di Giuseppe Zaccagni

Il ping-pong diplomatico tra Washington e Pechino si blocca per una impennata di Obama sulla questione tibetana. A nulla valgono le sceneggiate americane su un Dalai Lama, che invece di essere ricevuto in pompa magna nello Studio Ovale del Presidente, è stato accolto nell’ala esecutiva della Casa Bianca - la “West Wing” - presentata come una sorta di anticamera riservata agli ospiti di secondo o terzo grado. E se da Pechino filtrano valutazioni che individuano nel protocollo minore osservato nella visita un parziale risultato delle pressioni diplomatiche cinesi, il gesto resta e rivela l’esistenza di una situazione conflittuale che non può finire nel fondo della scena, perché viene giocata su zone incerte e pericolose. C’è in atto, infatti, una triangolazione geostrategica che segna un confronto-scontro tra la nuova amministrazione americana, la dirigenza cinese e il “governo” tibetano del Dalai Lama.

Tutto avviene (come rileva anche il South China Morning Post) con il leader degli Usa che vuole mostrare al suo paese e al mondo di non aver paura del gigante cinese e, quindi, di non voler sottostare a nessun diktat. I cinesi di Pechino, dal canto loro, non possono accettare l’esistenza di un governo tibetano che, in concreto, spinge per una secessione nel quadro di caotiche aspirazioni.

Il Dalai Lama, in questo contesto, dal suo esilio dorato di  Dharamsala, la “Piccola Lhasa” nello Stato indiano settentrionale dell’ Himachal Pradesh, si veste da capo-spirituale; ma sotto il mantello arancione nasconde velleità di ambizioso leader politico che, ovviamente, pensa ai vantaggi terreni più che alle gioie celesti. E così è avvenuto che non appena il Dalai Lama ha posato il piede all’interno della Casa Bianca, la Cina ha protestato in modo vigoroso per l’incontro. E subito una nota del ministero degli Esteri cinese ha minacciato “gravi danni” ai rapporti tra Washington e Pechino per il summit con l’esponente di Lhasa, che la Cina ha cercato in tutti i modi di evitare.

Ma se sul piano diplomatico - bene o male - tutto rientra nei normali canali, è in Cina che si hanno le maggiori reazioni. Perchè a Rebkong, che i cinesi chiamano Tongren, i monaci buddisti che vivono nel luogo di nascita del Dalai Lama hanno atteso il buio per celebrare l’incontro fra il loro leader e il presidente americano. Lo hanno fatto di notte per sfuggire ad eventuali repressioni, considerati i  pesanti divieti che il governo di Pechino impone alla Regione autonoma del Tibet.

Non importa, hanno detto i seguaci del Dalai Lama, con quale forma è stato ricevuto da Obama. “Il fatto che anche questo governo americano – hanno aggiunto - non si è fatto intimidire dalla Cina, vuol dire moltissimo per noi”. Così si è espresso uno dei  monaci di un monastero della contea tibetana di Amdo, che per motivi di sicurezza ha chiesto alla stampa l’anonimato. La zona in cui vive è sotto il ferreo controllo della polizia sin dagli scontri di Lhasa, avvenuti nell’estate del 2008: tuttavia i religiosi sono riusciti persino a sparare dei fuochi di artificio per sottolineare l’importanza della missione americana del Dalai Lama.

Le speranze riposte nel meeting di Washington, pertanto,  riguardano più che altro la percezione internazionale della causa tibetana: “I cinesi parlano sempre molto male di noi tibetani, dicono che siamo riottosi e indipendentisti: ma questo non è vero, e il mondo lo deve sapere. Speriamo che questo incontro serva a far capire che noi vogliamo soltanto la pace”. Tuttavia, l’interlocutore tibetano non si lascia sfuggire l’occasione per una provocazione: “D’altra parte, i cinesi sono un miliardo e trecento milioni e non hanno neanche un premio Nobel. Noi siamo sei milioni e il nostro leader ha vinto quello per la Pace. Vorrà dire qualcosa, no?”.

Intanto dagli Stati Uniti le agenzie di stampa (riprese anche dal quotidiano cinese di lingua inglese China) e le fonti diplomatiche si affrettano a far sapere che il religioso tibetano, non appena uscito dalla West Wing, ha cercato subito di allentare le tensioni. Lui e Barack Obama hanno parlato di pace, non di politica, ha detto il tibetano ai giornalisti che lo aspettavano fuori. In realtà nella visita del leader spirituale di Lhasa tutto era politico, soprattutto agli occhi dei funzionari cinesi oltraggiati dall’incontro.

Lo stesso comunicato finale della Casa Bianca non è piaciuto a Pechino. Perchè il presidente Usa non ha parlato di generici valori, ma ha sottolineato che occorre “preservare l’identità religiosa, culturale e linguistica del Tibet e proteggere i diritti umani dei tibetani all’interno della Repubblica popolare cinese”. E ha poi lodato il Dalai Lama per il suo approccio non violento alla difesa del suo popolo. Obama, quindi, non si è tenuto fuori dalla disputa nata nel 1950 con l’invasione cinese del Tibet. Ma ha invitato le due parti a continuare il dialogo.

Ora gli osservatori che seguono la geopolitica dell’Asia rilevano che il gesto più politico di tutti Obama l’aveva già fatto: era stato lo stesso invito al Dalai Lama alla Casa Bianca in un momento di tensioni con la Cina, nonostante Pechino avesse più volte definito la visita una “violazione degli affari interni cinesi”. Obama - è noto - aveva inizialmente ceduto alle pressioni, rinunciando a vedere il Dalai Lama alla vigilia del suo viaggio nella Repubblica Popolare, ma questa volta è andato fino in fondo, come del resto tre presidenti americani prima di lui.

Ora, da questa nuova partita di ping-pong il Dalai Lama esce sicuramente vincitore. Il suo prestigio nella Cina tibetana aumenta notevolmente (come riconosce il magazine di Pechino Sanlian Shenghuo Zhoukan) e fa anche breccia nella società cinese in generale che, sulla base delle informazioni lanciate dai media mondiali, comincia a conoscere le posizioni del “governo” di  Lhasa. Che sono quelle relative ad un “No” all’indipendenza, ma a garanzie per l’identit? culturale e religiosa tibetana.

“Il fatto che la questione sia viva e che la comunità internazionale se ne interessi in maniera crescente - ha sottolineato più volte il Dalai Lama - è già un risultato. Non ho dubbi che la giusta causa del Tibet prevarrà, se continueremo a seguire il cammino della nonviolenza”. Come dire che, per la Cina comunista, il “Tallone d’Achille” è quello dei monaci avvolti nei mantelli color arancione.

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