza d’intervento pubblico in un sistema che sarà invariabilmente dominato dal settore privato, tali piani di assistenza saranno negoziati dall’Office of Personnel Management, un’agenzia governativa che gestisce la copertura sanitaria dei dipendenti federali.

Solo nel caso le compagnie assicurative private non fossero in grado di assicurare polizze ritenute sufficientemente economiche per le tasche degli americani non coperti, il governo federale sarebbe chiamato a istituire un vero e proprio piano pubblico come quello che verosimilmente verrà stralciato dal testo all’analisi del Senato. Nella nuova proposta democratica è presente inoltre un allargamento del popolare programma pubblico Medicare, destinato attualmente agli over 65. Su insistenza della sinistra del partito, verrebbe consentita l’adesione a questo piano a partire dal compimento del 55esimo anno di età.

Il nuovo percorso indicato dai dieci senatori democratici, nonostante l’appoggio incassato dal presidente Obama, sembra in ogni caso ancora molto lontano dal poter costituire l’esito finale del delicatissimo dibattito in corso. Tanto per cominciare, la leadership democratica dovrà presentare la proposta a tutta la propria delegazione al Senato. Molti esponenti liberal potrebbero allora esprimere riserve, se non addirittura la loro contrarietà all’affossamento del piano pubblico. Se anche si riuscisse a trovare un consenso in questi termini all’interno della maggioranza al Senato, il provvedimento finale dovrebbe essere comunque combinato con quello già approvato dalla Camera e che contiene un piano pubblico ben più robusto.

Per un piccolo passo avanti verso l’approvazione della riforma nella Camera alta del Congresso americano, una nuova complicazione è però sopraggiunta contemporaneamente a disturbare il sonno del numero uno democratico, Harry Reid. L’aula ha infatti bocciato un emendamento che avrebbe proibito l’utilizzo di fondi pubblici per accedere all’aborto. Il provvedimento respinto con il voto di 50 democratici, due indipendenti e le due senatrici repubblicane del Maine, Susan Collins e Olympia J. Snowe, avrebbe colpito le donne appartenenti alle fasce più basse di reddito. L’interruzione di gravidanza sarebbe stata cioè esclusa dalla copertura sanitaria di coloro che, pur avendo acquistato un’assicurazione privata, riceveranno in qualsiasi misura i sussidi pubblici previsti dalla riforma.

La bocciatura di tale norma sull’aborto, approvata invece dalla Camera nel quadro della trattativa tra le varie anime democratiche, rischia di privare il partito di maggioranza al Senato del voto del senatore del Nebraska, Ben Nelson. Fautore del discutibile emendamento assieme al collega repubblicano dello Utah, Orrin G. Hatch, Nelson è uno dei democratici più conservatori al Congresso e ha minacciato più volte di votare con l’opposizione sulla riforma sanitaria in caso il testo finale non contenga restrizioni all’accesso all’interruzione di gravidanza.

Dal momento che il Partito Democratico non potrà permettersi nemmeno una sola defezione tra le proprie file al momento del voto decisivo, il voto di ogni singolo senatore diventa fondamentale. Anche per questo motivo, l’iter legislativo della riforma sanitaria al Senato si sta trasformando in un crescendo di concessioni a quella manciata di democratici appartenenti alla destra del partito e alle due già citate senatrici repubblicane, le quali, uniche nel loro partito, potrebbero considerare un voto a favore.

Il complicato cammino della riforma del sistema sanitario americano procederà nei prossimi giorni con il voto su molti altri emendamenti presentati da entrambi gli schieramenti. Tra i più contrastati vi è quello introdotto da 16 senatori democratici e 4 repubblicani per permettere l’importazione di medicinali dal Canada e da altri paesi dove i prezzi risultano di molto inferiori a quelli applicati negli USA.

Su quest’ultimo tema, tuttavia, si è già espressa negativamente la numero uno della Food and Drug Administration (FDA), Margaret Hamburg (nominata da Obama la scorsa primavera), ufficialmente per scongiurare possibili incognite legate alla sicurezza dei farmaci importati. Più realisticamente, invece, per evitare nuovi scontri con le industrie farmaceutiche che, da tempo, hanno stipulato un patto con la Casa Bianca per fissare paletti ben precisi alle concessioni che da esse verranno estratte un volta approvata la riforma sanitaria.

di Mario Braconi

A quasi quattro anni dall'inizio della guerra in Iraq, la Gran Bretagna si interroga ancora una volta sulla legalità della sua malaugurata scelta bellica. Questa è la volta della Chilcot Inquiry, una commissione di inchiesta presieduta da Sir John Chilcot, il cui obiettivo è analizzare il coinvolgimento della Gran Bretagna nelle ostilità in Iraq dalla metà del 2001 fino al 2009. La commissione, apertasi lo scorso 24 novembre, si sta concentrando sulle "modalità con le quali si è svolto il processo decisionale (relativo all'invasione), al fine di determinare che cosa sia effettivamente successo e di trarre utili insegnamenti dalla passata esperienza. Il suo obiettivo dichiarato è assicurare che, qualora simili circostanze si verifichino in futuro (premessa spaventosa, n.d.r.), il governo che sarà al potere in quel momento si trovi nella condizione di gestirle nel modo più efficiace e nell'interesse del paese".

Perfino in un paese nel quale il controllo delle emozioni è considerato virtù nazionale (l'"immobile labbro superiore" britannico), l'adesione di Blair al folle progetto militare di Bush e dei suoi scagnozzi costituisce un trauma collettivo. Cui si spera di porre rimedio tramite il rituale delle commissioni d’inchiesta: la Butler Review (2004), il cui obiettivo era valutare il lavoro dell'intelligence britannica sulle - inesistenti - armi di distruzione di massa in Iraq e la Hutton Inquiry, che avrebbe dovuto indagare sul presunto "suicidio" del Professor David Kelly, esperto governativo di biologia, uno dei pochi ad aver letto in anteprima il celebre dossier del Governo britannico secondo cui Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa in grado di colpire la Gran Bretagna in 45 minuti.

Si tratta, in gran parte, di sedute di psicoanalisi collettiva. Per il resto, le commissioni si sono dimostrate uno spreco di tempo e denaro: la Butler Review, chiamata a giudicare sull'operato di servizi segreti che hanno costruito un casus belli su un dossier taroccato venduto sottobanco dal noto "sòla" Niccolò Pollari del SISMI direttamente alla Casa Bianca, si è limitata concludere che si poteva fare meglio, senza peraltro identificare i responsabili della vergognosa truffa costata migliaia di vite innocenti.

La Hutton Inquiry, dal canto suo, ha incredibilmente concluso che il professor Kelly si è suicidato; inoltre, la Hutton Inquiry, è ha censurato per lesa maestà Andrew Gillighan, il giornalista BBC che ha intervistato Kelly prima della sua morte misteriosa: si era infatti spinto a scrivere che "forse" Downing Street era a conoscenza della falsità del report - un'ipotesi che, leggendo quanto segue, è più che credibile. Per quanto la commissione abbia fatto il possibile per insabbiare il caso, lo scorso 5 dicembre sei medici hanno iniziato un'azione legale finalizzata a riaprire l'inchiesta sulla morte del professore: dal loro punto di vista, infatti, la recisione dell'arteria ulnare - causa di morte ufficiale di Kelly - non sarebbe stata sufficiente a causarne il decesso.

Come nota Adrian Hamilton sull'Independent, basta scorrere la lista dei membri della commissione Chilcot sull'Iraq per capire che anch’essa culminerà con la produzione di un "report che, dopo aver raccolto una montagna di documenti, interrogato infiniti testimoni, portato alla luce un po' di materiale interessante per far contenti i giornalisti", finirà per confermare che "ci sono stati sì problemi nel determinare la causa della guerra e gravi carenze nella pianificazione dell'occupazione militare, ma non c'era stata vera disonestà di intenti, nessuna vera intenzione di mentire al Parlamento, nessuna autentica illegalità".

Infatti, è difficile credere che i membri della commissione siano "assolutamente indipendenti" e dotati di punti di vista "eterogenei" come pure pretendono di essere. Non solo nessuno dei componenti, infatti, a suo tempo ha preso posizione contro la guerra in Iraq; non solo il suo capo, Sir Chilcot, è noto per essere stato uno degli esaminatori più molli della Butler Review - ma tra i suoi membri vi sono due storici, Michael Freedman, convinto assertore degli interventi militari "umanitari", e Martin Gilbert, che ammira Bush e Blair al punto da spingersi a paragonarli, rispettivamente, a Roosevelt e Churchill.

L'intervento di David Manning (ex consigliere dell'ex Primo Ministro Tony Blair sulla politica estera) davanti alla Commissione Chilcot è particolarmente interessante: secondo Mannig, nel corso dell'incontro presso il ranch della famiglia Bush in Texas (6 aprile del 2002), Blair, pur ammettendo che la politica del suo Paese era di sostenere le Nazioni Unite nel loro tentativo di disarmare Saddam Hussein, era "assolutamente disposto a considerare un cambio di regime nel caso le misure delle Nazioni Unite non avessero funzionato".

Dunque, Blair, fin dall'aprile del 2002 (vale a dire, circa 11 mesi prima dell'inizio delle ostilità) era pronto ad andare in guerra, anche se al Parlamento (e al Governo) continuava a dire il contrario: ad esempio, il 16 luglio 2002, la sua risposta alla domanda "ci stiamo preparando ad una guerra?" fu un secco diniego. Del resto, un documento segreto passato sottobanco al Daily Telegraph lo scorso 21 novembre (ma disponibile in rete sul sito Wikileaks dall'agosto del 2008), conferma che il Generale Graeme Lamb stava lavorando sull'ipotesi di una guerra addiritttura nel febbraio del 2002.

David Manning, inoltre, è rispettivamente autore e destinatario di due memo segreti, anche essi disponibili in internet (www.afterdowningstreet.org) dal 2005, che si rivelano altrettanto - se non più - imbarazzanti per Blair: nel primo, datato 14 marzo 2002, Manning riferisce al Primo Ministro di un incontro one-to-one con Condi Rice, nel quale i due hanno parlato diffusamente della questione Iraq. "E' evidente che Bush ti è grato per il sostegno e si è reso conto che per questa ragione ti stai rendendo inviso."

Scrive Manning a Tony Blair: "Gli ho detto che tu non cambierai idea sul tuo supporto all'idea del cambio di regime, anche se devi gestire una stampa, un Parlamento ed una opinione pubblica con orientamenti molto diversi da quelli americani. Ma gli ho anche detto che insisti nella tua idea che, se si deve operare un cambio di regime in Iraq, il tutto deve essere fatto con molta attenzione e produrre i risultati sperati. Non possiamo permetterci di fallire. La faccenda degli ispettori deve essere gestita in modo da convincere gli Europei e gli altri che gli USA tengono nella giusta considerazione la giustizia internazionale, nonché l'insistenza di diverse nazioni sull'esistenza di una base legale per dichiarare la guerra. Il ripetersi del rifiuto di Saddam ad accettare libere ispezioni può costituire un valido argomento".

Nel secondo, del 18 marzo 2002, Manning riceve la relazione dell'allora ambasciatore britannico negli USA, Christofer Meyer, sul contenuto di un incontro che quest'ultimo ha avuto con Wolfowitz (allora vice ministro della Difesa USA). Nel corso del meeting, scrive Meyer, "gli ho riferito che il Regno Unito sta pensando seriamente di pubblicare un documento che giustificherebbe la guerra." Questi documenti, certamente in grado di mettere in grave difficoltà Tony Blair, sono stati passati alla commissione Chilcot, anche se a Manning non è stato finora chiesto di commentarli.

L'eccessiva delicatezza della commissione ha fatto molto arrabbiare Philippe Sands, avvocato e professore universitario molto critico verso le politiche di Bush e Blair: "Sono rimasto scioccato dall'interrogatorio; sorpreso e deluso dalla decisione della commissione di non mettere Manning sotto pressione sui temi cui si riferiscono i due memo segreti", ha riferito al cronista del Guardian che lo ha interpellato.

Blair dunque era convinto di invadere l'Iraq sin dall'inizio, anche se, giustamente paventando una "rivolta pacifista", si è guardato bene dal far conoscere la sua strategia non solo al Parlamento, ma perfino ai membri del suo governo. Solo il 23 luglio 2002 i membri del gabinetto vennero informati della decisione del primo ministro di invadere l'Iraq. Qualche giorno più tardi Lord Goldsmith, Attorney General, scrisse un breve documento sulla sua carta intestata, firmandolo di suo pugno, nel quale sosteneva che: 1) un cambio di regime in Iraq non avrebbe reso legittima la guerra; 2) era esclusa la possibilità di attaccare l'Iraq con il pretesto della legittima difesa; 3) in nessun caso sarebbe stato possibile spacciare l'invasione dell'Iraq per intervento umanitario; 4) le delibere ONU degli anni Novanta contro Saddam non sarebbero state di alcuna utilità per i fini del governo inglese.

Insomma, almeno in un primo momento, Goldsmith decise di non vestire i panni dell'assolutore ufficiale di Blair. Anzi, mise nero su bianco le sue perplessità, cosa che fece infuriare Blair (aduso a comunicazioni verbali e con pochissimi testimoni) al punto da vietare a Goldsmith di partecipare alle riunioni di governo, a meno non vi fosse esplicitamente invitato dal premier.

Secondo il Daily Mail, foglio popolare e reazionario ma da sempre contrario alla guerra in Iraq, che ha rivelato il primo dicembre lo "scoop" della lettera di Goldsmith, egli è una persona onesta schiacciata dai mastini di Blair (la Baroness Morgan e Lord Falconer). E' possibile che i metodi di Blair e la sua allergia alla verità abbiano creato qualche problema a Sir Goldsmith; ma bisogna pur ricordare che c'è la sua firma sotto lo stringato documento datato 17 marzo 2003 (tre giorni prima dell'inizio della guerra in Iraq), con il quale, di fatto, egli sosteneva che la guerra era legale. Una squallida storia di vigliaccheria e di tornaconto personale, visto che Goldsmith deve tutto (titolo compreso) al suo vecchio amico Tony.

Anche se la commissione Chilcot non arriverà probabilmente da nessuna parte ed è comunque escluso che Blair venga accusato per crimini di guerra (per avere mandato la Gran Bretagna in guerra senza alcuna causa) e/o per violazione delle norme della convenzione di Ginevra (per aver spedito soldati al fronte con pochissima preparazione, causandone la morte nonché un non valutato "danno collaterale" civile), c'è almeno da augurarsi che l'opinione pubblica britannica (e non solo) si renda conto di che tipo di personaggio sia Tony Blair.

di mazzetta

In Africa ci sono tre paesi che condividono lo stesso nome, destini diversissimi e identiche, pessime, condizioni di vita della popolazione. Nel Golfo di Guinea si affaccia la Guinea Equatoriale, ex colonia spagnola benedetta dalla presenza del petrolio nelle sue acque territoriali. La Guinea Equatoriale ha un territorio continentale quasi disabitato e due isole nel golfo, dove c'è la capitale e dove risiede la maggior parte della popolazione, composta di appena seicentomila anime. Nonostante un reddito pro-capite tra i più alti d'Africa, gli equato-guineani sono in genere tra i più poveri del continente a causa della rapina sistematica delle finanze nazionali da parte della famiglia presidenziale, a confermarlo ci sono la centoquindicesima posizione nell'indice dello sviluppo umano e la presenza stabile nella top ten dei paesi più corrotti.

Il presidente si chiama Teodoro Obiang ed ha appena trionfato alle elezioni per il secondo mandato con il 95,37% dei voti, inferiore al 97% raccolto la prima volta. Non c'è bisogno di dire che gli osservatori internazionali hanno dichiarato le elezioni una farsa. Già così non è una gran bella presentazione, ma in realtà c'è di peggio, perché Obiang è al potere dal 1979, anno nel quale si auto-promosse leader dalla posizione di capo della polizia del regime, uccidendo suo zio e prendendone il posto.

Insieme allo zio Obiang aveva già fatto scappare centomila guineani dal paese, un terzo degli abitanti d'allora. I “due mandati” citati dalla stampa sono quelli relativi al nuovo secolo, quando ha dovuto inscenare le elezioni per darsi una minima presentabilità. Non dovrebbe essere difficile “portare la democrazia” in Guinea Equatoriale, ma gli ottimi rapporti di Obiang con la EXXON, che ne fanno il terzo fornitore africano di petrolio degli USA e il prezzo di assoluto favore per le concessioni, hanno fatto diventare invisibili alle opinioni pubbliche occidentali Obiang e il suo regime.

Quando nel 2004 un gruppo di spietati mercenari africani, in combutta con Mark Thatcher, ha cercato di rovesciarlo, Obiang è riuscito a prevenire il colpo con l'aiuto del collega Mugabe, ha arrestato i mercenari (qualche decina) li ha condannati all'ergastolo. Li ha poi rilasciati solo recentemente per “ragioni umanitarie” facendoci pure bella figura. La consistenza militare di Obiang è prossima allo zero, tanto che per la sua sicurezza personale si avvale di guardie marocchine, mentre la capitale si è dimostrata vulnerabile persino alle incursioni di “pirati” nigeriani.

I buoni rapporti con gli americani gli sono tanto cari che spende milioni di dollari per l'opera di agenzie di lobbying e di costruzione dell'immagine negli Stati Uniti, ma con l'Onu proprio non gli riesce d'andare d'accordo: quando l'Onu si è lamentata per l'assenza di libertà e per lo scarso rispetto dei diritti umani, lui ha represso; quando gli ha fatto notare lo stato della baraccopoli accanto alla capitale; l'ha fatta radere al suolo dalle ruspe.

Più a Nord c'è la Guinea e basta, o Guinea Conakry, la più grande delle tre. Ex colonia francese è stata la prima ad affrancarsi dalla Francia nel 1958. Dieci milioni di abitanti, famosa per la bauxite e altre risorse naturali, anche questa Guinea ha avuto un solo leader per molti anni e due in tutto dall'indipendenza: l'impresentabile Lansana Conte dal 1984 e il suo predecessore Tourè, decisamente più socialisteggiante. Sorvolando sui suoi meriti e sui massacri che ha ritenuto necessari per conservarsi al potere, Conte ha avuto il cattivo gusto di morire questa estate senza preoccuparsi della successione e suo figlio non ha avuto la presenza di spirito sufficiente ad imporsi alla sua morte. Molto più veloce è stato il capitano Moussa Camarà, che alla morte del dittatore ha preso il potere con pretese moralizzatrici e grande spendita di buone intenzioni.

Poi è finita che Camarà non ha ancora materializzato le elezioni promesse e ha annunciato che, contrariamente a quanto annunciato per dirsi nobilmente disinteressato, si presenterà candidato alle presidenziali. Dopo aver accusato alcuni funzionari governativi e lo stesso figlio di Conte di traffico di droga, li ha però perdonati, preferendo accanirsi sulla “società civile” e sui politici d'opposizione. Opposizione intimidita anche con un vero e proprio massacro, quando le sue truppe hanno sparato sugli oppositori riuniti pacificamente in uno stadio e poi si sono dati allo stupro di decine di povere donne in giro per la città. Camarà ha dato la colpa all'opposizione e annunciato un'inchiesta, ma da quel giorno il suo capitale di credibilità è crollato, all'interno come all'estero.

“La sua politica non piacque, dopo tre mesi morì.” È il sunto della storia politica di uno dei tanti consoli romani che c'era sul mio libro di storia alle superiori, un epitaffio che poteva calzare benissimo anche per Camarà, se non fosse che il suo braccio destro gli ha sparato, ma non è riuscito ad ucciderlo. Sulle sue condizioni c'è ora un certo riserbo, è stato portato in Marocco per essere curato, mentre il vice-presidente è rientrato di gran carriera dall'estero e le notizie -necessariamente ottimiste- sulla sua salute, non sono verificabili. Il barometro politico tende al pessimismo, massacri e miseria ancora più nera sembrano dietro l'angolo a Conakry, Francia e vicini osservano interessati.

Ancora più a Nord c'è la Guinea-Bissau, ex colonia portoghese, un milione e mezzo di abitanti e un fantastico regime multipartitico che rappresenta una rarità per l'Africa Occidentale post-coloniale. La Guinea Bissau è diventata indipendente solo nel 1975, dopo una guerra vinta contro il regime fascista portoghese con l'aiuto di Cuba e di altri paesi, che ha portato anche all'indipendenza di Capo Verde. A lungo governata da Luis Cabral, fratello del defunto eroe della resistenza Amilcar Cabral, ha poi avuto un'evoluzione simile a quella di molti paesi dello spazio ex-sovietico, con il mantenimento del potere nelle salde mani dell'apparato militare e la guida affidata a un leader proveniente dai ranghi del vecchio potere.

Questa estate alcuni militari hanno ucciso il presidente Vieira, poche ore dopo l'assassinio del capo dell'esercito. Nelle settimane a seguire molti altri dell'entourage di Vieira sono passati a miglior vita, senza che alcuno rivendicasse l'uccisione del leader civile e di quello militare, la certificazione della verità è stata affidata a una commissione priva di poteri e di finanziamenti. La lotta invisibile all'interno degli apparati militari guineani ricalca lo stile severo di stampo sovietico e lo stesso Vieira nel '99 aveva purgato i ranghi militari sterminando gli oppositori prima d'affrontare le “elezioni”.

Che le elezioni siano state free&fair dopo accadimenti del genere non deve stupire, il potere guineano in questo caso non vive d'apparenza, ma all'ombra dello stato nascosto, quasi clandestino, costruito ai tempi della lotta anti-coloniale. Le elezioni si sono tenute, il vincitore è stato riconosciuto dal suo principale avversario e non ci sono stati moti di piazza e nemmeno stragi, a suo modo un risultato eclatante. Anche in questo caso il problema principale è rappresentato dalle ingerenze straniere, che nel caso assumono la forma del grande traffico internazionale di cocaina, che usano la Guinea come piattaforma di lancio verso i ricchi mercati occidentali, un flusso di denaro che attira l'interesse degli apparati di sicurezza e rischia di trasformare la Guinea in un narco-stato.

Potenze meno rilevanti di quelle del colonialismo economico e nazionalista, ma potenze che hanno la forza sufficiente per affermarsi in un piccolo paese castrato dalle ambizioni di una casta militar-poliziesca che ha poco interesse per lo sviluppo del paese e ancora meno per le condizioni di vita dei concittadini.

Per quanto diverse possano essere le storie e le cronache delle tre Guinea, per quanto possano essere ricche o povere, il destino della loro popolazione è straordinariamente simile e prevede un reddito inferiore al dollaro al giorno, pochi diritti, zero servizi e una buona dose di violenza. Nonostante le differenze, i tre paesi vivono al di sotto dell'attenzione dell'opinione pubblica globalizzata, segno che in fondo a molti va bene così.


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