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di Luca Mazzucato
New York. Quelli che “Barack Obama non è presidente: é nato in Kenya.” Quelli che “il governo vuole staccare la spina alla nonna per pagare la riforma sanitaria.” Quelli che “Obama è un nazista, o magari un socialista.” Dopo il fuggi-fuggi dalla corazzata neocon e la scomparsa del clan di George W. Bush, il Partito Repubblicano si è trasformato in un'armata Brancaleone, il cui unico scopo é affondare Barack Obama, costi quel che costi. La leadership del partito è stata scippata dai popolari commentatori radiofonici e televisivi di estrema destra che, come Rush Limbaugh e Glenn Beck, che grazie al megafono di Fox News arringano folle di bianchi inferociti dal presidente “abbronzato.”
Il primo assaggio si era avuto durante la campagna elettorale dello scorso anno con il movimento dei birthers, che potremmo tradurre come “nascitari”. I birthers, il cui nome rifà il verso ai famosi truthers (il movimento che chiede di riaprire le inchieste sull'Undici Settembre), hanno sollevato il dubbio che Barack Obama sia ineleggibile, in quanto segretamente nato in Kenia. Per mettere fine a queste dicerie, il presidente ha messo in rete una copia del suo certificato di nascita depositato alle Hawaii, ma ovviamente la dura realtà è incapace di scalfire le profonde convinzioni di questi repubblicani.
La demenza ha contagiato persino la leadership repubblicana, che ha cavalcato l'onda anomala dei birthers pur sapendo trattarsi di pura spazzatura. Nei comizi in giro per il paese, i deputati repubblicani spesso ripetono gli slogan dei birthers, ottenendo immancabilmente fragorose ovazioni. Ma si sono spinti più in là, portando questa follia fino al Congresso. Per strizzare l'occhio ai birthers, alcuni repubblicani hanno presentato una proposta di legge che obbligasse i candidati alla presidenza a presentare il certificato di nascita (proposta poi bocciata).
Alla domanda di una giornalista su cosa il presidente pensasse di fare al riguardo, il portavoce della Casa Bianca Gibbs ha alzato le spalle, osservando che “il certificato di nascita del presidente è pubblico, con quindici dollari vai all'anagrafe di Honululu e puoi leggere l'originale.” Ma vuoi mettere la gioia di poter urlare che Obama non è mai stato presidente? Inestimabile!
La parola definitiva sui birthers la dà l'Urban Dictionary, che definisce birther “colui che lotta per il diritto di sposare il proprio cugino,” un pacato riferimento al fenomeno del cretinismo delle valli, che ha reso possibile la nascita e la radicazione di questo movimento, forte di centinaia di migliaia di sostenitori bianchi, di mezza età, armati e incazzati.
Il movimento dei birthers è stato il primo esempio di una nuova visione della politica. Privi di leadership e di argomenti validi dopo aver affossato contemporaneamente Iraq, Afghanistan, Wall Street e il bilancio statale, i senatori e deputati del Grand Old Party hanno preferito affidarsi alle schegge impazzite della destra conservatrice. L'idea è semplice: cementare una base di irriducibili tra gli antiabortisti, gli amanti delle armi, i suprematisti bianchi, insomma tutti quelli che odiano il presidente senza se e senza ma, per riportare il partito verso magnifiche sorti e regressive.
Quello che nessuno si aspettava, è che la strategia di inondare il discorso pubblico d’idiozie sparate a tutto volume sta avendo un discreto successo e rischia di affondare il progetto cardine della presidenza Obama: la riforma sanitaria. Nella battaglia sulla sanità si sono sposati due aspetti della galassia conservatrice: la demenza pura dei birthers con il fiume di dollari delle potentissime assicurazioni sanitarie.
A colpi di denaro sonante, la lobby delle assicurazioni sanitarie ha comprato tutti i senatori repubblicani (uno spreco, potevano averli gratis!), insieme ad un manipolo di democratici centristi detti Blue Dog, cruciali per bloccare la riforma: è la nascita del movimento dei deathers, ovvero i “mortuari.”
Il soprannome deve la sua origine alle ripetute dichiarazioni di politici repubblicani, tra i quali spicca la rediviva Sarah Palin, secondo i quali la riforma sanitaria di Obama nasconde il progetto del governo di “staccare la spina alla nonna.” La senatrice Virginia Foxx, ad esempio, non la manda a dire e in Senato tuona: “Questa riforma ha come obiettivo mettere a morte gli anziani!” Secondo il senatore Louie Gohmert, poi, “gli anziani verranno messi in liste ed uccisi.”
La lista di slogan partoriti dal settore marketing delle assicurazioni sanitarie e vendute dai senatori repubblicani è esilarante e a verbale della discussione al Senato. Il governo dovrebbe istituire dei “comitati della morte” (death panels, da cui il nomignolo deathers), che dovranno valutare l'utilità sociale di ogni singolo anziano e decidere se vale la pena tenerlo in vita, o non conviene forse staccare la spina. I senatori più temerari, come il segretario del Partito Repubblicano Michael Steel, svelano che Obama userà i registri elettorali per eliminare i soli anziani registrati come repubblicani.
Allo sfortunato Newt Gringich, purtroppo, alcuni giornalisti hanno fatto notare che “di questa proposta non c'è alcuna traccia nel disegno di legge!” Al che Gringich ha seguito la classica scuola Ghedini: “Ma va là! La legge è lunga un migliaio di pagine!” E, con pacato buonsenso, ha paragonato Barack Obama al compianto Adolf Hitler, ricordando che i nazisti sono stati i primi ad introdurre l'eutanasia per gli anziani e i disabili.
La storia dei “comitati della morte” ha fatto il giro del paese alla velocità della televisione e in breve i Town Hall Meetings (frequenti incontri tra deputati e cittadini, una consuetudine della democrazia americana) si sono trasformati in gironi infernali in cui anziani disperati urlavano ai senatori democratici che è una vergogna e che non sono sopravvissuti fino a sessantacinque anni per essere “uccisi da un burocrate mandato da Washington.” Alcune inchieste giornalistiche hanno presto scoperto però che queste “proteste spontanee” altro non erano se non eventi pianificati dalle compagnie assicurative, che pagavano e trasportavano attivisti anziani in lungo e in largo per dare l'impressione di eventi diffusi su tutto il territorio nazionale.
La lobby delle assicurazioni sanitarie sta facendo carte false per evitare l'introduzione di un'opzione pubblica nella riforma, che introducendo un elemento di concorrenza farebbe crollare i profitti fraudolenti delle compagnie assicurative. Creano a volte episodi curiosi. Secondo un editoriale dell'Investors Business Daily, la sanità pubblica è “socialista”, e dunque il peggiore dei sistemi possibili: “Se il fisico teorico Steven Hawking fosse vissuto in Inghilterra, ad esempio, la sanità pubblica l'avrebbe ucciso da tempo.” Pronta la risposta del celebre fisico inglese, che dalla sua residenza di Cambridge, vicino Londra, ha confermato di essere vivo e vegeto, proprio grazie alle cure del sistema sanitario nazionale.
Grazie alle martellanti pubblicità delle assicurazioni sanitarie, che seminano il panico tra gli anziani, e al largo spazio dato dai media alle continue proteste, il sostegno popolare alla riforma sanitaria, larghissimo fino a pochi mesi fa, ha cominciato a vacillare. L'ultimo sondaggio della NBC mostra che la strategia di spararla grossa funziona: il 45% degli americani crede alla favola dei comitati della morte e dell'eutanasia sugli anziani; il 55% crede che la riforma darà copertura agli immigrati clandestini, mentre il 50% crede che i soldi della riforma verranno usati per favorire gli aborti, entrambe grossolane menzogne inventate premiata ditta repubblicani-assicurazioni. L'iter della riforma sta incontrando enormi difficoltà in Senato e non è chiaro se riuscirà a passare.
Resta da vedere se questo schema repubblicano funzionerà anche contro l'altra riforma che i democratici hanno in cantiere: quella della finanza. Un anno fa, il popolo della destra conservatrice marciava insieme ai liberali per protestare contro l'avidità di Wall Street che ha portato alla crisi globale. Riusciranno i nostri eroi amministratori delegati a manipolare a proprio favore la rabbia dell'uomo bianco razzista, inferocito contro le banche e le corporations, e rivoltarla ancora una volta contro se stesso? Unica salvezza: gettare il telecomando.
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di Michele Paris
In Colombia, l’azienda estrattiva americana Drummond Company è finita nuovamente sotto accusa nei giorni scorsi, quando un’associazione sindacale di Pittsburgh, in Pennsylvania, ha inviato una lettera ufficiale di protesta nei suoi confronti al segretario di Stato Hillary Rodham Clinton. Di stanza a Birmingham, nell’Alabama, questa società si è infatti resa protagonista del licenziamento illegittimo dei propri dipendenti appartenenti al sindacato e impiegati nella miniera colombiana di La Loma. Questo purtroppo non appare come un episodio isolato, dal momento che nel recente passato erano già emerse responsabilità ben più gravi nell’ambito dell’attività della compagnia statunitense nel paese sudamericano politicamente più vicino a Washington.
Lo scorso mese di marzo, centinaia di minatori della Drummond Company in Colombia avevano preso parte ad uno sciopero indetto in seguito alla morte del loro collega, Dagoberto Clavijo, precipitato in un pozzo mentre era alla guida di un mezzo pesante. In risposta all’interruzione dei turni di lavoro, la dirigenza dell’azienda americana ha deciso il licenziamento degli organi direttivi locali del sindacato Sintramienenergetica. Come se non bastasse, la stessa società detentrice dei diritti di sfruttamento della miniera colombiana ha chiesto al Ministero del Lavoro colombiano il permesso per licenziare altri 4 mila suoi dipendenti, tutti appartenenti ad associazioni sindacali.
Secondo il sindacato colombiano, sarebbero state le pessime condizioni delle vie di comunicazione presso la miniera ad aver causato l’incidente mortale. Per questo motivo, e in base alla legge sul diritto del lavoro attualmente in vigore nel paese sudamericano e alle convenzioni approvate dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, lo sciopero appariva del tutto legittimo. Per sostenere la battaglia dei loro colleghi colombiani e per protestare contro i licenziamenti, il sindacato americano United Steelworkers International (USW) ha così indirizzato una lettera alla ex first lady lamentando la condotta della Drummond Company.
Sottoscritta dal presidente della USW, Leo W. Gerard, la missiva intende convincere il Dipartimento di Stato a far pressioni sul governo di Bogotà per bloccare i licenziamenti e migliorare le condizioni di lavoro nella miniera, ma anche far luce sulle passate attività della Drummond Company per contrastare la sindacalizzazione dei propri addetti. Solo negli ultimi due anni la compagnia dell’Alabama si è infatti vista trascinare nei tribunali americani per tre volte, dovendo affrontare accuse gravissime.
Il primo processo risale al mese di luglio 2007, quando un giudice federale di Birmingham aprì un dibattimento riguardante fatti accaduti nel 2001. In quella circostanza, decine di minatori della Drummond Company a bordo di un autobus vennero improvvisamente fermati e fatti scendere da un gruppo di 15 individui armati, alcuni dei quali indossavano uniformi miliari colombiane. Tra i lavoratori fermati, vennero scelti tre leader sindacali – Valmore Locarno Rodriguez, Victor Hugo Orcasita e Gustavo Soler – successivamente torturati e assassinati.
Secondo le dichiarazioni giurate di alcuni testimoni, il presidente della divisione colombiana della Drummond Company – Augusto Jimenez – avrebbe personalmente consegnato 200 mila dollari in contanti ad un capo di un gruppo paramilitare locale di estrema destra come compenso per l’esecuzione dei tre sindacalisti. La vicenda sollevò molto scalpore negli USA, tanto che la sottocommissione Affari Esteri del Congresso, presieduta dal deputato democratico Bill Delahunt, le dedicò una seduta molto accesa. Nonostante le prove a carico, la Drummond Company alla fine riuscì ad evitare una sentenza di condanna, anche se a marzo di quest’anno i figli dei tre minatori assassinati sono riusciti a far riaprire il processo dopo aver ottenuto accesso ad una nuova testimonianza.
Più recentemente, nel mese di maggio, un altro procedimento è stato avviato in base alle accuse di aver pagato milioni di dollari al gruppo paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia (AUC), responsabile dell’uccisione di 67 operai iscritti al sindacato. Anche in questo caso sarebbero documentati incontri tra dirigenti della Drummond Company e membri di alto grado dell’AUC per concordare gli obiettivi di una vera e propria strategia volta ad assassinare e terrorizzare (tramite rapimenti e percosse) i lavoratori impegnati nell’attività sindacale e i loro famigliari. Da parte sua, l’azienda mineraria statunitense continua a sostenere la propria estraneità ai fatti, facendo notare come violenze di questo genere in Colombia siano ampiamente diffuse e legate ad altri fattori che nulla hanno a che vedere con la sua attività nel paese.
La Drummond Company, la quale acquistò la miniera di La Loma negli anni Ottanta e da allora ha visto crescere vertiginosamente le proprie esportazioni di carbone, fino ad una quantità di quasi 23 milioni di tonnellate nel 2007, non ha d’altra parte mai mostrato troppi scrupoli per i propri dipendenti (soprattutto se sindacalizzati) nemmeno in territorio americano. Con il crescere degli affari in Colombia, la compagnia ha proceduto nell’ultimo decennio alla chiusura di molte miniere nell’Alabama e al licenziamento di migliaia di persone. Tra il 1994 e il 2001, cinque siti hanno terminato le operazioni e 1.700 operai iscritti al sindacato hanno perso il loro posto di lavoro. Solo pochi mesi fa, sono stati licenziati altri 56 minatori nella contea di Jefferson, sempre in Alabama, dove l’azienda fondata nel 1935 da H. E. Drummond mantiene tuttora in vita alcune operazioni estrattive.
La collaborazione tra grandi aziende americane e gli squadroni della morte colombiani non è cosa nuova o isolata. Nel 2007, ad esempio, Chiquita Brands International accettò di versare 25 milioni di dollari nell’ambito di un procedimento che la vedeva accusata di aver effettuato versamenti di denaro al gruppo paramilitare AUC tra il 1997 e il 2004. La stessa famosa compagnia produttrice e distributrice di banane è tuttora coinvolta presso il tribunale distrettuale di Miami in un nuovo processo, avviato dai parenti di altre vittime dell’AUC. “Questo genere di comportamenti da parte delle corporation che fanno affari in Colombia non è purtroppo inusuale”, ha affermato uno degli avvocati dell’accusa in aula. “I gruppi paramilitari collusi con esse hanno agito nella totale impunità e in assenza di qualsiasi intervento governativo”.
A fare le spese delle violenze in Colombia sono soprattutto i membri dei sindacati. Questo paese ha infatti il primato mondiale di omicidi di sindacalisti. A partire dal 1986, ne sono stati assassinati ben 2.694, mentre 4.200 sono state le minacce di morte documentate. Quel che è peggio poi, è che la tendenza risulta in crescita. Nel 2008, gli omicidi sono passati a 49, dai 39 nel 2007. Il tutto senza praticamente che nessun colpevole venga assicurato alla giustizia. La percentuale di assassini di sindacalisti rimasti impuniti è addirittura del 96%. Questa è insomma la realtà di un paese con il quale gli Stati Uniti del presidente Obama, come di Bush in precedenza, continuano a mantenere strettissimi rapporti economici, politici e militari.
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di Giovanni Gnazzi
La risposta iraniana alle minacce di Obama, è arrivata rapida e puntuale. Poche ore dopo il discorso del Presidente statunitense, che ha detto di “non escludere l’opzione militare” nel caso Teheran prosegua con le attività di arricchimento dell’uranio, i Pasdaran hanno effettuato dei lanci di prova di due missili potenzialmente in grado di raggiungere Israele. E se il portavoce del ministro degli Esteri iraniano, Hassan Qashqavi, ha detto che si è trattato di una “esercitazione di routine”, che nulla ha a che vedere con le tensioni sul programma nucleare sciita, è innegabile che la coincidenza temporale tra le minacce Usa e le esercitazioni iraniane non sia casuale.
I due missili testati oggi dall'Iran sono il Sejil, a due stadi e alimentato con combustibile solido, con una gittata di 2.000 chilometri, e lo Shahab-3, con combustibile liquido e una gittata fra i 1.300 e i 2.000 chilometri. Il ministro della Difesa, Ahmad Vahidi, ha inoltre inaugurato un impianto per la produzione di combustibile solido per rifornire i missili e, a rincarare la dose, il comandante delle forze aeree dei Pasdaran iraniani, Hossein Salami, ha affermato che “con i nostri missili possiamo prendere di mira ogni luogo della regione'', aggiungendo che la risposta ad un eventuale attacco contro la Repubblica islamica sarà ''distruttiva e tale da far pentire anche regimi incapaci e nel mezzo di una crisi'', ha aggiunto Salami.
Teheran sembra sfidare dunque anche la nuova Amministrazione statunitense, che venerdì scorso ha reso nota l’esistenza di un secondo impianto per l’arricchimento dell’uranio (in costruzione vicino a Qom) mai venuto alla luce precedentemente. All’invito perentorio statunitense a cessare le attività di arricchimento dell’uranio da parte di Teheran, si è associata la Francia, che in una nota diffusa dal Quai d'Orsay, chiede all'Iran di "interrompere immediatamente" tutte le "attività profondamente destabilizzanti", come i test dei missili a lunga gittata Sejil e Shahab 3.
Per Ankara, invece, attaccare l'Iran sarebbe "una follia". Non usa quindi mezzi termini il primo ministro turco, Erdogan, per commentare l'ipotesi di un attacco contro le installazioni nucleari iraniane. Lo scrive il quotidiano Radikal, che ha raccolto le dichiarazioni del primo ministro. "Siamo assolutamente contrari alla proliferazione di armi nucleari in Medio Oriente", ha affermato Erdogan, che tra pochi giorni sarà a Teheran dove ha in programma un incontro con il presidente Mahmoud Ahmadinejad.
L'Alto rappresentante Ue per la politica estera, Javier Solana, ha espresso "preoccupazione" per le notizie di un secondo impianto per l'arricchimento dell'uranio e dei nuovi test missilistici di queste ore in Iran. "Tutto ciò che accade in un contesto simile è motivo di preoccupazione che riguarda sia ciò che accade nel dossier nucleare e le difficoltà supplementari che questo alimenta, sia l'ambito dei vettori balistici”. Tutto questo, ha proseguito Solana, crea "un nuovo contesto" anche se "non è il momento giusto per discutere" di nuove eventuali sanzioni nei confronti di Teheran.
Come suggerisce Solana, è proprio sulle sanzioni possibili a Teheran, più che sulle opzioni militari, che si gioca la delicata partita tra Occidente e Iran. Una strada che anche l’Amministrazione Usa vorrebbe percorrere, prima di bruciarsi le mani in una nuova, complicatissima, opzione militare. "Ci sono molte opzioni ancora disponibili", ha affermato in un'intervista il segretario di Stato per la Difesa, Robert Gates, che ha sottolineato come le sanzioni contro l'Iran in questa fase hanno l'obiettivo di impedire lo sviluppo tecnologico del settore energetico.
La Casa Bianca, secondo quanto pubblica il New York Times, starebbe completando un piano con un pacchetto di sanzioni da presentare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel corso di questa settimana. In sostanza, vi si prevede il divieto per la comunità internazionale di investire nell'industria energetica iraniana ed ulteriori restrizioni al sistema bancario di Teheran, già in difficoltà per il blocco alle transazioni che rallenta l'attività all'estero di numerosi istituti di credito. La diplomazia americana è al lavoro per costruire una più ampia coalizione di Paesi favorevoli all'inasprimento delle sanzioni, con l'obiettivo è fare pressioni su Pechino e Mosca, che al momento preferiscono una soluzione diplomatica della crisi, considerati i rilevanti interessi economici che hanno in Iran e i pessimi risultati ottenuti dalle iniziative statunitensi in Medio Oriente e nel Golfo Persico.
Sarà la riunione di giovedì a Ginevra tra il governo iraniano e il gruppo dei 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania, cioè le potenze nucleari membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu assieme a Cina e Germania) ad aprire ufficialmente la partita. Non sarà una riunione semplice, giacché la Russia, che pure a seguito della rivelazione dell'esistenza di un secondo impianto iraniano per l'arricchimento di uranio ha ammorbidito la sua posizione rispetto alla possibilità di varare nuove sanzioni internazionali, esorta la comunità internazionale a "non cedere all'emotività" nella nuova, delicata fase di confronto con l'Iran. “Dobbiamo stare calmi e, soprattutto, avviare efficaci negoziati" ha commentato una fonte del ministero degli Esteri moscovita, come riporta Interfax .
Del resto la Russia è molto più coinvolta geopoliticamente dall'Iran che non gli Stati Uniti (l'Iran e' un prezioso alleato di Mosca nelle questioni regionali, Caspio, Cecenia, Caucaso). Inoltre, il diritto di veto al Consiglio di sicurezza e' una delle poche leve rimaste ad assicurare attenzione e rispetto. Per quanto il clima con Washington sia nettamente migliorato a seguito della decisione di Obama di recedere dal piano missilistico in Europa Orientale, Mosca non sembra avere nessuna intenzione d’indebolire Ahmadinejad e, affiancando le perplessità europee, che ritengono controproducente abbandonare il dialogo con Teheran, renderà più difficile del previsto l’approvazione in sede Onu delle proposte della Casa Bianca. Siamo solo agli inizi: la partita sarà lunga e piena di sorprese.
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di Eugenio Roscini Vitali
L’aggressivo sfruttamento delle risorse energetiche che negli ultimi anni ha cambiato la faccia politica e sociale dell’Africa, non ha certo portato la ricchezza e lo sviluppo sperato, la pace ed il benessere promesso da chi invece ha girato la testa di fronte a tragedie umanitarie quali il Darfur o il Corno d’Africa, il Nord Kivu o il Sahara Occidentale, il Delta del Niger o le foreste dell’Uganda settentrionale.
Al contrario, la politica del profitto ha sconvolto la vita di un numero incalcolabile di persone, vittime di un saccheggio incontrollato che ha ricompensato i potentati ed ha premiato l’egoismo di quelle nazioni che in cambio di un paventato sviluppo economico hanno dato vita ad una nuova corsa all’Africa, ad una nuova forma di colonialismo politico-militare che in chiave moderna ricorda quello che tra la fine dell’Ottocento e l'inizio della prima guerra mondiale si spartì il continente. Ed è in questo contesto, in un continente come l’Africa, dove il 40% della popolazione “vive” con meno di un dollaro al giorno e un numero molto maggiore “sopravvive” con meno di due, che il Ciad rappresenta l’ennesimo esempio di come i poveri pagano sempre il prezzo più alto.
Pressato dalla fame e dei cambiamenti climatici, dalle crisi umanitarie e dalle scorribande dei predoni, sovrani incontrastati del Sahel e dell’Africa sub-sahariana, dalle crisi regionali e dalla concreta possibilità di una guerra civile, il Ciad sconta infatti, più di altri Paesi, l’illusione di una “ricchezza” che probabilmente non arriverà mai. Quasi dieci milioni di abitanti che negli ultimi 40 anni hanno assistito all’irreversibile desertificazione del loro Paese e alla conseguente riduzione delle acque della loro unica fonte di sostentamento, il lago Ciad, passato da una estensione di 25 mila chilometri quadrati a poco più di 5 mila; dieci milioni di persone che hanno riposto tutte le loro speranze sulla pioggia di dollari che sarebbe dovuta arrivare con l’oro nero ma che non ha nemmeno bussato alla porta.
Sviluppatosi alla fine del secolo scorso, lo sfruttamento dei giacimenti non ha infatti cambiato lo standard di vita dei ciadiani e, per ora, i profitti derivanti dai prezzi record del greggio registrati negli ultimi anni hanno solo rimpinguato le casse del governo. Entrate gestite dalle autorità, in gran parte appartenenti all’etnia Zaghawa e al Mouvement Patriotique du Salut (MPS), che hanno praticamente dilapidato centinaia di milioni di dollari per armare l’esercito e premiare e la classe politica più accondiscendente alla decisioni della presidenza. Una ricchezza il cui utilizzo è diventato soprattutto strategico, ben lungi dall’alleviare la condizione di povertà in cui versa il Paese, ma elemento importante per mantenere al potere chi di fatto ha favorito una endemica situazione di instabilità.
Il fallimento brucia ancora di più se si ripensa al 2000, a quando la Banca mondiale ed alcune agenzie pubbliche e private di credito decisero di sostenere con 370 milioni di dollari il Chad-Cameroon Oil and Pipeline. “Un progetto per lo sviluppo”, conosciuto anche come “Doba oil”, da quattro miliardi e duecento milioni di dollari, appaltato ad un consorzio di compagnie petrolifere comprendenti la Exxon-Mobil, la Chevron-Texaco e la malese Petronas. Il fine ultimo era la realizzazione e l’apertura di 300 pozzi petroliferi e la costruzione di un oleodotto lungo 1.070 chilometri che attraverso la foresta pluviale avrebbe collegato la città di Doba, nel Ciad meridionale, al porto camenurense di Kibri, nel Golfo di Guinea. Un concetto completamente rivoluzionario nel finanziamento ai Paesi poveri, il più grande in tutta l’Africa, diverso dai classici prestiti a fondo perduto e i cui profitti sarebbero dovuti servire a ridurre la povertà in Ciad ed in Camerun, a stimolare il microcredito, ad avviare nuove attività, a sovvenzionare l’acquisto di macchinari agricoli, a realizzare scuole, ospedali, ed infrastrutture.
In realtà il Chad-Cameroon Oil and Pipeline ha provocato danni irreversibili: flussi migratori e violazioni dei diritti umani collegati alla realizzazione dell’opera, confisca delle terre agricole senza risarcimenti e gravi danni sociali ed ambientali. Un ecosistema distrutto, malaria e malattie della pelle causate dal misterioso smaltimento dei rifiuti tossici, quasi cento villaggi scomparsi, intere tribù pigmee costrette a rinunciare ad intere aree, crollo nell’esportazione del cacao e del caffè, disoccupazione, violenza e crimine alle stesse, così come la prostituzione e i casi di HIV. Tutti fatti denunciati dalle popolazioni locali e dalle Organizzazioni non governative internazionali, così come i 225 mila barili di greggio prodotti ogni giorno dal consorzio; i profitti annui della Exxon-Mobil, pari a 40 volte il Pil del Ciad; i 36 milioni di petrodollari ricevuti da Deby nel 2006, utilizzati per armare la guardia presidenziale, “vincere” le elezioni e sconfiggere i ribelli del Rally for Democratic Forces, e il miliardo e 200 milioni di dollari incassati dal Ciad nel solo 2007.
Con un tasso di analfabetismo che tocca 87% e un reddito pro capite annuo pari a 150 euro all’anno, il Ciad è tra i cinque Paesi più poveri al mondo: 170mo su secondo 179 nazioni secondo il rapporto 2008 delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano; 173mo su 180 per la speciale classifica sulla corruzione stilata dall’associazione non governativa Transparency International. La maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà estrema, soltanto il 10% ha accesso ai servizi sanitari di base e meno del 30% può disporre di acqua potabile di buona qualità; il tasso di mortalità infantile fino ad un anno di vita colpisce 102,6 neonati su mille e la speranza di vita alla nascita è di poco superiore ai 50 anni. In Ciad sono presenti 12 campi profughi che accolgono più di 260 mila rifugiati, 220 mila civili provenienti dal Darfur e 40 mila dalle foreste della Repubblica Centro Africana. Gli sfollati interni, fuggiti dai villaggi in seguito alle incursioni delle milizie sudanesi e al conflitto interno tra forze governative e ribelli, sono circa 170 mila.
Una situazione tragica, soprattutto perché negli ultimi dieci anni, anziché mantenere gli accordi presi con la Banca Mondiale - 80% delle entrate destinato a programmi di sviluppo (sanità, istruzione e infrastrutture) e il 10% a un fondo bancario riservato alle generazioni future - il governo di N’Djamena ha preferito portare le spese militari dai 14 milioni di dollari del 2000 ai 315 milioni di dollari del 2009, una cifra che supera abbondantemente il 4% del Pil (4,2% nel 2006) e che Deby giustifica con il rischio di una possibile invasione sudanese. Grazie ai partners principali, Francia, Stati Uniti e Cina, alla costante presenza della Legione Straniera e ai soldi della Exxon-Mobil e della Elf, oggi N’Djamena ha infatti uno dei più equipaggiati e preparati eserciti dell’Africa sub-sahariana.
Oltre agli Aermacchi SF-260 strappati alla Libia durante la guerra per la striscia di Aozou e ai vecchi mezzi sovietici (i tank T-55, i veicoli da trasporto truppe BTR-80, i blindati BRDM, gli elicotteri Mil Mi-8/-17, gli aerei trasporto Antonov An-26 e quelli da attacco al suolo e supporto Sukhoi Su-25 Frogfoot), il Ciad dispone degli anfibi francesi ERC 90 Sagaie e dei veicoli americani Humvee, gli High Mobility Multipurpose Wheeled Vehicle usati dall’esercito Usa in Iraq ed Afghanistan; dei missili terra-aria FIM-92 Stinger, degli anticarro a medio raggio Milan e sistema d'arma BGM-71 Two; degli aerei da trasporto C130-Hercules e dei velivoli da attacco leggero Pilatus PC-9M; degli elicotteri da trasporto Mi-171 e di quelli da attacco Mil Mi-35.
Anche in Ciad il binomio petrolio-armi quindi funziona, sicuramente meglio di quello petrolio-sviluppo e almeno quanto il progetto “Doba oil”, una speranza di affrancamento dalla povertà che si è trasformato nel core business delle spese militari, fatto che nel settembre 2008 ha portato la Banca Mondiale a ritirate il proprio sostegno al finanziamento. E certamente non è di aiuto all’economia nazionale che, a causa del brusco crollo dei prezzi petroliferi, negli ultimi anni ha visto un andamento del Pil in vertiginosa discesa, passando dai livelli record del 2004 (+33,6%) al –0,4% del 2008. Una situazione economica che desta preoccupazioni e che a causa dell’instabilità regionale e del sistema di governance, uno dei più corrotti al mondo, è destinata a peggiorare, almeno per quegli otto milioni di ciadiani che già vivono sotto la soglia della povertà estrema.
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di Michele Paris
Nella Spagna odierna di Zapatero è possibile finire sotto processo per aver indagato sui crimini commessi durante la dittatura franchista. Questo é infatti ciò che sta accadendo al giudice investigativo Baltasar Garzón, salito alla ribalta delle cronache mondiali nel 1998, quando spiccò un mandato di cattura nei confronti di un Pinochet convalescente in Gran Bretagna. Alcune organizzazioni spagnole di estrema destra hanno ottenuto la citazione in giudizio del noto magistrato, colpevole, a loro dire, di aver cercato di rendere giustizia a centinaia di migliaia di vittime del regime di Francisco Franco, nonostante l’amnistia garantita dal governo di transizione nel 1977.
La Corte Nazionale spagnola ha accettato di aprire un procedimento a carico di Garzón su richiesta delle associazioni civiche di destra Manos Limpias e Libertad y Identitad, le quali sostengono che il giudice abbia abusato dei propri poteri nell’accusare formalmente il “Caudillo” e 34 suoi ex generali e ministri di crimini contro l’umanità. In base a queste accuse è stata successivamente ordinata la riesumazione di migliaia di vittime seppellite in fosse comuni.
L’indagine di Garzón era partita nell’ottobre dello scorso anno ed era stata immediatamente salutata da più parti, compresi parecchi esponenti del Partito Socialista al governo (PSOE), come un “processo simbolico a Franco”. Garzón da parte sua si era però affrettato a togliere qualsiasi connotato politico all’inchiesta, puntando esclusivamente a cercare di far luce sulla sorte delle persone sparite e finite negli ingranaggi del sistema di repressione franchista.
Il lavoro del giudice della Corte Criminale di Madrid non aveva tuttavia incontrato i favori del Partito Popolare (PP) all’opposizione né, soprattutto, della Chiesa Cattolica, entrambi preoccupati per le possibili conseguenze della riapertura di “vecchie ferite del passato”. In seguito a queste proteste, con una mossa a sorpresa, il Procuratore Generale dello Stato Cándido Conde-Pumpido decise di prendere una posizione ufficiale contro l’indagine aperta da Garzón, che avrebbe passato allora il caso, e la responsabilità degli scavi per riportare alla luce le fosse comuni del regime, ai vari tribunali regionali spagnoli.
L’offensiva nei confronti del magistrato troppo zelante ha finito per infiammare la destra spagnola. A febbraio di quest’anno così, il Ministro della Giustizia Mariano Fernández Bermejo è stato costretto alle dimissioni dopo essere finito sotto il fuoco incrociato delle polemiche per aver partecipato ad una battuta di caccia con lo stesso Baltasar Garzón, il quale solo pochi giorni prima aveva incriminato alcuni membri del PP nell’ambito di una inchiesta per corruzione su appalti pubblici. Pochi mesi più tardi, sarebbe toccato a Garzón finire sotto inchiesta - poi archiviata - per presunti compensi non dichiarati ricevuti da una Università americana tra il 2005 e il 2006.
La debolezza del governo di Zapatero di fronte alle pressioni dell’opposizione, ma anche del governo americano, si è manifestata infine con l’approvazione di una legge che ha posto dei limiti alla facoltà dei magistrati spagnoli di inquisire cittadini di qualsiasi nazionalità per crimini di guerra e contro l’umanità. Proprio grazie al principio della “giurisdizione universale” per crimini particolarmente gravi, Garzón aveva chiesto l’arresto dell’ex dittatore cileno e, più recentemente, si era cimentato con un’indagine ai danni di George W. Bush e di alcuni membri della sua amministrazione per aver autorizzato interrogatori con metodi di tortura a Guantánamo e nelle altre prigioni segrete della CIA.
Alla prima udienza in tribunale, Garzón ha sostenuto in maniera appassionata il suo dovere di “indagare i fatti e scoprire le responsabilità in nome delle vittime” del franchismo. A suo parere, i crimini commessi dagli autori della sparizione di oltre 100 mila persone non possono in nessun modo beneficiare di provvedimenti di amnistia. In suo favore è intervenuta anche la Commissione Internazionale dei Giuristi (ICJ), chiedendo l’annullamento del procedimento contro il giudice spagnolo che, in caso di condanna, rischia la sospensione e la rimozione dal proprio incarico. Secondo la Commissione, il tentativo di interferire nel processo giudiziario appare “particolarmente preoccupante”, in quanto si tratta di gravi crimini contro l’umanità che la Spagna ha il dovere di perseguire. Provvedimenti di amnistia per tali crimini, inoltre, sono resi nulli dalle leggi dell’Unione Europea sui diritti umani.
Per l’associazione Manos Limpias invece, il procedimento ai danni di Garzón appare a tutti gli effetti come il primo passo verso la delegittimazione del lavoro di un giudice che si riterrebbe “al di sopra della legge”. Dal suo sito ufficiale, addirittura, il gruppo di estrema destra definisce Garzón “un tumore maligno all’interno del sistema giudiziario” iberico e che deve essere rimosso a tutti i costi. Dal 1997, i vertici di Manos Limpias hanno presentato 18 denunce contro l’operato di uno dei candidati alla presidenza della Corte Penale Internazionale, tutte puntualmente archiviate.
La capacità di sollevare una simile questione da parte di un’organizzazione che conta appena 6.500 iscritti testimonia dell’influenza di cui gode l’estrema destra in Spagna a trent’anni di distanza dalla transizione del paese verso la democrazia. Manos Limpias è stata fondata da Miguel Bernard nel 1995, in seguito alla dissoluzione del suo partito, Derecha Española. Nostalgico franchista, Bernard ispira la sua azione politica a quella di Blas Piñar, ex parlamentare all’epoca di Franco e animatore del Movimiento Nacional, vero e proprio epicentro ideologico del fascismo negli anni della dittatura.
A sua volta fondatore di alcuni partiti di destra durante la transizione (Fuerza Nueva, Frente Nacional), Piñar può essere considerato inoltre come una sorta di padre spirituale di molti membri del Partido Popular di Aznar prima e ora di Rajoy, creato nel 1989 da un altro ex franchista, Manuel Fraga Iribarne, con il contributo dei fuoriusciti di varie formazioni di destra del dopo-Franco. Con l’apertura del processo a Baltasar Garzón, la Spagna rischia insomma di gettare nell’ombra la sorte di oltre 300 mila oppositori del franchismo assassinati, 500 mila detenuti per reati politici e 500 mila costretti all’esilio.