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di Michele Paris
Il prossimo 3 Novembre gli elettori della città di New York si recheranno alle urne per eleggere il loro nuovo primo cittadino. Favoritissimo per la vittoria sarà ancora una volta il sindaco in carica, il miliardario e magnate dell’editoria Michael Bloomberg, il cui nome però, non più tardi di un anno fa, non avrebbe dovuto nemmeno apparire sulle schede elettorali. Con una manovra di palazzo, l’uomo d’affari ex democratico, diventato successivamente repubblicano e ora indipendente (seppure riabbracciato dai repubblicani), ha infatti cancellato il limite massimo di due incarichi consecutivi consentito dalla legge, ottenendo la possibilità di correre per un terzo mandato e spendere liberamente decine di milioni di dollari della propria fortuna personale in una campagna elettorale a senso unico.
A meno di un mese dal voto, Bloomberg ha già sborsato di tasca propria qualcosa come 65 milioni di dollari per convincere gli elettori newyorchesi a consegnargli altri quattro anni alla guida della città. Entro l’Election Day, è probabile che il sindaco finirà per spendere complessivamente oltre 100 milioni di dollari, un record assoluto per una competizione locale. Questa somma enorme d’altra parte non rappresenta che una minima parte dei suoi beni, stimati da Forbes in 16 miliardi di dollari, mentre supera abbondantemente quanto speso finora dal suo più accreditato sfidante (3,8 milioni).
A contrastare (si fa per dire) Bloomberg, il prossimo novembre sarà il candidato democratico William C. Thompson, la cui relativa popolarità tra gli elettori è dovuta al suo attuale ruolo di “City Comptroller”, una carica elettiva che prevede, tra l’altro, la supervisione delle finanze cittadine, la gestione del debito comunale e dei fondi pensione dei dipendenti pubblici. Vincitore delle primarie democratiche dello scorso mese di settembre, Thompson dispone di riserve residue pari a qualche centinaia di migliaia di dollari che ben poco potranno per contrastare la macchina da guerra di Bloomberg, nonostante quattro su cinque elettori di New York risultino affiliati proprio al suo partito.
Da sempre democratico, Bloomberg cambiò partito nel 2001 per conquistare il primo mandato da repubblicano. Nel 2005 ottenne la conferma e due anni più tardi abbandonò il Partito Repubblicano diventando indipendente e alimentando le speculazioni di quanti lo consideravano un possibile candidato alle presidenziali del 2008, svincolato dai due maggiori partiti americani. Se otto anni fa la sua fama di outsider lo aveva costretto a spendere somme ingenti nella campagna elettorale cittadina, la situazione attuale sembra ben diversa. L’ottavo uomo più ricco d’America ha acquistato ormai una vasta notorietà, ma le polemiche sulla sua gestione e la situazione economica della città rendono necessario ancora una volta un notevole esborso di denaro per garantirgli il successo elettorale.
La sua campagna per un terzo mandato consecutivo di quattro anni è caratterizzata da una certa apatia degli elettori, convinti da un’organizzazione mastodontica dell’inevitabilità della vittoria di Bloomberg. L’entusiasmo dei cittadini per quest’ultimo è infatti fortemente minata dall’insoddisfazione prodotta dalla crisi economica in atto e dalla rabbia nei confronti di Wall Street, con cui la fortuna di Bloomberg viene giustamente identificata. La sproporzione tra le disponibilità economiche del sindaco in carica e quelle dei suoi sfidanti, ha finito per creare precocemente una sensazione di scoraggiamento tra quanti auspicavano una valida alternativa, soprattutto tra le fila democratiche.
A contribuire alle perplessità che gli elettori nutrono nei confronti di Bloomberg quest’anno c’è poi soprattutto la questione del limite dei due mandati, già approvato in due referendum dai newyorchesi e lo scorso anno dissolto da un voto del consiglio comunale. Già a partire dal febbraio 2008 pare che Bloomberg stesse valutando un provvedimento che gli avrebbe permesso di venire rieletto per la terza volta a sindaco della metropoli americana. Un sondaggio, da lui commissionato, aveva però indicato la contrarietà della maggioranza degli elettori alla modifica. L’idea di un nuovo referendum è stata così messa da parte e, al momento opportuno, la questione è stata invece portata in consiglio comunale.
In concomitanza con l’esplosione della crisi finanziaria nel settembre dello scorso anno, Bloomberg ha orchestrato una campagna per l’approvazione di un terzo mandato, sostenendo che l’emergenza economica in cui versava - e versa tuttora - la città richiedeva la sua permanenza nell’incarico di primo cittadino. Visto che una nuova consultazione elettorale sull’argomento avrebbe coinciso con le elezioni presidenziali del novembre 2008, dove un’alta affluenza alle urne avrebbe con ogni probabilità portato ad una netta bocciatura dell’iniziativa di Bloomberg, quest’ultimo ha stabilito che non esistevano i tempi tecnici per organizzare un referendum.
Dopo aver convinto gli altri membri del consiglio comunale, ben felici anch’essi di avere un’altra occasione per conservare il loro mandato per altri quattro anni, l’uomo più ricco di New York ha potuto mettere insieme la maggioranza necessaria per un voto favorevole, nonostante le polemiche sollevate da più parti per avere calpestato l’opinione degli elettori. Strumentalizzando la crisi economica, Bloomberg è riuscito pertanto dove il suo predecessore, Rudolph Giuliani, aveva fallito otto anni prima, all’indomani degli attacchi dell’11 settembre.
La manovra del sindaco di New York ha così spiazzato i suoi possibili avversari democratici, i quali fino a quel momento ben poco avevano fatto per proporre una visione alternativa del futuro della città. Con il controllo di 46 dei 51 seggi comunali, nonché di molte altre cariche elettive locali, il Partito Democratico newyorchese negli ultimi quattro anni ha quasi sempre assecondato le politiche “business-friendly” e i tagli alla spesa pubblica promossi da Bloomberg. William Thompson, il candidato democratico alla carica di sindaco, ha visto crollare le sue certezze di successo finale quando il primo cittadino ha cambiato le regole del numero di mandati consentiti. Sentendosi tradito, ha allora iniziato la sua battaglia contro il ben più potente rivale.
Prodotto politico dell’organizzazione democratica di Brooklyn, Thompson è il figlio di un ex senatore dello Stato di New York e, negli anni ‘90, è stato a capo del sistema educativo della città. La sua vittoria nelle primarie del partito è arrivata ai danni del suo principale avversario, il membro del consiglio comunale Tony Avella. Lo sconforto tra i democratici era apparso evidente già in questa consultazione tra gli elettori del partito, alla quale ha partecipato appena l’11% degli aventi diritto. Thompson perciò ha ottenuto la nomination democratica grazie a circa il 3% degli elettori newyorchesi.
Nelle rimanenti settimane di campagna elettorale, il candidato democratico avrà di fronte a sé un’impresa ai limiti del possibile contro un avversario che dispone di un potere economico e mediatico formidabile. Il recentissimo dibattito televisivo tra i due sfidanti ha evidenziato poi le difficoltà di Thompson nel far giungere agli elettori un messaggio chiaro e alternativo a quello di Bloomberg, con il quale si trova in sintonia su molte questioni. A queste difficoltà va poi aggiunta la freddezza del presidente Obama nei confronti del proprio compagno di partito. Il mancato appoggio a Thompson appare infatti come una sorta di tacito sostegno a Bloomberg, soprattutto alla luce dell’interventismo ostentato dalla Casa Bianca in altre competizioni elettorali, come quelle per la carica di governatore negli stati di New York e del New Jersey.
L’ineluttabilità del terzo successo consecutivo di Michael Bloomberg e la sua posizione pressoché inattaccabile nell’establishment newyorchese rivelano in maniera evidente il processo di svuotamento dei meccanismi democratici del sistema politico americano. Un sistema prodotto e dominato da una ristretta élite finanziaria che controlla i meccanismi di selezione del potere grazie ad illimitate disponibilità economiche. Nel caso di New York e di Bloomberg, poi, l’aristocrazia finanziaria del paese si è fatta carico direttamente della gestione della cosa pubblica, bypassando i dispositivi talvolta scomodi di quel che resta della democrazia rappresentativa.
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di mazzetta
Con le ultime condanne a morte seminate tra gli oppositori e con la chiusura di tre giornali ostili al governo, il presidente Ahmadinejad e Alì Khamenei hanno mostrato di aver riacquistato un certo controllo sul paese. La rivoluzione verde sembra essersi sopita, anche se la vendetta del potere sembra destinata ad allungare la sua ombra sulla società.Una soluzione che non dispiace a Washington e che delizia Tel Aviv, che da tempo contano su Teheran per distogliere l'attenzione dalle proprie responsabilità. Quando Teheran è stata invasa dalle folle all'indomani delle elezioni, nelle due capitali c'è stata incertezza. Netanyahu aveva già commentato l'affermazione di Ahmadinejad reiterando le solite minacce e Washington non era proprio disposta a mettere in discussione la legittimità del suo presidente. Non l’ha mai fatto nemmeno in seguito e il potente apparato mediatico della propaganda occidentale non si è posto il problema dei brogli in Iran.
Un sostanziale via libera a una repressione feroce e non appariscente, che il regime ha perseguito con velocità ed efficienza una volta che la pressione della piazza è calata, potendo contare sul massiccio disinteresse del “free world”. Ahmadinejad va bene dove sta e questo l'ha capito da un pezzo.Inadatto al governo, tanto che lo stesso Khamenei ha svuotato i poteri presidenziali per affidarli ad altri pochi mesi dopo la sua prima ascesa alla carica, Ahmadinejad può contare solo su una retorica molto elementare che contrappone il suo patriottismo e la sua onestà ai nemici esterni e ai corrotti che minacciano la rivoluzione iraniana dall'interno. Se gli iraniani non fossero profondamente offesi nel loro patriottismo dalle pressioni contro il programma atomico, Ahmadinejad mancherebbe di una stampella.
Problemi ancora più grossi li avrebbe il governo in Israele, che continua ad accusare istericamente l'Iran di volere la distruzione d'Israele, ma che dal 2001 ha invece bombardato la Siria e devastato il Libano e Gaza che non potevano proprio distruggere nessuno. Allo stesso modo da quando gli Stati Uniti hanno invaso l'Iraq, la propaganda occidentale ha elevato l'Iran al ruolo di minaccia principale e incombente. Una situazione che ha trovato il suo equilibrio nel gradimento dei tre governi, svelti e in singolare sintonia nell'approfittarne.
Un'animosità sospetta e infondata a ben vedere. Israele che rinfaccia all'Iran di non rispettare il Trattato per la Non Proliferazione che si rifiuta di sottoscrivere è la spia evidente di un doppio standard che priva di qualsiasi legittimità qualsiasi obiezione del genere, ancora di più perché l'Iran rispetta gli impegni presi. Il cambio dell'amministrazione americana non ha ancora portato cambiamenti su questo fronte, pur offrendo trattative l'amministrazione Obama non si è risparmiata quando c'è stato da denunciare l'esistenza di un impianto nucleare iraniano “segreto”.
Denuncia ridicola. L'Amministrazione si vanta di aver scoperto un sito che l'Iran ha notificato all'AIEA secondo le procedure e molto prima di introdurvi materiale radioattivo. Nessuno ha scoperto niente, hanno fatto finta per fare un po' di rumore e si sono detti scandalizzati anche perché l’hanno costruito vicino a una base dell'aeronautica militare per difenderlo meglio. Un comportamento davvero sospetto, ci dicono, che sembrerebbe non voler tenere conto che l'Iran è minacciato di bombardamenti ogni settimana da anni. C'è da capire che anche i nemici interni di Ahmadinejad apprezzano l'idea di un deterrente nucleare iraniano; il paese è circondato da potenze che sono tutte dotate di armi nucleari e ogni genere di ordigno bellico in grande numero, alcune delle quali molto minacciose. Che l'Iran stia cercando o meno di dotarsi di armi nucleari cambia ben poco, l'unico cambiamento reale è che diventerà molto più difficile attaccare l'Iran.
Pochi giorni dopo la denuncia della clamorosa “scoperta”, Obama ha ricevuto lo stesso premio Nobel per la Pace che è stato di Mohamed el Baradei, il capo dell'AIEA che ha tenuto testa a Bush prima sulle armi di distruzione di massa irachene e poi sul nucleare iraniano, dimostrando di essere nel giusto e resistendo anche al tentativo da parte di deputati americani, poi confessato, di calunniarlo. Un peso più che un premio: Obama ha già sbattuto il naso sulle prime difficoltà mediorientali, Netanyahu ha rifiutato le sue richieste fiutandone le debolezza e per ora il Dipartimento di Stato non ha trovato di meglio che assestarsi sulla linea disegnata da Bush, pur “concedendo” tempi lunghi all'Iran. Quel premio sarà un promemoria e un invito a procedere verso la pace, se non altro i giurati norvegesi hanno ci hanno provato.
Una farsa in grande stile: la “minaccia iraniana” non esiste e, anche con il possesso di ordigni nucleari, non sarebbe più minacciosa dell'Iraq di Saddam. L'Iran non può bombardare Israele con le atomiche senza cancellare anche i palestinesi e molti altri e senza farsi cancellare da una risposta anche più violenta. L'Iran non possiede aviazione, non ha una marina, non ha copertura antiaerea, non ha alcuna capacità di proiezione militare all'esterno, non ha nemmeno una dottrina militare o politica orientata oltre i suoi confini, tanto che ha collaborato con gli americani in Iraq e Afghanistan e non ha certo mobilitato le truppe in difesa dei fratelli musulmani.
Il tutto senza considerare che, per attaccare Israele o esserne attaccato, bisogna passare sui cieli dell'Iraq, attualmente presidiati dall'aviazione più potente del mondo e legalmente sotto la giurisdizione del governo iracheno. Impossibile per l'Iran, ma anche per Israele senza il placet americano o senza coinvolgere gli Stati Uniti, il che permette al governo Israeliano di minacciare attacchi senza poterli e doverli portare a termine fino a che gli Stati Uniti non siano disposti ad esserne corresponsabili.
Certo è che se Ahmadinejad non fosse attaccato dall'esterno, soffrirebbe sicuramente di più sul fronte interno. Altrettanto certo è che la società israeliana si regge ora sull'esistenza della minaccia esterna, ma adesso che è stata dimostrata l'inesistenza di minacce reali da Libano, Siria e Gaza, non resta molto oltre l'Iran. Nella stessa misura l'Iran serve agli Stati uniti per continuare a vestire la divisa del poliziotto buono, una maniera come un'altra di coprire le torture di Guantanamo e Abu Grahib, i bombardamenti poco intelligenti e le ricostruzioni truffaldine.
E allora che sia la lapidazione dell'Iran cattivo, ma non perché impicca gli oppositori o chiude i giornali, ma perché deve vestire i panni del feroce Saladino contro il quale mantenere mobilitato un dispositivo bellico ipertrofico, un capro espiatorio da offrire alle opinioni pubbliche mentre strateghi sempre più stanchi cercano di rammendare la coperta logora della War on Terror.
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di Michele Paris
Ad un anno e mezzo di distanza dalla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha stabilito la costituzionalità dell’iniezione letale, una condanna a morte fallita lo scorso mese di settembre ha determinato una nuova moratoria, per ora limitata allo stato dell’Ohio. La sospensione delle esecuzioni decretata dal governatore democratico, Ted Strickland, in realtà dovrebbe soltanto consentire alle autorità statali di studiare rapidamente un protocollo di emergenza, da impiegare qualora sorgessero difficoltà come quelle che hanno riguardato il condannato Romell Broom. Una volta trovata una soluzione, il boia dovrebbe rimettersi nuovamente al lavoro, anche se all’orizzonte potrebbero profilarsi nuovi appelli per rimettere in discussione interamente la pratica stessa dell’iniezione letale.
L’appuntamento con la morte per Romell Broom, detenuto nel braccio della morte per il rapimento e l’omicidio di una 14enne nel 1984, era stato fissato al 15 settembre, dopo che un tribunale aveva respinto l’ultimo appello dei suoi legali. Una volta ultimati i preparativi per l’esecuzione, per lui è iniziato tuttavia un autentico supplizio, durato circa due ore durante le quali il personale addetto alle esecuzioni presso il carcere di massima sicurezza di Lucasville ha cercato in tutti i modi di individuare una vena per iniettargli il composto chimico letale.
Dopo aver tentato di inserire gli aghi nelle braccia del condannato, gli addetti all’esecuzione hanno provato con la caviglia destra e, successivamente, ma sempre senza successo, con la gamba sinistra. Secondo quanto dichiarato in una deposizione giurata di fronte ad un giudice un paio di giorni dopo, lo stesso Broom avrebbe cercato di aiutare il personale del carcere per portare a termine il proprio incarico. Poi le lacrime e le urla di dolore quando l’ago avrebbe colpito un osso e un muscolo. Alla fine, l’intervento delle autorità dello Stato ha interrotto l’esecuzione e il detenuto è stato trasportato all’ospedale del carcere.
Informato del fatto senza precedenti, il governatore dell’Ohio ha immediatamente emanato un ordine di sospensione della condanna di una settimana. L’esecuzione è stata poi ulteriormente posticipata a data da definirsi, in attesa che una corte federale possa esaminare un’istanza presentata dagli avvocati di Broom. Secondo questi ultimi, sottoporre il loro assistito ad un secondo tentativo di esecuzione equivarrebbe ad esporlo ad una “punizione crudele ed inconsueta”, contraddicendo perciò il dettato dell’Ottavo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America.
Con la causa in corso, il governatore Strickland ha poi sospeso le esecuzioni previste tra ottobre e novembre di altri due detenuti, Lawrence Reynolds e Darryl Durr, rimandandole rispettivamente al 9 marzo e al 20 aprile 2010. La prossima condanna in calendario nell’Ohio è quella di Kenneth Biros, condannato per un omicidio particolarmente cruento del 1991, per il momento confermata per l’8 dicembre, data entro la quale il governatore si augura di avere a disposizione un nuovo protocollo di emergenza per l’iniezione letale, anche se nuove sospensione non sono da escludere.
Tra i provvedimenti di emergenza da adottare, nel caso il protocollo principale dell’iniezione letale dovesse fallire, il dipartimento correzionale dell’Ohio pare stia valutando la possibilità di iniettare le sostanze previste nel midollo osseo o nei muscoli. Tali alternative, tuttavia, richiederebbero con ogni probabilità delle competenze mediche superiori, complicando non poco le procedure attuali, dal momento che ai medici è fatto divieto di partecipare alle esecuzioni. Iniezioni intramuscolari o addirittura direttamente nel midollo osseo aumenterebbero inoltre le probabilità di causare dolore al condannato, così come l’assorbimento più lento da parte dei muscoli delle sostanze iniettate allungherebbe i tempi del decesso.
L’attuale procedura adottata dall’Ohio consente in ogni caso un tempo teoricamente illimitato al personale carcerario per individuare le vene adatte e portare a termine le esecuzioni. Altri stati, al contrario, prevedono diverse regolamentazioni. In Kentucky, ad esempio, il team addetto all’iniezione letale deve sbrigare le operazioni entro un’ora, mentre in Florida è consentito persino incidere la pelle del condannato per trovare una vena idonea. Le soluzioni allo studio in Ohio però non sono mai state prese in considerazione finora da nessun altro stato americano che prevede la pena di morte nel proprio ordinamento giudiziario.
Cambiamenti alla procedura esporrebbero d’altra parte le autorità a possibili nuove complicazioni legali. La Corte Suprema degli Stati Uniti, nell’aprile del 2008, aveva infatti decretato la costituzionalità del protocollo dell’iniezione legale secondo il modello in uso nel Kentucky, così che soluzioni anche parzialmente differenti potrebbero aprire la strada a ricorsi in riferimento all’Ottavo Emendamento. Il metodo attualmente adottato dalla gran parte degli stati prevede l’inoculazione di tre sostanze. La prima, tiopental sodico, è un barbiturico che determina uno stato d’incoscienza nel condannato; la seconda, pancuronio, paralizza i muscoli mentre la terza, cloruro di potassio, causa l’arresto cardiaco e il decesso.
Nel 2007 alcuni avvocati difensori di detenuti nel braccio della morte avevano fatto appello al supremo tribunale americano, in quanto ritenevano che se la dose iniziale di barbiturico non fosse stata somministrata in maniera appropriata, i condannati potevano ritrovarsi in uno stato di “paralisi cosciente”, soffrendo un dolore intenso senza possibilità di manifestarlo. Per questo, alcuni esperti avevano avanzato l’ipotesi di passare definitivamente ad una soluzione che prevedesse la somministrazione di una dose massiccia del solo tiopental, che determinerebbe la morte del detenuto senza bisogno delle altre due sostanze. Anche in questo caso però il decesso risulterebbe molto più lento.
Le perplessità intorno al metodo attualmente utilizzato per l’iniezione letale sono molte, nonostante essa continui ad essere largamente impiegata negli USA. Nel caso di Romell Broom pare siano stati fatti 18 tentativi per individuare una vena idonea all’iniezione. In un primo momento la vena era stata trovata, ma avrebbe ceduto nel momento in cui al detenuto veniva iniettata la soluzione salina usata per “spianare la strada” alle sostanze letali. Nel solo Ohio, negli ultimi tre anni, almeno altre due esecuzioni avevano incontrato difficoltà ed erano durate molto più a lungo dei 20 minuti solitamente necessari per portare a termine le procedure. In entrambi i casi le sofferenze inutilmente inflitte ai condannati erano state evidenti, così come l’impossibilità di garantire un processo di esecuzione per lo meno corrispondente a quanto stabilito dalla Costituzione.
Nel 2006 furono necessari 90 minuti per eseguire la condanna di Joseph Clark. Anche in questo caso i problemi iniziarono a manifestarsi dopo le difficoltà nel trovare le vene del detenuto, molto fragili a causa dei suoi precedenti di tossicodipendente. Il regolamento dello Stato prevede l’individuazione di almeno due vene idonee, in modo che nel caso la vena principale dovesse cedere sarebbe disponibile una seconda. Dopo aver cercato inutilmente per oltre 30 minuti una seconda vena, venne deciso di procedere con l’unica individuata. Non appena le sostanze letali iniziarono a scorrere nel suo braccio, il condannato iniziò a lamentarsi, cercando di alzare la testa e la parte superiore del corpo. La scena venne allora sottratta alla vista degli spettatori presenti e il lavoro degli addetti proseguì per altri 40 minuti prima di portare a termine l’esecuzione.
L’anno successivo, le complicazioni nel caso di Christopher Newton, condannato a morte malgrado evidenzi indizi di uno squilibrio mentale, furono causate verosimilmente dal suo peso. Anche in questo caso furono necessari una decina di tentativi e oltre due ore prima di individuare una vena adatta. I contorni raccapriccianti di questa esecuzione furono accentuati anche dalla pausa concessa al detenuto nel corso dell’esecuzione per recarsi in bagno.
Le vicende dell’Ohio non hanno determinato per ora alcun ripensamento in nessun altro stato americano, dove nessun governatore si è preoccupato di sospendere anche una sola delle esecuzioni programmate. Puntualmente, l’8 ottobre scorso, lo stato dell’Alabama ha infatti eseguito la condanna di Max Payne, il quale è diventato così il 40esimo detenuto del 2009 ad essere giustiziato negli Stati Uniti tramite iniezione letale.
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di Fabrizio Casari
Il Nobel per la pace assegnato a Barak Obama è certamente un segnale positivo per gli sforzi che il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato - per ora solo annunciato - di voler compiere nel ripristinare il riequilibrio nel sistema delle relazioni internazionali. Per la prima volta, il Nobel viene assegnato non per quanto il destinatario abbia fatto, ma per quello che - si spera - farà. Perché é il sogno, più che la realtà, che Obama ha fatto vivere fino ad ora. Primo paragrafo del sogno é l’abbandono dell’unipolarismo statunitense, che nelle intenzioni della Casa Bianca dovrebbe essere superato da un nuovo multipolarismo, segnerebbe il definitivo abbandono delle tesi neocons (sulle quali le politiche degli otto anni di presidenza Bush si sono incentrate) e rappresenterebbe il fulcro della nuova immagine degli Stati Uniti sulla scena mondiale. Ma il cammino appare tutt’altro che semplice, dal momento che le difficoltà maggiori risiedono, a tutt’oggi, nel rapporto tra Obama e l’apparato militare a stelle e strisce.
In presenza di uno scontro aspro sui temi di politica interna (riforma sanitaria in primo luogo, ma non solo) fino ad oggi Obama risulta essere ancora ostaggio del complesso militar-industriale statunitense e delle diverse lobbies che ne guidano l’agenda politica, interna ed estera. Il primo segnale della difficoltà che la Casa Bianca ha incontrato nel rapporto con il Pentagono e con la stessa Cia, è stato evidente nella gestione dell’affaire Guantanamo e nella nuova dottrina sulle procedure per le covert actions. Ma non solo. La difficoltà di Obama nel far accettare alle lobbies militari e finanziarie del Paese la nuova politica estera e di difesa, sono state continue ed esprimono il senso di uno scontro dagli esiti ancora incerti.
Obama ha certamente messo a segno dei punti importanti, il maggiore dei quali è la cancellazione del progetto di scudo spaziale nell’Europa dell’Est, che l’Amministrazione Bush aveva fortemente voluto indicando nell’Iran la minaccia, ma pensando invece nella Russia come potenziale nemico da contenere. Era una sorta di riedizione delle guerre stellari di Reagan, che trasformava l’Europa in una gigantesca polveriera atomica e riportava il mondo intero sull’orlo della guerra fredda. La cancellazione del progetto e la conseguente ripresa dei colloqui con Mosca é stata certamente una vittoria del Presidente Obama. Ma, al momento, sembra essere la sola significativa vittoria, di fronte ad un Pentagono che non ha nessuna intenzione di cedere terreno (cioè potere, commesse e ruolo interno ed internazionale).
Obama, politicamente indebolito all’interno, è stato così costretto ripetutamente a compromessi con i militari su diversi terreni. Se, infatti, proviamo ad analizzare senza paraocchi le scelte concrete - quelle cioè sul campo e non davanti a telecamere e microfoni - che l’Amministrazione Obama ha compiuto, troviamo quasi esclusivamente una sostanziale continuità con le scelte delle precedenti amministrazioni.
In Iraq e in Afghanistan non si avvertono segnali evidenti di ritiro e di ripensamento della strategia. Piuttosto Obama sembra ancora alla ricerca di una comunione d’intenti con il Pentagono, cosa che determina l’assenza, ad oggi, di una exit strategy degna di nome. Che sia cioè praticabile sotto il profilo militare, politico e diplomatico. Se poi ci spostiamo sull’America latina, troviamo con maggiore evidenza l’affermarsi delle politiche di riarmo e di funzione da gendarme continentale ispirate dal Pentagono, ansioso di recuperare terreno in un continente che Bush riteneva secondario per gli interessi del dominio unipolare statunitense, preferendo dedicare le mire della sua lobby petrolifera al Golfo Persico, all’Asia minore ed al Medio oriente.
A sud del giardino di casa, infatti, gli Usa continuano nel tentativo di recuperare con la forza il terreno perso politicamente negli ultimi anni, quando la rinascita democratica latinoamericana ha portato alle vittorie della sinistra in Venezuela, Ecuador, Bolivia, Cile, Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Nicaragua e Honduras e con ciò ha abolito, di fatto, il Washington consensus, fino a dieci anni fa stella polare dell’indirizzo politico del continente. In primis con il golpe in Honduras, da Washington condannato in maniera decisa solo dopo il fallimento di ogni tentativo diplomatico di riportare il legittimo Presidente Zelaya a Tegucigalpa. Oltre ad aver speso più parole di rimprovero per Zelaya che per il golpista Micheletti, restano, gli Usa, l’unico paese della comunità internazionale ad avere ancora il loro ambasciatore a Tegucigalpa e la loro base militare perfettamente operativa nella collaborazione con l’esercito golpista. Vorrà dire qualcosa?
Spostandoci più a sud, emerge con chiarezza il progetto di occupazione militare della Colombia contenuto nell’accordo, recentemente ratificato, tra Bogotà a Washington. Sette basi militari statunitensi in Colombia (alle quali potrebbero aggiungersene altre cinque), frutto di un accordo segreto (prassi inedita per gli accordi internazionali) tra Uribe e Obama. Le basi, dicono, serviranno a combattere il narcotraffico. Ma nessuna strategia militare contro i cartelli prevede l’uso di armamenti convenzionali e nucleari tattici e migliaia di effettivi. Nessuna lotta al narcotraffico: le basi serviranno invece alla minaccia costante a Brasile, Venezuela ed Ecuador, costretti ora a rafforzare i rispettivi dispositivi militari per bilanciare l’area. A questo si aggiunge il progetto della IV Flotta militare della U.S Navy, riesumato da Bush e che serve al pattugliamento del mar dei Caraibi con intenzioni chiaramente belliciste e minacciose verso Cuba e Venezuela in primo luogo.
Persino verso Cuba, nei confronti della quale pure dal punto di vista formale piccoli passetti sono stati compiuti, non si avverte il cambio sostanziale della politica Usa degli ultimi cinquant’anni: il blocco è stato recentemente confermato da Obama, che poi si guarda bene anche dal metter fine allo scandalo della detenzione illegittima dei cinque cubani detenuti nelle carceri statunitensi per aver smascherato i legami tra la lobby cubano-americana di Miami e l’intero apparato d’intelligence statunitense nella programmazione del terrorismo contro Cuba. Avrebbe a disposizione diversi strumenti, da ultimo anche il perdono presidenziale, ma se ne guarda bene dall’utilizzarli.
Obama, insomma, per ora continua a proporre una visione del mondo e sogno americano che mal si concilia con la realtà sul campo. Se non avrà ragione delle resistenze del complesso militar-industriale e non riuscirà a proporre una nuova era nelle relazioni internazionali, il Presidente Usa rischia di diventare il volto pulito di un regime sporco. Nove mesi di presidenza è certamente poco per proporre un’altra America per un altro mondo, ma è abbastanza per dimostrare come la vittoria elettorale non sia sufficiente ad aprire una fase nuova nelle politiche interne ed estere del gigante ferito.
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di Michele Paris
In vista delle votazioni in alcuni stati americani per la carica di governatore e per le elezioni di medio termine al Congresso del prossimo anno, l’amministrazione Obama sempre più frequentemente sta prendendo una netta posizione in appoggio a questo o a quel candidato. Mentre molti esponenti democratici hanno criticato l’atteggiamento di un presidente che era giunto alla Casa Bianca con la promessa di superare una volta per tutte le manovre di parte, altri appoggiano fermamente una strategia tesa a convogliare le risorse economiche verso quei candidati con le maggiori possibilità di garantire il consolidamento del potere al partito di governo.
L’interventismo presidenziale si è rivelato in tutta la sua chiarezza solo poche settimane fa, quando il governatore dello stato di New York - David Paterson - è stato invitato a farsi da parte e a rinunciare a correre per la rielezione nell’autunno del 2010. Subentrato al dimissionario Eliot Spitzer lo scorso anno dopo che quest’ultimo era stato coinvolto in un giro di prostituzione, uno degli unici due governatori di colore in carica degli USA (l’altro è il democratico Deval Patrick, del Massachusetts) è da allora precipitato rapidamente nell’indice di gradimento tra gli elettori del proprio stato.
Dal momento che l’ancora molto popolare ex sindaco di New York Rudolph Giuliani pare essere pronto ad annunciare la sua candidatura alla carica di governatore, la presenza di Paterson rappresenterebbe per i democratici una sconfitta quasi certa. L’impopolarità del governatore in carica minaccerebbe inoltre di ripercuotersi in maniera negativa sugli altri candidati di New York, quelli cioè in corsa per un posto al Congresso, i quali hanno infatti chiesto a Obama di intervenire per convincere Paterson a rinunciare alla sua candidatura. L’abbandono di Paterson, il quale ha però finora promesso di non voler abbandonare la corsa, lascerebbe allora strada al ben più popolare Andrew Cuomo, attuale procuratore generale dello stato e figlio dell’ex governatore Mario Cuomo.
I collaboratori del presidente Obama hanno d’altra parte messo in campo da tempo precise strategie per promuovere e sostenere in tutti i modi possibili i candidati democratici più affidabili nella tornata elettorale del 2 novembre 2010 che stabilirà il rinnovo di tutta la Camera dei Rappresentanti, di 36 seggi al Senato ed eleggerà 38 governatori. Un obiettivo particolarmente importante, soprattutto alla luce del prossimo processo di ridefinizione dei distretti elettorali che assegnerà un ruolo di spicco proprio ai governatori dei 50 stati americani.
La strategia interventista della Casa Bianca è dovuta in gran parte al ruolo svolto in questo contesto dal capo di gabinetto, Rahm Emanuel, artefice principale dei trionfi democratici nelle elezioni di medio termine per il Congresso del 2006 nel ruolo di presidente del Comitato Democratico per la Campagna Elettorale. L’ex parlamentare dell’Illinois è infatti tuttora molto attivo nel modellare il quadro politico democratico, mantenendo rapporti regolari con il suo successore al coordinamento delle strategie elettorali del partito, il deputato Chris Van Hollen del Maryland.
Questa tattica così aggressiva da parte dell’amministrazione in carica, che ricorda per certi versi quella adottata dal principale consigliere politico di George W. Bush, Karl Rove, si è vista chiaramente almeno in altre due competizioni elettorali molto accese. In Pennsylvania, la Casa Bianca sta fornendo tutto il suo appoggio al senatore Arlen Specter, veterano repubblicano passato ai democratici qualche mese fa, una volta assodata l’impossibilità di venire rieletto dal suo vecchio partito. I dirigenti Democratici avevano infatti promesso a Specter il sostegno del presidente per convincerlo a saltare il fossato. Le previsioni per una facile riconquista del suo seggio al Senato appaiono tuttavia ancora complicate, dopo che il deputato Joe Sestak ha ignorato l’appello di Obama per rinunciare a correre nelle primarie.
I tentativi dei democratici di risolvere senza conflitti interni una competizione elettorale caratterizzata dall’appoggio presidenziale rischiano di naufragare poi anche in Colorado. Qui la nomina dell’ormai ex senatore Ken Salazar a Ministro degli Interni aveva spinto il governatore democratico Bill Ritter a nominare il semi-sconosciuto Michael Bennet come suo sostituto. Da Washington ci si era affrettati ad esprimere il proprio appoggio al neo-senatore che ha dimostrato da subito formidabili qualità nella raccolta di denaro tra gli elettori. Il sostegno della Casa Bianca a Bennet prevedeva una sua corsa in discesa verso l’elezione di novembre, fino a che il popolare ex parlamentare locale Andrew Romanoff non ha deciso di cimentarsi in una sfida nelle primarie che rischiano di divedere il campo democratico, favorendo i repubblicani.
Non sono però solo le vicende legate alle prossime elezioni ad aver visto l’amministrazione Obama intervenire nelle vicende locali del Partito Democratico. Obama e il suo entourage recentemente hanno infatti operato notevoli pressioni sui parlamentari locali del Massachusetts per approvare una risoluzione voluta dal defunto Ted Kennedy che ha dato facoltà al governatore di nominare immediatamente il suo successore al Senato degli Stati Uniti senza attendere l’elezione suppletiva di gennaio.
Dalla Casa Bianca, nonostante tutto, si fatica ad ammettere l’esistenza di una strategia generale. Il coinvolgimento del presidente deriverebbe piuttosto da quelle competizioni nelle quali i candidati democratici si trovano maggiormente in pericolo, come nel caso dello stato di New York, oppure dalla possibilità di sostenerne altri che fornirebbero garanzie, una volta eletti, di appoggiare incondizionatamente l’agenda di Obama.
Il bene del partito tuttavia non sempre sembra essere al centro delle strategie del presidente. Come in New Jersey, uno degli unici due stati (assieme alla Virginia) che eleggerà il nuovo governatore quest’anno, dove il democratico in carica Jon Corzine, nonostante risulti estremamente impopolare persino tra gli elettori del proprio partito e in netto svantaggio rispetto al candidato repubblicano, ha ottenuto il pieno sostegno della Casa Bianca.