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di mazzetta
La storia del Gabon è incredibilmente simile a quella degli altri paesi che componevano l'Africa Equatoriale Francese prima che Parigi concedesse l'indipendenza alle colonie. Giunto all'indipendenza, elesse il suo primo presidente, Leòn Mba, che presto rivelò tendenze dittatoriali, chiudendo i giornali dell'opposizione e modificando la Costituzione in senso presidenzialista. Sempre più violento e sempre più dittatore, Mba conobbe la rivolta dei gabonesi quando cercò di sciogliere l'Assemblea Nazionale (il Parlamento) e instaurare un regime a partito unico.
Rivolta presto sedata dalle truppe francesi di stanza nel paese, intervento che si ripeterà identico nelle altre ex-colonie fino ai giorni nostri. Gli ultimi interventi del genere, negli ultimi anni sono stati in Costa D'avorio, Ciad e Repubblica Centrafricana, ma hanno raccolto ben poca attenzione. All'epoca la Francia sollevò roventi proteste internazionali, ma non le tenne in alcun conto. Alla morte di Mba, nel 1967, salì al potere Omar Bongo Ondimba, che vi è rimasto fino alla morte pochi mesi fa. Fine della storia del Gabon dal dopoguerra a oggi. L'ultimo capitolo, quello più attuale, é relativo alla successione ad Omar Bongo ed è ancora in fieri. Per il momento sembra che il testimone passerà a suo figlio Alì Bongo, che dicono abbia vinto le elezioni.
Il Gabon è un paese grande quasi come l'Italia, con solo un milione e mezzo di abitanti, la capitale Libreville ne conta cinquecentomila e, geologicamente, è un territorio ricco. Nonostante la sua indubbia ricchezza, il paese é indebitato e gli abitanti non se la passano troppo bene. Sembra che in più di quarant'anni al potere, Bongo abbia pensato soprattutto a sistemare la famiglia, che infatti possiede o controlla le più importanti imprese del paese e proprietà enormi anche all'estero, niente che potesse acquisire con i magri stipendi ufficiali delle pur numerose cariche coperte dai familiari nei decenni.
Una ricchezza che non ha mancato d'attirare l'attenzione internazionale, tanto che in Francia hanno aperto un processo a Bongo e congelato alcuni dei suoi beni. Ma quella con la Francia è una relazione che va oltre queste contingenze e così Alì Bongo ha potuto contare sul sostegno di Sarkozy. La vittoria di Bongo jr consente agli interessi consolidati la maggiore tranquillità e tra questi ci sono sicuramente quelli francesi.
Insieme al clan Bongo fanno affari Vincent Bollorè, Total e molti altri big della finanza francese, le risorse del Gabon sono sempre finite in mani francesi a prezzi di favore. Una collaborazione flessibile che ha saputo tenersi al passo con i tempi, così quando i maggiori acquirenti di materie prime sono diventati i cinesi, Vincent Bollorè e Pascaline Bongo hanno costituito una società (Gabon Mining Logistic) che si è assicurata il monopolio del trasporto delle risorse minerarie. Pascaline Bongo è la figlia di Omar Bongo e ha gestito a lungo gli affari di stato, è vicepresidente di Total Gabon, amministratrice della principale banca gabonese e con Bollorè ha anche comprato la televisione 3A Telesud, uno dei pochi network televisivi panafricani, per conquistare il quale ha fatto platealmente ricorso alla forza militare quando la forza del denaro si è dimostrata insufficiente. In Gabon ci sono diverse televisioni e appartengono tutte a ministri o alla famiglia Bongo, l'opposizione è confinata su Internet, il controllo del network serve ad avere voce in altri paesi africani.
Alì Bongo invece è stato a lungo ministro della difesa e probabilmente il controllo dell'esercito è stato decisivo nel promuoverlo alla successione del padre avanzando la quotatissima sorella. Hanno giocato a suo favore anche le amicizie consolidate con la seconda generazione degli autocrati coloniali di Francia, dal sovrano del Marocco al figlio del camerunense Wadè; Alì gode di ottime relazioni internazionali ed è definito “inquietante” da più di un osservatore.
Il partito bonghista dominante ha comunque schierato ben quattro candidati alle presidenziali, tra i quali anche il marito di Pascaline, che fa il ministro degli Esteri.
La finzione dominante vuole che nelle colonie francesi d'Africa si sia passati a regimi democratici e al multipartitismo negli anni '90, ma la realtà testimonia che i vecchi dittatori hanno passato indenni la prova e sono rimasti al potere con la collaborazione fondamentale di Parigi, che anche sotto Mitterand ha sempre menato le danze con mano ferma e totale mancanza di scrupoli.
Anche in questo caso il modello trova conferma nella cronaca, che registra maretta in Francia, maretta causata da alcune sbavature nell'esecuzione di un copione che pure dovrebbe essere conosciuto a memoria. Sarkozy è stato un po' troppo precipitoso a riconoscere la vittoria di Alì, subito seguito a ruota dal sovrano del Marocco. Vittoria che è giunta dopo che i primi dati parziali lo davano solo terzo, tra le richieste delle opposizioni di controlli sul processo elettorale.
Avrebbe raccolto il 41% dei voti con i due principali concorrenti (non di famiglia) fermi a un identico 25% ciascuno, ma per Parigi i ricorsi annunciati dall'opposizione non hanno particolare rilevanza. Gli osservatori internazionali che hanno validato le elezioni sono francesi (alcuni elementi di destra dalla pessima reputazione) o inviati da altri paesi vicini, non esattamente campioni di democrazia.
I gabonesi non l'hanno presa bene e a Port Gentil hanno dato fuoco a proprietà della Total e scatenato la caccia al francese, tanto che i francesi sono stati evacuati dalla cittadina, l'esercito gabonese è schierato solo nella capitale a difesa delle “istituzioni. Le forze di sicurezza hanno quindi sparato sulla folla che dimostrava nella capitale, anche se le proteste non erano violente. Ci sono state manifestazioni a Parigi contro la Francafrique che è il termine che identifica il sistema di dominio post-coloniale francese. Niente di originale, Parigi è spesso costretta a evacuare in fretta i suoi in queste occasioni e non si stupisce nessuno.
Ciononostante, il signor Robert Bourgi ha cominciato ad apparire in televisione mettendo in crisi il governo Sarkozy. Bourgi è avvocato e faccendiere di origine libanese che da anni riveste il ruolo di collegamento tra Parigi e Libreville e, pur mandato in televisione per rinforzare la pretesa di Sarkozy di essere al di sopra di qualsiasi sospetto, si è lasciato scappare il racconto di accordi e di sostegni presidenziali al figlio di Bongo. La socialista Martine Aubry a quel punto ha attaccato a testa bassa e accusato Sarkozy di sostenere le dittature invece di favorire lo sviluppo delle democrazie e presto è stata seguita dal resto delle sinistre all'assalto dell'Eliseo.
Alì Bongo intanto dimostra che buon sangue non mente e ha già detto che non accetterà accordi di governo di coalizione: il presidente eletto è lui, poco importa se non ha raccolto la maggioranza dei voti e ancor meno l'esito dei ricorsi. Sarkozy può lamentarsi dell'imprevisto, ma ormai è certo che il piano é andato a buon fine: l'opposizione non ha alcuna speranza di scavalcare la volontà di Alì, già accolto con favore dalla comunità dei suoi pari africani. Solo un improbabile confronto con la sorella Pascaline potrebbe indebolire la presa della famiglia sul paese, ma se Alì si comporterà bene nei suoi riguardi, il sistema costruito dal padre potrà proiettarsi nel futuro con ottime speranze di sopravvivenza, con grande soddisfazione di chi attualmente ne guadagna.
Come sempre accade, le vicende nelle colonie francesi non sollevano la minima obiezione in Europa, dove sembra che sia in vigore una specie di “eccezione francese” sulla politica africana. In Africa l'Unione Europea resta al traino dell'iniziativa della Francia, che sembra agire senza consultare nessuno, avendo in mente solo gli interessi di una ristretta cerchia di politici nei due continenti. Un'eccezione fin troppo evidente, per non pensare che, prima o poi, l'Unione Europea sarà chiamata a rendere conto, insieme alla Francia, degli intrighi che da decenni piagano l'Africa e gli africani.
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di Michele Paris
In occasione del primo anniversario del tracollo della banca di investimenti Lehman Brothers, che diede l’avvio ufficiale alla crisi economica tuttora in atto, il presidente Obama ha tenuto un discorso di fronte ai rappresentanti di Wall Street che è sembrato assumere a tratti i toni della supplica. Un appello quasi disperato ad un pubblico molto influente per consentire l’approvazione di una serie di regolamentazioni del settore finanziario, peraltro di portata del tutto trascurabile. Lo spettacolo di un presidente costretto a invocare gli stessi principali responsabili del tracollo dell’economia planetaria per sbloccare un provvedimento fermo in Senato dal mese di giugno è apparso tutt’altro che edificante. Così come i rimproveri e gli ammonimenti rivolti alla platea ben poco hanno potuto per contrastare la profonda influenza esercitata dall’élite finanziaria sulla Casa Bianca e sull’intero sistema politico americano.
L’avvertimento di Obama, che non saranno tollerati “ulteriori eccessi e comportamenti irresponsabili di quanti erano motivati esclusivamente dal loro appetito per bonus gonfiati”, deve essere suonato ironico ad una comunità di speculatori che ha ripreso le stesse identiche modalità d’azione che hanno condotto al caos finanziario ormai dodici mesi fa. L’uomo che Wall Street ha generosamente contribuito a far eleggere lo scorso mese di novembre, come il suo predecessore, ha promosso d’altra parte il colossale intervento governativo per salvare quelle istituzioni finanziarie finite sull’orlo del collasso, proteggendo la ricchezza dei loro manager e scaricando i debiti da loro accumulati sulle spalle dei contribuenti.
Per quanti discorsi siano stati sprecati sulla necessità di porre dei freni alle pratiche speculative di questi giganti finanziari, pressoché nulla è stato fatto finora da parte del governo o del Congresso. Anzi, le banche salvate dal denaro pubblico (“bailed out”) hanno fatto segnare nuovamente, almeno a partire dal mese di marzo, profitti da capogiro e i compensi riservati ai loro dirigenti hanno raggiunto cifre astronomiche. In un certo senso, addirittura, l’intervento governativo nell’ambito della finanza a stelle e strisce ha in qualche modo ingigantito il problema.
La sparizione di Lehman Brothers, ma anche di Merrill Lynch (assorbita da Bank of America), Bear Stearns (da JP Morgan), Wachovia (da Wells Fargo), Washington Mutual e altre ancora, ha consegnato infatti un maggiore controllo del mercato alle grandi banche rimaste in piedi grazie a miliardi di dollari del Tesoro e ad amicizie influenti alla Casa Bianca. La teoria del “too big to fail”, troppo grande per essere lasciata fallire, consente loro oltretutto di operare in tutta tranquillità e con la certezza del paracadute pubblico in caso di difficoltà future.
A mettere in guardia circa la situazione che si sta venendo a creare e per i possibili rischi a breve scadenza è stato, tra gli altri, anche il premio Nobel Joseph Stiglitz, stimato economista keynesiano ed ex consigliere del presidente Clinton. “Negli Stati Uniti e in molti altri paesi, le banche troppo grandi per essere lasciate fallire sono diventate addirittura più grandi dopo la crisi. I rischi perciò sono maggiori rispetto alla vigilia della crisi economica nel 2007”.
In molti hanno poi fatto notare quanto poco sia cambiato nell’industria finanziaria malgrado gli effetti negativi causati dalla crisi siano stati i più duri dagli anni Trenta. La massa enorme di debito delle banche in affanno e della quale si è fatto carico il governo americano, inoltre, minaccia di esporre ad un rischio di tracollo lo stesso sistema creditizio del paese, in caso di una nuova bolla speculativa nei prossimi anni.
La misura dei possibili effetti del richiamo di Obama, sempre nel suo discorso alla Federal Hall di New York, è facilmente riscontrabile in almeno un paio di resoconti pubblicati dai media americani begli ultimi giorni. Un analista londinese di JP Morgan Chase, nel corso di un’intervista al New York Times, ha dichiarato di “non conoscere una sola persona a Wall Street che si rechi al lavoro ogni mattina con in mente qualcosa di diverso dal modo in cui aumentare il proprio bonus personale a fine anno”. La testata on-line Politico.com ha invece dedicato un pezzo al nuovo CEO del gigante delle assicurazioni AIG, che ha ricevuto oltre 180 miliardi di dollari dal governo americano. Robert Benmosche, la cui gratifica per il 2009 toccherà i 9 milioni di dollari, avrebbe infatti acquistato una villa principesca sulla costa della Croazia, con “dodici bagni, tappeti italiani e arazzi francesi del 18esimo secolo”.
Ai cauti rimproveri rivolti ai geni della finanza di Wall Street, Obama ha alternato però anche un’appassionata rassicurazione riguardo alla sua fiducia nel mercato. “Ho sempre creduto fortemente nel potere del libero mercato”, ha affermato il presidente. “La creazione dei posti di lavoro non deve essere affidata al governo, bensì al mondo degli affari e a quegli imprenditori disposti ad assumersi i rischi per mettere in pratica una buona idea”. Tutto l’opposto insomma dell’operato di una classe parassitaria che ha reso necessario l’intervento pubblico per evitare una catastrofe ancora maggiore di quella dell’ultimo anno.
Obama ha inoltre descritto il suo piano di riforma del sistema finanziario come il “più ambizioso progetto dai tempi della Grande Depressione”. Un’affermazione lontana anni luce dalla realtà dei fatti, dal momento che la legge approvata dalla Camera dei Rappresentanti e in attesa del voto del Senato contiene ben poco delle riforme strutturali messe in atto da Franklin D. Roosevelt negli anni Trenta.
Nessuna traccia vi è infatti della legislazione sul sistema bancario, smantellata a poco a poco negli ultimi tre decenni di rivoluzione liberista. Nulla che ricordi, ad esempio, le disposizioni del Glass-Steagall Act del 1933, l’atto legislativo soppresso nel 1993 - con il Gramm-Leach-Bliley Act - e che proibiva, tra l’altro, ad un unico soggetto di agire contemporaneamente da banca commerciale, banca di investimento e compagnia di assicurazioni.
Uno dei punti centrali e più controversi della riforma riguarda la creazione di una nuova agenzia che dovrebbe garantire maggiore protezione gli investitori (Consumer Financial Protection Agency). Il nuovo ente, ben lungi dal disporre degli strumenti necessari per ottenere lo scopo previsto, si limiterebbe piuttosto a un controllo teorico del credito al consumo e avrebbe, in definitiva, lo stesso potere attualmente suddiviso tra svariate agenzie di regolamentazione. Come se non bastasse, anche in questa versione molto annacquata, l’agenzia in questione è fortemente ostacolata dalle banche d’investimento e dai loro lobbisti.
Lo stesso dicasi inoltre per la regolamentazione, a dir poco indulgente, del mercato dei derivati, per la proposta di assegnare alla Federal Reserve la facoltà di controllo dei mercati finanziari e per le nuove norme sul salvataggio delle istituzioni in difficoltà, estesa anche a soggetti diversi dalle banche. Il tutto, rigorosamente, senza alcun reale limite o restrizione alle rischiose attività finora intraprese dai maghi della finanza e che hanno determinato una crisi economica devastante.
Come sta accadendo per la riforma della sanità e per molti altri provvedimenti usciti dal Congresso, in definitiva, il prodotto della legislazione per stabilire nuove regole al sistema finanziario americano sarà inevitabilmente modellato dall’attività delle lobby dei giganti di Wall Street. A conferma di ciò, basti citare i numeri raccolti dagli organismi non governativi che monitorano gli esborsi delle grandi aziende a beneficio dei politici di Washington e le loro attività.
Oltre ad aver fornito un supporto economico fondamentale per l’elezione di molti politici di entrambi gli schieramenti, l’industria finanziaria, assieme alle compagnie di assicurazioni e al settore immobiliare, ha già speso oltre 50 milioni di dollari in contributi elettorali nel solo anno in corso e si avvale dei servizi di una schiera di ben 2.300 lobbisti per curare i propri interessi al Congresso. In questa prospettiva, le ambizioni di riforma di Obama risultano irrimediabilmente compromesse ancor prima dell’approvazione di un testo definitivo.
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Il Nord dell’Uganda è perseguitato da una feroce guerra intestina da numerosi anni. L’esercito del comandante Kony, un delirante mistico in abiti militari, minaccia indisturbato il territorio e le persone. La gente non lavora, non coltiva i campi, una porzione di paese appassisce nella paura. La caccia all’uomo, diventata nel tempo poco credibile, continua senza sosta e l’esercito regolare di Kampala ha ottenuto l’autorizzazione dalla Repubblica Centrafricana per operare nei territori di sua competenza dove sembra si siano nascosti alcuni dei ribelli al seguito di Kony.
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NEW YORK. Le foto dei contractors americani della ArmorGroup, ubriachi, nudi e dediti a pratiche sessuali a bordo piscina, hanno fatto il giro del mondo in un baleno e stanno provocando reazioni a catena a Washington. A mezza strada tra Villa Certosa e “Il signore delle mosche”, i responsabili della società di mercenari che gestisce la sicurezza dell'ambasciata americana a Kabul, hanno sistematicamente abusato e minacciato i 450 dipendenti americani e il personale locale afghano lungo un periodo di due anni. Il contratto da 189 milioni di dollari della ArmorGroup, rinnovato due volte da un Pentagono già al corrente di questi episodi, è ora sotto scrutinio. Con il consenso per la guerra in caduta libera, lo scandalo sta spingendo l'ala più liberale dei democratici a parlare di una exit strategy dall'Afghanistan, a cui per il momento Obama si oppone fermamente.
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Il via al cemento è la risposta del ministro israeliano della Difesa, Ehud Barak, alle richieste dell’amministrazione americana, che da mesi insiste per ottenere da Israele un chiaro impegno a congelare la colonizzazione in Cisgiordania. Cinquecento nuovi alloggi che verranno costruiti in zone già strappate ai palestinesi; quartieri a ridosso delle città - colonia che il governo considera propaggini del territorio israeliano e quindi, come tali, appartenenti al così detto “versante israeliano della barriera di sicurezza”. Un modo strano di interpretare il diritto e la geografia ma efficace e per mettere a tacere i “falchi” della destra ultraortodossa e sionista che tengono in scacco il governo e che in cambio sono disposti a chiudere un occhio sull’impegno preso da Netanyahu con gli Stati Uniti su una “moratoria” alla colonizzazione.