di Luca Mazzucato

NEW YORK. È sempre stata consuetudine per l'esercito americano obbedire agli ordini della Casa Bianca, ma ora non più. Una fronda interna al Pentagono è uscita allo scoperto e da qualche mese cerca di forzare la mano ad Obama per ottenere un aumento delle truppe in Afghanistan. Il presidente invece attende la riconferma di Karzai al ballottaggio. Rinforzi subito, rinforzi in seguito o invece iniziare la ritirata? Mentre la campagna militare in Afghanistan ricorda sempre più quella in Vietnam, la vera battaglia si gioca a Washington.

La situazione sul campo in Afghanistan e in Pakistan sta precipitando. Quasi ogni giorno autobombe o kamikaze mietono decine e centinaia di vittime e i Talebani, che ormai controllano gran parte dell'Afghanistan, portano gli attacchi fin nei luoghi “sicuri” nel centro di Kabul. Il numero di vittime per mese tra i soldati americani è il più alto dall'inizio dell'invasione, otto anni fa. La guerra costa sessantacinque miliardi di dollari all'anno, che gravano su un bilancio federale disastrato. I sondaggi rivelano che, per la prima volta dal 2001, la maggioranza degli americani è favorevole ad un ritiro, e la tendenza è in aumento.

Il presidente Obama ha assunto la posizione del grande “cunctator,” temporeggiando per mesi in attesa di elaborare una nuova strategia in Afghanistan. Secondo Obama la guerra in Afghanistan è il vero perno della strategia americana contro il terrorismo. Inizialmente favorevole ad un'escalation, Obama ha bloccato i propri piani a causa del fallimento delle elezioni presidenziali, che hanno prima dato Karzai come vincitore per poi essere annullate a causa di brogli massicci. In attesa del ballottaggio di Novembre per sapere chi sarà il “sindaco di Kabul,” Obama non vuole prendere alcuna decisione.

In questo quadro, il comandante delle forze americane in Afghanistan, Stanley McChrystal, sta facendo carte false per convincere gli alleati della NATO ad appoggiare l'invio di altre ottantamila truppe nel paese asiatico. La scorsa settimana, il generale si è presentato alla riunione NATO in Slovacchia per battere cassa, ottenendo il sì all'escalation da parte di quasi tutti gli alleati (tranne Olanda e Danimarca). Scavalcando la catena di comando e intromettendosi nell'arena politica a gambe tese.

Secondo una recente inchiesta di Rolling Stones, il fatto che McChrystal stia cercando di mettere Obama all'angolo e costringerlo ad approvare l'escalation è infatti tutta politica e non militare. In vista delle primarie per le presidenziali del 2012, il comandante in capo dell'esercito generale David Petraeus sta affilando i coltelli per una partenza in pole position. Petraeus, l'artefice dell'escalation in Iraq che nel 2007 portò ad una temporanea stabilizzazione del conflitto grazie all'invio di ventimila nuove truppe, vuole fare il bis in Afghanistan.

In settembre, per tastare il terreno, fonti vicine a Petraeus fecero filtrare alla stampa un rapporto del Pentagono altamente riservato nel quale si prediceva una chiara sconfitta in mancanza di una vasta escalation. A quel punto, il generale McChrystal cominciò ad apparire sui principali network, chiedendo più truppe e contraddicendo il vicepresidente Joe Biden, il cui piano punta a sostituire i soldati americani con il nuovo esercito afghano e puntare sulla controinsurrezione. Con il fuoco repubblicano a coprirgli le spalle, Petraeus sarebbe deciso a riscuotere il grande consenso di cui gode tra il pubblico in sonante moneta elettorale.

Obama è intrappolato tra i suoi generali da una parte e la base democratica dall'altra. Molti senatori e deputati progressisti hanno lanciato una campagna per il ritiro dall'Afghanistan. Gli elettori democratici sono in stragrande maggioranza favorevoli al ritiro ed è ormai chiaro che Obama si è messo in una posizione estremamente imbarazzante. Mentre la pressione dell'esercito aumenta, se Obama rifiutasse l'aumento di truppe chiesto da McChrystal offrirebbe il fianco alla litania repubblicana di essere “tenero sul terrorismo,” in vista delle elezioni di medio termine dell'anno prossimo.

Se Obama approvasse l'escalation, la massiccia presenza militare americana si prolungherebbe di molti anni, mentre i primi eventuali risultati non si vedrebbero per almeno un anno, secondo le analisi del Pentagono. Un risultato comunque tardivo per le elezioni di medio-termine e possibilmente disastroso per la corsa alla rielezione nel 2012. Se Obama appoggiasse l'escalation, infatti, si assumerebbe la piena responsabilita' di una eventuale futura sconfitta.

L'alternativa all'escalation, che Joe Biden sta elaborando e a cui il Pentagono si oppone, prevede la riduzione delle operazioni di fanteria e della presenza di truppe americane sul territorio, in favore dell'uso di “droni” telecomandati (per diminuire i morti tra i soldati, a scapito delle vittime civili) e della strategia della “controinsurrezione,” ovvero operazioni mirate contro membri di Al Qaeda e non contro le milizie talebane.

Ma l'assunzione alla base di questa nuova strategia é la distinzione netta tra l'attivita' di resistenza dei Talebani da una parte (che verrebbero gradualmente coinvolti nella ricostruzione dello stato afghano, come le varie milizie in Iraq) e i gruppi della jihad internazionale dall'altra, attivi soprattutto al confine con il Pakistan. Sottigliezze diplomatiche difficili da sostenere sui network televisivi, dove la propaganda repubblicana tritatutto continua a sostenere che Obama stesso é un pericolo per la sicurezza nazionale.

di Michele Paris

Con un tasso ufficiale di disoccupazione salito al 9,8% nel mese di settembre, i salari in discesa e l’accesso al credito ancora complicato, negli Stati Uniti il livello della spesa privata ha fatto segnare nel secondo trimestre del 2009 una riduzione vicina al 2% su base annua. Una contrazione ragguardevole alla luce delle abitudini degli americani e di un dato che nell’ultimo ventennio aveva fatto segnare aumenti annuali mediamente superiori al 3%.

Se i cittadini comuni e le piccole aziende hanno dovuto necessariamente stringere i cordoni della borsa per far fronte agli effetti della crisi finanziaria, altrettanto non si può dire per le grandi compagnie e le loro associazioni, le quali nell’anno in corso hanno fatto registrare, al contrario, un considerevole incremento dei loro investimenti nelle attività di lobbying per influenzare a Washington un’agenda legislativa densa di questioni importanti per il loro futuro.

Il primato degli esborsi, come di consueto, va alla Camera di Commercio degli Stati Uniti (USCC), capace di spendere ben 35 milioni di dollari tra luglio e settembre. Una cifra enorme che va ad aggiungersi ai 17,5 milioni già stanziati nel corso dei primi sei mesi dell’anno. L’accelerazione nel ritmo della spesa nell’ultimo periodo di un organismo che rappresenta più di tre milioni di imprese in America corrisponde, in sostanza, all’attività del Congresso, dove a partire dall’estate hanno preso la strada dell’approvazione definitiva numerosi provvedimenti di legge in discussione da mesi. Gli investimenti del 2009 della USCC in questo ambito, d’altra parte, risultano tanto più ingenti quanto sono stati parzialmente inefficaci quelli dello scorso anno, effettuati direttamente a favore delle campagne elettorali di candidati repubblicani.

I lobbisti al soldo della Camera di Commercio americana si sono concentrati in particolare sulla battaglia per la riforma sanitaria. Obiettivo principale, naturalmente, è quello di evitare che nel progetto di legge tuttora allo studio finisca per essere incluso un piano pubblico alternativo a quelli privati, molto temuto perché produrrebbe una maggiore concorrenza sul mercato delle assicurazioni sanitarie. Per le aziende rappresentate dalla USCC, però, le leggi dalle quali potrebbero ottenere condizioni di favore sono anche quelle che riguardano la riduzione delle emissioni in atmosfera e la riforma del sistema finanziario.

Tutti temi ugualmente cari anche all’associazione delle industrie manifatturiere (NAM), che raccoglie 14 mila aziende di vari settori in ciascuno dei 50 stati americani ed è guidata dall’ex governatore repubblicano del Michigan, John Engler. La NAM è passata così da circa un milione di dollari spesi nel secondo trimestre del 2009 per rappresentare i propri interessi nella capitale ad addirittura 5,8 milioni negli ultimi tre mesi. Particolarmente sentiti per gli industriali d’oltreoceano sono le questioni legate al carico fiscale e alla sindacalizzazione dei lavoratori dipendenti, facilitata dalla possibile approvazione di un disegno di legge (EFCA) da tempo fermo al Senato dopo l’OK della Camera dei Rappresentanti.

Il calendario legislativo influenza dunque in maniera inevitabile le strategie delle associazioni e delle singole aziende toccate dai cambiamenti che si prospettano per loro nel prossimo futuro. Per oliare i meccanismi decisionali nei momenti critici, ecco giungere allora sulle migliaia di lobbisti registrati a Washington una pioggia di dollari per ottenere in cambio provvedimenti modellati in base agli interessi dei poteri forti. Significativo in questo senso è lo sforzo sostenuto dall’associazione degli immobiliaristi americani (NAR), la quale, sempre nel terzo trimestre dell’anno, ha sborsato 4,2 milioni di dollari per convincere il Congresso ad estendere il credito d’imposta previsto per gli acquirenti di immobili.

Legge sul cambiamento climatico e riforma sanitaria, oltre ad essere due terreni di scontro politico trasversale, hanno anche contribuito notevolmente ad arricchire le casse della cosiddetta “K Street”, cioè delle compagnie di lobby, molte delle quali hanno sede proprio sull’omonima strada della capitale. Il primo provvedimento, approdato in questi giorni ad una commissione del Senato in vista del summit di dicembre sul clima a Copenhagen, ha determinato una spesa in attività di lobbying da parte dell’Edison Electric Institute (EEI) – organismo che cura gli interessi dei fornitori di energia elettrica – di circa 8 milioni di dollari nel corso del 2009, una cifra superiore già di un terzo rispetto a quanto investito durante tutto il 2008. Superiore quasi di tre volte rispetto all’anno scorso è stata la somma stanziata (2,7 milioni di dollari) per intervenire nello stesso ambito dall’American Petroleum Institute (API), l’associazione dell’industria petrolifera americana.

Per plasmare una riforma del sistema sanitario in base ai propri interessi, invece, la potentissima Pharmaceutical Research and Manufacturers of America (PhRMA) ha speso nel 2009, finora, 6,8 milioni di dollari, a fronte dei 5,4 milioni del 2008. Questa associazione, il cui attuale presidente è l’ex deputato repubblicano della Louisiana Billy Tauzin, rappresenta molte compagnie operanti nel settore parafarmaceutico e delle biotecnologie e qualche mese fa aveva stipulato con la Casa Bianca un accordo per garantire un risparmio di 80 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni alle casse pubbliche nell’ambito della nascente riforma sanitaria. Un accordo criticato dai parlamentari democratici che hanno accusato PhRMA di essersi così messa al sicuro da ulteriori tagli ai rimborsi dei medicinali da parte del governo federale eventualmente previsti dal provvedimento finale che sarà licenziato dal Congresso.

Nonostante il terzo trimestre dell’anno comprenda il mese di agosto, per gran parte del quale il Congresso sospende le proprie attività, l’incremento medio delle spese a favore dei lobbisti di Washington si è verificato proprio in questo periodo dell’anno. Un segnale questo dell’ansia diffusa nell’élite industriale e finanziaria americana nel momento in cui si è iniziato a decidere del destino di svariati progetti voluti dalla nuova amministrazione. Analizzando i dati tuttavia si trovano anche singole grandi aziende che hanno sensibilmente ridotto gli investimenti destinati alla difesa dei propri interessi nell’arena politica. Anche in questo caso, però, l’andamento della spesa sembra rispecchiare la cadenza delle decisioni prese nella capitale, piuttosto che il riflesso di difficoltà prodotte dalla crisi economica.

È il caso, ad esempio, della General Motors, protagonista di una spesa pari a 2,7 milioni di dollari nel terzo trimestre del 2008 quando infiammava ancora il dibattito intorno al suo fallimento e al conseguente salvataggio da parte del governo federale. Una volta avviata la procedura di bancarotta controllata e assicurato l’intervento governativo, poche settimane dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama, la compagnia di Detroit ha praticamente chiuso i rubinetti di spesa alla voce lobbying. Tanto che nei tre mesi che vanno da luglio a settembre 2009 la General Motors per questa voce di bilancio ha speso “appena” 180 mila dollari.

di Alessandro Iacuelli

Sembra che anche in Italia ci sia una vera e propria corsa al mettere in evidenza, con la relativa sovraesposizione mediatica, il caso dei suicidi seriali in France Telecom. Dal febbraio 2008 l'azienda telefonica d'oltralpe ha registrato 23 suicidi fra i suoi dipendenti, di cui sei solo questa estate. Sono aumentati anche i congedi per malattia e, a fronte del crescente malessere fra i suoi dipendenti, l'azienda ha deciso di bloccare, almeno fino al 31 ottobre, il programma di mobilità. E' stato assunto anche un team di esperti per cogliere i segnali di disagio tra i lavoratori e tenere corsi di formazione per i dirigenti. Nonostante questo, i suicidi continuano.

France Telecom, pur riconoscendo il problema e dichiarando che si sta facendo tutto il possibile per affrontarlo, ha commentato che il tasso di suicidi registrato è a un livello "normale" per una compagnia delle sue dimensioni. Il direttore delle risorse umane, Olivier Barberot, ha dichiarato comunque che su alcuni dipendenti potrebbe aver influito in modo negativo il clima di cambiamento dell'ultimo periodo. Monique Fraysse-Guigline, medico interno della compagnia, ha raccontato: "Dopo la privatizzazione, molti si sono dovuti adeguare a nuovi ruoli, o cambiare città. Ingegneri che per vent'anni hanno lavorato alla riparazione delle linee telefoniche, ora sono stati riassegnati ai call-center, e soffrono molto del cambiamento". Racconta di aver visto molti casi si depressione e attacchi di panico e commenta: "E' una situazione problematica, non si può andare avanti così". Eppure, a guardare i fatti, il caso dei lavoratori telefonici non è certo il solo.

Negli ultimi anni un caso analogo era successo in Renault, dove nel 2007 tre impiegati si erano tolti la vita, richiamando l'attenzione dei sindacati sulle condizioni di lavoro nell'azienda. La Francia ha il più alto tasso di suicidi in Europa: 17,8 per mille, secondo quanto riferisce l'Organizzazione mondiale per la sanità. Ma sono suicidi un po' particolari: suicidi che avvengono sul posto di lavoro.

Già nell'estate di due anni fa (http://www.altrenotizie.org/esteri/1287-i-misteri-di-chinon.html), venne alla luce il suicidio di sei dipendenti della centrale nucleare di Chinon, di proprietà del colosso energetico statale EDF. La particolarità stava nel fatto che tutti i suicidi erano avvenuti all'interno della centrale: suicidi sul luogo di lavoro, durante l'orario di lavoro.

Negli anni, la casistica si è propagata anche agli altri gruppi industriali: quattro suicidi in quattro mesi alla Renault di Guyancourt, altri quattro presso lo stabilimento Peugeot-Citroën di Mulhouse, in appena 15 giorni. Tutti i lavoratori che hanno compiuto questi gesti estremi erano di età compresa tra 30 e 40 anni, assunti con contratto a tempo indeterminato. Sempre in Peugeot-Citroën, nel febbraio 2007, c'era stato un altro suicidio, ma in quel caso il lavoratore aveva lasciato una lettera nella quale aveva parlato delle sue condizioni di lavoro, e di come fossero queste a portarlo alla decisione di darsi la morte. Così, mentre in Italia si muore di infortunio sul lavoro, oltre la Alpi si estende il "suicidio sul lavoro", e si estende fino ad arrivare in France Telecom. In questi giorni, è comparso il primo caso di suicidio anche nel colosso dell'elettronica Thales Microlectronic: una donna, impiegata, si è tolta la vita dopo la comunicazione di aver ricevuto una retrocessione di livello.

Ad essere sotto accusa sono certe condizioni di lavoro francesi. Se da un lato i lavoratori transalpini hanno certamente più diritti rispetto a quelli italiani, nel senso di retribuzioni migliori, orari di lavoro più ridotti in certi compatti, contratti da 35 ore settimanali pagate 40, ma anche una situazione civile che permette una migliore qualità della vita, dall'altro il metodo di lavoro nelle aziende francesi è, nel giro di pochi anni, radicalmente cambiato. Dopo le grandi ondate di privatizzazione degli scorsi anni, soprattutto dal 2004 in poi, oggi le grandi industrie francesi (che sono grandi davvero, poiché la Francia non si basa come noi sulla piccola e media impresa) tendono a coinvolgere totalmente il lavoratore. Con scuse quali "il gioco di squadra", il "far parte di una grande famiglia", ed altri slogan di importazione americana, il lavoratore francese si trova a volte depredato anche di fette ampie di vita privata, consegnate al lavoro ed all'azienda.

E' il caso delle attività che le aziende fanno fare ai dipendenti al di fuori delle mura della fabbrica: partecipazione ad eventi o giochi assurdi come cacce al tesoro e gite in barca che ricordano le disavventure del ragioner Fantozzi. Peccato che poi, durante l'orario lavorativo, dopo pezzi di tempo libero usati lo stesso per l'azienda, le privatizzazioni abbiamo portato minacce serie sul lavoro stesso. E' il caso di France Telecom, con piani di "ristrutturazione" che prevedono decine di migliaia di "dimissioni volontarie" di lavoratori non ancora in età da pensione. E' il caso della progressiva perdita di spazi sindacali, con la conseguenza forte di far sentire più isolati i singoli. Ma ci sono anche altre minacce. I contratti di lavoro privati prevedono in Francia, oltre ai passaggi di livello, anche i declassamenti. E con l'ingresso dei privati, con la progressiva uscita dello Stato, questa minaccia inizia oggi a pesare particolarmente, come nel caso di suicidio in Thales Microelectronics. Chi lavora si sente controllato da occhi ostili, pronti a cogliere errori ed esitazioni.

I circa 100 mila dipendenti della France Telecom hanno ricevuto in questi giorni un questionario sullo "stress lavorativo" nella società. Il questionario contiene "poco più di 160 domande", per cui potrebbe esso stesso essere causa di stress. I lavoratori avranno un mese di tempo per rispondere e potranno farlo su internet o su carta. Le domande riguardano il carico di lavoro, il ruolo di colleghi e dirigenti. Nello specifico, i lavoratori dovranno dire se negli ultimi sette giorni si sono sentiti "senza speranze", "sotto pressione" e se hanno "gridato facilmente". Più voci, soprattutto da parte dei sindacati, parlano di ennesima "presa in giro".

Proprio i sindacati confermano la tesi della mutazione improvvisa di certe condizioni di lavoro, riportando anche alcune testimonianze: il controllo sul personale, per aumentare la produttività, ha generato un'insopportabile pressione e la disumanizzazione dei rapporti, e non riguarda solo France Telecom, ma un po' tutto il "sistema Francia". Sotto accusa anche la "mobilità forzata" all'interno delle aziende, che causa una specie di rotazione obbligatoria dei lavoratori in diversi ruoli. Probabilmente è morto così un lavoratore suicida di 28 anni, a Besancon. Era soggetto da diversi mesi a una mobilità forzata, e come spiega un sindacalista, "gli era stato assegnato un incarico che riteneva squalificante". Lo scorso 14 luglio, un altro dipendente dell'azienda si era tolto la vita Marsiglia, lasciando una lettera nella quale attribuiva il suo gesto al "sovraccarico di lavoro" e a una "gestione terroristica dell'azienda".

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Ha destato non poche sorprese il risultato della tornata elettorale uruguayana che la scorsa domenica ha decretato il ballottaggio tra l’ex guerrigliero tupamaro José Alberto “Pepe” Mujica Cordano, candidato per l’attuale partito di governo Frente Amplio e l’ex presidente Luis Alberto Lacalle, del Partido National “Blanco”. Mujica, arzillo settantaquattrenne dalla storia politica decisamente intensa, non è riuscito a sfondare il tetto del 50%, fermandosi tra il 47% e il 49%, e dovrà così affrontare nuovamente quel Lacalle che ha già guidato l’Uruguay tra il 1990 e il 1995, e che in questa tornata si è aggiudicato un temibile 29%.

Il terzo candidato Juan Pedro Bordaberry, figlio dell’ex dittatore golpista Juan Maria - attualmente sotto processo per crimini contro l’umanità, complicità in colpo di Stato e violazione della Costituzione - esponente di spicco del Partido Colorado, ha raccolto il 17% delle preferenze ma ha già dichiarato apertamente che lui ed il suo partito appoggeranno Lacalle all’appuntamento elettorale del 29 novembre.

Questo il quadro di un’elezione che, sulla carta, doveva essere vinta da Pepe Mujica, ma che lo spaesamento degli uruguayani ha tramutato in un interessante scontro, capace di tastare il polso ad una nazione non ancora del tutto inserita nell’onda chavista-bolivariana che ha attraversato una parte dei paesi dell’America Latina nell’ultimo decennio. L’elettorato, accorso in massa alle urne nella misura del 90% degli aventi diritto, non pare essere convinto sulla scelta di candidare Pepe Mujica e si è di fatto diviso a metà sulla possibilità di continuare il percorso iniziato nel 2004, quando per la prima volta il Frente Amplio - l’eterogenea coalizione di sinistra formata da ex Tupamaros, ex blancos ed ex colorados, con socialisti, post-comunisti, socialdemocratici, popolari e democristiani - è salito al governo con Tabaré Vàzquez Rosas, rompendo la diarchia pluriennale tra i Colorados e i Blancos.

Questa indecisione popolare andrebbe infatti a premiare il candidato “blanco” Lacalle, un personaggio i cui trascorsi istituzionali vantano diverse accuse per corruzione e i cui 5 anni di governo sono stati segnati da infelici politiche di taglio alla spesa pubblica, riduzione degli stipendi e svendite di proprietà statali. Evidentemente anche in Uruguay si soffre degli stessi problemi di memoria storica di cui si soffre sempre più in Italia.

Ma se a Montevideo l’ex tupamaro Pepe non ha sfondato il tetto di gradimento, la colpa non è solo della memoria corta degli uruguayani: contro l’ex tupamaro hanno giocato un ruolo importante i dubbi dell’ala moderata del partito - ancora troppo legati alla figura decisamente politically correct di Vàzquez - e gli inevitabili riferimenti storici al passato politico di guerriglia che lo hanno avvicinato più allo spettro del chavismo venezuelano, che al modello di crescita felice del brasiliano Lula.

A mettere i bastoni fra le ruote di Mujica è stata anche e soprattutto la Chiesa cattolica, che estremamente contrariata dall’approvazione di una legge sulla possibilità di adozione per le coppie omosessuali e dal disegno di legge sulla legalizzazione dell’aborto, ha scatenato una violenta campagna contro il Frente Amplio, tanto che il primate uruguayano ha esplicitamente sollecitato a votare contro chi non rispetta i principi irrinunciabili della famiglia e della vita. Non pare poi abbiano avuto così tanto peso i brillanti risultati governativi raggiunti dal presidente uscente Vàzquez, che in solo quinquennio è riuscito a quadruplicare le riserve della banca centrale e a rendere appetibile una buona fetta del mercato uruguayano ai colossi europei, statunitensi ed asiatici.

La giornata elettorale di domenica ha però segnato un’altra cocente sconfitta per il Frente Amplio nella bocciatura dei due referendum promossi dal governo. Il primo, che non ha raggiunto il quorum per un soffio, riguardava l’abrogazione di quella Ley de Caducidad che concedeva l’amnistia ai capi militari condannati per i reati commessi tra il 1973 e il 1985, durante la dittatura militare; il secondo verteva invece sulla possibilità di ratificare anche il voto epistolare, ma i Si hanno raggiunto la misera quota del 38%.

Se il trend negativo del Frente Amplio dovesse avere un’ulteriore conferma al prossimo turno di ballottaggio, le ripercussioni potrebbero andare oltre i confini del piccolo paese incastrato tra Argentina e Brasile. Con l’Uruguay è cominciato infatti quello che in molti chiamano “l’anno elettorale”, un evento che in 12 mesi chiamerà alle urne Honduras, Bolivia, Cile, Costa Rica, Brasile e Venezuela e che potrebbe regalare diverse sorprese: se l’Uruguay si rivelasse al ballottaggio come possibile cartina tornasole della spinta socialista sudamericana, sarebbero proprio le realtà della sinistra moderata a scontare maggiormente le conseguenze della crisi economica e del voto da quest’ultima così influenzato.

 

di Eugenio Roscini Vitali

Zine El Abidine Ben Ali è il nuovo presidente della Repubblica Tunisina, chiamato per la quinta volta consecutiva a guidare un Paese ormai assuefatto ad un modello di democrazia araba che a livello internazionale può rientrare solo in quei casi definiti come “particolari”. E’ dal 7 novembre 1987 che il settantatreenne ex generale guida il meno musulmano dei Paesi magrebini, dal giorno in cui, “deposto” per senilità Habib Bourguiba, si è auto proclamato Capo dello Stato.

Quattro mandati e ventidue anni di potere che sottolineano la scarsa attenzione della comunità internazionale verso un esempio di autoritarismo democratico che rasenta lo standard minimo dei regimi moderni. E’ un sistema politico consacrato dal “verdetto” delle urne che però dichiara la principale forza di opposizione, il Partito Democratico Progressista (Pdp), non eleggibile in 17 dei 76 distretti totali e che, durante la campagna elettorale, riserva al presidente Ben Ali e al suo partito, il Raggruppamento Costituzionale Democratico (Rcd), il 97,22% degli spazi pubblicitari, lasciando al suo unico rivale rimasto in gara, Ahmed Brahim, lo 0,22%.

Per avere un’idea dell’affermazione e del potere che è nelle mani di Ben Ali, un sogno nel cassetto di molti altri leader politici europei e non, basta dare uno sguardo ai dati resi noti dall’agenzia di stampa Tunis Afrique Press (Tap). Innanzi tutto l’affluenza alle urne, che il 25 ottobre è stata pari all’89,45%: 4.737.367 votanti sui 5.296.008 aventi diritto; 7.718 schede nulle; 4.729.649 voti validi. Al presidente uscente sono andati 4.238.711, pari all'89,62%; ai sui tre avversari il restante 10,38%. Il segretario del Partito di Unità Popolare (Pup), Mohamed Bouchiha, ha ottenuto il 5,01%, 236.955 voti; al candidato dell'Unione Democratica Unionista (Udu), Ahmed Inoubli, sono andate 179.726 preferenze, pari al 3,80%; al leader del partito Ettajdid, Ahmed Brahim, unico vero avversario di Ben Ali, sono stati assegnati 74.257 voti, pari all’1,57%.

Il risultato delle elezioni parlamentari, tenutesi anch’esse il 25 ottobre, è stato praticamente la fotocopia delle presidenziali. I 214 seggi della Camera dei deputati, 161 eletti in altrettanti collegi uninominali e 53 votati in un unico collegio nazionale (seggi riservati per legge all'opposizione), sono stati distribuiti nel seguente modo: 161 al partito di governo, il Raggruppamento Costituzionale Democratico; 16 al Movimento Socialdemocratico di Ismail Boulahya (Mds), partito di opposizione che con la maggioranza condivide il programma politico; 12 al Partito di Unità Popolare; 9 all'Unione Democratica Unionista; 8 al Partito sociale liberale (Psl) di Mounir Beji; 6 al Partito dei Verdi per il Progresso (Pvp) di  Mongi Khammassi, il leader ambientalista che appoggia il presidente Ben Ali; 2 al simbolo di Iniziativa democratica che raggruppa personalità indipendenti intorno agli ex comunisti del partito Ettajdid di Ahmed Brahim.

Nessun seggio alle 15 liste indipendenti e alle altre due formazioni politiche presenti alle elezioni, il Partito Democratico Progressista dell’avvocato Nejib Chebbi e il Forum democratico per il lavoro e le libertà (Fdtl) del medico tunisino Mustapha Ben Jafaar, entrambe già esclusi dalle liste per le presidenziali. Il primo per dichiarazioni improprie riguardo la legge elettorale, il secondo per non essere segretario del partito da almeno due anni, come previsto dalla legge elettorale entrata in vigore lo scorso anno.

Sin dalla sua ascesa al potere l’azione di governo dell’ex generale è stata finalizzata all’esclusivo contenimento di un sistema politico pluralista: una strategia che gli ha permesso di tenere in pugno il Paese per diversi anni e gli ha dato il tempo di preparare le basi per un sistema elettorale praticamente “ingessato”. Un cammino politico che Ben Ali è riuscito a completare nel 2002, con la legge costituzionale che per la carica di Presidente della Repubblica ha abrogato il limite dei tre mandati e ha innalzato l’età massima per la candidatura da 70 a 75 anni e con la norma che stabilisce nel 25% il tetto massimo dei seggi assegnati in Parlamento all’opposizione.

Un’opposizione in larga parte filo-governativa, perfettamente inserita in un contesto in cui il binomio politica-economia fonda le sue basi su un programma di privatizzazione iniziato negli anni Ottanta, un progetto di sviluppo definito dall’Occidente un vero e proprio miracolo, al quale però può partecipare solo chi è vicino al regime o con lui condivide il controllo dei beni.

In Tunisia il bisogno politico di cambiamento e modernizzazione non è una cosa nuova. All’indomani dell’Indipendenza, il pragmatico e tenace presidente Habib Bourguiba segna le linee strategiche delle riforme politiche e sociali che faranno uscire il Paese dalla dramma della fame e dalla povertà, linee strategiche che avrebbero imposto grandi sacrifici: la rinuncia al pluralismo, alla costruzione dei valori democratici e alla salvaguardia dei diritti umani. E’ passato mezzo secolo da quei giorni ed oggi la Tunisia rappresenta un modello di apertura all’Occidente: un Paese laico, sensibile nei riguardi dei diritti della donna ed attento alle problematiche relative all’istruzione.

Un Paese che nei confronti dell’islam attua una politica di contenimento, tendente ad assicurare un contesto interno particolarmente stabile ed adeguato ad un mercato aperto ai partner europei e americani. Un “paese emergente”, costruito sui modelli definiti dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dall’Unione Europea, che hanno dettato le nuove regole dello sviluppo e che nel 1995, con l’accordo di associazione con l’UE, hanno  proiettato la Tunisia nell’economia globale.

Il miracolo economico tunisino, quello targato Ben Ali, quello che oggi sventola la bandiera del rinnovamento e parla di partenariato con l’Europa, di Processo di Barcellona e di aree di libero scambio, deve comunque fare i conti un Pese spaccato in due, con un divario di tra nord e sud che con gli anni è diventato praticamente incolmabile. Deve fare i conti con una democrazia che è rimasta congelata alla fase embrionale, con una stampa imbavagliata, con una potente macchina di sicurezza che soffoca le proteste sindacali, con i grandi bacini minerari di fosfato che raddoppiato la produzione e tagliano i posti lavoro, con i giovani disoccupati che non vogliono emigrare. E’ con queste cose che la governance che nel 1999 ha vinto le elezioni con il 99,5% delle preferenze, nel 2004 si è assicurata il 94,5% dei consensi e oggi torna a vincere con quasi il 90% del voti, che deve fare i conti.

 


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