di Fabrizio Casari

Dopo due mandati presidenziali di Bush, che avevano in qualche modo messo in secondo piano il continente latinoamericano nelle strategie imperiali, l’Amministrazione Obama ha deciso di voltare pagina. Dieci anni continuamente segnati dalle vittorie della sinistra nella maggior parte del continente e da una crescente integrazione tra le economie dei paesi a sud del Rio Bravo, hanno infatti ricapultato l’attenzione degli Usa verso l’America latina. La visita di Hillary Clinton è un segnale di attenzione importante e dai significati chiari. La missione del Segretario di Stato, ormai vera e propria voce sostitutiva di Obama in politica estera, nasce proprio dall’intenzione di ribilanciare, in ogni modo, le condizioni sfavorevoli nelle quali gli Stati Uniti si trovano nel subcontinente.

Cercare d’invertire la rotta politica del continente non sarà però semplice. Se l’obiettivo appare evidente - riproporre la centralità della Casa Bianca nella governance latinoamericana - i mezzi a disposizione non sono molti. Sul come fare, poi, le idee in proposito sono le solite: ridare fiato alle elites locali fedeli a Washington, riaprire l’antico e consumato refrain di bastone e carota per nemici ed amici, tentare di dividere il fronte progressista tra “moderati” e “radicali”.

Naviga controcorrente la signora Clinton; arriva nel continente proprio pochi giorni dopo il battesimo di una nuova comunità latinoamericana (che non prevede la presenza statunitense) destinata all’incremento significativo dell’integrazione regionale economica e finanziaria. Progetto che, inevitabilmente, se vedesse un suo sviluppo positivo e duraturo, comporterebbe una maggiore unità politica centro-sudamericana ed una maggiore evidenziazione degli Stati Uniti quale elemento esterno alle dinamiche economiche e sociali latinoamericane. Per non dire di quelle politiche: il Washington consensus è già defunto da un pezzo, almeno da quanto lo è l’ALCA, che la signora Clinton conosce bene in quanto l’ideatore fu proprio suo marito.

Del resto la signora Clinton non arriva con il migliore dei biglietti da visita. Il suo ruolo di sostegno ai golpisti honduregni è stato evidente; a poco sono servite le lievi parole di condanna, pronunciate peraltro fuori tempo massimo. Sotto il tallone golpista sono rimasti schiacciati le buone intenzioni del Vertice di Trinidad e Tobago, nel quale Obama si presentò, appena eletto, a proporre una svolta positiva nelle relazioni tra Usa e America latina. E mentre sono rimaste parole le aperture su Cuba, sono diventati fatti (tragici) le promesse di reintervenite nell’area: IV Flotta a spasso nei Caraibi, minacce al Venezuela e golpe in Honduras.

E che in politica estera sia la Clinton a decidere - e non Obama - la linea della Casa Bianca, se ne possono trarre illuminanti indicazione anche dalle posizioni assunte sullo scenario mediorientale e nei confronti dell’Iran. Infatti, a seguito del discorso del Cairo, nel giugno 2009, dove Obama annunciò l’intenzione di avviare nuove relazioni con l’Iran, Hillary Clinton si affrettò a correggere il tiro con nuovi accordi con Israele e nuove minacce a Teheran. Obama, impegnato a fronteggiare la crisi economica e le pressioni del Congresso (e della maggioranza conservatrice del suo stesso partito) sulle politiche sociali, ha evidentemente delegato alla Clinton - rappresentante delle elites bianche che formano il complesso militar-industriale statunitense - la politica estera e la conquista di nuovi mercati, dove scaricare costi ed eccedenze ed estrarre materie prime e profitti. Insomma, le politiche imperiali, il vero core business dell’azienda Usa.

E’ in questa chiave che la signora dei poteri forti si presenta in America latina. Esplorare la possibilità di riconquistare egemonia nella regione. Rafforzare i legami bilaterali con Messico, Perù, Colombia e Cile, che insieme a Panama e Honduras sono i paesi del continente che dalla Casa Bianca prendono indicazioni e ordinativi; nello stesso tempo, tentare di sganciare il Brasile dal Venezuela, dall’Ecuador e dalla Bolivia, paesi sui quali il Segretario di Stato Usa cercherà di aumentare la pressione. Rispetto solo ad un anno fa, Cile, Panama e Honduras hanno cambiato campo e l’Argentina progressista non dorme sonni tranquilli. Gli Stati Uniti si riaffacciano sul continente. Servirà un’ancora maggiore coesione politica del fronte democratico latinoamericano per riaffermare le giuste distanze.

 

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