di Carlo Benedetti

MOSCA. C'è una Russia che vive nel terrore e sempre in attesa di nuove e terribili azioni criminali. Il "nemico" - annunciano radio e tv - non è più alle porte, ma è entrato in casa. Intanto i due massimi esponenti del Paese - Medvedev e Putin - corrono nella basilica del Santo Salvatore a pregare e a baciare il Patriarca ortodosso. E così la Pasqua, che per tre delle maggiori religioni del paese - ortodossa, cattolica ed ebraica - ha coinciso proprio nello stesso giorno, é divenuta il momento centrale di una mobilitazione religiosa senza precedenti. Ma sono i mezzi della polizia e dell'esercito che dominano rumorosamente la scena. Si cercano terroristi in ogni luogo e si fa il conto delle bombe e dei kamikaze.

Intanto a Mosca - dove la violenza del terrorismo ha lasciato vittime e distruzioni - le linee della metropolitana (300 km. con 180 stazioni) vengono pattugliate dalle forze speciali della sicurezza. Ci sono ancora feriti gravi negli ospedali della città, mentre vengono alla luce nuovi dettagli delle operazioni della lotta antirussa. Ed ora si conoscono anche le generalità di chi ha firmato gli attentati. Si cercano responsabilità individuali e collettive.

Lo scenario attuale - che il Cremlino insiste nel definire come caratterizzato da "attacchi terroristici" - è quello di una vera guerra, con atti di sabotaggio entro e fuori dei confini nazionali. Perché, come non mai, sono in moto forze che vengono dalla Cecenia e, soprattutto, dal Daghestan e dalla Inguscetia. Un incendio, quindi, a tutto campo, sul quale soffia ora il vento provocato dalle nuove esplosioni nella regione caucasica: a Karabulak, all'ingresso dell’edificio del Dipartimento distrettuale degli affari interni un kamikaze si è fatto saltare in aria. Sul campo è restato anche un poliziotto e altri tre sono rimasti feriti. Un gesto non isolato, perché poco dopo si è verificata un’altra esplosione: ferito un funzionario della Procura della Repubblica locale. Si è in presenza di un cortocircuito di passato e presente. E per l'intelligence russa il problema caucasico diviene così il punto cardine di tutta la politica "interna" del Cremlino.

Alla Cecenia - già ampiamente nota per le sue posizioni antirusse - si aggiungono ora con forza il Daghestan, le forze del wahhabismo e l'Inguscetia. Si muovono, in questo contesto, popoli diversi (àvari, darghini, lezghini, rutùli, kumyki) che gettano sul tavolo della geopolitica le loro secolari richieste nei confronti del potere russo centrale. Di conseguenza le tensioni interne si sviluppano lungo determinate linee: dalla politica alle tendenze nazionaliste, dalle situazioni etniche a quelle religiose. Si tratta di "problemi" epocali, che pongono in forse le linee dello sviluppo nazionale con Mosca che sta cercando di risolvere alla meglio l'intera questione caucasica. Ma è una battaglia persa in partenza.

Nel 2003, Vladimir Putin sorprese gli osservatori internazionali annunciando che il suo Paese aveva l'intenzione di chiedere l'adesione all'Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci). La proposta stupì ancora di più se si pensa che l'Ori, forum politico creato nel 1969 e composto da 57 stati a maggioranza musulmana, aveva tra i suoi scopi quello di far crescere la solidarietà islamica tra i suoi membri. La scelta di Putin - ci si chiese allora - aveva come obiettivo quello di porre l'intera Russia sul piano di un Paese musulmano? Un modo per superare gli ostacoli dando pari dignità a tutte le minoranze religiose?

Ma, sempre nel 2003, si scoprì che il problema russo non era (e non è) quello dell'islamizzazione del Paese. Si è scoperto, a poco a poco, che con la fine dell'Unione Sovietica si è consumata anche la fine di quella "formazione" rappresentata da quattro secoli di storia dell'impero multinazionale russo. E il tutto, osservato da questa prospettiva, ha dimostrato che la fine dell'Urss è stata parte del processo universale di dissoluzione degli imperi multietnici e della loro frammentazione in stati nazionali. Un processo che era già avvenuto, in Europa, con l’implosione degli imperi ottomano e asburgico  dopo il primo conflitto mondiale e, fuori d'Europa, con la decolonizzazione seguita alla seconda guerra mondiale.

Lo scenario è andato modificandosi in seguito agli attentanti del settembre 2001 negli Usa. Quando Putin scelse di seguire la politica americana, assumendo il "terrorismo internazionale" come nemico pubblico numero uno. In realtà l'uomo del Cremlino voleva salire sul carro degli Usa per presentare i ceceni come terroristi e non come partigiani di una battaglia per l'indipendenza e la sovranità. E, proprio grazie a questa mossa strategica, Putin riuscì a ricollocare la Russia in una posizione centrale all'interno del sistema internazionale. Una posizione che sembrava perduta con la fine della guerra fredda e che la dirigenza russa ha cercato di recuperare per garantirsi un appoggio internazionale quanto a lotta al terrorismo.

Ma la domanda che, di conseguenza, viene avanti a Mosca proprio in questo periodo è questa: gli attentati di matrice caucasica sono solo atti di terrorismo o sono anche tesi a rivendicare l'autonomia delle regioni? E sarà forse a questo interrogativo che dovrà cercare risposte politiche e diplomatiche il nuovo governatore del Caucaso. Perché di fronte alla sostanziale inutilità delle azioni repressive del passato si è anche imboccata una via alternativa. Il 19 gennaio scorso, infatti, Medvedev ha istituito il Distretto Federale del Caucaso del Nord, che include le repubbliche di Dagestan, Inguscetia, Kalabardino-Balkaria, Circassia, Ossezia del Nord e Cecenia, oltre alla provincia di Stavropol.

Alla guida di questo super-governatorato il Presidente russo ha nominato Alexander Khloponin, quarantenne ex governatore della provincia di Krasnoyarsk, nella Siberia centrale. Sembra che l'obiettivo di Medvedev e Khloponin sia collegare l’azione sul territorio con lo sviluppo dell’occupazione, del benessere sociale, delle infrastrutture di cui le popolazioni del Caucaso russo sono drammaticamente carenti. Khloponin è un “outsider”, senza legami nel Caucaso, perciò è considerato imparziale, quindi temuto, anche per la sua reputazione personale. Ex oligarca rampante ai tempi di Eltsin, Khloponin diventa quindi un geniale governatore che trasforma la Siberia centrale, grande dieci volte l’Inghilterra, nel motore economico della Russia putiniana. Benessere e sicurezza fondata sulla legge e i diritti: questa è la missione di cui si dice protagonista Khloponin per pacificare il Caucaso.

E sembra questa anche la strategia di Medvedev, che considera il Caucaso come la principale emergenza nazionale. Ma questa prospettiva istituzionale è l’antitesi della “kadirovizzazione” voluta da Putin che aveva concesso carta bianca al presidente ceceno Ramzan Kadyrov per contenere la crisi all’interno del Caucaso. Alla fine la violenza ha generato soltanto altra violenza. Prima della riconciliazione e della ricostruzione la vera sfida di Khloponin è interrompere questo meccanismo mortale.

Intanto Medvedev, per salvare il salvabile, indica (e in questo è vero allievo di Putin al quale concede l'onore delle armi...) una serie di punti fondamentali nella lotta al terrorismo nel Caucaso. Annuncia: "Il rafforzamento delle forze dell’ordine, della polizia e del Fsb, nonché della magistratura", sostiene che "bisogna sferrare mortali colpi di pugnale ai terroristi, distruggere loro e i loro covi; aiutare coloro che decidono di rompere con i banditi; sviluppare l’economia, l’istruzione e la cultura; rafforzare la componente morale e spirituale”. E conclude la sua dichiarazione di guerra sostenendo che tutti devono comprendere una cosa ben precisa e cioè che "nel Caucaso, vivono nostri concittadini, cittadini della Russia. Non si tratta di una provincia straniera, anche questo è il nostro Paese". Questo vuol dire, semplicemente, che tutte le aspirazioni all'indipendenza soono respinte al mittente. Mosca non tratta. Proprio per questo dovrà (purtroppo) imparare a convivere con quello che chiama "terrorismo".

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